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Oggetti fuori dal tempo, avvistamenti tramandati nella letteratura storica. Qual è l'origine dell'uomo? Testi sacri e mitologie da tutto il mondo narrano una storia diversa da quella che tutti conosciamo.
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LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

06/07/2011, 00:48

Si parte da


Charles H. Hapgood

Le Mappe delle Civiltà Perdute
Le prove dell'esistenza di una civiltà avanzata nell'Era Glaciale.




http://www.macrolibrarsi.it/libri/__Map ... erdute.php


Libro straordinario , a cui Trystero risponde qui :

http://www.diegocuoghi.it/Piri_Reis/Hapgood.htm

Come sempre , Cuoghi ha fatto uno studio bellissimo , ben organizzato e strutturato ,

e come sempre dissento su un 90% delle sue affermazioni.

Sicuramente il tema merita un approfondimento.

Sulle mappe antiche consiglio a tutti di studiare accuratamente 3 opere fondamentali :


Monumenta Cartographica Vaticana



Pubblicazione Citta del Vaticano : Biblioteca Apostolica Vaticana, 1944-1955
Descrizione fisica 4 v. ; 42 cm
Note generali Sul front.: Consilio et opera procuratorumn Bibliothecae Apostolicae Vaticanae

Comprende · 1: Planisferi, carte nautiche e affini dal secolo 14. al 17. esistenti nella Biblioteca apostolica Vaticana / [a cura di] Roberto Almagia
· 2: Carte geografiche a stampa di particolare pregio o rarita dei secoli 16. e 17. esistenti nella Biblioteca apostolica Vaticana / a cura di! Roberto Almagia
· 3: Le pitture murali della Galleria delle carte geografiche / [a cura di] Roberto Almagia
· 4: Le pitture geografiche murali della Terza Loggia e di altre sale vaticane / [a cura di] Roberto Almagia

Soggetti Carte geografiche manoscritte - Sec. 14.-17. - Roma - Biblioteca apostolica Vaticana



Nordenskiold, Nils Adolf Erik


Facsimile-atlas to the early history of cartography with reproductions of the most important maps printed in the 15. and 16. centuries / A. E. Nordenskiold ; translated from the Swedish original by Johan Adolf ekelof and Clements R. Markham
Pubblicazione New York : Kraus reprint, 1961
Descrizione fisica 141 p. : ill. ; 51 cm.
Note generali Ripr. facs. dell'ed.: Stockholm, 1889.

Nomi · Nordenskiold , Nils Adolf Erik
· Markham, Clements R.
· Ekelof, Johan Adolf




Shirley, Rodney W.

The Mapping Of The World Early Printed World Maps 1472-1700



Li trovate nelle biblioteche pubbliche , cercate con

http://www.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/bas ... F11943.ha1


Lo Shirley sono riuscito ad averlo con Abebooks ( prezzo non humano ... )


Bene , inizio tra un po' , forse in settembre , ... intanto ho schierato la flotta.

Se ufoforum intanto vuole iniziare ...


zio ot [;)]

06/07/2011, 14:24

caro barionu,
in questo sito :

http://www.capurromrc.it/
ci sono una infinità di antiche mappe,"purtroppo"da qualche tempo ,occorre un permesso per accedere [:(] [V]

ciao
mauro

29/07/2012, 18:21

Cip di lettura .

Inizio verso ottobre ...del 2012 . [:I]

zio ot [;)]
Ultima modifica di barionu il 29/07/2012, 18:22, modificato 1 volta in totale.

Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

13/11/2018, 14:34

cip di esumazione ---


zio ot [:305]

Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

02/01/2023, 13:02

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E QUINDI INIZIAMO ....



DA

https://en.wikipedia.org/wiki/Talk%3APiri_Reis_map


Lettera di Harold Z. Ohlmeyer tenente colonnello, comandante USAF , in servizio alla NASA



Caro Professor Hapgood,


La SUA richiesta di valutazione di alcune caratteristiche insolite della mappa di Piri Reis del 1513 da parte di questa organizzazione è stata esaminata.

L'affermazione che la parte inferiore della mappa ritrae la Princess Martha Coast della Queen Maud Land, l'Antartide e la Palmer Peninsular è ragionevole. Scopriamo che questa è l'interpretazione più logica e con ogni probabilità corretta della mappa.

Il dettaglio geografico mostrato nella parte inferiore della mappa concorda in modo notevole con i risultati del profilo sismico tracciato sulla parte superiore della calotta glaciale dalla spedizione antartica svedese-britannica del 1949.

Ciò indica che la costa era stata mappata prima che fosse coperta dalla calotta glaciale.

La calotta glaciale in questa regione è ora spessa circa un miglio.

Non abbiamo idea di come i dati su questa mappa possano essere riconciliati con il presunto stato delle conoscenze geografiche nel 1513.






Harold Z. Ohlmeyer tenente colonnello, comandante USAF

"
Sembra che sia necessaria una fonte e alcune informazioni riguardo: le credenziali e la notabilità di Ohlmeyer, poiché essere un uccello leggero non ha alcun peso scientifico per quanto ne so. Vsmith (discussione) 16:36, 14 febbraio 2009 (UTC)

Buona fortuna. Nessuno è mai riuscito a rintracciare Ohlmeyer per quanto ne so.


È deceduto. Ecco il suo necrologio: OHLMEYER, HAROLD Z colonnello, pensionato USAF 1 ottobre 1919 – 22 settembre 2010 Harold Z. Ohlmeyer, 90 anni, è deceduto il 22 settembre 2010. Harold è nato da Charles ed Elma Ohlmeyer il 1 ottobre 1919 a Franklin, Los Angeles. Harold sposò Sylvia Irene Matthews di Eden, Mississippi, il 29 dicembre 1944. Hanno avuto tre figli: Beverly, Bill e Ronald. Harold ha frequentato il college presso la Saint Mary's University di San Antonio, in Texas, dove ha giocato a calcio, tennis ed è stato per due anni campione di boxe dei pesi massimi leggeri a tre stati. Dopo che gli Stati Uniti furono attaccati a Pearl Harbor, Harold entrò in servizio attivo nell'Army Air Corps nel gennaio 1942 e fu nominato sottotenente.


Fu inviato a Midland, in Texas, dove si addestrò come bombardiere e rimase come istruttore della scuola di terra in questa stazione fino all'agosto 1943. Dal dicembre 1943 al dicembre 1944 prestò servizio in Nord Africa e in Italia come bombardiere su aerei B-24 che partecipavano a 51 missioni di combattimento.



Il 15 luglio 1944 (455a missione BG n. 78) fu effettuata una missione per attaccare gli impianti di produzione di petrolio tedeschi presso la raffineria di petrolio Dacio Romano a Ploesti, in Romania.


Il capitano Ohlmeyer era il bombardiere dell'aereo di testa.


https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Tidal_Wave

Il Gruppo ha bombardato con attrezzature “Pathfinder”, a causa di una forte concentrazione di fumogeni che erano stati installati nell'area come parte della difesa. Solo equipaggi e bombardieri selezionati erano qualificati nel sistema di bombardamento Pathfinder. Il 455° Gruppo doveva guidare il massimo sforzo dello Stormo di 165 B-17 e 542 B-24. La scorta di caccia era composta da 231 P-51 e 153 P-38. Un totale di 155 B-24 dovevano colpire l'obiettivo specifico della raffineria di petrolio Dacio Romano. Tutti gli aerei sono stati condotti al bersaglio dall'aereo di testa e rilasciati sulla marcatura di posizione del capitano Ohlmeyer. Il bersaglio è stato distrutto. Come squadrone Bombardier, ha raggiunto una delle più alte percentuali di punteggio di bombe nell'aeronautica degli Stati Uniti.

Dopo il ritorno dalla guerra, il colonnello Ohlmeyer completò molti incarichi in tutto il mondo andando in pensione il 26 agosto 1968. L'ultimo incarico del colonnello Ohlmeyer fu quello di assistente speciale del direttore per i programmi satellitari della Space and Missile Systems Organization. Il colonnello Ohlmeyer ha ricevuto i seguenti premi e decorazioni: Legion of Merit, Distinguished Flying Cross with Oak Leaf Cluster, Air Medal with Four Oak Leaf Clusters, Air Force Commendation Medal, Presidential Unit Citation with Oak Leaf Cluster, Air Force Outstanding Unit Award, American Campaign Medaglia, Medaglia della campagna europea-africana-mediorientale, Medaglia della vittoria della seconda guerra mondiale, Medaglia del servizio di difesa nazionale con grappolo di foglie di quercia, Medaglia della longevità dell'aeronautica militare con grappolo di foglie di quercia d'argento.

I suoi gradi di volo militare erano il distintivo di navigatore di comando e il distintivo di maestro missilistico. Dopo il pensionamento, il colonnello Ohlmeyer, sua moglie Irene e il figlio Ronald si trasferirono a Yazoo City, Mississippi. Mentre era a Yazoo City è stato preside alla Manchester Academy, e poi preside alla Cruger-Tchula Academy. Successivamente ha lavorato per lo Stato nel programma di salute mentale gestendo l'ufficio della contea a Yazoo City e poi l'ufficio distrettuale a Vicksburg.

Amava giocare a golf allo Yazoo City Country Club e pescare in un posto "segreto". Il colonnello Ohlmeyer e Ronald hanno partecipato a una riunione militare per una delle organizzazioni che comandava e in suo onore è stato avviato un torneo di golf come evento annuale. È preceduto nella morte dalla moglie Sylvia Irene e da sei fratelli/sorelle. Gli sopravvivono la figlia Beverly Lavin e il marito Paul, il figlio Bill e la moglie Kathy, il figlio Ronald e la moglie Paula; i nipoti Scott e la moglie Chris, Jennifer e il marito Paul, Bill Jr., Christopher e la moglie Erika, Steven e la moglie Katie; pronipoti Sasha, Ava, Rachel, Grace, Austin, Tyler, Jenna, Evelyne e Gabriella. È sopravvissuto anche dal fratello


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Visto che la questione è l' Antartide, cartografata come era prima dei ghiacci ,


STIAMO PARLANDO DI UNA PISTOLA FUMANTE ,

e il Colonnello Ohlmeyer non è un fantasma come i topidorini vorrebbero dire .....


Notare che in wiki itaglia , notoriamente in mano ai topidorini chirichetti leccaculo di monsignore,

la questione della perizia dei cartografi della NASA firmata dal Colonnello Ohlmeyer,

non compare minimamente , neanche un accenno ...



https://it.wikipedia.org/wiki/Mappa_di_Piri_Reis


repertorio


https://normalman55.wordpress.com/2009/01/14/post-308/



Il modo in cui la mappa di Piri Reis mostra la Queen Maud Land, le sue coste, i suoi fiumi, catene montuose, altopiani, deserti, le baie, è stato confermato da una spedizione anglo-svedese nell’Antartico (come detto da Olhmeyer nella sua lettera a Hapggod); i ricercatori, utilizzando sonar e sismici sondaggi sismici, hanno indicato che quelle insenature, fiumi, ecc, sono sotto la calotta dighiaccio, che è circa un Km di spessore.

https://www.ilfattaccio.org/2011/10/03/ ... atlantide/

https://www.vanillamagazine.it/il-miste ... coperta-1/


ALTRE MAPPE


https://web.infinito.it/utenti/m/myster ... mappe.html







zio ot [:305]


PS Mauro se hai aggiornamenti o note di rilievo , postale subito .

Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

02/01/2023, 14:29

caro barionu,
avevo già postato nel forum tempo fa ma siccome è "sparso"e i link alcuni non funzionanti, riposto

Immagine

https://www.ancient-code.com/the-buache ... ntarctica/

e da noi [;)]
Immagine

http://www.shan-newspaper.com/web/antar ... tiche.html

avevo fatto una bella discussione, su quella di Buache,purtroppo sul forum Atikitera, ora chiuso [:(]

ciao
mauro

Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

12/02/2023, 12:56

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https://www.amazon.it/Marckalada-Quando ... 8858150236




Markalada,

la menzione dell’America in un testo del 1340





Se i libri di testo ci hanno sempre insegnato che la scoperta dell’America fu compiuta da Cristoforo Colombo nel 1492 oggi uno scritto inedito del cronista milanese Galvano Fiamma fa sorprendentemente vacillare questa certezza.

La scoperta è nata all’interno di un progetto didattico dell’Università Statale di Milano a cui hanno collaborato diversi studenti di Lettere guidati dal professor Paolo Chiesa, docente di filologia mediolatina e filologia umanistica presso l’ateneo.


La menzione dell’America compare nella Cronica universalis del domenicano Galvano Fiamma, opera inedita scritta intorno al 1340 in cui viene citata una terra chiamata Markalada. Nei secoli precedenti alla scoperta dell’America i navigatori vichinghi avevano già esplorato le coste settentrionali dell’Atlantico e di tali viaggi rimangono sporadiche tracce nei racconti semileggendari di alcune saghe norrene.

Markalada, la menzione dell’America in un testo del 1340
Nella Cronica universalis il cronista milanese fa la seguente descrizione: “I marinai che percorrono i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola della Groenlandia…; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada.”

“Gli abitanti del posto sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche”.

Con ogni probabilità Galvano Fiamma ebbe tali informazioni da alcuni navigatori genovesi che avevano rapporti commerciali con le regioni del nord.

La parola Markalada è stata identificata con Markland, il nome con cui veniva chiamata l’America nelle saghe norrene. Lo studio della Cronica universalis ha portato ad una scoperta clamorosa grazie a cui oggi esiste una prova documentata dell’esistenza di terre al di là dell’Atlantico ben 150 anni prima della scoperta di Cristoforo Colombo.

“La menzione dell’America è solo una delle sorprese che riserva la Cronica universalis di Galvano Fiamma, anche se probabilmente la più clamorosa” dice Paolo Chiesa.

“Si tratta di un’opera inedita, sulla quale abbiamo costruito un progetto didattico cui hanno collaborato parecchi studenti con le loro tesi, dividendosi la trascrizione del manoscritto e la resa in pulito del testo. Gli studenti hanno imparato molto da questa esperienza, e hanno ora anche la soddisfazione di vedere che il loro lavoro ha un esito scientifico sorprendente”



https://www.milanodavedere.it/undergrou ... a-america/





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C’era una volta l’America ma si chiamava Marckalada




Dall’inedita «Cronica universalis» scritta da Galvano Fiamma (1340) emerge un riferimento chiaro a una terra a occidente della Groenlandia
di Paolo Chiesa






https://www.ilsole24ore.com/art/c-era-v ... da-AEyuTJs





Intorno all’anno Mille, gruppi di coloni vichinghi, provenienti dall’Islanda e dalla Groenlandia, visitarono le coste atlantiche dell’America del Nord, in cerca di nuove terre dove insediarsi. L’impresa non sembra avere avuto lunga durata e ha lasciato solo modeste tracce archeologiche; fu però oggetto di narrazioni, che più tardi trovarono esito scritto in alcune saghe islandesi e di cui si riscontrano echi nella storiografia e nella letteratura enciclopedica nordica.

Secondo questi racconti, le terre che i coloni raggiunsero, sempre più vivibili man mano che si procedeva verso sud, vennero chiamate Helluland , «la terra delle pietre piatte», Markland , «la terra dei boschi», e Vinland , «la terra del vino».

La «scoperta dell’America»

Questa vicenda è il più antico episodio di quella che - con un’espressione molto eurocentrica e in odore di scorrettezza politica - viene comunemente chiamata «scoperta dell’America». Un episodio circoscritto perché non ebbe seguito, e la cui memoria rimase confinata alle zone del nord; e che perciò si considera del tutto non correlato con le nuove navigazioni che cinquecento anni dopo partirono dall’area mediterranea e iberica e produssero le conseguenze note a tutti noi. Quando Colombo progettò il suo viaggio - si pensa - non aveva sentore delle precedenti esperienze islandesi.


C

Quel che rivela la «Cronica universalis»


Qualche sentore, in realtà, potrebbe averlo avuto. Un sorprendente riferimento all’«America» ante litteram di cui parlano le saghe è stato di recente individuato all’interno di un’opera scritta a Milano intorno al 1340. Si tratta della cosiddetta Cronica universalis del frate domenicano Galvano Fiamma, una vasta e piuttosto caotica storia del mondo che doveva estendersi dalla creazione fino ai tempi dell’autore, ma che rimase interrotta molto prima di Cristo, all’epoca del dodicesimo re d’Israele. All’interno della Cronica Galvano inserisce una lunga digressione geografica, volta a dimostrare che è possibile per la specie umana vivere anche al di fuori dell’area temperata. Le pezze d’appoggio di cui si serve l’autore per questa dimostrazione sono in genere le auctoritates libresche della geografia tardoantica e medievale, come Solino e Isidoro.


Ma quando passa a parlare delle terre dell’estremo nord ricorre invece a una fonte dichiaratamente orale: «I marinai che percorrono i mari di Danimarca e Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Groenlandia...; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti di questa terra sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però nessun marinaio è mai riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche».


La Marckalada di Galvano - una terra florida, intimidente e misteriosa, che esiste ma di cui poco o nulla si riesce a sapere - è evidentemente il Markland di cui parlavano le saghe nordiche: medesimo il nome, con le normali variazioni grafiche cui un insolito termine geografico è soggetto; medesima la localizzazione a ovest della Groenlandia; analoga la descrizione, che unisce cumulativamente vari tratti ascritti dalle saghe all’una o all’altra delle terre ultratlantiche. Ma in altri punti dell’opera Galvano appare molto informato anche sulla Groenlandia, altrettanto sconosciuta nell’Italia trecentesca: si trova talmente a nord che la Stella Polare resta alle spalle; gli abitanti non praticano l’agricoltura e si nutrono di carne e di pesce; è governata da un vescovo; vi dimorano grandi falchi, molto richiesti sul mercato, ma difficili da esportare: il viaggio è difficile e pericoloso, e le navi giungono così malconce che spesso non possono ripartire.


Cristoforo Colombo sapeva?


Chi sono i marinai cui Galvano imputa queste notizie? Il frate viveva e scriveva a Milano, dove di marinai non se ne vedevano; ma nella Cronica universalis utilizza altrove fonti genovesi. Fa talvolta riferimento a una Mappa Ianuensis, un planisfero comprendente anche le regioni dell’Asia, che descrive come se lo vedesse di persona; e soprattutto cita ampi brani di un Tractatus scritto da Giovanni di Carignano, prete del porto di Genova e celebre cartografo, che racconta dettagliatamente notizie di interesse prettamente locale: di un gruppo di ambasciatori “etiopici” giunti nella sua città, e della sorte della spedizione oceanica dei fratelli Vivaldi, partiti nel 1291 per raggiungere le Indie navigando per l’Atlantico. Notizie che possono provenire solo da Genova; forse Galvano vi aveva soggiornato, forse da lì gliele aveva recate qualche intermediario. I marinai genovesi che si recavano a nord, nei «mari di Danimarca e Norvegia», avranno perciò raccolto sul posto le voci che circolavano sulle terre ultratlantiche e le avranno riportate nella loro città. Colombo poteva sapere?

Il lavoro dell’Università Statale di Milano


La Cronica universalis di Galvano è un’opera ancora inedita e di difficile accesso, conservata com’è in un unico manoscritto attualmente posseduto da una collezione privata. Il riferimento a Marckalada è stato trovato nel corso di una ricerca condotta nell’ambito dell’insegnamento di Filologia Mediolatina dell’Università Statale di Milano, i cui primi risultati sono stati pubblicati sulla rivista americana «Terrae incognitae». La ricerca mira a un’edizione critica dell’opera di Galvano, sulla base delle fotografie che il proprietario del codice ha permesso di effettuare.


La trascrizione del testo è stata realizzata da un gruppo di studenti per le loro tesi di laurea; sono stati loro a imbattersi in Marckalada, un nome ostico, introvabile nelle fonti, che resisteva ad altre possibili identificazioni e che alla fine si è rivelato un’emozionante scoperta. Un buon matrimonio fra didattica e ricerca, come l’università è, o dovrebbe essere.








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Ultima modifica di barionu il 12/02/2023, 13:36, modificato 4 volte in totale.

Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

12/02/2023, 12:58

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Lo sto leggendo ora



Lettura facile e piacevolissima il Prof. Paolo Chiesa estremamente competente.


straconsigliato !!!!


https://www.unimi.it/it/ugov/person/paolo-chiesa















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https://www.amazon.it/Marckalada-Quando ... 8858150236

EDITORE LA TERZA

Autore Paolo CHiesa






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Et dicunt marinarii qui conversantur in mari Datie et Norvegye quod ultra Norvegiam versus tramontanam est Yslandia. Et inde est insula dicta Grolandia [...]

Inde versus occidens est terra quedam que dicitur Marckalada, ubi gigantes habitant, et sunt hedifitia habentia lapides saxeos tam grandes quod nullus homo posset in hedifitio collocare nisi essent gygantes maximi. Ibi sunt arbores virides et animalia et aves multe nimis.

Nec umquam fuit aliquis marinarius qui de ista terra nec de eius condictionibus aliquid scire potuerit pro certo.









I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia [...] e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche.

La Marckalada di cui parla questa breve notizia, una terra lontana e misteriosa sulla quale circolano voci ma nulla di preciso si riesce a sapere, è una parte del continente americano. Si tratta della più antica menzione storica di questo continente che sia stata finora trovata nell’area mediterranea. Si legge nella Cronica universalis del frate domenicano Galvano Fiamma, un’opera scritta a Milano intorno al 1340, e perciò circa 150 anni prima che Colombo attraversasse l’Oceano. Cosa sa esattamente Galvano? Da dove gli arrivano queste informazioni? E come questo testo è giunto fino a noi?

La storia raccontata in questo libro – una storia lunga settecento anni – è vera, in tutti i suoi dettagli.




1.

Un manoscritto all’asta



L’8 ottobre 1996 la casa d’aste Christie’s mise in vendita a New York un consistente lotto di oggetti da collezione per conto della città di Omaha, nello stato americano del Nebraska. I pezzi in vendita erano in parte libri antichi; fra gli altri, un codice medievale che il catalogo d’asta descriveva dettagliatamente così. Un manoscritto di pergamena, composto da 156 fogli di dimensioni piuttosto ampie (40 x 27 centimetri), impaginato su due colonne di 53 linee ciascuna; il testo vergato con inchiostro bruno in una scrittura gotica italiana, coi titoli dei capitoli in rosso e occasionali sottolineature, pure in rosso; le iniziali dei capitoli lasciate in bianco, in attesa di una decorazione mai realizzata; una sessantina di illustrazioni sparse nel testo, in genere rozzi alberi genealogici, di due delle quali era fornita una riproduzione. Il catalogo aggiungeva altre notizie utili a determinare il valore commerciale del manoscritto: era in buone condizioni generali, anche se presentava alcune inevitabili tracce di tarli, poche macchie marginali, qualche sporadica evanescenza dell’inchiostro, degli scarabocchi sugli ultimi fogli; la copertina, di pergamena più pesante, non era di pregio; la legatura dei fascicoli era spesso lasca. Curiosamente, il catalogo non faceva menzione dell’unico disegno davvero interessante che si trovasse nel codice: un diagramma dei venti tracciato a penna, non particolarmente pregevole sotto il profilo artistico, ma tutt’altro che banale per quel che raffigurava, come più avanti vedremo.

Il catalogo restava vago sulla data del manoscritto, ma forniva ragguagli sul suo contenuto, in un linguaggio accessibile ai possibili acquirenti, che si supponevano più probabilmente collezionisti che studiosi. Si diceva che vi erano trascritti i primi quattro libri del Cronicon maius, un’opera storica in lingua latina attribuita al domenicano Galvagneus de la Flamma, in italiano Galvano Fiamma, attivo a Milano nella prima metà del Trecento. Si delineava poi un breve ritratto dell’autore («fu seguace dei Visconti e in particolare fu amico intimo del duca Azzone, al quale dedicò il Cronicon maius») e della sua produzione letteraria («tutte le opere storiche di Galvano – diverse cronache le cui interrelazioni non sono mai state determinate con precisione – riguardano la storia di Milano o dell’Ordine domenicano»). A questa definizione non sfuggiva l’opera contenuta nel codice all’asta, che – recita ancora il catalogo – «sebbene presentata come una cronaca universale, si concentra progressivamente sulle vicende di Milano»; non priva di utilità, comunque, perché, «nonostante le genealogie fantasiose che la corredano, conserva informazioni di interesse per gli storici». Secondo il catalogo d’asta erano note solo due altre copie dell’opera, una delle quali parziale; il codice in vendita, mai studiato prima, era perciò una testimonianza importante di uno scritto molto raro, anche perché nelle parti iniziali forniva notizie inedite circa la data e le circostanze di composizione del testo.

Non sappiamo chi si aggiudicò il manoscritto, ma conosciamo la cifra: 14.950 dollari, per un oggetto che la stima iniziale proponeva fra i 5.000 e i 10.000 dollari. Il prezzo era dunque salito, ma non poi di molto. Pur se di ragguardevole formato e di buona fattura, il codice non era particolarmente bello, non presentava decorazioni di pregio, aveva una copertina dozzinale; e si trattava pur sempre soltanto di una copia ulteriore di un’opera già nota, almeno a quanto scritto sul catalogo. Il consulente di Christie’s era certo un esperto di libri antichi e aveva svolto coscienziosamente il suo compito di valorizzare l’oggetto, ma non era né poteva essere uno specialista delle opere di Galvano Fiamma o della Milano trecentesca, e qualche errore gli era scappato (Azzone Visconti, per esempio, non era affatto un ‘duca’). A guardar meglio, l’opera contenuta era molto più interessante, e il valore del codice, di conseguenza, avrebbe potuto essere molto più alto. Il manoscritto non era una copia ulteriore di un Cronicon maius già noto, ma l’unico esemplare esistente di una Cronica universalis sconosciuta, e al suo interno si celavano notizie di eccezionale rarità. Per accorgersene, però, bisognava leggerla tutta, e non veniva molta voglia di farlo.

A mettere in vendita quel manoscritto nel 1996 era stata, come si è detto, la città di Omaha, Nebraska. Per far cassa, l’amministrazione pubblica cedeva alcuni pezzi – evidentemente ritenuti meno interessanti – della Byron Reed Collection, ricevuta in eredità nel 1891 alla morte dell’uomo che l’aveva costituita. Byron Reed era un tipico imprenditore-pioniere americano dell’Ottocento. Nato nel 1829 nello stato di New York, si era spostato con la famiglia verso ovest, prima nel Wisconsin poi nell’Ohio; infine nel 1855 si era stabilito a Omaha, una città appena fondata, alla frontiera della colonizzazione. Qui Reed aveva fatto fortuna acquistando e rivendendo pezzi di quella worthless prairie; possiamo sospettare che non tenesse in gran conto le prerogative dei nativi, ma sappiamo che, per lo meno, non era uno schiavista. Con il ricavo di questi affari aveva potuto appagare la sua passione di collezionista: principalmente monete e medaglie, ma anche libri antichi, mappe e documenti. La Byron Reed Collection rimase nella biblioteca pubblica di Omaha fino al 1985, quando fu trasferita al locale Western Heritage Museum (all’incirca, il Museo della Storia del West). Nel 1995 il museo, situato nel principale edificio storico della città, la vecchia stazione ferroviaria, venne rimodernato, per il notevole costo di 22 milioni di dollari. La spesa fu in gran parte sostenuta, come sempre negli Stati Uniti, da finanziatori privati (in particolare dai coniugi Charles e Margre Durham); ma i fondi evidentemente non bastavano, e l’amministrazione pubblica intervenne vendendo una parte della Byron Reed Collection e mettendo a servizio del progetto gli oltre 6 milioni di dollari che ne ricavò. Dalle cronache dell’epoca si evince che la decisione fu tutt’altro che pacifica: la raccolta era passata al museo a condizione che fosse adeguatamente conservata e venisse resa accessibile a tutti, come doveva già essere nelle disposizioni testamentarie di Reed, un mandato che alcuni ritennero essere stato tradito. Avevano ragione: in seguito alla vendita il nostro codice si trova ora in mani private, non è più liberamente consultabile, non è più un bene pubblico.

Oggi il museo di Omaha ha cambiato nome, certo perché la nozione di western heritage, con la scia di sofferenze e di sangue che si porta dietro, è meno presentabile di un tempo: si chiama più asetticamente Durham Museum, in omaggio ai suoi benefattori, e il suo fine è «not only preserving Omaha’s history», ma anche, più ecumenicamente, «educating the community on subjects related to the region, nation and world»; la vecchia stazione è perciò sede di mostre, di stage e di attività culturali varie. Resta il paradosso e la nemesi per cui nel 1996 la città di Omaha, credendo di sbarazzarsi di un muffoso pezzo di medioevo per far posto a un più luccicante Far West, rinunciava inconsapevolmente a un documento unico sul passato dell’America, come il lettore presto scoprirà. È una frequente e banale parabola della storia e dell’uso pubblico della storia, per cui ciò che è più importante è ciò che è più attraente, ciò in cui il visitatore può presumibilmente meglio riconoscersi. L’amministrazione di Omaha sfrattava l’antiquato frate medievale – e con lui la compagnia di marinai, di geografi e di esploratori che incontreremo più avanti – a favore di qualche empatico cowboy; il manoscritto di Galvano per il cappello di John Wayne. L’immobiliarista Reed, pur altrettanto inconsapevole e forse un po’ filibustiere, era stato più accorto.

Un manoscritto è un oggetto unico, al pari di un quadro, perché è il risultato di un singolo e specifico atto di copiatura, e non di una riproduzione meccanica, come invece è un libro a stampa. Ogni manoscritto ha perciò una sua nascita individuale, e ha poi anche una sua storia individuale, più o meno movimentata, e si può tentare di ricostruirla. Ci sono manoscritti che sono rimasti per secoli nella medesima biblioteca, alcuni letti e venerati come autorità, altri dimenticati da tutti; ci sono manoscritti che hanno cambiato sede, anche molte volte, in conseguenza di dinamiche culturali, di rivolgimenti politici, di interessi economici, di assestamenti patrimoniali. Il nostro codice, dopo quattro secoli di vita sedentaria a Milano, ha avuto negli ultimi duecento anni una storia più avventurosa, che l’ha costretto a numerosi viaggi.

La copiatura del testo si deve a uno scriba professionista, di nome Petrus de Guioldis (lo chiameremo nella forma italiana, Pietro Ghioldi), che lavorava a Milano negli ultimi anni del Trecento e nei primi del Quattrocento. Era un trascrittore seriale delle opere storiche di Galvano Fiamma, quell’amico del ‘duca’ Azzone Visconti che diventerà presto anche un nostro amico, ma che quando Ghioldi copiava era morto ormai da mezzo secolo. Ne trascrisse almeno sei, una di esse perfino due volte; in un paio di casi alla fine del lavoro lasciò la sua firma, e una volta anche la data, il 1396. Tutti i manoscritti di Galvano copiati da Ghioldi hanno lo stesso formato, la stessa impaginazione, lo stesso sistema di rubricature e di rimandi, analoghi spazi riservati a iniziali di paragrafo e miniature, che in un solo caso sono state poi apposte. Due di questi codici, conservati a Milano rispettivamente alla Biblioteca Ambrosiana (ms. A 275 inf.) e alla Biblioteca Trivulziana (ms. 1438, quell’unico con decorazioni e miniature, purtroppo solo parziale), sono oggi gratuitamente consultabili on-line grazie alla liberalità dei rispettivi enti; invitiamo il lettore a sfogliarli, almeno virtualmente, perché di un manoscritto, come appunto di un quadro, non si può parlare se non lo si è visto (i link li trovate nell’Ultimo capitolo). Dalla serialità e uniformità fisica delle copie si desume che Ghioldi lavorava per un progetto ben definito, e un progetto impegnativo. La pergamena è sempre di buona qualità, come si usa per un libro pregiato; la previsione di un apparato decorativo, da inserire negli appositi spazi, fa pensare a un destinatario raffinato; il lavoro richiese molto tempo al copista – nessuna delle opere di Galvano è breve, e alcune sono anzi molto lunghe –, fu costoso per il committente, e ancor più costoso sarebbe stato se fossero state completate le decorazioni. A distanza di cinquant’anni dalla morte di Galvano, qualcuno aveva pensato di dare nuovo lustro ai suoi testi, che rischiavano l’obsolescenza. Un’operazione provvidenziale e, sotto questo profilo, perfettamente riuscita: la maggior parte delle opere del Fiamma le possediamo oggi solo grazie alle copie di Ghioldi, senza le quali sarebbero scomparse per sempre (un’unicità di trasmissione che rischia di rendere indistinti l’autore e il copista, chi ha creato e chi ha riferito, e su questo dovremo più avanti tornare). La Cronica universalis, il testo conservato nel codice che fu di Byron Reed, è una di queste.

Conosciamo perciò chi scrisse il codice, ma conosciamo anche alcune delle sue vicende successive. A quanto sembra, per molto tempo il manoscritto non si spostò da Milano; per un certo periodo la Cronica universalis fece corpo con un’altra opera di Galvano, la cosiddetta Cronica Galvagnana, insieme alla quale finì rilegata; suscitò qualche interesse per le parti dedicate alla storia di Milano, che vennero copiate per estratti. Nel Seicento entrò in possesso di Giovanni Battista Bianchini, un notaio milanese appassionato di studi storici; egli capì che il testo contenuto nel codice era di Galvano, ma sbagliò a individuarlo, e appose un titolo inappropriato sulla prima pagina (Politia novella, nome di un’altra opera del Fiamma). Dopo la sua morte, nel 1699, il manoscritto passò ai monaci cistercensi di Sant’Ambrogio, presso l’omonima basilica. A casa del Bianchini o nella biblioteca dei monaci fu consultato da vari eruditi, fra cui il padre della storiografia illuministica italiana, Ludovico Antonio Muratori. Nessuno di questi studiosi, per quanto sappiamo, lo esaminò con molta attenzione, se non per le sezioni di argomento milanese, né pensò mai di trarne una copia integrale; unici segni di lettura sono sporadiche e brevi annotazioni marginali, semplici indicazioni di contenuto, sempre più rare a mano a mano che il testo procede.

Esattamente cent’anni dopo la morte del Bianchini, nel 1799, il monastero di Sant’Ambrogio venne soppresso, così come molte altre fondazioni religiose regolari, dalla napoleonica Repubblica Cisalpina. Dopo quattro secoli di sonnacchiosa permanenza nelle biblioteche milanesi e di limitata ma dignitosa frequentazione erudita, iniziavano per il nostro codice nuove e imprevedibili avventure. In seguito alla soppressione, i libri dei monaci di Sant’Ambrogio andarono dispersi, e in gran parte presero la strada del mercato privato. Il codice di Ghioldi finì nelle mani di un insaziabile collezionista veneziano, il gesuita Matteo Luigi Canonici; sfuggì ai bibliotecari di Oxford, che alla morte del Canonici ne acquisirono la maggior parte dei libri; insieme ad altri fu venduto all’asta a Londra nel 1821, dove se lo aggiudicò un antiquario britannico. Per qualche decennio se ne persero le tracce; ricomparve sul mercato negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando venne nuovamente messo in vendita, stavolta negli Stati Uniti, e fu probabilmente in quell’occasione che lo acquistò Byron Reed.

Conosciuta, ma non molto considerata, dagli storici eruditi del Seicento e del Settecento, mero oggetto da collezione per Canonici o Reed, la Cronica universalis era invece un fiore all’occhiello per il suo autore, che dovremo a questo punto presentare in pubblico.




2.

Un frate che sciupa tempo e inchiostro



Forse non sarà stato questo il motivo che rendeva il manoscritto messo all’asta da Christie’s relativamente poco interessante, ma bisogna riconoscere che Galvano Fiamma, l’autore del testo che vi era contenuto, godeva di pessima reputazione.

Il grande Muratori, che pubblicò nel 1727 una delle numerose opere cronachistiche attribuite a Galvano, lo trattava da sempliciotto (bonus Gualvaneus, lo irrideva, ‘quel brav’uomo di Galvano’) affetto da una intoleranda credulitas rispetto alle notizie che gli venivano ammannite. Non un bel giudizio per uno scrittore che ha velleità di storico. Sulla stessa linea, Francesco Novati, dotto e brillante letterato della fine dell’Ottocento, quant’altri mai esperto di testi milanesi del medioevo, definiva Galvano un «compilatore negligente e credulo», e più precisamente lo descriveva come «il teologo domenicano che per più di trent’anni ha sciupato tempo ed inchiostro a travasare d’uno in altro zibaldone sempre la stessa indigesta congerie di notizie storiche, raccattate un po’ dappertutto ed accatastate senza verun senso d’arte e lume di critica». Un giudizio sarcastico e impietoso che finisce per rendere Galvano piuttosto interessante. Era davvero un così tremendo stupido?

A parecchi milanesi di oggi il nome di Galvano Fiamma è familiare, perché a lui è intitolata una strada non secondaria della città, ma non ne sanno molto di più, fatta eccezione per i pochi che si appassionano alla storia medievale. In realtà su di lui abbiamo diverse notizie, non abbastanza da tracciarne una biografia completa, ma sufficienti a delineare un ambiente e una personalità. Era milanese, o comunque la città di Milano è il suo spazio di riferimento, ideologico e affettivo, il luogo principale della sua vita e il soggetto centrale dei suoi scritti. Sappiamo di suoi soggiorni a Como, Pavia, Bologna, probabilmente a Genova (ah, Genova!), forse a Venezia, ma non vi è notizia che sia mai uscito dall’Italia del Nord. Quando aveva una quindicina d’anni entrò nell’Ordine dei Domenicani, i Frati Predicatori, presso il convento milanese di Sant’Eustorgio. Era l’anno 1298: per avere un’idea di cosa succedeva intanto nel mondo, di lì a poco Giotto avrebbe dipinto la Cappella degli Scrovegni e Dante avrebbe preso la via dell’esilio.

A quell’altezza cronologica l’Ordine dei Frati Predicatori, attivo e riconosciuto dalla Chiesa da più di ottant’anni, era già diventato una delle principali e più autorevoli istituzioni religiose, e l’appartenenza ad esso era un titolo di prestigio; anche per Galvano, che doveva provenire da una famiglia benestante, si pensa di rango notarile, e che sfoggia con fierezza la propria condizione di frate. Già dai primi decenni della loro esistenza i Domenicani si erano caratterizzati come un ordine ‘militante’ e ‘colto’: militante, perché era schierato in prima linea a combattere le ‘eresie’; colto, perché promuoveva, accanto all’attività statutaria della predicazione, quella di studio e di insegnamento, in base all’assioma per cui la formazione dottrinale era la miglior garanzia contro le deviazioni. Galvano era certo un ragazzo intellettualmente dotato, e seguì il percorso di istruzione superiore all’interno del suo convento milanese; probabilmente, nell’ultima fase, anche a Genova, dove all’epoca a quanto pare aveva sede lo studium generale (l’università, all’incirca) dei Domenicani del Nord-Ovest d’Italia. Raggiunse il grado accademico di bachalarius e il ruolo di lector sacrae theologiae, che gli consentiva di insegnare nelle scuole dell’Ordine; in una delle sue ultime opere si dichiarerà, più pomposamente, professor. Oltre alla teologia studiò e insegnò la filosofia, che comprendeva all’epoca elementi di etica, di cosmologia, di scienze naturali, di politica, di economia. Di questa formazione e di questi interessi troviamo riscontro nelle opere che scrisse.

La prima metà del Trecento in Italia, l’epoca in cui Galvano visse e operò, fu un’età politicamente inquieta. Le gloriose istituzioni comunali avevano ormai lasciato il posto a governi signorili, in mano a potenti famiglie che perseguivano una stabilità dinastica. Gli anni di Galvano furono quelli in cui Milano vide la definitiva affermazione dei Visconti, che a partire dagli ultimi decenni del secolo precedente avevano progressivamente imposto il proprio dominio sulla città. Nella ricerca delle necessarie alleanze per consolidare la signoria, i Visconti si erano per lo più schierati con la parte imperiale, che negli ultimi tempi aveva ripreso fiato in seguito alle discese in Italia dei sovrani tedeschi, prima Enrico VII, poi Ludovico il Bavaro, e in questo modo erano entrati in conflitto con il papato, che alla tutela imperiale sull’Italia del Nord fieramente si opponeva. Nel 1323 Milano fu colpita dall’interdetto papale, e ai religiosi che vi risiedevano fu prescritto di lasciare la città; non sappiamo se tutti lo fecero, né in particolare se lo fece Galvano. I rapporti fra i Domenicani, che a differenza dei loro colleghi Francescani avevano sempre professato senza tentennamenti fedeltà al papato, e i signori di Milano dovettero rimanere a lungo tesi; ma dopo che agli ecclesiastici fu concesso di rientrare (1330) si andò verso la normalizzazione. Il potere dei Visconti in città era sempre più solido, e grazie alla forte signoria militare di Azzone (1329-1339) stava assumendo dimensioni regionali; ai nuovi padroni non serviva più un’identificazione con il partito imperiale, che del resto in Italia era in declino, ed era invece necessaria una collaborazione con i religiosi del territorio.

Nell’ultimo decennio della sua attività, all’incirca fra il 1335 e il 1345, Galvano appare molto vicino ai Visconti: dedica i suoi scritti ai signori di Milano; frequenta le biblioteche che si trovano nei palazzi della famiglia; benedice la diarchia dei fratelli Luchino e Giovanni Visconti, subentrati al potere alla morte di Azzone; si dichiara (o si millanta) confessore di Luchino e di suo figlio Brizio; afferma che Giovanni lo scelse come proprio cappellano e scriba, probabilmente un segretario privato. E a servizio della casata dominante Galvano presta la sua molto prolifica penna: dà fiato a una rozza leggenda che fa discendere quei parvenus dei Visconti nientemeno che da Enea e Ascanio; ricostruisce un’improbabile storia che attribuisce loro un’antica dignità regale; traccia un ritratto encomiastico di Luchino e di Giovanni, dipinti come i signori perfetti; rende una nuova verginità dottrinale alla famiglia, glissando sui conflitti passati con la Chiesa. Uno scrittore cortigiano, si direbbe; un arrivista, anche, se è vero che assecondando la propaganda viscontea si propiziò l’accesso al palazzo. Un personaggio non troppo simpatico, visto con gli occhi di oggi, ma pienamente in media con molti letterati del suo tempo, anche più famosi di lui.

La sua passione per la storia – l’unico genere letterario che davvero praticò – nasce, a quanto ci racconta, da una rivalsa. Ancora giovane, si trova per un paio d’anni a insegnare a Pavia, e si impegola in discussioni con i locali, che decantano le glorie passate della loro città (l’antica capitale longobarda!) di fronte alla pochezza e all’oscurità di Milano. Galvano vuole conoscere la verità e fare giustizia, e per molti anni legge, studia, annota, scheda: notizie su Milano e la sua storia, soprattutto, ma non soltanto. Costruisce o ricostruisce vecchie tradizioni secondo le quali Milano era la più antica città d’Italia, visto che l’aveva fondata Subres, bisnipote di Noè attraverso Iafet l’Europeo (un primato difficile da battere); altre ne recupera o ne inventa, secondo le quali qui arrivarono certi principi troiani in fuga dopo la sconfitta; racconta le lunghe guerre che contrapposero i milanesi, spesso vincitori, e i romani nell’età oscura che precedette l’Impero; esalta l’antichità e la nobiltà della Chiesa milanese, resa veneranda da martiri e pastori e dotata di privilegi unici nel mondo. Previene le possibili critiche ai difetti di Milano chiamando in causa diverse auctoritates e argomentando per sillogismi, il metodo scolastico che si usava al tempo: occasionali battute d’arresto e sconfitte vi furono, non lo si può negare, ma per Galvano i milanesi ne uscirono sempre a testa alta, tanto da essere additati a esempio di nobiltà di stirpe, di eroismo guerresco, di pratica delle virtù, di fedeltà alla Chiesa. Uno scrittore campanilista, potremmo definirlo oggi, che anche in questo non si discosta dalla norma di quell’epoca e di quel mondo. Uno scrittore di maniera, perfettamente allineato, e perciò – si direbbe – uno scrittore prevedibile, incapace di sorprendere. Dovremo presto ricrederci.

Al centro del suo mondo e della sua narrazione storica c’è dunque Milano. Possiamo ricostruire che Galvano perseguì per tutta la vita il progetto di una grande e completa storia (cronica, nel linguaggio del tempo) di argomento milanese, e che di una tale storia produsse numerose versioni successive: quanto aveva già scritto veniva superato dalla conoscenza di notizie ulteriori, che suggerivano un aggiornamento. Ma negli ultimi anni della sua vita la prospettiva cittadina sembra non bastargli più. Giovanni e Luchino Visconti, di cui Galvano si professa intimo, hanno ormai preso il potere, l’uno come arcivescovo, l’altro come signore; ai due nuovi governanti Galvano dedica un progetto di più ampio respiro. I suoi modelli storiografici diretti, come il Pantheon di Goffredo da Viterbo o lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, proponevano non una storia cittadina, ma una storia universale, che si occupava di tutto il mondo e di tutte le epoche. Galvano ha già letto moltissimo, ha già compilato un’infinità di schede, sa dove trovare altre notizie; non è più giovane, ma è ancora curioso ed entusiasta, si sente pronto ad allargare gli orizzonti. Se in una prima versione della cronica il suo scopo era narrare «le antichissime origini e le vittorie trionfali della nobile città di Milano» (e anche, quando capitava, le sue «tristi sconfitte»), in una versione successiva diventa quello di «raccogliere le storie dell’Europa», lasciando da parte gli altri continenti (due: Asia e Africa), e nella versione più avanzata (la nostra Cronica universalis) arriva a «scrivere tutte insieme le vicende di tutto il mondo, nel loro complesso». Una bella pretesa; ma aveva ottimi predecessori e ricchi materiali.

Probabilmente Galvano si rese conto che, per quanto cercasse di mantenere Milano nel posto d’onore, il passaggio a una dimensione mondiale lo costringeva a rinunciare alla grana fine del racconto storico sulla sua città, che così dettagliatamente aveva presentato fino a quel momento. A quanto riusciamo a capire, il suo ultimo progetto prevedeva perciò uno sdoppiamento: da un lato una cronaca universale, dall’altro una storia milanese, in due opere diverse, fra loro non concorrenti. Una macrostoria e una microstoria, con una semplice differenza di scala e di fuoco, non contraddittorie come non sono in contraddizione un mappamondo e una pianta topografica. I materiali già a disposizione, e quelli nuovi che continuava a elaborare, li ripartì in due contenitori paralleli: da un lato una cronaca che parla del mondo, ma un mondo in cui Milano continua a essere urbs florentissima, ‘la più bella delle città’; dall’altro una nuova cronaca strettamente milanese. Chiamò questa seconda opera Politia novella, Il nuovo governo, a salutare l’inedita diarchia di Giovanni e Luchino: vi si ricostruiva – ma diciamo pure, più schiettamente, vi si inventava – una fantasiosa sequela di re e battaglie, con toni ripresi dalla letteratura cavalleresca allora di moda, che nel suo complesso raccontava in serie continua la storia antica di Milano, dalla fondazione fino all’imperatore Augusto. E poi, nel punto in cui finisce questa storia primordiale, Galvano incomincia un’altra opera che racconta della Milano cristiana, una Cronica pontificum scandita dalla sequenza dei vescovi: gli archiflamines pagani lasciano il posto quasi con naturalezza agli (archi)episcopi cristiani, e i primi passano ai secondi il privilegio di una dignità superiore rispetto al clero di tutte le altre città, con eccezione – e anche questa un po’ obtorto collo – soltanto di Roma.

Galvano ci appare scrittore ambizioso, irrequieto, mai soddisfatto; vulcanico anche, come è stato definito, con tanta esuberanza e scarso controllo. Continuò a scrivere per tutta la vita; le varie versioni della sua grande cronaca sono tutte, più o meno, incompiute, perché subentravano nuove notizie e nuove idee che le rendevano ad una ad una obsolete. Quando in una versione successiva riprendeva lo stesso argomento già trattato prima, non lo faceva con le stesse parole, segno che lavorava di persona, e non si affidava a segretari e aiutanti, che si sarebbero limitati a trascrivere quel che già c’era. Un velleitario, che sopravvalutava le proprie capacità, e non riuscì a portare a termine nessuno dei suoi grandi progetti. Si credeva un poeta, e infarciva i suoi testi di storia con versi scritti da lui, in genere orribili; si credeva un grande scrittore, ma il suo latino è povero e talvolta scorretto; si credeva un dialettico, ma i suoi ragionamenti sono spesso risibili. Il suo metodo storico, che procede per accumulo e non per selezione, oggi sconcerta: le fonti sono giustapposte l’una all’altra, e quando riportano notizie diverse si evita di discuterle, accettandole tutte per buone. (Così, visto che sette suoi autorevoli predecessori collocavano il Paradiso Terrestre ciascuno in un luogo diverso del mondo, Galvano conclude che di paradisi terrestri devono essercene sette; e siccome esistono due differenti leggende sulla fondazione di Piacenza, di Piacenze devono essercene due.) Scarso o nullo discernimento, che non vuol dire pigrizia intellettuale o mancanza di coraggio: all’epoca in genere si faceva così, solo Petrarca proverà a proporre un metodo critico.

Chi studia un autore antico o medievale, di cui non sono conservati documenti personali quali diari, lettere, appunti e simili, e la cui immagine ci è consegnata solo dalle opere ‘pubbliche’, quelle che aveva scritto per farle leggere ad altri, spesso si chiede quanto questa immagine corrisponda davvero alla persona; di solito non riesce a capirlo. Com’era davvero Galvano? In apertura della sua opera forse più ‘milanese’, la Politia novella, egli critica i suoi concittadini perché preferiscono i racconti romanzeschi, belli ma futili, alla solida ma indigesta storia locale: «percorrono le storie puniche, divorano quelle di Tito Livio, setacciano le pergamene troiane, ammirano le storie tartariche pendendo dalla bocca di chi le racconta; se qualcuno inventa cose poste oltre i confini del mondo, si appassionano a studiare anche quelle». I milanesi, diremmo oggi, amano la narrativa: le storie di Cartagine e di Roma, le leggende su Troia, i viaggi in Oriente di Marco Polo e Odorico di Pordenone e quel che si trova extra mundi climata (ma la fantascienza non esisteva ancora; si riferirà alla Commedia di Dante?). Galvano parla ai milanesi, ma si direbbe che parli a sé stesso, rivelando un proprio senso di colpa o un proprio snobismo. È lui il primo ad apprezzare quelle letture, antiche o esotiche o immaginarie, che (a parte quell’ipotetico Dante) infila a piene mani nei propri libri di storia, tanto che particolari fantasiosi sbucano di continuo nelle sue pagine che pretende scientifiche. I milanesi dei primordi ad esempio li descrive così: «Erano alti di statura, di aspetto spaventoso, forti, feroci, e distruggevano col ferro e col fuoco tutto quanto incontravano. Le loro donne erano belle ma crudeli, robuste, audaci in battaglia; combattevano con l’arco, si dedicavano alla pesca e alla caccia degli uccelli, ed erano anche abili nel costruire le case. Fra loro non esisteva legge o diritto, non c’erano libri né chi sapesse scriverli, non c’erano medici: a ognuno era lecito fare ciò che più gli piaceva». Il sano, valoroso, anarchico e un po’ comunista selvaggio delle origini, uno dei miti che hanno attraversato la storia e sono diventati luogo comune. L’austera materia che gli consegnavano le fonti viene spesso riletta in una dimensione romanzesca: santi patriarchi biblici si ergono a eroi, re, imperatori; prodi guerrieri profughi da Troia percorrono la terra fondando città; popoli primordiali guidati da mitici condottieri si scontrano in epocali battaglie. Un personaggio da romanzo forse un po’ si sentiva anche lui, per quel nome da cavaliere che si trovava a portare.

Anche il suo progetto finale Galvano lo lasciò a metà. La Cronica pontificum, l’opera che aveva riservato alla Milano cristiana, arriva solo ai tempi di sant’Ambrogio. Incompiuta è anche l’opera più ambiziosa, quella cui aveva affidato la storia del mondo: la Cronica universalis contenuta nel manoscritto che fu di Giovanni Battista Bianchini e di Byron Reed. L’incompiuto in letteratura può essere un po’ deludente, come un film a cui manca il finale, ma può essere anche molto intrigante, perché ci mostra l’autore nudo, senza paludamenti, mentre ancora sta lavorando. Nel dubbio, vale la pena di leggerlo.




3.

Prolixitas tedialis



Della Cronica universalis nessuno degli eruditi che la ebbe in mano pensò mai di trarre una copia integrale, almeno per quanto sappiamo. Come dar loro torto? A un primo sguardo l’opera scoraggiava: oltre a essere incompiuta, era lunga e farraginosa, disordinata e mal scritta, poco originale e molto ripetitiva. Non sembrava poter ripagare lo sforzo di una trascrizione, e nemmeno quello di una lettura accurata. Galvano Fiamma era autore di diverse altre opere che, più o meno, dicevano le stesse cose: opere però più sintetiche, che si potevano consultare in minor tempo e con maggior profitto, se quello che importava erano le notizie contenute. Notizie vecchie, per altro, molto vecchie: la Cronica universalis pretendeva di raccontare la storia di tutto il mondo in tutte le epoche, ma si fermava poi a 800 anni prima di Cristo. Niente di più recente o che già non si sapesse; scarsa o nulla l’utilità pratica. Galvano aveva letto e straletto, ma solo libri ben noti e storie scontate; da tutte queste letture aveva ricavato notizie, talvolta le stesse notizie identiche più volte ripetute, talvolta notizie in contrasto e fra loro inconciliabili. A nessuna era stato capace di rinunciare e tutte le aveva trascritte, abborracciandole come meglio veniva. Ai suoi occhi probabilmente un merito, quello di aver dato completezza di informazione, e un vanto, quello di poter ostentare uno sconfinato bagaglio di cultura; ma così incorreva nella prolixitas tedialis, come suggestivamente un suo anonimo coetaneo e collega chiama la logorrea che provoca noia, e finiva per esasperare il lettore.

Per la verità, al principio l’opera non si presenta poi male, almeno per chi apprezza le anticamere barocche. Si comincia con una lettera di dedica a Azzone Visconti, dominus generalis di Milano, «che governa le province di Liguria, Emilia e Veneto»; Galvano dice di volergli «presentare le antiche origini del mondo e i fatti più recenti» e di essere ormai alla quarta stesura del testo. Segue un sommario del contenuto, che inizia con le parole «Ista cronica dividitur in quatuordecim libros», dove però di libri ne sono elencati sedici; poi una premessa contra detractores, cioè contro gli invidiosi che – si immagina Galvano – criticheranno il suo lavoro, tacciandolo di falsità; e per meglio rispondere porterà le pezze d’appoggio. Sono queste le indicazioni delle fonti utilizzate, 72 libri in totale, minuziosamente elencati, per ognuno dei quali si dice dove andare a leggerlo: nella biblioteca di Azzone, oppure in quella di Sant’Eustorgio (il suo convento), o a casa di questo o di quel cittadino, perfino fuori Milano. Infine, il vero e proprio prologo, in cui Galvano chiama a esempio il suo più illustre predecessore: Tito Livio, l’ultimo fra i lombardi (gli italiani del Nord, nel linguaggio dell’epoca) ad avere trattato ampiamente di storia, perché tutti i successivi composero solo «brevi e rattrappite noterelle annalistiche», col risultato che «quel che han scritto son porcherie, non opere d’arte» (potius libros deturpaverunt quam ornaverunt). A questo rimedierà lui, Galvano, grazie a un testo cui attende da trent’anni: da quando l’imperatore Enrico era stato incoronato a Milano, nel 1311, un evento al quale aveva personalmente assistito e in occasione del quale doveva aver sentito di essere, anche lui, dignitosa parte della Storia.

Sembra una cosa seria, ma a ben vedere queste premesse sono quasi tutte riciclate e un po’ contraddittorie: uno dei molti segni che l’opera, come la trovava Ghioldi cinquant’anni dopo, era caotica e disordinata, come succede a quelle che l’autore ha lasciato a metà. La lettera ad Azzone è incompatibile con il prologo vero e proprio, dove si parla di maximi principes, che saranno i suoi successori Luchino e Giovanni; la premessa contra detractores era già stata usata, in versioni poco o tanto diverse, in tutte le stesure precedenti della cronaca; lo stesso per la lista dei libri e delle biblioteche – interessantissimo documento per chi si occupa di argomenti del genere –, che era progressivamente cresciuta fra un’opera e l’altra. Anche la discrepanza fra i quattordici o i sedici libri è uno scompenso dovuto al sovrapporsi di due suddivisioni alternative, su cui Galvano evidentemente non aveva ancora deciso (ragionando un po’ si capisce che probabilmente il numero giusto è quindici). Poi, dopo l’anticamera, inizia il testo.

Il titolo Cronica universalis sive generalis è quello che troviamo nell’Incipit dell’opera, e ne dichiara genere e portata. Non sappiamo se questo titolo sia voluto da Galvano, o sia una semplice indicazione di contenuto apposta da chi, dopo la sua morte, ne riordinò le carte. Si tratta, in ogni caso, di un titolo perfettamente appropriato, che corrisponde a un genere letterario all’epoca molto in voga. Che fosse legittimo scrivere una storia universalis, estesa a ogni terra e a ogni epoca, era presupposto dalla visione unitaria del mondo e del tempo propria del medioevo. Tutto ha avuto un inizio, con la Creazione, e tutto avrà una fine, con la seconda venuta del Cristo e il Giudizio finale: la Bibbia, l’insieme dei testi cui Dio ha affidato la Rivelazione una volta per tutte, si apre raccontando l’inizio, nel libro della Genesi, e si chiude annunciando la fine, nel libro dell’Apocalisse. Di questa storia è protagonista l’umanità, discesa da quell’Adamo creato a immagine e somiglianza di Dio, e che per questa sua caratteristica è il soggetto centrale e dominante, signore di tutti gli altri esseri creati. La teologia cristiana afferma che l’umanità è stata creata in una sola persona, Adamo; si è divisa e dispersa in una varietà di popoli dopo la torre di Babele, ma è stata redenta nella sua interezza dal sacrificio di una sola persona, Gesù Cristo, che ha fondato un’unica comunità dei propri fedeli, la Chiesa. La storia dell’umanità, e il mondo, che della storia dell’umanità costituisce la scena, sono dunque unitari, e si possono rappresentare in una narrazione unitaria.

La parte ‘storica’ della Bibbia, quella che i cristiani chiamano Antico Testamento, parla però solo delle vicende del popolo ebraico. Il cristianesimo si propone invece esplicitamente come una religione universale, e la sua visione della storia comprende tutti i popoli. Serviva perciò una più ampia dimensione geografica, che si estendesse a tutta la terra (cioè quella nota agli europei del tempo e che rientrava nel loro orizzonte), e una sincronizzazione degli eventi che si svolgevano nelle varie regioni: per il mondo antico, una griglia che intersecasse i fatti raccontati dalla Bibbia con quelli delle storie profane, greche e latine, ordinandoli nei loro corretti rapporti cronologici. A tale ampliamento e a una tale sincronizzazione si dedicarono già alcuni storici cristiani della tarda antichità; il modello da loro creato fu proseguito per tutto il medioevo, adattandolo per la storia recente alla nuova situazione europea di una molteplicità di regni, e divenne sempre più popolare nell’epoca delle prime università, quando simili storie generali venivano usate come opere enciclopediche di riferimento.

Questo è il genere letterario cui appartiene la Cronica universalis di Galvano; era un genere molto di moda, in tanti lo praticavano nell’Italia dell’epoca, di solito in latino, ma ormai qualche volta anche in volgare. Il primo libro inizia dalla Creazione e arriva al Diluvio; il secondo inizia dal Diluvio e arriva ad Abramo; il terzo inizia da Abramo e arriva a David; il quarto inizia da David e doveva arrivare alla prigionia degli Ebrei in Babilonia. Doveva arrivare, perché in realtà questo libro è interrotto poche pagine dopo l’inizio, nel punto in cui si parla di Ioas, re biblico di Giuda (800 anni prima di Cristo, appunto, per quello che vale). Non c’è niente che faccia pensare che l’opera sia mai proseguita oltre.

La scansione dei primi quattro libri corrisponde dichiaratamente alla griglia biblico-teologica delle età del mondo, che era uno dei metodi più usati nel medioevo per organizzare la storia. Si trattava di uno schema reso popolare da Agostino di Ippona (quello che tutti conoscono come sant’Agostino): il mondo si evolve nel tempo così come nel tempo invecchia un essere umano, sicché le successive epoche della storia possono trovare un corrispondente nelle successive età degli umani (secondo l’antropologia classica: infanzia, puerizia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia). Per le epoche più antiche la scansione era data dai principali eventi e personaggi della storia biblica, e i primi quattro libri della Cronica universalis corrispondono infatti fedelmente alle prime quattro età del mondo secondo la suddivisione più comune (dalla Creazione a Noè, l’infanzia; da Noè ad Abramo, la puerizia; ecc.). Ma con il procedere del tempo alle notizie bibliche si affiancavano quelle relative ad altre civiltà, sempre più numerose: lo schema diventava troppo angusto e bisognava adottare soluzioni diverse. Così aveva in mente di fare anche Galvano: pur se l’opera è interrotta al quarto libro, il sommario iniziale ci permette di conoscere il piano previsto per quelli successivi. Il quinto libro doveva arrivare a Giulio Cesare, considerato fondatore dell’impero romano e (molto approssimativamente) coevo alla nascita di Cristo, quando terminava anche la quinta età del mondo; i dieci libri seguenti dovevano trattare la ‘sesta età’, cioè i 1300 anni successivi, fino ai suoi giorni. Questa ‘sesta età’ aveva una durata anomala e un po’ imbarazzante: ideata dai primi teologi cristiani quando la fine del mondo era ritenuta imminente, si era poi prolungata a dismisura, diventando molto più ampia di tutte le precedenti. Il mondo degli umani non era finito così presto, nemmeno accennava a finire, e ancora oggi non è del tutto finito.

Un comune e sprovveduto lettore che si avventurasse a leggere la Cronica universalis, perciò, si troverà imbandita anzitutto una storia della Creazione, che nella Genesi è uno straordinario racconto di poche, avvincenti pagine, ma che Galvano stucchevolmente dilata, fino a renderlo insopportabile, con inutili digressioni e futili commenti. Quel lettore troverà qui spiegato cosa Dio creò giornata per giornata, nella sua sostanza e nei suoi ornamenti, come fu costituito un luogo paradisiaco, come vi fu posto l’uomo, come ne fu ricavata la donna, come entrambi peccarono e furono cacciati; e di queste vicende troverà tutti i dettagli, la maggior parte dei quali estranei alla Bibbia, qualcuno di tradizione apocrifa, qualche altro inventato di sana pianta. Leggerà poi della generazione dei figli di Adamo, dell’omicidio commesso da Caino e della maledizione che colpì lui e la sua stirpe, della nascita di Seth e dei suoi discendenti, del diffondersi della perversione nel mondo, fino alla punizione divina inflitta con il diluvio; una storia che la Bibbia racconta con pochi e lineari tratti, ma che diventa qui un’avviluppata congerie di nomi in cerca di una personalità, di cui Galvano li dota immaginandoli re e cavalieri. E mescolate disordinatamente alla storia, in un incontrollato flusso di appunti, il lettore scoprirà molte altre cose che la Bibbia non dice, e che Galvano attinge alla vulgata esegetica dei suoi tempi: che gli angeli furono i primi esseri creati, e che il loro capo si ribellò e fu abbattuto, e che le schiere angeliche sono divise per ordini e per competenze, e che molti sono i luoghi paradisiaci, e che Adamo venne rapito in un’estatica visione celeste, e che i demoni si accoppiarono oscenamente con le umane e con le umane oscenamente generarono figli. Se avrà la pazienza di passare al secondo libro, poi, il lettore avrà notizia dei figli, dei nipoti, dei bisnipoti e dei trisnipoti di Noè, della diffusione dell’umanità nel mondo, della torre di Babele; ma anche della nascita degli antichi regni, in Assiria, in Egitto, in Italia, in Gallia. Un’indigeribile e disordinata, financo molesta accozzaglia di notizie storiche, mitologiche, bibliche e fantastiche, per lo più riprese da fonti stranote e quando non stranote palesemente inventate, nessuna affidabile, nessuna divertente, nessuna memorabile

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Re: LE MAPPE IMPOSSIBILI .... domande a Trystero

11/04/2023, 11:59

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un buon link :

https://www.bibliotecapleyades.net/mapa ... reis12.htm



zio ot [:305]
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