Ecco la prima parte del pezzo del libro che dicevo.
Distruzione atomica a Mohenjo - Daro
Lo studioso D. Hatcher Childress, nel suo “Ancient Indian Aircraft Technology”, sottolinea come I Veda descrivano vimana di varie forme e dimensioni: l’ahnihotra.vimana con due motori, i “vimana elefanti” con più motori, e altrimodelli chiamati con nomi di animali. L’uso di questi caccia, come abbiamo visto, nella realtà e al di là delle riletture mistiche, non fu quasi mai per fini pacifici. Interpretazione fantasose a parte, pare che di tali guerre nucleari al tempo degli dei vi siano anche delle prove tangibili. Nel 1920 gli archeologi portavano alla luce le rovine della città di Harappa, nell’India Occidentale, risalente al 2500 a.C. Un'altra città fu poco dopo scoperta a 565 km più a sud sul fiume Indo, la città di Mohenjo – Daro. Queste città facevano da centri gemelli per più di 40 cittadine e villaggi, i cui abitanti usavano le stesse misure di peso con un sistema basato sul numero 16, costruivano case con mattoni di un solo tipo, cotti sul fuoco invece di essere fatti asciugare al sole. Gli archeologi pensano perciò che la che la vegetazione fosse forte e rigogliosa, data la grande quantità di legna necessaria come combustibile per le fornaci. Le città della valle dell’Indo dovettero il loro sviluppo al commercio e all’industria resi possibile dall’abbondanza degli alimenti. Le due città erano state progettate in modo simile, le strade principali (larghe fino a 9 m), dividevano la città in settori rettangolari con l’asse di circa un km e mezzo. In entrambe le città esisteva un sistema di canali di scolo di gran lunga superiore a quello di qualsiasi città antica: gli scoli che uscivano dalle case si scaricavano in canali più grandi che correvano sotto le strade e conducevano a enormi pozzi neri. In molte case c’erano stanze da bagno e a Mohenjo – Daro c’era una piscina in mattoni, impermeabilizzata con bitume. Chi vi abitava, dunque, sembrava avesse attinto ad una cultura “superiore”. Nella Valle dell’Indo le città prosperarono per molti secoli, fino al 2000 a.C. quando l’India fu invasa da uno o pià popoli di razza sconosciuta che, su carri trainati da cavalli e scoccando frecce della punta di metallo, saccheggiarono e bruciarono le città, distruggendo così la loro cultura che scomparve definitivamente nel 1200 a.C. Mohenjo – Daro fu una metropoli in cui si sviluppò una fiorente civiltà, sorta tra il 2500 e il 2100 a.C. che fu distrutta in circostanze misteriose ed i cui resti furono portati alla luce nel 1944 da Sir Mortimer Weeler. Tra i suoi enigmi vi è la scrittura pittografica, ancora indecifrata, in cui gli studiosi hanno classificato almeno 400 segni, simili a dei rebus. In merito alla sua fine, la scienza ufficiale propone due ipotesi: la prima considera l’inondazione del fiume Indo, e la seconda adduce le invasioni dei popoli arii. Ma i segni di bruciatura sui muri della città escluderebbe gli scontri bellici preistorici umani. Lo studioso Salvatore Poma vede una stretta analogia tra la distruzione di Mohenjo – Daro e la distruzione di Sodoma e Gomorra. Innanzitutto, entrambe le regioni (la Valle dell’Indo e la pentapoli biblica nella valle di Siddim) vengono devastate e in entrambi i casi un personaggio, avvertito dell’imminente pericolo, riesce a rifugiarsi in una zona sicura. Inoltre, nelle due versioni, il provvedimento punitivo viene inflitto come conseguenza di un reato a sfondo sessuale, dove nel caso di Danda/Mohenjo – Daro la punizione vendica la violenza sessuale subita dalla figlia di Bhargava. Questa vicenda, ritenuta per secoli un episodio fantastico, un mito, ha trovato invece una conferma scientifica quando David Davenport ha rinvenuto, proprio a Mohenjo – Daro, evidenti tracce di contaminazione atomica avvenuta nel 2000 a.C., oltre ad innumerevoli oggetti vetrificati che solo un intenso calore avrebbe potuto produrre, e mura crollate sotto uno spostamento d’aria di inaudita potenza. Lo studioso Roberto Pinotti commenta: “Gli specialisti derisero Heinrich Schliemann, il commerciante tedesco che meno di un secolo fa pretese di andare alla ricerca dell’antica Troia, prendendo per buone le indicazioni dell’Iliade e dell’Odissea, che secondo gli studiosi erano un miscuglio di miti e leggende senza fondamento. Ma fu proprio quel Schliemann, il dilettante, a scoprire Troia.” Forse è proprio quell l’attegiamento giusto: condurre le ricerche avendo sott’occhi i testi antichi, e sforzarsi di prenderli sul serio anche quando appaiono inverosimili. E’ quel che hanno fatto nel 1978 uno studioso di sanscrito, David Davenport, cittadino britannico nato in India, e il giornalista italiano Ettore Vincenti, dopo la lettura del Ramayana. Poema epico e contemporaneamente testo sacrò indù, come del resto l’altro poema nazionale, il Mahabharata, un confuso racconto di guerre e di battaglie avvenute in un antichità indefinita e leggendaria lungo la Valle dell’Indo. In quest’ultimo, le armi degli dei vi sono puntualmente descritte nel quinto libro. Esso narra la cruenta battaglia fra dei e guerrieri che indossavano armature di metallo. Questi ultimi vennero percossi da un arma insolita, chiaramente in grado di diffondere radioattività, sotto l’effetto della quale presero unghie e capelli: “ogni essere vivente impallidì poiché era stato sfiorato dal soffio mortale del dio”. Commenta l’autore: “ fu una visione terrificante. I cadaveri giacevano storpiati dalla tremenda vampa e avevano perso ogni fattezza umana. Mai prima d’ora vi fu un arma cosi micidiale …”. Ulteriori informazioni ci giungono da un altro testo epico indiano, il Ramayana, che riporta: “avvolto negli abiti del cielo, Rama salì sul carro e si lanciò in una battaglia quale non era mai apparsa ad occhi umani. Dei e mortali assistettero alla lotta osservando tremanti l’attacco di Rama sul carro da guerra. Nubi di frecce oscurarono il volto splendente del firmamento. E fu buio sul campo di battaglia. I colli, le valli, l’oceano furono scossi da venti terribili; il sole impallidì. Poiché la battaglia non volgeva al termine, Rama, nella sua collera, afferrò l’arma di Brahma, colma del fuoco celeste. Era l’arma alata della luce ferale, come il fulmine del cielo. Accelerata dall’arco ricurvo, la saetta mortale precipitò trapassando il di metallo di Rama. Quando fu di nuovo silenzio, sulla pianura insanguinata piovvero fiori celesti e arpe invisibili intonarono nel cielo una musica di pace”. Nei testi Indù si parla abbondantemente di aerei. I libri sacri dicono che i vimana possono volare e li descrivono come vere e proprie macchine. Vien detto anche che al loro interno “non fa ne troppo caldo ne troppo freddo”, è impossibile non pensare alla climatizzazione dei nostri aerei. Gli increduli possono scuotere il capo. David Davenport ed Ettore Vincenti hanno fatto qualcosa di più costruttivo. Nel Ramayana (Uttara Kanda, cap. 81) si parla di un rishi (un sapiente) che, adirato contro gli abitanti di una città chiamta Lanka, da un preavviso di sette giorni; al termine dei quali promette “una calamità, che cadrà come fuoco dal cielo”. Ebbene: testo scascro alla mano, i due si sono recati in India per identificare questa Sodoma orientale. Davenport e Vincenti ritengono, per motivi linguistico – geografico, di aver identificato l’antica Lanka, nella citta di Mohenjo – Daro, centro della “civiltà di Harappa”, fiorita (e improvvisamente estinta) attorno al 200 a.C. Mohenjo – Daro, nome moderno (significa Luogo della Morte) era chiamato qualche secolo fa “Isola” (Lanka), perché era circondata da un braccio secondario del fiume Indo, oggi prosciugato. Gli scavi archeologici, condotti soprattutto dai britannici, una trentina d’anni fa, hanno messo in luce una realtà misteriosa e sconvolgente. “Gli ultimi abitanti di Mohenjo – Daro sono periti di una morte subitanea e violenta”, ha scritto l’archeologo Sir Mortimer Wheeler. Nelle macerie della città sono stati trovati 43 scheletri: si tratta di persone colte da morte istantanea mentre attendevano alle loro faccende. Una famigliola composta da padre, madre e un bambino, è stata trovata in una strada, schiacciata al suolo mentre camminva tranquillamente. “Non si tratta di sepolture regolari” ha scritto l’archeologo John Marshall, “ma probabilmente del risultato di una tragedia la cui natura esatta non sarà mai nota”. Un’incursione di nemici è esclusa, prechè i corpi non presentano ferite da arma bianca. In compenso, come ha scritto l’antropologo indiano Guha, “si trovano segni di calcinazione su alcuni degli scheletri. E’ difficile spiegare questa calcinazione…”. Tanto più che gli scheletri calcinati sembrano meglio conservati degli altri. “E’ un mistero per cui Davenport e Vincenti hanno arrischiato una spiegazione, di cui hanno reso minutamente conto in un libro che hanno scritto insieme, 2000 a.C. : Distruzione atomica.” L’antica Lanka è stata spazzata via, sostengono, da una esplosione assimilabile ad una deflagrazione nucleare, Le prove? “abbiamo individuato chiarante sul posto l’epicentro dell’esplosione”, spiga Davenport, “è una zona coperta de detriti anneriti, resti di manufatti di argilla. Abbiamo fatto esaminare alcuni di questi detriti presso l’Istituto di Mineralogia dell’Università di Roma: risulta che l’argilla è stata sottoposta ad una temperatura altissima, più di 1500 gradi, per qualche frazione di secondo. C’è stato un inizio di fusione subito interrotta. E’ escluso che un normale incendio o il calore di una fornace possano produrre questo effetto. Inoltre, le case dell’antica città sono state danneggiate con tanto minor gravità, quanto più son lontane dall’epicentro. Nei pressi dello scoppio, gli edifici, sono stati rasi al suolo. Un po’ più lontani della città le mura rimaste in piedi superano i 3 metri”. “E’ l’inequivocabile effetto di un esplosione avvenuta a qualche metro da terra. L’ipotesi che il disastro sia stato provocato da un esplosione di tipo nucleare”, dice Ettore Vincenti, “è rafforzata da una leggenda che abbiamo raccolto da un abitante del luogo. Egli ci ha raccontato che i signori del cielo, adirati con gli abitanti dell’antico regno dove ora c’è il deserto, hanno annientato la città con una luce che brillava come mille soli e che mandava il rombo di diecimila tuoni. Da allora chi si arrischia ad avventurarsi nei luoghi distrutti viene aggredito da spiriti cattivi che lo fanno morire”. David Davenport e Ettore Vincenti non si nascondono che la loro ipotesi appare del tutto inverosimile. “E’ difficile credere che una civiltà di quattomila anni or sono, capace di costruire missile, macchine volanti, e bombe atomiche, sia scomparsa senza lasciare traccia”. Una civiltà tecnologica sarebbe anche una civiltà industriale: quindi una civiltà che lascia montagne di rifiuti e di rottami. Anche fra quattromila anni i resti della nostra cultura tecnologica dovrebbero essere visibile: se non altro per la grande quantità di macerie, ruderi di cemento, spazzatura di vario genere. Niente di tutto quanto si trova nella città di Mohenjo – Daro: la quale era una città prospera ed avanzata, con pozzi disposti razionalmente ed un progredito sistema di fognature, ma certamente non inserita in un sistema tecnologico paragonabile al nostro. Le poche armi ritrovate sono lance e spade, nonc erto fucili e pistole. E allora? “si impone l’ipotesi aliena” dice Vincenti. “I signori del cielo” che distrussero l’antica Lanka erano forse esseri giunti da atrove…
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Più tardi posterò anche la seconda parte.
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