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LE CITTA' DEGLI ELOHIM

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10076

Secondo l’archeologia tradizionale ciò che viene definita civiltà ebbe inizio in Mesopotamia ed in Egitto, circa 5000 anni fa in concomitanza con l’avvento della scrittura. Scrittura che corrisponde anche al passaggio dalla preistoria alla storia.
Nell’interpretazione storiografica ufficiale, studiata sui libri di scuola e o attraverso documentari e pubblicazioni prima di questa importante scoperta, l’uomo fu in grado solo di organizzarsi in un insieme disordinato di tribù o piccoli villaggi neolitici dedicandosi prevalentemente a caccia e raccolta. L’agricoltura era sconosciuta, la scrittura era molto al di là da venire e la vita nel villaggio era estremamente semplice e si ripeteva uguale e costante da decine e decine di migliaia di anni, immutabile. Immutabile come quel gelido clima che caratterizzava le latitudini nord del pianeta durante l’ultimo periodo glaciale.
Durante l'ultima glaciazione, detta del Wurm, che iniziò 75000 anni fa e conobbe il suo acme intorno a 20000 anni fa, l'Europa era ricoperta da una coltre di ghiacci spessa 2000-3000 metri che dal polo Nord scendeva fino alla latitudine di Londra. I ghiacciai rappresentano una riserva di acqua dolce «fissata» in forma solida, che pertanto viene sottratta al normale ciclo che lega i mari all'atmosfera e ai continenti attraverso i processi di evaporazione e di precipitazione. Di con­seguenza durante le glaciazioni i mari regrediscono, mentre il contrario av­viene nei periodi postglaciali. Al culmine dell'ultima glaciazione l'abbassamento marino arrivò fino a 100 metri, tant'è che 20 000 anni fa laddove oggi troviamo lo stretto di Bering una continuità di terre collegava l'America settentrionale all' Asia.

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In Italia la pianura padana si estendeva per tutta la parte settentrionale dell' Adriatico. Le terre di Doggerland sostituivano il Mare del Nord, kilometri e kilometri quadrate di terre oggi sommerse dalle acque del mare erano a disposizione delle popolazioni umane del tempo, tra cui il mare prospiciente l’isola di Bimini, quella Yonaguni, del golfo di Khambat… e il Mar Nero era ai tempi un grande lago circondato da una enorme fertile depressione.
Durante questo lungo periodo di tempo che abbraccia un intervallo che va dai 75-100000 ai 12000 anni fa l’uomo inizia come nomade cacciatore/raccoglitore e finisce… ancora come nomade cacciatore/raccoglitore con uno sviluppo tecnologico e socio-culturale pressoché infinitesimale limitato a una migliore lavorazione della pietra di selce o di rudimentali armi per cacciare.
Poi, appunto, 12000 anni fa l’ultima glaciazione finisce, sembra anche in maniera abbastanza repentina, il clima mondiale cambia e l’uomo, che per centomila anni ha passato il suo tempo cacciando e raccogliendo ciò che la natura aveva da offrire, scopre nel giro di pochi millenni, allevamento, agricoltura, scrittura, astronomia, matematica, metallurgia, cultura, gerarchia, politica e costruisce la prime città-stato conosciute dalla storia, in Mesopotamia, nella Valle dell’Indo e in Cina.

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Come in molte altre teorie scientifiche che cercano di gettare luce sui misteri antichi dell’archeologia o dell’antropologia, osserverete anche voi che rimangono anche qui diversi dubbi e zone d’ombra. Come è possibile in primo luogo che quegli stessi uomini che hanno trascorso gli ultimi centomila anni a cacciare mandrie di animali selvatici o raccogliere frutta e bacche qua e là, giungano a raggiungere un livello tecnologico e socio-culturale tale da consentire loro la costruzione di città e di edifici che nulla hanno a che invidiare alle più moderna architettura e che anzi, in taluni casi risulterebbero impossibili anche con la nostra tecnologia.
Queste zone d’ombra sono state colmate negli ultimi anni, da altre teorie le quali considerano l’ipotesi che la nascita delle civiltà sulla Terra sia molto più antica di quanto storicamente riconosciuto.
Yuri Leveratto nel suo articolo ci ricorda che “… i sostenitori di queste teorie pensano che prima dell’evento chiamato oggi “diluvio universale”, quasi universalmente riconosciuto come un periodo di sconvolgimenti e catastrofi di portata eccezionale, che ebbero luogo dal 12.000 al 9000 a.C., e che coincisero con la fine della glaciazione di Wisconsin-Wurm, si fossero sviluppate delle civiltà anti-diluviane, in varie zone del pianeta. Queste civiltà, che forse erano in contatto tra loro per via marittima, avrebbero conosciuto l’agricoltura e avrebbero raggiunto importanti risultati nell’astronomia e nella matematica.
Alle basi della teoria delle civiltà anti-diluviane vi sono fonti scritte e ritrovamenti archeologici. Le fonti scritte sono tante, ma le più conosciute sono la “lista dei re sumeri”, la Bibbia (Genesi), i manoscritti del Mar Morto, e la Storia di Babilonia di Berosso. Tutte queste fonti narrano di re leggendari che governarono durante tempi lunghissimi. Il primo di questi re dovrebbe essere stato Alulim, re di Eridu. Secondo Berosso governò a partire da 432.000 anni prima del suo tempo…”

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Il che ci riporta direttamente ai tempi degli Anunnaki portati all’attenzione del grande pubblico grazie al lavoro di traduzione delle antiche tavolette sumere svolto da Zacharia Sitchin e dal Kramer. Ai tempi di Enki e di Enlil, al tempo in cui i primi homo sapiens compaiono sulla scena del pianeta, circa 300mila anni fa, ai tempi dei biblici Adamo ed Eva e dei loro figli Abele e Caino e la prima discendenza dei cosiddetti “uomini famosi”.
Yuri Leveratto di nuovo ci ricorda che “… vi sono poi altre fonti, come per esempio il papiro di Torino o la pietra di Palermo, dalle quali si evince che non solo nell’area mesopotamica, ma anche lungo la valle del Nilo, governarono numerosi re in tempi anti-diluviani.
Naturalmente gli storici tradizionali hanno negato la veridicità e l’accuratezza di questi testi, confinandoli nella leggenda.
Siccome durante il lunghissimo periodo glaciale (da 110 a 11 millenni or sono), il livello dei mari era più basso rispetto all’attuale fino a 160 metri (secondo alcuni climatologi fino a 200 metri), è possibile ipotizzare che probabili civiltà anti-diluviane si siano sviluppate in luoghi costieri che oggi sono completamente sommersi dalle acque marine.
Esistono delle evidenze, o resti archeologici di civiltà scomparse sotto i mari. Le più importanti sono: i muri di Bimini, le città sommerse di Canopus e Herakleion nella costa egiziana di Aboukir, i ritrovamenti archeologici nei fondali antistanti la città di Alessandria d’Egitto, le evidenze archeologiche trovate nelle coste indiane prospicenti Khambat e Bet Dwarka, e il monolito di Yonaguni, enigmatico monumento sommerso scoperto nel 1987 dal subaqueo Kihachiro Aratake.
Il monumento di Yonaguni si trova poco lontano dalle coste dell’isola di Yonaguni, facente parte delle isole Ryukyu, appartenenti al Giappone, ma relativamente vicine all’isola di Taiwan.
E’ un parallelepido di roccia lungo circa 150 metri e largo 40 metri. La sua altezza rispetto al fondale è di circa 27 metri. La cima del monumento si trova a 5 metri al di sotto del livello del mare. I ricercatori che hanno studiato il monumento, in particolare lo studioso giapponese Masaaki Kimura, sostengono che l’immensa roccia sommersa sia stata modificata dall’uomo in tempi remotissimi, per motivi cerimoniali.
In effetti si notano blocchi squadrati, rampe, scalinate, spazi destinati ad offerte votive e altre strane formazioni litiche, come la cosidetta “tartaruga”, “la piscina triangolare”, un muro divisorio di circa 10 metri di lunghezza, il “totem”, una colonna alta circa 7 metri.

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Secondo Masaaki Kimura, coloro che modificarono il monolito di Yonaguni, rendendolo molto simile a uno ziggurat mesopotamico, devono averlo fatto prima della fine dell’era glaciale, quando il livello dei mari era molto più basso rispetto ad oggi. Sempre secondo Kimura, gli artefici dell’opera potrebbero essere stati i cosidetti “uomini di Minatogawa” dei quali sono stati trovati dei resti nell’isola di Yonaguni risalenti a 18.000 anni fa (da notare che i più antichi resti umani delle isole Ryukyu furono trovati ad Okinawa e risalgono a 32.000 anni or sono).
Anche se il monolito di Yonaguni rimane per molti scettici solamente una formazione naturale, non c’è dubbio che le sue forme squadrate e regolari facciano pensare per lo meno ad un’enorme roccia modificata dall’uomo per motivi cerimoniali, come per esempio lo è Quenco, l’altare cerimoniale situato non lontano da Sacsayhuaman, presso Cusco, in Perú.
Solo ulteriori studi e scavi nelle vicinanze del monolito di Yonaguni potranno fare luce sulla sua vera natura, fino ad ora infatti non sono stati trovati resti di carbon fossile, ceramica o altri residui di occupazione umana, che possano essere sottoposti alla prova del carbonio 14, come invece accadde a Khambat, in India.
Nella descrizione del Diluvio, sia quello biblico che quello delle altre culture, la violenza e repentinità dell'inondazione furono la causa della morte della maggior parte degli esseri viventi. Si può dedurre che lo scioglimento dei ghiacci che avvinghiavano l'emisfero boreale 10000 anni fa si siano sciolti in breve tempo a causa di un evento apocalittico che innalzò le temperature di molti gradi nel circolo polare artico…”
Miliardi di miliardi di metri cubi di acqua si riversarono negli oceani creando onde anomale immense che fecero il giro del mondo spazzando via qualsiasi cosa e riversando miliardi di kilometri cubici di acqua nella vallata del Mar Nero sulle cui sponde vivevano certamente comunità umane ‘preistoriche’ (o presunti tali).
E’ abbastanza logico ritenere che sulle sponde di un lago d'acqua dolce così vasto siano fiorite diverse comunità protostoriche. Ma, appunto a un certo punto, sarebbe ceduta la diga naturale in corrispondenza dell'attuale Bosforo, che isolava il Mar Nero dal Mar Mediterraneo salato: un'immensa cascata si sarebbe riversata nel lago, il cui livello si sarebbe sollevato con estrema rapidità, sommergendo tutti gli abitati umani.
Le ricerche di Walter Pitman, geofisico del Lamont-Doherty Earth Observatory a Pasadena, confermano l’evento di una inondazione dell’area del Mar Nero come evento storico.
Solitamente quando ci riferiamo alle vicende bibliche della Genesi, le immaginiamo verificarsi in quella stessa area geografica tra la Palestina e le valli del Tigri e dell’Eufrate, ovvero dove poi si mossero le storie di Abramo, di Isacco, Giacobbe, e degli altri protagonisti della storia degli Ebrei. In realtà non vi sono elementi nel testo biblico originale che lascino intendere che quanto raccontato relativamente alle storie dei patriarchi, da Adamo a Noè, sia avvenuto davvero nell’antica mesopotamia, terra di Sumer.
Ma se invece lo scenario corretto ove collocare le storie dei patriarchi biblici fino a Noè fosse proprio la regione circostante il Mar Nero? Ciò spiegherebbe l’approdo dell’”Arca di Noè”, qualsiasi cosa fosse, sulle pendici del monte Ararat e i ritrovamenti archeologici ‘fuori dal tempo’ delle città di Gobekli Tepe e Kisiltepe.

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E’ possibile forse che l'uomo durante l'ultima Glaciazione non fosse una bestia stupida, nè scarsamente evoluta tecnologicamente. L'uomo antidiluviano possedeva invece tecnologie e strutture sociali avanzatissime ed aveva eretto imperi nelle fasce tropicali ed equatoriali del pianeta dove il clima rendeva prospera e fertile Terra. In Egitto, in Indonesia, in India ed in America Centrale (e forse anche in qualche continente, adesso, sommerso) grandi nazioni vivevano un epoca d'oro.
Molte di queste civiltà dell'epoca avevano fondato città immense dove adesso ci sono mari ed oceani. La civiltà della Valle dell'Indo è un esempio lampante. Con il diluvio il genere umano perse tutta la tecnologia e le conoscenze accumulate fino a quel momento, per vivere, nei seguenti millenni, un oscuro e lunghissimo neolitico.
Un sito archeologico al largo delle coste occidentali dell’India indica che la civiltà indiana potrebbe risalire ad addirittura 9000 anni fa, diventando di diritto una delle più antiche del mondo.

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Quasi cinquemila anni fa, la Civiltà della Valle dell’Indo viveva il suo massimo splendore. Estesa su una superficie di oltre un milione di chilometri quadrati nei territori che oggi appartengono al Pakistan, all’India nord-occidentale e all’Afghanistan orientale, fu una delle prime e più importanti culture urbane dell’antichità.
Gli scavi iniziati a partire dagli anni Venti del Novecento portarono alla luce migliaia di reperti di rotte commerciali, edifici, manufatti e un sistema di scrittura ancora da decifrare. Poi, tra i 3900 e i 3000 anni fa iniziò il suo declino, per motivi tutt’altro che chiari.
Si pensa che il progressivo diminuire delle piogge frenò lo straripamento dei fiumi. Alla lunga, la poca acqua rese impossibile coltivare la terra e spinse la popolazione a spostarsi altrove.
è questo lo scenario ricostruito da un gruppo di ricerca coordinato da Liviu Giosan della Woods Hole Oceanographic Institution, negli Usa, in uno studio pubblicato su Pnas. “Abbiamo ritenuto fosse finalmente ora di contribuire al dibattito sulla misteriosa fine di questo popolo”, afferma Giosan.
La sua équipe ha lavorato in Pakistan dal 2003 al 2008 mettendo assieme dati archeologici e geologici. Per prima cosa, i ricercatori hanno elaborato mappe digitali del territorio utilizzando foto satellitari e dati topografici collezionati dalla Shuttle Radar Topography Mission, la missione congiunta NASA-NGA (National Geospatial-Intelligence Agency) che ha permesso di mappare in tre dimensioni la superficie del globo terrestre con un livello di dettaglio mai raggiunto prima.
Poi sono passati alla raccolta e all’analisi di campioni del terreno per risalire all’origine dei sedimenti e per capire come furono modificati nel tempo dall’azione di fiumi e vento. Combinando queste informazioni con i dati archeologici, hanno infine ricostruito lo scenario che vide l’ascesa, e il declino, della civiltà.

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Il destino della popolazione di Harappa, dal nome del primo insediamento scoperto nel 1857, fu affidato ai monsoni. All’inizio, le piogge abbondanti alimentavano l’Indo e gli altri fiumi provenienti dall’Himalaya provocando inondazioni che lasciavano le pianure circostanti molto fertili.
Poi i monsoni iniziarono a diminuire, i fiumi smisero di straripare e la popolazione fu libera di costruire i suoi insediamenti lungo i corsi d’acqua, dove la fertilità del terreno rese fiorente l’agricoltura. Alla fine però, la scarsità di precipitazioni diede il colpo di grazia alle pratiche agricole e costrinse la popolazione a spostarsi verso est nella piana del Gange, dove le piogge continuavano.
Ma ciò cambiò radicalmente la cultura: le grandi città lasciarono il posto a piccole comunità agricole, segnando la fine della civiltà urbana della Valle dell’Indo.
Oltre a questo mistero, i ricercatori statunitensi credono di aver risolto anche quello del mitico Sarasvati, uno dei sette fiumi che, secondo gli antichi testi indiani Veda, attraversava la regione a ovest del Gange e veniva alimentato dai ghiacciai perenni dell’Himalaya.
Oggi si pensa che il Sarasvati corrisponda al Ghaggar, un fiume intermittente che scorre solo nella stagione monsonica per poi dissiparsi nel deserto lungo la valle di Hakra. Se ciò fosse vero, i dati geologici non confermerebbero l’origine himalayana del Sarasvati.
Sembra invece che il fiume sia stato sempre alimentato dai monsoni e che la desertificazione lo abbia infine ridotto a un corso d’acqua stagionale.
Questa scoperta è il risultato di circa otto mesi di ripresa di immagini sonar del fondo marino, dove sono state osservate strutture che somigliano a quelle costruite dall’antica civiltà Harappa.
Anche se sono stati individuati alcuni siti paleolitici risalenti a circa 20 mila anni fa nello stato indiano di Gujarata, si tratta della prima scoperta di strutture tanto antiche sotto la superficie del mare. La zona della scoperta, il golfo di Cambay, è stata oggetto di grande interesse da parte degli archeologi, per la sua vicinanza a un altro sito sottomarino, Dwarka, nel vicino golfo di Kutch.
Gli studi del nuovo sito sono però stati resi difficili dalla presenza di forti correnti di marea, con velocità fino a tre metri al secondo. Proprio per l’impossibilità di compiere vere e proprie immersioni, gli archeologi del National Institute of Ocean Technology indiano sono ricorsi alle immagini sonar.
Le immagini non mostrano solo le simmetriche strutture attribuite all’uomo, ma anche il letto di un antico fiume, sulle cui sponde fiorì la civiltà. La datazione del sito è stata fatta recuperando un frammento di legno da una delle strutture, che è risultata risalire all’anno 7600 avanti Cristo.

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Città come quelle sopraccitate a cui voglio aggiungere la misteriosa città di Caral in Sudamerica, insieme ai ritrovamenti di manufatti umani se non addirittura veri e propri edifici sottomarini, testimoniano l’esistenza di una civiltà prima della storia. è difficile dire quali siano state le prime città del mondo. La distinzione fra città e grandi villaggi spesso è sottile.
Çatalhöyük (in Turchia), per esempio, è stata considerata la prima città dell’umanità: venne abitata a partire da 7500 a.C. (quindi solo duemila anni circa dopo la fine della glaciazione di wurm) e aveva un popolazione considerevole, fra i 5000 e i 10000 abitanti anche se il prof. Douglas Baird dice che “la maggior parte degli archeologi ora lo vede più come un grande villaggio. Il mio lavoro d’indagine intorno al sito suggerisce che questo non potrebbe aver agito come un centro politico o di scambio per dei circostanti villaggi contemporanei dato che non ce ne sono nelle vicinanze”.
Altri grandi insediamenti del 5500 a.C. e del 2750 a.C. sono stati trovati in Romania e Ucraina, ma anche questi sarebbero più delle proto-città senza peculiari caratteristiche di urbanizzazione. Altri siti antichi, invece, hanno sperimentato l’urbanizzazione solo millenni dopo: Gerico, per esempio, venne abitata a partire dal 9000 a.C. (praticamente subito dopo la fine del Wurm), anche se le mura vennero costruite successivamente.
Possibile che l’uomo post-diluviano sia stato in grado in così poco tempo città così ben strutturate? E se invece avessero per così dire ‘riciclato’ edifici e città pre-diluviane già esistenti prima di Noè?
D’altronde è pur vero che esistono prove concrete, anche se bistrattate dall’archeologia ufficiale, dell’esistenza di edifici già prima dell’avvento della civiltà umana storicamente riconosciuta. La più nota è forse la “Stele dell’Inventario”. Verso la fine del XIX secolo, l'egittologo Auguste Mariette, scavando nei pressi della Grande Piramide in un tempietto detto la "Casa di Iside", ha trovato una stele che venne indicata appunto come la Stele dell'Inventario.

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La traduzione di quel documento riservò una sorpresa perché nella stele Iside veniva indicata come "la Signora della Piramide" e vi si affermava che al tempo di Cheope, una piramide, la Sfinge, il Tempio a valle della Seconda piramide ed altre strutture erano già presenti sulla piana di Giza.
Per determinare di quanto fossero già presenti ai tempi di Cheope ci viene in aiuto la geologia.
Il geologo Robert Schoch notò un'evidenza sperimentale che è sempre stata sotto gli occhi di tutti: il corpo della Sfinge e l'adiacente Tempio della valle di Chefren sono stati erosi dalla pioggia.
La famosa statua metà uomo metà leone fu scolpita approfondendo una cava nell'altopiano di Giza, che è una stratificazione sedimentaria di diversi calcari. Tutti gli edifici in pietra della civiltà egizia presentano i consueti segni dell'erosione eolica: la sabbia portata dal vento incide più profondamente le rocce più tenere, in modo uniforme.
Il risultato è uno schema orizzontale: ad esempio un fronte di roccia stratificato diventa una successione di sporgenze (roccia compatta) e incavi (roccia tenera).
I fianchi e le pareti della fossa della Sfinge sono gli unici monumenti egizi che presentano anche un modello di erosione verticale, con forme arrotondate e profondamente incise (fino a 2 m), tipico dell'azione continua di intense precipitazioni che si rovesciano a cascata giù per i fianchi.
Le osservazioni di West destano scalpore perché degli ultimi 4500 anni la Sfinge ne ha trascorsi 3000 sepolta sotto la sabbia, quindi protetta dagli agenti atmosferici usuali in un clima desertico. Invece per trovare delle piogge di intensità tale da giustificare il forte degrado del corpo, bisogna risalire al periodo pluviale che caratterizzò il Nord Africa tra il 7000 a.C. e l'11000 a.C., al termine dell'ultima glaciazione.

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Senza contare quanto riportato nella Pietra di Palermo scolpita su diorite (che ci riporta direttamente a Puma Punku), sulla Lista di Abydos, o ancora nel Papiro Regio di Torino, un documento su papiro risalente almeno alla XVII dinastia egizia o, forse, al regno di Ramesse II (1290 a.C. – 1224 a.C.), scritto in ieratico, che riporta, oltre all'elenco dei sovrani dall'unificazione dell'Alto e Basso Egitto fino al momento della compilazione, insieme al numero dei loro anni di regno una introduzione sui re semidivini del Periodo Predinastico dell'Egitto che inizia con Ptah e che prosegue con Horo (Horus) in modo molto simile allo schema presentato nella lista di sovrani sumeri vista in precedenza.
Re semidivini che regnarono in Egitto in un tempo remoto, oserei dire prediluviano. Mitologici re che regnarono prima che la storia dell’uomo avesse inizio. E su cosa regnavano se non esistevano città né un minimo di società culturalmente sviluppate? Possibile che venissero ricordati come semidei dei re o faraoni che regnarono su sparuti gruppi tribali neolitici dell’età della pietra durante la nostra preistoria?
Inoltre, se ci atteniamo alle parole della Bibbia in Genesi 4 leggiamo la nota storia di Abele e Caino, i primi due figli di Adamo ed Eva. Abele, pastore di greggi e Caino, agricoltore, che offrono a Dio i frutti delle loro fatiche il quale dio apprezzava con gradimento maggiore quelli di Abele e meno quelli di Caino.
Probabilmente Dio non era vegetariano... Ma al di là di quanto questo episodio dimostri ancora una volta la non trascendenza del dio biblico, sempre più palesemente un essere carnale, materiale, con vizi e virtù del tutto umani, torniamo alla storia di Caino e Abele.
Caino, il maggiore, non potendo riversare su Dio la sua irritazione, se la prese con il fratello e lo uccise, ma Dio lo preservò dalla vendetta degli altri uomini e Caino divenne costruttore di una città nella terra di Nod, città che chiamò con il nome del figlio, Enoc, da non confondersi con l’antenato di Noè.
E siccome Caino visse molto, ma molto tempo prima del Diluvio Universale questa città non è nient’altro che una delle città prediluviane di cui le leggende parlano quando si approcciano alle civiltà perdute governate da quegli Anunnaki, da quegli Elohim di cui i miti di tutti i popoli del mondo, di qua e di là dell’Atlantico parlano quando ricordano la meravigliosa Età dell’Oro.
Città, che nel caso di Caino, ardite teorie ritengono possa essere Tenochtitlan, uno dei più antichi stanziamenti nel centro america, che alcuni traducono proprio come 'città di Enoch' (T = genitivo + Enoch + tlan = città).
Personalmente ritengo più valida e affascinante l’idea presentata nell’estratto del seguente articolo intitolato “L'Eden riscoperto: geografia, questioni numeriche ed altre storie” di Emilio Spedicato, ove si ricorda che “… Genesi afferma che dopo l'uccisione di Abele, Caino dovette migrare verso la terra di Nod, ad est dell'Eden.
Sul suo corpo aveva un segno speciale, che fu presumibilmente trasmesso ai discendenti, i quali, nei tempi prima del diluvio, svilupparono per primi la costruzione di città, la metallurgia, e l'agricoltura.
La terra di Nod è interpretata nei testi talmudici come "la terra di vagabondaggio, di nomadismo". Ora, ad est dell'Eden, o più precisamente a nord-est, abbiamo gli immensi pascoli dell'altopiano tibetano, della Mongolia e del Xinjang. E' quindi una interessante supposizione che Caino sia entrato nel bacino del Tarim e che i suoi discendenti si spargessero attorno a questa vasta area. La maggior parte di loro diventarono allevatori di pecore, addomesticando yaks e cavalli e cammelli oltre alle pecore, altri praticarono l'agricultura, avvantaggiandosi della presenza molto probabile di un grande lago dolce nel Takla Makan e nella depressione del Lob Nor, la cui esistenza, abbiamo prima accennato, è stata scoperta assai di recente. Il fatto che questo lago fosse soggetto ad un processo di evaporazione, quindi ad una diminuzione della sua superficie, molto probabilmente si rivelò uno stimolo all'innovazione tecnologica, portando a quella civiltà avanzata di cui parla la Bibbia, le cui tracce cominciano solo ora ad apparire in quel deserto tuttora sostanzialmente inesplorato.
Se possiamo considerare i mongoli i più vicini discendenti di Caino, allora forse il "segno" dato a Caino può essere identificato con la cosiddetta macchia mongolica con la quale molti dei mongoli nascono. E' una macchia blu collocata sulla schiena, di solito alla base della colonna vertebrale, e che scompare dopo pochi mesi ma che Gengis Khan la ebbe sulla mano e la portò per tutta la vita.


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ALLA RICERCA DELLO SHAMIR

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10077

I racconti talmudici e la tradizione midrashidica ci ricordano che

"...Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re (Salomone) che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo. Questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile..."

A fronte di questo sappiamo che migliaia di buche delle dimensioni di un uomo sono state scavate nella nuda roccia vicino a Valle Pisco, Perù, su una pianura chiamata Cajamarquilla. Questi strani buchi (pare 6900), si estendono per circa 1450 mt in una banda larga approssimativamente 20 mt di terreno montuoso e irregolare e sono stati qui da così tanto tempo che le persone non hanno idea di chi li ha fatti e perché. Strano e divertente e il fatto che nessuno ha visto l’ immagine nella sua interezza, finché la superficie forata non è stata vista dal cielo.

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In alcune sezioni ci sono buchi fatti con perfetta precisione, alcuni allineamenti funzionano in curva ad arco, in alcune linee sono senza ordine alcuno. Variano nella profondità, da circa 6-7 metri a quelli che sembrano solo accennati.A tutt’oggi, nessuno ha idea del perché sono qui, chi li fece e che cosa avessero significato.

Erich von Däniken (il noto scrittore svizzero fautore della teoria del paleocontatto) studiò i fori, trovando conferme sulla loro esistenza, prima di visitarli di persona, su di un vecchio National Geographic del 1933. Naturalmente ipotizzò tracce di raggi laser, prove di perforazione per la ricerca di metalli misteriosi ed interventi extraterrestri nelle realizzazione di questa striscia di fori che avanza per centinaia di metri per poi scomparire nel nebbioso Perù andino.

Queste buche possono rappresentare la prova dell’utilizzo del prodigioso strumento chiamato Shamir in un tempo indefinito. Alcuni indizi ci permetteranno di tentare di seguire il percorso seguito da questo incredibile manufatto tecnologico la cui origine si perde nella notte dei tempi, durante l’era in cui la terra era governata dagli “dei”.

Presso il porto di Pisco c’è la selvaggia penisola di Paracas, nella provincia di Ica, luogo di grandissimo interesse naturalistico ed archeologico, a sole due ore di auto dalle famose “Linee di Nazca”. Tutta la penisola fa parte del parco naturale della Reserva Nacional de Paracas. Qui, fra i fenicotteri e i pellicani, i pinguini peruviani e le rumorose (e non proprio profumate) colonie di leoni marini, sorge uno dei più enigmatici manufatti che ci siano pervenuti dal passato: il cosiddetto “Candelabro” (o “Tridente”, in virtù della sua forma… capiremo successivamente il perché di questa puntualizzazione).

Giovanni Pelosini ci descrive con dovizia di particolari lo spettacolare e misterioso manufatto. Si tratta di un gigantesco bassorilievo evidenziato sull’arido pendio di una grande collina sabbiosa che finisce ripida sulla scogliera settentrionale della penisola, ottenuto asportando lo strato più superficiale del terreno per 50-60 centimetri.

Imbarcandosi verso le aride isole Ballestas si può osservare il geoglifo dall’oceano in un’atmosfera davvero surreale; dal mare il Candelabro appare in tutta la sua imponenza: 183 metri di altezza, più di 100 di larghezza ed un “fossato” centrale largo 5-6 metri. Occorre prima aver percorso la Carretera Panamericana da Lima verso Sud-Est, lungo la costa peruviana con la Cordigliera delle Ande a sinistra e l’Oceano Pacifico a destra per circa 250 chilometri. In queste zone, a pochi gradi di latitudine dall’Equatore, il clima è caldo ed arido per quasi tutto l’anno, con temperature medie invernali che si aggirano intorno ai 18°C. Il paesaggio appare deserto, eppure ci troviamo nei luoghi, abitati da almeno 5000 anni, che videro fiorire la grande civiltà degli Inca ed altre culture, ancora più antiche e sconosciute.

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Il mistero sull’origine e sullo scopo del manufatto è totale, non essendo chiara neanche la sua antichità. Per molti il manufatto è da porre in relazione con le vicine Linee di Nazca, spesso interpretate come segnali di antichissime “piste di atterraggio” per misteriosi mezzi volanti di origine forse aliena. In tal caso il Candelabro, orientato verso Nord-Ovest, sarebbe servito come indicatore di direzione per i mezzi spaziali.
Altri archeologi preferiscono considerarlo un simbolo antico dei Cabeza Larga, i misteriosi costruttori delle numerose camere funerarie sotterranee della necropoli di Paracas, le cui inquietanti mummie con corredo funebre si sono incredibilmente conservate fino ad oggi grazie al clima straordinariamente secco: in questo caso il Candelabro sarebbe una misteriosa testimonianza delle scomparse e poco conosciute culture sviluppatesi dalla prima metà del III millennio a.C. fino al X secolo della nostra era.

Queste popolazioni praticavano la deformazione e la trapanazione del cranio già migliaia di anni fa, non sappiamo se a scopo religioso o terapeutico, né con quali strumenti.

Per altri ricercatori e studiosi dell’insolito il Candelabro sarebbe solo il simbolo della conquista di quel territorio da parte delle forze armate dello scomparso continente Mu, all’epoca del massimo espansionismo di questo mitico impero, che già tendeva a dominare il mondo circa 17000 anni prima di Cristo. In altri termini si sarebbe trattato di una sorta di emblema militare tracciato per celebrare una vittoria o per segnalare un confine. Per i seguaci delle affermazioni di James Churchward l’attuale Perù sarebbe stato terra di conquista per le armate di Atlantide e di Mu, in guerra per ottenere il predominio del pianeta.

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Superpotenze globali in guerra tra di loro per il controllo del mondo governate da antichi dei. A supporto di questa incredibile ipotesi viene in aiuto la leggenda dei misteriosi visitatori Viracochas; leggenda che apre sempre più affascinanti scenari e contribuisce ad alimentare i misteri della zona.

Come ricordato da Piergiorgio Lepori nel suo articolo “Le Urla del Silenzio” il pantheon degli déi sud amerindi, molto vasto, si arricchisce di una figura in particolare che esula dalla morfologia delle razze pre-colombiane e anche l’alone che circonda questa divinità spicca sui canoni classici di divinizzazione.

Grazie all’opera di alcuni viaggiatori spagnoli, chierici e non, i quali si adoperarono per salvaguardare la cultura, o parte di questa - degli autoctoni contro i trent’anni orribili che seguirono l’arrivo dei conquistadores - siamo venuti a conoscenza di un fatto particolare, raccontato dagli indios stessi. Si narra di una grande civiltà, vissuta migliaia di anni prima degli Incas, fondata dai viracochas, esseri straordinari e misteriosi cui furono attribuite le linee di Nazca. Allora, come oggi, nessuno sembrò farci caso.

La capitale del regno inca era Cuzco e la sua origine leggendaria la voleva fondata da due figli del dio Sole (Inti); accanto ad Inti una divinità, sancta sanctis, era adorata: Viracocha, in inca "spuma di mare".

L’antichità di questo culto è impossibile da stabilire ad oggi, ma analisi effettuate su alcune documentazioni rivelano che il sommo dio Viracocha, preesistente alla cosmogonia incas, fu adorato da tutte le civiltà susseguitesi sul territorio nel corso della lunga storia peruviana.
Una delle peculiarità di Viracocha sta proprio, come abbiamo detto, nei suoi tratti somatici, un europoide a detta di Hancock. Un testo dell’epoca ("Relacion anonima de los costumbres antiquos de los naturales del Piru") lo descrive con fattezze similari a San Bartolomeo. La fisionomia della divinità è stata ricostruita grazie alle testimonianze raccolte sull’osservazione della statua del dio collocata nel Coricancha, l’antico tempio di Cuzco dedicato a Viracocha. Abbigliamento in tunica bianca, sandali, carnagione chiara, lunghi capelli sulle spalle...
Viracocha fu un illuminato che approdò nelle terre amerinde dopo un terribile periodo di caos; egli apparve dal mare (viracocha="spuma di mare") con portamento autoritario e grande carisma. I racconti mitologici del luogo narrano di una dottrina condita di scienza e morale "dando istruzioni agli uomini su come dovevano vivere, parlando con amore e gentilezza... amarsi a vicenda e mostrarsi caritatevoli con tutti..." (Josè de Acosta, South American Mithology).

I nomi con cui fu appellato erano molti: Huaracocha, Con Ticci, Kon Tiki, Tupaca, Taapac, Ticci Viracocha, Illa; insegnante, scultore e guaritore. De Acosta riporta un brano dei racconti precolombiani: "...dovunque passasse guariva tutti i malati e ridava la vista ai ciechi..."
Secondo un’altra leggenda, Viracocha era accompagnato dai messaggeri o "soldati fedeli", "gli illuminati" o "gli Splendenti" (hayhuaypanti); essi avevano il compito di portare il messaggio del loro signore in tutto il mondo.

Sempre Lepori ci ricorda che sul lago Titicaca, nei pressi di Tiahuanaco, Viracocha era conosciuto con il nome di Thunupa e si narra di lui che, ucciso da cospiratori, il suo corpo fu deposto su una barca che misteriosamente, senza correnti, corse sul lago fino a Cochamarca, cozzò contro la riva creando il fiume Desguardero. Il suo santo corpo fu portato dalle acque del fiume fino ad Arica.

Vi è un parallelismo con la storia di Osiride ma non è tutto.

Seppure le due storie presentino diversità palesi, vi sono dei punti comuni fondamentali che accomunano civiltà solo apparentemente diverse tra loro; e infatti entrambi i protagonisti sono civilizzatori, vittime di cospirazione, assaliti e uccisi, chiusi dentro un contenitore o imbarcazione, gettato in acqua, trascinati da corrente e giunti in mare; entrambi sono stati divinizzati.

E poi? E poi sull’isola Suriqui, vicina a Tiahuanaco, i nativi costruiscono imbarcazioni con rami di giunco totora, secondo ciò che insegna la tradizione. Le barche hanno una forma allungata, larghe al centro, strette e a punta alta sia a prora che a poppa. Il giunco viene tenuto stretto da corde intrecciate sapientemente lungo tutta la chiglia e tra i rami di totora. Queste barche sono identiche sia nella forma che nella tecnica di realizzazione a quelle egizie, su cui entrambi popoli hanno trasportato materiale destinato alla realizzazione di opera megalitiche (da Abydo in Egitto alla stessa Tihahuanaco in Perù). Gli indios sostenevano di aver ricevuto i disegni originali dalla "gente di Viracocha".

Hancock prosegue e affronta il mistero della città portuale che noi abbiamo già descritto ne "Il Killer Stellare", dove si sostiene che Tiahuanaco si trovasse sulle rive del lago Titicaca e non 90 metri al di sotto. Altre prove, di un disastro naturale avvenuto sul pianeta intorno a 15.000 anni fa, sono riportate nelle sculture presenti a Tiahuanaco stessa, dove una fauna e un’ittiofauna scomparse da tempo in realtà erano attive in quel periodo.

Nei pressi di Tiahuanaco, come abbiamo già citato in alcuni dei nostri precedenti articoli, abbiamo ulteriori indizi di un possibile uso dello Shamir e delle sue incredibili capacità sfruttate nella lavorazione della pietra: Puma Punku e le sue misteriose pietre, lavorate con una tale maestria e precisione da essere stato impossibile realizzarle con i preistorici strumenti del tempo. Di Puma Punku e dei suoi incredibili resti abbiamo già parlato in alcuni nostri precedenti articoli e principalmente nel n.14 intitolato “I blocchi H di Puma Punku”.

Ora, per meglio capire quali collegamenti ci siano tra le civiltà mesopotamiche e quelle sudamericane, vale la pena riprendere il lavoro di ricerca di Alessandro De Montis. Chi ha seguito negli ultimi anni il lavoro di Alessandro De Montis a riguardo della teoria di Sitchin sa che l'autore si è spesso occupato del contatto tra civiltà sumero-accadica e meso-sudamericana ipotizzata anche nell'ambito del Progetto Atlanticus nel periodo cosiddetto di "Rinascita".

Più volte De Montis tocca questo tema, fornendo approfondite analisi dei reperti archeologici che mostrano i segni di questo contatto, e identificando le divinità sumere Ningishzidda e Ishkur rispettivamente nelle divinità d' oltroceano Quetzalcoatl e Viracocha.

Occasionalmente, sempre De Montis, fa notare che oltre ai soliti Machu Pichu, Titicaca, Teotihuacan e siti di questa importanza, ve ne sono alcuni meno conosciuti che rivelano quanto e forse di più su questo legame tra vecchio e nuovo mondo. Il caso più importante é costituito da un pannello presente nel tempio Inca dedicato al culto del dio solare Inti, che si ritiene essere uno dei nomi tardi di Viracocha.

Ishkur/Yahweh, secondo alcune versioni figlio minore di Enlil, secondo altre figlio di Anum, era uno dei più giovani e bellicosi Anunnaki, il cui dominio comprendeva la zona dell' Anatolia, l' Armenia, e i monti del Tauro. Era rappresentato come un gigante giovane e barbuto, con in mano una scure, e spesso in piedi su un toro simbolo della fazione di suo padre Enlil.

Era spesso accompagnato nei sigilli da fulmini o tridenti.

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Il Nome ISHKUR sembra un nome composto da una particella accadica (ISH da ISHA = Signore) e una sumera (KUR = montagna) e significherebbe "Signore delle Montagne". Questo significato sarebbe ripreso in uno dei suoi epiteti, ILU.KUR.GAL (Signore della grande montagna). Secondo un' altra analisi ISH sarebbe derivante dal termine accadico SHADDU, che significa 'Montagna' e da cui deriva il nome semitico El Shaddai (Signore delle montagne) con cui veniva chiamato Yahweh in epoca Abramitica.

Ishkur é con tutta probabilità il personaggio che é servito come modello per la nascita delle figure di altri dei successivi come Zeus o lo stesso Yahweh. Come Ishkur, anche Zeus veniva raffigurato come un gigante barbuto con in mano dei fulmini. Veniva da una zona montuosa (non tutti forse sanno che il “padre degli dei" non era infatti una divinità greca autoctona) ad est, e il mito che riguarda l' uccisione di suo padre ricorda molto il mito hurrita in cui Ishkur uccide Kumarbi.

Per gli hurriti e gli ittiti era Teshub, e per le popolazioni semite occidentali era Adad. Viene menzionato anche nella Bibbia come Bal-Hadad. Nel regno di Urartu, in Armenia, era Teisheba, e in Siria era chiamato Tahunda. Tutte queste rappresentazioni lo vedono barbuto, con una scure e un tridente in mano.

I suoi attributi e la sua iconografia hanno una sconcertante coincidenza con quelli del peruviano Viracocha, Sitchin infatti sostiene che Viracocha non fosse altro che Ishkur/Yahweh, leader in medioriente di popolazioni kenite particolarmente abili nella lavorazione dei metalli e, guarda caso, anche Viracocha guidava una popolazione abilissima nella lavorazione dei metalli.

In Isaia si lascia intendere l’abbandono da parte di Yahweh del popolo ebraico lasciandolo in balia della sua arroganza:

“… Per un breve momento ti ho abbandonata (Sion)… in un impeto d’ira per un momento ho nascosto il mio volto da te…”

I capitoli 1-5 sono considerati dagli studiosi come una specie di processo che Dio, attraverso la parola del profeta, intenta nei confronti del suo popolo, in particolare nei confronti di Gerusalemme e dei suoi responsabili. In realtà in questi primi cinque capitoli si alternano accuse e condanne a motivi di speranza e di fiducia, anticipando così i contenuti fondamentali della predicazione di Isaia.

“… Dice il Signore: Cielo e terra, fate attenzione a quel che sto per dirvi! Ho cresciuto dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Ogni bue riconosce il suo padrone e ogni asino chi gli dà da mangiare: Israele, mio popolo, non comprende, non mi riconosce come suo Signore”. Guai a voi, gente malvagia, popolo carico di peccati, razza di delinquenti, figli corrotti! Avete abbandonato il Signore. Avete ripudiato il santo d’Israele, gli avete girato le spalle. Perché continuate a ribellarvi, ad accumulare punizioni su di voi? La vostra testa è malata, il vostro cuore è completamente marcio. Siete ricoperti di lividi, di ferite aperte che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. Tutta una piaga dalla testa ai piedi. La vostra terra è devastata, le città incendiate; sotto i vostri occhi gente straniera divora il raccolto dei campi; è tutta una rovina. Rimane soltanto Gerusalemme, assediata e indifesa, come una capanna in una vigna, come una baracca in un campo di cocomeri. Se il Signore, Dio dell’universo, non vi avesse lasciato qualche superstite, avremmo fatto la fine della città di Sodoma, saremmo stati distrutti come la città di Gomorra... Israele, mio popolo, non comprende, non mi riconosce come suo Signore!!!”

Il tema del processo nei confronti del popolo infedele all’Alleanza è molto comune nei profeti di questo periodo (Amos, Osea, Michea…) e di quelli successivi, fino all’esilio (Geremia, Baruc, Lamentazioni…). Dio denuncia le infedeltà del popolo (assieme all’arroganza dei capi) e si prepara ad abbandonare Israele al castigo che gli verrà inflitto prima dagli Assiri e poi dai Babilonesi.

Se prendiamo per valida l’equazione Ishkur=Yahweh=Viracocha le parole di Isaia potrebbero indicare il momento in cui l’Elohim ebraico Yahweh lascia la mesopotamia e Israele per andare in Sudamerica dove verrà ricordato con il nome di Viracocha, lasciando al tempo stesso il suo popolo senza una guida politico-militare e quindi facilmente succube dei popoli confinanti, governati dagli altri Elohim e quindi in vantaggio strategico nei confronti degli israeliti.

E’ ragionevole pensare che in questo viaggio verso il Sudamerica, Yahweh e i suoi fedelissimi si portarono dietro tutta la tecnologia in loro possesso, una tecnologia presumibilmente di origine prediluviana, di cui forse faceva parte anche il famoso Shamir portandolo lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo, oltre il grande oceano.

Esattamente là dove, secondo i racconti midrashidici e talmudici venne recuperato da Salomone, probabilmente grazie anche alla collaborazione di marinai fenici in possesso di conoscenze precise sull’esistenza di un continente oltre l’Oceano Atlantico. Conoscenze provenienti da documentazioni originarie dalla cultura sumera e precedentemente ancora da civiltà prediluviane.

Mauro Paoletti nel suo articolo “Lo Shamir, il Laser di Mosè” effettua una analisi molto approfondita e dettagliata del prodigioso strumento, partendo dalla pubblicazione del 1995 di Matest Agrest di un volumetto dal titolo "L’antico miracoloso meccanismo Shamir", indicando con tale nome uno strumento usato per tagliare e incidere pietre durissime.

Mi permetto qui di riportare un ampio stralcio del lavoro di Paoletti in quanto lo considero un elemento imprescindibile nella nostra ricerca dello Shamir.

Lo Shamir viene descritto nel Talmud (Pesachim 54°) come un "verme tagliente" e nello Zoar (74 a,b) come un "tarlo metallico divisore". Nel Talmud (Mischna Avot 5/9) si parla di una creatura di origine minerale che gli Ebrei indicano come un "verme", un "tarlo capace di forare i minerali più duri". Nella Bibbia, Geremia 17/1, viene descritto come un "diamante": "il peccato di Giuda è scritto con uno stilo (la penna usata all’epoca per incidere sulle tavolette di cera), e con una punta di diamante".

Quindi una penna di diamante; particolare importante poiché, come vedremo avanti, si prospetta l’uso di un raggio laser ricavato utilizzando proprio un diamante. Questo "verme di diamante" veniva adoperato per tagliare e forare; considerato un "attrezzo divino" veniva affidato raramente agli umani. Se ne conoscevano diverse grandezze, Salomone ne aveva scoperto uno piccolo come un chicco di grano, tutti conosciuti con il nome di "Shamir". Come specificato da Agrest, può essere stato descritto come un insetto a causa dell’errata traduzione della parola latina "insectator": tagliatore. Scambiato quindi con un "tarlo", dal momento che praticava fori come il noto animaletto.

Leggendo i testi lo studioso realizzò che lo Shamir in pratica possedeva tutte le caratteristiche del laser. Il primo antenato del laser fu ideato da T.H. Maiman solo nel 1960. Chi costruì lo Shamir 3.000 anni fa? Da chi e dove Mosè ne entrò in possesso? Secondo le notizie storiche gli Israeliti si trovavano in Egitto dopo che le piramidi erano già state costruite. Agrest, in seguito agli studi condotti sulla Bibbia e su altri testi antichi, si è convinto che Mosè avesse uno strumento capace di generare raggi laser, andato distrutto insieme al secondo tempio di Gerusalemme.

Come infatti testimonierebbe il capitolo 9 del trattato Mishnajot: "(...) quando il tempio fu distrutto, lo Shamir sparì". Sull’origine non terrestre dello strumento vi sono riferimenti chiari. Nel capitolo 5 del trattato Abot, che fa parte del Talmud babilonese, è scritto che lo Shamir fu creato nei sei giorni della creazione del mondo. Sempre nel Talmud, sotah 486, si dice che Mosè portò lo Shamir nel deserto per costruire l’Efod, il pettorale destinato ad Aaron, come stabilito nel patto col Signore cui si fa riferimento nella Bibbia - Esodo 28,9: "prenderai due pietre di onice (durissime) e inciderai su di esse i nomi degli israeliti, seguendo l’arte dell’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo". Occorre precisare che era proibito scrivere e conservare i nomi degli Israeliti con l’inchiostro, nonché usare qualsiasi attrezzo di ferro per eseguire tali lavori.

Ecco spuntare quindi lo Shamir: "In un primo tempo i nomi erano stati scritti con l’inchiostro, allora fu mostrato loro lo Shamir e furono incisi sulla pietra al posto di quelli scritti con l’inchiostro". (Talmud babilonese Sotah 48,b). Mosè per far ciò istruì due tagliatori di pietra, Bezaleel della tribù di Giuda e Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. La conferma si trova anche nella Bibbia, Esodo 36,2.

L’Efod continuò a esistere per più di mille anni dopo il tempo di Mosè, milioni di Ebrei ebbero modo di vederlo; come videro certamente i Templi di Gerusalemme costruiti senza usare utensili di ferro. "Per la costruzione del tempio si usarono pietre già squadrate altrove, così, durante i lavori, nel tempio non si udì rumore di martelli, scalpelli, picconi o di altri utensili metallici" (Bibbia I° Re 6/7 - Talmud babilonese). Come consigliarono i rabbini, Salomone certamente usò lo Shamir, che ottenne da un "guardiano del cielo", Ashmedai, al quale si attribuisce il titolo di "principe dei demoni"; indicato dal lessico giudaico, vol. IV, 1982, come Asmodai.

Sappiamo anche che l’uso di tale attrezzo non era facile, perché i testi ci raccontano che fu necessario istruire i preposti al suo impiego, come si farebbe oggi nell’esecuzione di un lavoro specializzato. Difatti il Signore dovette trasmettere "saggezza e conoscenza" negli uomini "perché fossero in grado di eseguire i lavori". è facile dedurre che si trattava di una tecnologia avanzata sconosciuta in quell’epoca. Lo Zoar 74 a,b, ci mette al corrente che lo Shamir fu in grado di spaccare e tagliare ogni cosa, tanto che non fu necessario impiegare altri attrezzi di metallo per eseguire il lavoro.

Tutto questo porterebbe una valida spiegazione ai misteri che circondano le pietre di Tiahuanaco, Puma Punku, Sacsayhuaman, Giza, ecc. Nei miti egiziani il Dio Seth tagliò le rocce ad Abuzir (casa di Osiride) con qualcosa di simile. Intorno al tempio di Sahura, ad Abuzir, vi sono infatti molte pietre di diorite che presentano fori di trivellazione spiegabili solo facendo riferimento a moderni trapani diamantati. A Tula vi sono alcune statue con arnesi chiamati "Xiuhcoatl", "serpenti di fuoco", simili a quelli che impugnano gli idoli di Kalasasaya a Tiahuanaco.

Si racconta che fossero strumenti che emettevano "raggi infuocati" capaci di perforare corpi umani. "Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul Sinai, gli diede due tavole della Testimonianza, due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio". (Esodo 31,18): lo Shamir? La Bibbia, citando Ooliab, lo indica come appartenente alla tribù di Dan. Dan è anche l’antico nome bretone del gaelico Dana e del gallese Don.

Con Llys Don, la corte di Don, si usa indicare la costellazione Cassiopea. Quindi, menzionando la Corte di Don, Dan o Dana, si indica anche la costellazione e il suo maggior pianeta, appunto Dana, dal quale giunsero i Tuatha de Danann, 5.000 anni fa per rimettere ordine sulla Terra, come narrano le saghe irlandesi e celtiche. Il dottor John Kenny, del dipartimento di fisica e astronomia dell’università di Bradley (Peoria, U.S.A.), ha accertato che i Tuatha erano i figli di Anu, Dio sumero, assimilato al pianeta Nettuno, uno dei protagonisti principali dell’Epica della Creazione.

Il misterioso Shamir scomparve, insieme alla menorah, all'Arca dell'Alleanza e chissà cos'altro, nella distruzione del Tempio di Salomone avvenuta nel 597 a.C. ad opera del sovrano babilonese e non se ne seppe più nulla.

Sappiamo però che gli arredi sacri del tempio, al termine dell'esilio babilonese, furono restituiti agli ebrei da Ciro il Grande. Nel 538 a.C. Ciro emanò un editto che consentiva agli ebrei non solo di fare ritorno in patria, ma di ricostruire il tempio di Gerusalemme. In questo modo il sovrano ottenne anche il controllo dell'area fenicio-palestinese. Non sappiamo se lo Shamir ritornò in patria al seguito degli esuli ebrei. In verità potrebbe essere stato trattenuto alla corte del re persiano o peggio ancora essere andato irrimediabilmente distrutto e quindi perduto per sempre.

Ma a noi piace pensare che la storia dello Shamir sia proseguita nei secoli successivi, rimasto celato per anni e infine riscoperto durante il periodo delle crociate, da un manipolo di soldati, di cavalieri, partiti dall’Europa per liberare il Santo Sepolcro, e quindi venuti a contatto con gli ambienti esoterici, gnostici, manichei del vicino oriente custodi di un antico sapere: i Templari.

I Templari, che tornati in Europa divennero in breve tempo estremamente ricchi e potenti, fino alla loro persecuzione e sterminio da cui avrebbero avuto origine implicazioni socio-politiche che determineranno profondi mutamenti nella vita medioevale e che ancora oggi influenzano la società contemporanea.

I Templari che portarono in Europa quelle conoscenza perdute ritrovate tra le rovine del Tempio di Salomone e approfondite con gli intensi contatti con le sette esoteriche della regione mediorientale anche appartenenti ai nemici giurati musulmani.

I Templari che forse, dopo l’annientamento ad opera di Filippo il Bello, alcuni teorizzano riuscirono a raggiungere il nordamerica, secoli prima di Cristoforo Colombo, proprio in virtù di quelle stesse mappe che il marinaio genovese utilizzerà nel XV secolo per supportare la propria spedizione nell’Atlantico.

Quando la notte del venerdì 13 ottobre 1307 la maggior parte dei Templari furono arrestati in Francia, si dice che dal porto di La Rochelle una nave salpò carica dell’oro prelevato dalla Tesoreria di Parigi, lo stesso che Filippo il Bello tanto aveva bramato per se stesso. Queste ricchezze erano state accumulate dal Tempio in due secoli di attività non solo come cavalieri crociati ma come primi banchieri del mondo.

Di questo tesoro non si seppe mai nulla; alcuni sostengono che le navi partite approdarono in Scozia, dove la famiglia Sinclair accolse con favore i Templari rifugiati, ma che il tesoro non avrebbe potuto restare in quelle terre. Cosi lo trasferirono sull’isola di Nuova Scozia, terra all’epoca sconosciuta secondo la storia ufficiale. Ma anche se il mondo accademico non lo ammette, è oramai piuttosto evidente che le Americhe furono scoperte molto prima di Cristoforo Colombo. Il caso vuole che una delle isole vicino alla Nuova Scozia sia l’Isola della Maddalena, santa veneratissima dei Templari. Strana coincidenza.

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Il pozzo di Oak Island quindi potrebbe essere il nascondiglio segreto di questo tesoro di cui si sono perse le tracce sin dal lontano 1300.
Un tesoro che alcuni collegano alla massoneria. La massoneria, società segreta fondata nel 1717 a Londra su principi come l'uguaglianza sociale, la libertà di pensiero ed ispirata agli ideali illuministici, compie fondamentali riferimenti al Tempio di Salomone e talvolta ad un presunto tesoro nascosto sotto la sacra struttura.

La leggenda fa addirittura risalire la nascita della Massoneria all’epoca della costruzione dello stesso Tempio di Salomone nella persona di Hiram Abif. Una di queste leggende parla di una cripta segreta, nella quale Salomone avrebbe fatto custodire delle preziose reliquie come l’Arca dell’Alleanza, anche essa scomparsa nel nulla. Molti scrittori fanno riferimento a questa stanza segreta, tra cui il “padre” di Sherlock Holmes , Sir Arthur Conan Doyle, Massone dichiarato. In alcuni racconti egli cita la cripta segreta dando una descrizione molto simile a quello del pozzo di Oak Island. Si dice che sulla quercia accanto al pozzo furono ritrovate delle iscrizioni molto simili a simboli massonici.

A conferma di questa teoria si narra che negli ultimi anni, il proprietario di buona parte dell'isola, dopo alcune ricerche, abbia individuato 4 pietre di forma conica in diverse aree del territorio; ricongiungendo questi punti su una mappa tramite una retta, sembrano formare una croce.
Forse il pozzo di Oak Island non contiene realmente il Santo Graal o l’Arca dell’Alleanza come molti ipotizzano, ma un altrettanto incredibile reperto, la cui scoperta probabilmente permetterebbe di fornire molte risposte ai nostri enigmi.


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MARTE: STORIA DI UN REMOTO ESODO

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10084

Marte ha da sempre suscitato curiosità e stimolato la fantasia di molti di noi. Fin dai tempi delle prime osservazioni astronomiche del 1600 chi si è approcciato all’osservazione del pianeta rosso non ha potuto fare a meno di sentire una certa “famigliarità” con esso… un legame.
Il primo ad osservare Marte al telescopio fu Galileo nel 1610. In quell'anno Marte fu all'opposizione il 19 ottobre nella costellazione dei Pesci con una magnitudine di -2,5. Il rudimentale strumento di Galileo mostrò un piccolo disco senza dettagli, tuttavia Galileo scoprì che Marte non era perfettamente circolare ma presentava il fenomeno delle fasi.
La scoperta della fase di Marte fu un'ulteriore prova per il modello eliocentrico di Copernico. Fu solo il 28 novembre del 1659 che, grazie alla migliore qualità dei telescopi, Christian Huygens (1629 - 1695) riuscì per primo a scorgere qualche dettaglio sulla superficie di Marte. Le prime scoperte importanti su Marte furono compiute da Gian Domenico Cassini (1625 - 1712) che nel 1666 determinò il periodo di rotazione di Marte in 24 ore e 40 minuti (3 minuti superiore al valore vero) e scoprì le bianche calotte polari del pianeta: un punto in comune con la Terra.
Nel 1726 il prete anglicano Jonathan Swift (1667 - 1745) pubblica "I viaggi di Gulliver". In questo libro di satira del sistema di vita dell'Inghilterra del Settecento, Swift cita la presenza attorno a Marte di due satelliti scoperti dagli astronomi della immaginaria isola volante di Laputa e la descrizione qualitativa che ne dà non si discosta troppo dal vero, anche se Deimos e Phobos, le due lune di Marte, vennero scoperti solo nel 1877 quindi più di un secolo dopo.
“… Hanno pure scoperto [gli scienziati di Laputa, nda] due stelle minori, o satelliti, che girano intorno a Marte, dei quali il più vicino dista dal centro del pianeta principale 3 volte il suo diametro, e il più lontano 5); il primo compie il suo giro in 10 ore, il secondo in 21,5…”
Questo a meno che Swift, il massone Swift, non fosse in possesso di qualche conoscenza proibita! Ma non è questo il tema di oggi.
Fino a non molto tempo fa l’idea presentata dalla scienza e dalle agenzie astronomiche come la NASA e la ESA era quella di un pianeta sfortunato, situato sì all’interno della cosiddetta zona “abitabile” (o CHZ) e pertanto potenzialmente adatto a supportare la vita, ma che non aveva mai avuto la ‘fortuna’ di possedere quelle condizioni ambientali necessarie allo sviluppo della stessa.

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Stima della zona abitabile del sistema solare (fonte Wikipedia)

La mancanza di un’atmosfera, di un campo magnetico come quello terrestre, l’assenza di acqua allo stato liquido inducono a pensare a un pianeta deserto, un enorme globo morto composto da roccia e polvere orbitante alla propria stella.
E questo, nonostante altre caratteristiche che rendono Marte molto simile al nostro pianeta. Pur presentando un'atmosfera molto rarefatta e temperature medie superficiali piuttosto basse (tra #8722;140 °C e 20 °C) il pianeta è il più simile alla Terra tra quelli del sistema solare: le sue dimensioni sono intermedie fra quelle del nostro pianeta e della Luna (il diametro è circa la metà di quello della Terra e la massa poco più di un decimo) presenta inclinazione dell'asse di rotazione e durata del giorno simili a quelle terrestri.
Nulla di più sbagliato!
è stato definitivamente provato e pubblicato su diverse riviste scientifiche che è presente anche metano nell'atmosfera marziana e in certe zone anche in grandi quantità; la concentrazione media si aggirerebbe comunque sulle 10 ppb per unità di volume. Dato che il metano è un gas instabile che viene scomposto dalla radiazione ultravioletta solitamente in un periodo di 340 anni nelle condizioni atmosferiche marziane, la sua presenza indica l'esistenza di una fonte relativamente recente del gas.
Una delle possibili cause della presenza di Metano nell’atmosfera marziana, oltre all’attività vulcanica o all’impatto con una cometa è la presenza di forme di vita microbiche generanti metano.
Dopo ipotesi, congetture e smentite la scienza sembra aver raggiunto dati conclusivi. Analizzando i dati inviati dalle sonde e dai rover inviati sulla superficie si è ormai giunti alla conclusione che sul pianeta rosso c’era tanta acqua liquida, con laghi che 3,6 miliardi di anni fa erano alimentati da fiumi che scorrevano in superficie e, con essa, tutti gli ingredienti necessari alla vita. La storia più antica di Marte “è scritta nelle sue rocce”, osservano i ricercatori che hanno studiato i dati raccolti dal robot-laboratorio Curiosity, inviato su Marte dalla Nasa con la missione Mars Science Laboratory (Msl) e arrivato sul suolo marziano il 6 agosto 2012. I risultati del loro lavoro, pubblicati in sei articoli su Science, descrivono un Marte antichissimo e inedito, molto diverso dal pianeta rosso e arido che conosciamo oggi.
Presentati anche in una conferenza stampa nell’ambito del convegno dell’Unione Geologica Americana in corso a San Francisco, i dati non forniscono prove dirette dell’esistenza di forme di vita marziana, ma è la prima volta che su Marte vengono individuati tutti gli elementi indispensabili alla vita, almeno a quella che conosciamo sulla Terra. C’erano quindi, secondo i ricercatori, tutti gli elementi necessari per l’esistenza di procarioti, ossia microrganismi unicellulari come quelli che si ritiene abbiano popolato per primi la Terra.
Curiosity ha trovato gli ingredienti della vita nel cratere Gale. Curiosity li ha individuati nel cratere Gale, il cratere dal diametro di 150 chilometri nel quale era atterrata, nelle rocce sedimentarie della zona chiamata Yellowknife Bay, vicino l’Equatore marziano.
Dove per un lunghissimo periodo (decine di migliaia di anni, ma forse anche per centinaia di migliaia di anni) c’è stato un lago, sono stati scoperti carbonio, idrogeno, zolfo, azoto e fosforo. La presenza di questi elementi, con l’acqua del lago che occupava il cratere Gale, faceva di Marte “un ambiente abitabile”, come lo hanno definito i ricercatori, e capace di ospitare microrganismi chemiolitoautotrofi, capaci cioè di ottenere da rocce e minerali l’energia della quale avevano bisogno per vivere. Sulla Terra batteri simili vivono all’interno di grotte e nelle sorgenti idrotermali. “L’acqua è la condizione senza la quale non potrebbe esistere la vita come la conosciamo, ma da sola non basta perchè ci sia un ambiente favorevole alla vita”, osserva John Grotzinger, del California Institute of Technology (Caltech), coordinatore di una delle sei ricerche. Oltre all’acqua, prosegue “serve una fonte di energia che alimenti il metabolismo dei microrganismi, come carbonio, idrogeno, zolfo, azoto e fosforo”.
Ora si sa che su Marte questi elementi c’erano e questo, per Grotzinger, suggerisce che “nei primissimi miliardi di anni della sua storia la superficie di Marte fosse notevolmente diversa da quella attuale”. Adesso, aggiunge il ricercatore su Science, “siamo in grado di dimostrare che il cratere Gale una volta ospitava un antico lago con caratteristiche adeguate a supportare una biosfera marziana basata su chemiolitoautotrofi”.
Ma ancora più affascinante è ciò che andiamo a leggere di seguito e riportato sul sito “Il Navigatore Curioso” (si veda link in fondo all’articolo) nel quale viene affrontata l’ipotesi di una grande catastrofe capace di spazzare via l’atmosfera marziana rendendolo pertanto inadatto a confermare la vita sulla sua superficie.

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Foto della superficie marziana
Si veda all’orizzonte la sottile atmosfera

Tra le ipotesi avanzate dai ricercatori sulla scomparsa dell’atmosfera di Marte, c’è ne una che parte da una curiosa anomalia della superficie del pianeta rosso. La crosta marziana, infatti, sembra essere divisa all’equatore in due zone morfologicamente molto diverse, perfettamente distinte e nettamente separate: i basso-piani dell’emisfero settentrionale relativamente lisci e senza crateri, la maggior parte dei quali giace ad almeno 1000 metri sotto il livello dato e gli altopiani dell’emisfero meridionale, massicciamente craterizzati, che in gran parte si innalzano a più di 2 mila metri sopra il livello dato. “ La linea di divisione che separa queste due zone elevate descrive un grande cerchio inclinato approssimativamente a 35 gradi rispetto all’equatore marziano”, spiega il geologo Peter Cattermole.
Le eccezioni principali alla topografia del liscio emisfero settentrionale sono il rigonfiamento del monte Elysium, di Tharsis, il quale scavalca la linea di divisione. Invece, le eccezioni principali alla topografia dell’emisfero meridionale sono alcune parti delle Valles Marineris e due notevoli crateri, Argyre e Hellas, formati da impatti con comete o asteroidi. Argyre è profondo 3 chilometri e ha un diametro di 630 chilometri. Hellas è profondo 5 chilometri e ha un diametro di circa 2 mila chilometri.
Questi crateri, insieme a un terzo, Isidis, sono i più larghi esistenti su Marte. Ma il pianeta possiede innumerevoli altri crateri con un diametro di 30 o più chilometri, molti dei quali, compreso uno al polo sud, sono mostruosamente grandi: superano infatti i 200 chilometri di diametro. Nel complesso, oltre a decine di migliaia di crateri più piccoli con il diametro che misura al massimo un chilometro, su Marte sono stati contati 3305 crateri larghi più di 30 chilometri.
E’ difficile spiegare perché 3068 di essi, cioè il 93 per cento, si trovi a sud della linea di divisione; soltanto 237 crateri di questa ampiezza sono stati trovati a nord della linea di divisione. Ugualmente curioso è il fatto che l’emisfero senza crateri sia tanto meno elevato (è infatti più basso di parecchie migliaia di metri) rispetto alla parte craterizzata.
La causa di questa divisione bassopiano-altopiano, come osserva il geologo Ronald Greely, “rimane uno dei principali problemi irrisolti di Marte”. L’unica certezza è che a un certo punto della sua storia il pianeta fu afflitto da un cataclisma di dimensioni quasi inimmaginabili.

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L’ipotesi avanzata dai ricercatori è che un corpo celeste di considerevoli dimensioni, forse una grande cometa o un planetoide vagante, possa aver impattato il pianeta rosso nella zona settentrionale, sventrando la crosta marziana e formando un oceano di lava fluida grande quanto l’intero emisfero nord. L’immenso impatto avrebbe spinto il materiale magmatico verso l’emisfero meridionale, causandone l’innalzamento delle crosta e le notevoli catene montuose. Il raffreddamento dell’oceano di magma nell’emisfero settentrionale giustificherebbe la relativa superficie liscia e la maggiore depressione rispetto all’emisfero meridionale.
Da segni inconfondibili si deduce che molti dei crateri più grandi e profondi di Marte nel raggio di oltre 30 chilometri si sono formati quando il pianeta aveva un ambiente umido e caldo. Hellas, Isidis e Argyre in particolare hanno margini bassi e indistinti e il fondo piatto: queste caratteristiche, secondo molti autorevoli scienziati, dimostrano che la loro formazione risale a quando Marte aveva ancora un’atmosfera densa, era soggetto a una rapida erosione e possedeva un campo magnetico più forte rispetto ad oggi. Allo stesso modo sulla Terra crateri di grandi dimensioni scavati dall’erosione possono integrarsi nel paesaggio in un periodo di alcune centinaia di anni al punto da diventare praticamente irriconoscibili dall’ambiente circostante.

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L’ipotesi è quindi che l’atmosfera sia stata spazzata via dall’immenso impatto con il corpo celeste. Dal momento che la forza di gravità su Marte è molto debole, è più facile per la nube di detriti che si espande da un impatto, distruggere tutta l’atmosfera del pianeta.
Infine, uno degli aspetti più sconcertanti della geologia di Marte è il ruolo che l’acqua ha giocato nell’evoluzione del pianeta, mostrando i segni di un’inondazione catastrofica che diede forma alle sue pareti lisce e scavò anche caverne sotterranee profonde molte centinaia di metri, incidendo isole affusolate a forma di goccia, lunghe da un’estremità all’altra fino a 100 chilometri.

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L’inondazione procedeva molto velocemente: così rapidamente da fornire punte di portata di milioni di metri cubi al secondo. Neppure l’atmosfera densa della Terra può fornire acqua così velocemente da causare simili portate di dimensioni analoghe. Soltanto i crolli delle dighe hanno causato flussi di macro-erosione significativi. Si è calcolato che il volume di acqua necessario a tagliare i canali doveva essere enorme. Peter Cattermole ritiene che sia stato pari allo spostamento di un oceano globale profondo più di 50 metri.
Un’altra grande inondazione avvenne nella Ares Vallis. Le fotografie inviate dal modulo d’atterraggio Pathfinder della NASA nel luglio del 1997 mostrano che, un tempo, questo immenso canale era colmo di acqua per chilometri e chilometri. “Deve esser stato imponente. Paragonabile al diluvio che riempì il bacino del Mediterraneo sulla Terra”, ebbe a dire Michael Malin, scienziato ideatore del Pathfinder.

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Ma la cosa più sconvolgente è leggere quando questi scienziati collocano il momento in cui è avvenuto tutto ciò.
In Gran Bretagna, Colin Pillinger e il suo studio sui meteoriti di Marte dimostrerebbe che l’acqua allo stato liquido, e una qualche forma di vita primitiva, possano essere esistite sul Pianeta Rosso fino a 500/600 mila anni fa. Altri ricercatori, propendono per una datazione ancora più recente: un grande cataclisma avrebbe colpito Marte privandolo violentemente della sua atmosfera e dell’acqua meno di 17 mila anni fa!
La superficie di Marte è un misterioso puzzle. Tra i suoi strati è scritta la storia della morte di un mondo. Può essere che non ci si debba inoltrare in un passato risalente a miliardi di anni fa e il destino che gravò su Marte, forse, non lasciò completamente indenne neppure la Terra considerato il fatto che il periodo citato da Colin Pillinger riporta automaticamente alla mente quanto descritto in noti miti sumeri quali l’Enuma Elish
Esso rappresenta il più antico testo scritto documentato sulla creazione, in lingua babilonese e derivante da una versione originale sumera ancora più antica. I protagonisti sono gli dei che, attraverso battaglie e divine alleanze, donano all'opera una struttura epica e avvincente, con tanto di ribellioni, uccisioni e trionfi.
I sumeri volevano descrivere la creazione di tutte le cose in chiave "mitologica", ma nello stesso tempo conoscevano perfettamente il Sistema Solare e la sua origine. Anzi, conoscevano qualcosa che oggi noi stentiamo a credere: la presenza di un pianeta chiamato Nibiru. L'Enuma Elish riesce a conformare le vicende degli dei e le loro battaglie rispettivamente alla fisica dei corpi celesti e alle loro collisioni, tanto per fare un esempio.
I nomi degli dei sono attribuibili ai nomi dei pianeti; le azioni degli dei, le loro decisioni, le loro alleanze, le uccisioni coincidono incredibilmente con i moti dei corpi celesti, con le attrazioni reciproche dovute alle forze di gravità, con le loro orbite, con le loro inevitabili collisioni.

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Inizialmente il Sistema Solare era instabile e caotico, dove le orbite dei pianeti non erano ancora stabilmente definite. Questa diventava la premessa per l'inizio della battaglia celeste: la continua instabilità dei pianeti (gli dei celesti) provocò turbamento a Tiamat e lo spinse a formare la sua terribile "schiera", formata dai suoi satelliti (i "draghi ruggenti, ammantati di terrore"). Tale situazione, generando ulteriore pericolo e disordine, spinse Ea/Nettuno, il pianeta più esterno, a riequilibrare il Sistema Solare e inviarvi un pianeta (“un dio celeste più grande”) che veniva da lontano. Era un pianeta pieno di splendore, di nome Nibiru (Marduk per i babilonesi), coinvolto direttamente nella battaglia celeste che descrive il testo: a causa del senso orario di rotazione della sua orbita, opposto a quello di tutti gli altri pianeti, Nibiru/Marduk sarà destinato a collidere inevitabilmente con Tiamat.
Due erano quindi i fronti opposti coinvolti: Tiamat, con i suoi ruggenti satelliti e Marduk/Nibiru con l'appoggio dei pianeti più esterni, quali Ea, Anshar, Lahmu, Lahamu e Kishar.

“… Tutto era pronto, la battaglia celeste tra Tiamat e Marduk stava per avere inizio. Il Signore distese la sua rete per intrappolarla, le scagliò in faccia il Vento del Male, che gli stava dietro. Quando Tiamat aprì la bocca per divorarlo, le scatenò contro il Vento del Male, così che lei non riuscì a richiudere le labbra…”

Lo scontro fra i due pianeti avvenne in due fasi ben distinte.
Prima fase: Marduk attacca Tiamat con i suoi venti (satelliti), "spezzandole il cuore" e "spegnendo il suo soffio vitale". Kingu, pronto a diventare un pianeta a tutti gli effetti, viene condannato ad essere un Dug.ga.e ("circolatore senza vita", quindi senza atmosfera),
Seconda fase: completata la prima orbita e quindi la prima fase, Marduk ritorna da Tiamat ormai "sottomesso" ed entra in collisione diretta, aprendola in due. Secondo l’interpretazione di Sitchin la metà superiore (il "cranio") di Tiamat diventerà il nostro pianeta Terra, mentre la parte inferiore viene ridotta in frantumi che, legati tra loro come un bracciale, andranno a formare la fascia degli asteroidi (il “bracciale martellato”).

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Ma se invece la dettagliata descrizione offertaci dall’Enuma Elish raccontasse dello scontro planetario occorso al pianeta rosso centinaia di migliaia di anni fa?!
Se così fosse quanto descritto sempre dal Sitchin relativamente all’arrivo degli Anunnaki sulla Terra assumerebbe un significato diverso e, se possibile, ancora più affascinante. Già, perché sempre Sitchin racconta di come costoro giunsero sulla Terra giustappunto tra 500/450mila anni fa, ovvero nello stesso periodo (con uno scarto di qualche decina di migliaia di anni) in cui Pillinger colloca lo scontro planetario che uccise Marte.
Le diverse teorie su Marte, su Nibiru, su Tiamat, sugli Anunnaki si fondono e si mescolano insieme facendo emergere una ipotesi leggermente diversa da quella presentataci nei numerosi testi della mitologia sumera tradotti da Sitchin. Una ipotesi che vede gli Anunnaki forse autoctoni di Marte!
Possiamo allora avere un’idea di Marte completamente diversa, ovvero quella di un pianeta che centinaia di migliaia di anni fa era molto, molto, più simile alla Terra di quanto non avevamo mai immaginato prima d’ora. Se infatti ormai abbiamo compreso di come Marte fosse stato un pianeta la cui superficie era solcata da fiumi e bagnata da oceani e dove il clima era caratterizzato da stagioni simili a quelle terrestri cosa ci vieta di immaginare la presenza di un ecosistema ricco di vita, nello stesso modo in cui questo si è realizzato sulla Terra in centinaia di milioni, anzi miliardi, di anni? Questo almeno fino al cataclisma planetario ipotizzato da Pillinger.
E allora, Marte potrebbe avere offerto i natali a esseri viventi senzienti e intelligenti, in grado di popolare e civilizzare il pianeta: gli Anunnaki di Sitchin, ‘sfrattati’ per così dire, dall’arrivo di Nibiru e dalla distruzione della loro ‘casa’ costringendoli a emigrare, salvando il salvabile, verso il pianeta più prossimo al loro che, fortunatamente per loro, era anch’esso un pianeta ‘vivo’: la Terra!
Una ipotesi non del tutto assurda se andiamo ad approfondire i numerosi interrogativi ancora aperti sulla questione marziana. Uno dei maggiori planetografi internazionali è Ennio Piccaluga. Nel suo libro “Ossimoro Marte” l’ingegner Piccaluga ha utilizzato un efficace sistema per analizzare attentamente le innumerevoli foto della superficie di Marte contenute negli archivi della NASA e ha osservato come sul pianeta rosso ci siano tracce di opere costruite da esseri intelligenti. Tra queste, in particolare, ci sono dei veri e propri ziggurat che ricordano le piramidi a gradoni dei Sumeri. Ciò avvalora quanto dicono le tavolette sumere, e cioè che gli Anunnaki avrebbero colonizzato in passato sia la Terra che Marte!
Riguardo alla dibattuta Faccia di Cydonia, - la famosa formazione montuosa con le sembianze di un volto umano, ripresa per la prima volta nel 1976 dalla sonda Viking 1 -, secondo Piccaluga potrebbe essere la rappresentazione del sovrano annunako Alalu come del resto una delle tavolette sumere dice:
“Sulla grande montagna rocciosa scolpirono con i raggi l’immagine di Alalu… Che l’effigie di Alalu guardi per sempre verso Nibiru dove regnò e verso la Terra il cui oro egli ha scoperto”
Tornando alla presenza degli ziggurat su Marte, dobbiamo ricordare anche un singolare evento del 1983. All’epoca un certo Joseph McMoneagle era un remote viewer dell’esercito americano, cioè una di quelle persone con doti di veggenza che venivano utilizzate per vedere obiettivi nemici o di varia natura. Nella seduta che prendiamo in considerazione alcuni membri della Nasa fornirono a McMoneagle delle coordinate di cui avrebbe dovuto visualizzare il luogo esatto.
Questi visualizzò una piramide la cui altezza superava il chilometro e mezzo e ne descrisse accuratamente corridoi e stanze, che, tuttavia, sapeva non essere presenti nelle piramidi egizie. McMoneagle aggiunse che questa piramide era stata costruita da umanoidi vissuti in quel luogo centinaia di migliaia di anni prima.
Lui stesso rimase stupito quando gli fu riferito che le coordinate che gli erano state fornite non erano di un luogo sulla Terra, ma proprio su Marte! Circa cinque mesi dopo gli fu comunicato che la seguente missione su Marte sarebbe stata fatta verso i siti di quelle coordinate.

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Gli Ziggurat su Marte e la famosa “faccia” osservata nella vallata di Cydonia

La Nasa non è certo all’oscuro delle teorie sugli Anunnaki e del contenuto delle tavolette sumere.
Qualche decennio prima degli studi di Sitchin, infatti, il grande astrofisico Carl Sagan - una delle massime autorità a livello mondiale – aveva scritto vari articoli in cui faceva notare come alcune tavolette sumere rappresentassero il nostro sistema solare con i pianeti Plutone e Nettuno, - che noi, lo ricordiamo, abbiamo scoperto recentemente - , più un altro sconosciuto pianeta. Sagan si chiedeva se quello fosse il pianeta dal quale fossero scesi gli antichi dei di cui ci parlano tutte le mitologie antiche.
Ebbene, nel disco fonografico contenuto nelle sonde NASA Voyager 1 e 2, lanciate nel 1977 verso lo spazio alla ricerca di un contatto con civiltà extraterrestri, oltre a immagini e suoni terrestri, sono incisi saluti in 55 lingue diverse. Sono tutte lingue attualmente parlate nel mondo tranne una, quella scelta per il primo saluto, che è proprio il sumero. A scegliere questa lingua fu proprio il dottor Carl Sagan, che all’epoca guidava il team NASA.

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Tornando a Cydonia Pier Giorgi Lepori ci offre una interessante disamina nel suo articolo “Cydonia – non di questo mondo” dove si descrivono gli approfondimenti di Richard Hoagland, un giornalista scientifico statunitense affascinato dalle ricerche portate da Vincent Di Pietro e Gregory Molenaar, ovvero i due specialisti informatici che nel 1980 adottarono le allora tecniche più raffinate per definire l'immagine dell'Orbiter trasmessa alla NASA, con la sigla 35A72, raffigurante il volto marziano. I due tecnici scoprirono oltretutto sei piramidi con spigoli e angoli simmetrici.
Hoagland, studioso di scienze naturali, direttore del planetario di West Hartford e dell'Hayden di New York, redattore capo della rivista "Star & Sky" nonché consulente del centro di volo spaziale Goddard della NASA, iniziò uno studio approfondito sulla questione.
Era stato lui, insieme ad Eric Burgess, ad ideare il primo messaggio interstellare ovvero una targa, applicata alla carlinga del Pioneer 10, raffigurante il nostro sistema solare, la posizione terrestre, un uomo e una donna e lo chassid stesso del Pioneer.

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Secondo lo studioso il complesso architettonico, gigantesco, di Cydonia era stato realizzato ed orientato 500.000 anni fa in direzione del sol nascente durante il solstizio d'estate del pianeta rosso. La "città di Marte" avrebbe dovuto obbedire alle regole della geometria sacra che ritroviamo in molti siti santuario del nostro pianeta. Ciò che rimaneva era solamente una parte di questo immenso progetto architettonico concepito dagli allora abitanti di Marte.
Un fatto curioso è la datazione stabilita dai Sumeri in relazione all'arrivo degli dèi sulla terra e della fondazione della colonia su Gaia (Eridu, la terra tra i due fiumi): 480.000 anni fa.

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Forse Cydonia fu una delle città degli Anunnaki, prima che venissero costretti a emigrare verso la Terra portando con essi quelle tecnologie, quei saperi e quelle conoscenze geometriche ed architettoniche che poi insegnarono all’umanità centinaia di migliaia di anni dopo?
Per Hoagland non era però il viso la parte fondamentale dell'intero schema bensì la piramide a 5 lati chiamata "D&M" in onore dei due tecnici NASA scopritori. Hoagland era convinto che la disposizione dei presunti monumenti non fosse casuale e il codice di Cydonia fu interpretato per la prima volta da Erol Turon, della divisione di Cartografia del Ministero della Difesa degli Stati Uniti: la struttura piramidale, enorme (1,5x2,2 km alta 1.000 m) ha la forma della "sezione aurea" di Leonardo da Vinci.
Turon scoprì anche che l'angolo, la distanza e le costanti matematiche della piramide sono gli stessi che s'incontrano in tutto il complesso; le costanti si ottengono dal rapporto esistente tra epsilon e pi greco: il quoziente che ne risulta è 0,865; tale valore esprime una funzione trigonometrica corrispondente al valore della tangente di un angolo di 40,87°, lo stesso della latitudine di Marte in cui insiste il vertice della piramide...!
Stan Tenen, per anni occupato a tradurre le costanti geometriche dei monumenti santuario, riuscì a costruire, grazie al rapporto epsilon/pi greco, un modello di tetraedro inscritto in una sfera: se orientiamo il tetraedo, in maniera tale che un suo vertice guardi a nord, i suoi angoli toccano la sfera ad una latitudine sud di 19,5°.
A questa latitudine sono situati moltissimi complessi sacri nonché la macchia rossa di Giove, il monte Olimpo di Marte, la macchia scura di Nettuno e la zona di massima attività delle macchie solari. Hesemann chiede se siamo in presenza di fortuite coincidenze oppure di una legge astrofisica che non conosciamo ancora.
E ancora. Quando Hoagland incontrò Bruce De Palma del MIT, "Massachussets Institute of Technology", studioso dei della fisica dei corpi in rotazione, entrò in contatto con un'ipotesi accarezzata da molti scienziati (tra cui Adam Trombly) secondo cui una sfera in rotazione apre una "porta" attraverso cui fluisce energia coerente, sorta di iperspazio tra la nostra dimensione ed una quarta.
Troppe coincidenze, troppi dettagli per potere escludere a priori una mano artificiale nella edificazione del complesso di Cydonia.

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Ma, come ci ricorda il gruppo di ricerca “Lunar Explorer Italia” Marte non è solo Cydonia… Ad esempio, sempre secondo “Lunar Explorer Italia” le tracce di possibile acqua allo stato liquido su Marte non sono state scoperte solo un paio di settimane fa (andate a guardare la Main Page Malin Space Science System relativa alla Missione Mars Global Surveyor e le ultime immagini ed informazioni sui cosiddetti Martian “Gullies” per capire a che cosa ci stiamo riferendo). Se ne parla da anni ed anni ed alcune evidenze erano state già da tempo individuate da svariati ricercatori indipendenti anche se tali scoperte passarono totalmente sotto silenzio e senza supporto mediatico poichè, presumiamo, non chiamavano in causa dei manufatti, ma solo degli eventi fisici. Eppure è così: molto probabilmente anche oggi (ora, adesso) c’è, da qualche parte, dell’acqua che scorre sulla superficie di Marte.

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Molti Ricercatori (tra cui il Gruppo Lunar Explorer Italia) si stanno interrogando sul motivo per cui su Marte si stiano rivelando sempre più di frequente delle aree/regioni le quali mostrano un’apparenza “simil-terrestre”. Numerosi studi effettuati sulle fotografie inviate dai centri di acquisizione paiono essere state “alterate” come a nascondere i toni verdi-azzurri che metterebbero in crisi gli scienziati intenti a convincere la popolazione che Marte è un pianeta morto, semplicemente un freddo e rosso deserto roccioso. La Nasa spesso definisce in “falsi colori” certe fotografie rossastre di Marte mentre sui libri e giornali la falsità dei colori viene omessa.
Ecco alcuni esempi di foto comparate:

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Zone molto scure appaiono evidenti anche nelle foto delle sonde, in specie nella zona equatoriale, senza che vi sia fornita spiegazione convincente. Se esistono su Marte esseri vegetali capaci di fotosintesi clorofilliana, cioè ossigeno nell’aria, il cielo non dovrebbe apparire giallastro come nelle foto che i vari robottini mandati sulla superficie ci inviano. Del resto, la presenza di tanto ossido nelle rocce superficiali potrebbe suggerire che una discreta quantità di ossigeno molecolare (azzurro) sia presente nell’aria marziana. Oltre che per la ricombinazione della CO2 e altri composti dell’ossigeno che costituiscono per oltre il 95% l’atmosfera.
Anche immagini prese dal telescopio spaziale Huble contengono il colore blu (sopra) nell’atmosfera di Marte altrimenti assente nelle foto più conosciute
Si può ipotizzare che se l’intento della astronomia canonica è nascondere la presenza di vita su Marte, l’ente spaziale americano possa avere alterato tramite filtri i veri colori del pianeta. Gli astronomi dovrebbero spiegare l’origine del colore azzurro del cielo marziano.

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Comparazione tra colori dell'atmosfera terrestre e marziana ripresa da Hubble

Ci sono fotografie scattate dal “lander” del primo Viking del ‘76 che mostrano chiaramente toni di blu, basta analizzare le immagine con un qualsiasi software grafico, se uno non si fida del proprio monitor.
Ogni tanto emergono fotografie che sembrano realistiche le quali portano a anche una tematica poco discussa: il fatto che la luce sulla superficie marziana deve essere simile se non superiore a quella che illumina la superficie della Terra. Infatti, il pianeta rosso si trova circa 80 milioni di km più lontano dal Sole del nostro (ma ci sono solo 50 milioni di km tra il suo perielio e il nostro afelio) quindi, essendo la sua atmosfera molto meno spessa, una maggiore percentuale di luce dovrebbe raggiungere il suolo. La fotografia sotto mostra probabilmente l’autentico paesaggio marziano.

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Insomma, Marte è incredibilmente più vivo di quello che pensiamo e ogni indizio porta a pensare a un pianeta che centinaia di migliaia di anni fa non solo poteva tranquillamente essere ricco di vita, ma probabilmente ha visto evolversi sulla sua superficie una razza senziente la quale raggiunse livelli tecnologici tali da consentire loro viaggi interplanetari per alcuni intrepidi esploratori. E forse quelle poche migliaia di “persone”, di Anunnaki che riuscirono a mettersi in salvo dal loro pianeta prima che venisse devastato dallo scontro con un altro corpo celeste portando sulla Terra tutto ciò che riuscirono a salvare non erano neppure così tanto diversi da noi. Anzi…
Già in precedenti articoli avevamo approfondito il tema della nascita del genere umano come risultato di una manipolazione genetica tra una razza extra-terrestre (a questo punto oserei dire marziana) e una specie autoctona del pianeta Terra, di modo da garantire forza-lavoro ai superstiti della distruzione planetaria che il loro pianeta madre dovette subire.
Cito ad esempio “Il Seme degli Dei” dove Progetto Atlanticus presenta e approfondisce una serie di indizi comprovanti una manipolazione genetica alla origine del genere homo sapiens tra cui la ricerca genetica di K.Pollard, le particolarità legate al fattore Rh- e l’immancabile mito sumero, questa volta l’”Inuma Ilu Awilum”, il quale descrive con dovizia di particolari (traducibile in “Quando gli dei erano come gli uomini”) il momento in cui gli Anunnaki si ammutinano a causa del pesante lavoro a cui erano sottoposti sul pianeta Terra, rendendo necessaria quella ricerca scientifica che porterà alla creazione del genere Homo.
Ecco di seguito quanto riportato nell’antico testo sumero:

“… quando gli dei erano come gli uomini sopportavano il lavoro e la dura fatica. La fatica degli dei era grande, il lavoro pesante e c’era molto dolore, … per 10 periodi sopportarono le fatiche, per 20 periodi … Eccessiva fu la loro fatica per 40 periodi,… lavoravano duramente notte e giorno. Si lamentavano e parlavano alle spalle. Brontolavano durante i lavori di scavo e dicevano: Incontriamo … il comandante, che ci sollevi dal nostro pesante lavoro. Spezziamo il giogo!...”

Il giogo fu spezzato dopo che un Anunnaki, Enki, promosse la seguente soluzione, sempre narrata nell’Inuma Ilu Awilum:

“…abbiamo fra di noi Ninmah, che è una Belet-ili, una Ninti (dea della nascita). Facciamole creare un Lulu (ibrido), facciamo che sia un Amelu (lavoratore) a sobbarcarsi le fatiche degli dei! Facciamole creare un Lulu Amelu, che sia lui a portare il giogo…”

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La narrazione prosegue con l’identificazione nell’Abzu (l’Africa) di una creatura adatta allo scopo, l’homo erectus, e che ciò che doveva essere fatto era “… imprimergli l’immagine degli dei…” usando le parole dell’epopea: effettuare un innesto genetico, se dovessimo utilizzare termini scientifici attuali.
Ma non è solo il mito sumero a descrivere un tale evento. Nella Bibbia leggiamo:
“:..E fu così che gli Elohim dissero, facciamo un Adamo a nostra immagine e somiglianza…” [Genesi 1,26]
Anunnaki ed Elohim, forse i medesimi soggetti, provenienti da Marte, giungono alla realizzazione del loro ‘capolavoro’… l’Uomo. E lo fanno mischiando il loro patrimonio genetico “marziano” con il DNA autoctono degli Erectus, o, come l’antropologia ci aiuta a comprendere, con il parente più prossimo del Sapiens, ovvero l’Homo Heidelbergensis, vissuto tra 600mila e 100mila anni fa da cui ebbero origine i tre ‘rami’ del genere Homo più vicino a noi: Denisoviani, Neanderthal e Sapiens (Cro-Magnon)

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Questa specie rispetto ai suoi parenti più stretti aveva delle dimensioni anomalmente grandi, infatti i ritrovamenti suggeriscono dimensioni medie di circa 190 cm di altezza e una corporatura più massiccia e muscolosa di ogni altro ominide appartenente al genere Homo. Secondo il professor Lee R. Berger dell'Università di Witwatersrand, numerose ossa fossili risalenti a circa 500-300 000 anni fa ritrovate sulla costa sud africana indicano che alcune popolazioni di Homo heidelbergensis erano "giganti" con dimensioni medie di circa 213 cm di altezza.
E guarda caso, quando i nostri antenati descrivono i loro “Antichi Dei”, spesso si rivolgono a loro come “giganti”. Celebre il passo biblico della Genesi 6:1-8:

… Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figlie, avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte. Il SIGNORE disse: «Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l'uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è che carne; i suoi giorni dureranno quindi centoventi anni». In quel tempo c'erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. Questi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi...

Ai quali mi sento di aggiungere Numeri 13:25-33 in cui tra le altre cose l’assonanza tra un popolo di giganti residente in Palestina e il termine sumero Anunnaki è praticamente evidente:

… Dopo quaranta giorni tornarono dall'esplorazione del paese e andarono a trovare Mosè e Aaronne e tutta la comunità dei figli d'Israele nel deserto di Paran, a Cades: riferirono ogni cosa a loro e a tutta la comunità e mostrarono loro i frutti del paese. Fecero il loro racconto, e dissero: «Noi arrivammo nel paese dove tu ci mandasti, ed è davvero un paese dove scorre il latte e il miele, ed ecco alcuni suoi frutti. Però, il popolo che abita il paese è potente, le città sono fortificate e grandissime, e vi abbiamo anche visto dei figli di Anac. Gli Amalechiti abitano la parte meridionale del paese; gli Ittiti, i Gebusei e gli Amorei, la regione montuosa; e i Cananei abitano presso il mare e lungo il Giordano». Caleb calmò il popolo che mormorava contro Mosè, e disse: «Saliamo pure e conquistiamo il paese, perché possiamo riuscirci benissimo». Ma gli uomini che vi erano andati con lui, dissero: «Noi non siamo capaci di salire contro questo popolo, perché è più forte di noi». E screditarono presso i figli d'Israele il paese che avevano esplorato, dicendo: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo vista, è gente di alta statura; e vi abbiamo visto i giganti, figli di Anac, della razza dei giganti. Di fronte a loro ci pareva di essere cavallette; e tali sembravamo a loro…».

E ancora Deuteronomio 1:28-30

… Dove andiamo noi? I nostri fratelli ci hanno fatto perdere il coraggio, dicendo: "Quella gente è più grande e più alta di noi; vi sono grandi città fortificate fino al cielo; e vi abbiamo visto perfino degli Anachiti". Io vi dissi: «Non vi spaventate e non abbiate paura di loro. Il SIGNORE, il vostro Dio, che vi precede, combatterà egli stesso per voi, come ha fatto tante volte sotto gli occhi vostri in Egitto…

Deuteronomio 2:9-11

… Il SIGNORE mi disse: «Non attaccare Moab e non muovergli guerra, perché io non ti darò nulla da possedere nel suo paese, poiché ho dato Ar ai figli di Lot, come loro proprietà. Prima vi abitavano gli Emim: popolo grande, numeroso, alto di statura come gli Anachiti. Erano anch'essi considerati come Refaim, al pari degli Anachiti, ma i Moabiti li chiamavano Emim...

Deuteronomio 9:1-3

… Ascolta, Israele! Oggi tu stai per passare il Giordano per andare a impadronirti di nazioni più grandi e più potenti di te, di città grandi e fortificate fino al cielo, di un popolo grande e alto di statura: dei figli degli Anachiti che tu conosci e dei quali hai sentito dire: «Chi mai può resistere ai figli di Anac?» Sappi dunque oggi che il SIGNORE, il tuo Dio è colui che marcerà alla tua testa come un fuoco che divora; egli li distruggerà e li abbatterà davanti a te; tu li scaccerai e li farai perire in un attimo, come il SIGNORE ti ha detto…

Deuteronomio 3:10-11

… tutte le città della pianura, tutto Galaad, tutto Basan fino a Salca e a Edrei, città del regno di Og in Basan. Poiché Og, re di Basan, era rimasto solo della stirpe dei Refaim. Ecco, il suo letto, un letto di ferro, non è forse a Rabbat degli Ammoniti? Ha nove cubiti di lunghezza e quattro cubiti di larghezza, secondo il cubito di un uomo…

Cronache 11:22-24

Poi veniva Benaia, figlio di Ieoiada, figlio di un uomo di Cabseel, valoroso e celebre per le sue prodezze. Egli uccise i due grandi eroi di Moab. Discese anche in mezzo a una cisterna, dove uccise un leone, un giorno di neve. Uccise pure un Egiziano di statura enorme, alto cinque cubiti, che teneva in mano una lancia grossa come un subbio da tessitore; ma Benaia gli scese contro con un bastone, strappò di mano all'Egiziano la lancia, e se ne servì per ucciderlo. Questo fece Benaia, figlio di Ieoiada; e fu famoso fra i tre prodi.

E infine Samuele 17:4-5

Dall'accampamento dei Filistei uscì un campione di nome Goliat, di Gat, alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo, indossava una corazza a squame che pesava cinquemila sicli di bronzo…

[Nota sul cubito per consentire al lettore di calcolare le dovute dimensioni dei personaggi citati nei passi biblici. Un cubito equivale a 44 cm per cui Golia era alto più o meno 2,5 metri, mentre il letto del re citato in Deuteronomio 3:10-11 era lungo 3,5 metri.]

Oltre alle citazioni presenti nei libri sacri sembrano esistere dei veri e propri ritrovamenti, purtroppo non comprovati e accettati dalla realtà scientifica internazionale (per ovvi motivi) ma che desideriamo riportare nel seguente sommario elenco, da prendere con il beneficio del dubbio, ma che certamente non può passare inosservato.
Nel 1895 Mr. Dyer nel corso di attività minerarie nella contea di Antrim, in Irlanda, scoprì un gigante fossilizzato. L'altezza che presentava era di 3,70 metri, e in più il piede destro presentava sei dita.
Nel MT. Blanco Fossil Museum (USA) è conservato un femore umano lungo "quasi" quanto la statura di un uomo medio, ritrovato in Mesopotamia. L'uomo sarà stato alto almeno circa 5 metri. Quella che segue è la foto dell’osso conservato nel suddetto museo.

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Gargayan: scheletro umano alto 5,18 metri.
Ceylon: resti umani di individui alti certamente circa 4 metri.
Zone sud-orientali della Cina: ossa umane di individui alti certamente più di 3 metri. Furono anche trovati attrezzi dalle dimensioni sconcertanti che per essere maneggiati bisognava avere una forza impressionante e si deve essere alti non meno di 4 metri: 500 asce bipenni del peso singolo di 8 Kg.
Tura, nell'Assam (Pakistan occidentale): scheletro umano dell'altezza di circa 3,35 metri.
Cina meridionale: denti grossi circa sei volte di più dei nostri e sono denti appartenuti ad un uomo gigante.
Isole di Giava 1940: una mascella inferiore appartenente ad un uomo alto certamente circa 3,50 metri per le sue proporzioni.
Nel Tibet: Sven Hedin affermò di avere visto mummie gigantesche nascoste in luoghi molto profondi.
Nei sedimenti lacustri di Ol Dway (in Africa del sud): impronte fossili umane su antichi fanghi pietrificati e che hanno dimensioni esorbitanti.
Australia sud-orientale: impronte su fango pietrificato, scoperte dal paleontologo Rex Gibroy riguardante fossili di giganti: si trattava infatti di mani e di piedi abnormi. Le dita dei piedi misuravano 18,5 cm, mentre la mano dal polso all'estremità del medio misurava 28 cm.
Caucaso: trovati recentemente scheletri di circa 3 metri da antropologi sovietici.
Glozel (Francia): si possono vedere impronte di mani gigantesche di migliaia di anni fa. Nel 1925 furono rinvenuti ossa giganti, utensili e monili di forma enorme.
Nel 1577, Willisau Lucerna: vennero alla luce resti di uno scheletro dalle ossa enormi, che appartenevano ad un uomo alto circa 5,80 metri
Hernan Cortes e quando gli spagnoli con lui sbarcarono in America: furono mostrati dagli indigeni del posto, a Hernan Cortes, ossa gigantesche fra cui un femore lungo quanto un uomo di normale statura, che Cortes spedì al suo re.
California 1810: fu rinvenuto uno scheletro di un gigante, con la stranezza che aveva sei dita ai piedi, ed un cranio di proporzioni davvero abnormi.
Nel Continente Americano, nel 1870: indiani della tribù Omaha dissotterrarono giganti i cui teschi misuravano la bellezza di 60 cm.
A Shemya (Isole Aleutine): vennero ritrovate nel 1943, ossa di proporzioni incredibili, e, crani, anche in questo caso di 50-60 cm.
Agadir (in Marocco): è stato ritrovato un insieme di utensili antichi, utilizzabili stando alle proporzioni, solo da uomini di almeno 4,50 metri di altezza.
Perù, Cina, Italia: denti umani grandissimi sono stati ritrovati in questi paesi. In Cina vengono chiamati "denti di drago".
Chiesetta del Bresciano, San Salvatore: pare che delle ossa gigantesche possano essere osservate attraverso la grata di una cripta.
Nel 1663 nella cittadina di Tiriolo (PR. Catanzaro): nel corso di alcuni scavi emerse una tomba di dimensioni gigantesche e al suo interno uno scheletro enorme di un gigante.
Fernando da Alba, uno storico del periodo della conquista spagnola del nuovo mondo: narrava che i resti di uomini giganti in Messico (nella nuova Spagna) si potevano trovare facilmente.
In Inghilterra: riesumato uno scheletro di un guerriero, il quale misurava un altezza di 2,80 metri.
Giovan Battista, canonico e studioso vercellese, vissuto fra il XVI ed il XVII secolo: trovò nella Chiesa di San Cristoforo, in Vercelli, un dente gigantesco, conosciuto come "dente di San Cristoforo". A Giovan Battista si devono anche gli studi sui giganti di Saletta.
Intorno al 1810, a Braystown (Tennesse): vennero rinvenute orme di piedi umani da sei dita di circa 32 cm di larghezza.
Sull'Isola di Santa Rosa, nel canale di santa Barbara (California): fu ritrovato un teschio appartenente ad un gigante umano.
A Lampock Ranch (California): alcuni soldati rinvennero lo scheletro di un gigante, ma lo sotterrarono nuovamente per ordine di un frate cattolico, poiché i nativi locali erano adirati da tale profanazione, credendo che tali resti appartenevano ad un antico dio.
Negli anni 70 un proprietario terriero, Martinez, in Messico: rinvenne le ossa di due uomini d'indicibile altezza. (...)
Lo Storico Erodoto (storie 1-68): narra di un ritrovamento di un gigante di circa 3,10 metri di altezza.
Il che ci riporta ancora una volta a una delle caratteristiche del nostro ‘vicino di casa’. Sulla superficie di Marte infatti l'accelerazione di gravità è mediamente pari a 0,376 volte quella terrestre. A titolo di esempio, un uomo con una massa di 70 kg che misurasse il proprio peso su Marte facendo uso di una bilancia tarata sull'accelerazione di gravità terrestre registrerebbe un valore pari a circa 26,3 kg.
Qualche anno fa sulla rivista Focus, appariva un articolo che voleva illustrare una nuova tesi, questa tesi dice: eventuali forme di vita extraterrestri residenti in altri mondi planetari, si evolverebbero diversamente dagli esseri umani e da altre forme di vita terrestri, questo per via delle condizioni planetarie primarie in loco, ovvero le caratteristiche primarie in senso astronomico, e non in primo luogo, quelle climatiche o geologiche stesse del mondo in questione. Queste caratteristiche astronomiche sono: l’attrazione gravitazionale del pianeta, la massa, il peso e le altre caratteristiche di questo tipo; queste caratteristiche possono modificare l’evoluzione della vita in senso di caratteristiche fisiologiche e conseguenze generate da queste, infatti si sosteneva (e si sostiene ancora), che l’altezza media, la massa corporea, il peso, e le caratteristiche muscolo/scheletriche, nonché che la forza, l’elasticità e la resistenza di un corpo animale, derivano dalla somma di questi fattori planetari, successivamente influenzati dalle caratteristiche della biosfera di superficie e quindi anche dall’atmosfera. L’esempio che veniva preso era quello di Marte, dove si immaginava l’evoluzione di animali molto grandi e altissimi.
Qualcuno potrebbe sostenere a questo punto, che se gli Anunnaki esistono o esistettero, e se vennero in passato sulla Terra, le loro gigantesche proporzioni sarebbero dovute ad un pianeta molto piccolo e quindi con deboli forze astronomiche, ed in particolar modo scarsa attrazione gravitazionale. Potrebbero persino sostenere che il gigantismo si riassorbì portando le caratteristiche ad una più bassa dimensione in altezza, per via del nascere e del vivere in un pianeta con caratteristiche diverse e maggiore attrazione gravitazionale come la Terra. Ma sappiamo benissimo che secondo Sitchin ed anche altri studiosi, se Nibiru esistesse, sarebbe grande almeno il doppio della Terra, e dovrebbe essere molto massivo, potrebbe avere infatti, un attrazione gravitazionale almeno di quattro volte quella terrestre; ma allora, come potrebbe essere che essi sono giganti?

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Forse non venivano da Nibiru… forse venivano da Marte!


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MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:41 
OUT OF ATLANTIS - UNA STORIA ALTERNATIVA

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10107

Molte delle informazioni concernenti la costruzione delle piramidi egizie della piana di Giza che la storia e l'archeologia ufficiale considerano come rispondenti a realtà o comunque sulle quali si sono basate per l'elaborazione delle teorie più accreditate in merito provengono dalla narrazione di Erodoto e di Diodoro Siculo.

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Erodoto di Alicarnasso in realta' fu infatti il primo a dar vita a una raccolta di fonti e notizie sul mondo antico a cui fu dato il nome di "Storie". Una delle sue passioni erano i viaggi tanto che la sua opera viene definita etnografica: una miniera di notizie su usi e costumi delle civiltà mediterranee, tra cui quella egizia. Al popolo dei Faraoni è dedicato un libro e tra le varie notizie quelle sulla costruzione delle piramidi, la prima grande opera d' ingegneria umana così come da lui stesso definita.

"Fu ordinato di prendere le pietre trasportate con imbarcazioni attraverso il fiume e di trascinarle verso il monte detto Libico. Lavorarono a centomila uomini per volta continuamente, ciascun gruppo per tre mesi. Per la piramide di Cheope dicono che passarono venti anni finche' non fu costruita”

“Padre della storia” secondo Cicerone, “mitologo” per Aristotele il giudizio su Erodoto rimane incerto, soprattutto considerato il fatto che lo stesso Erodoto ci ricorda di come la sua opera 'storiografica' nasca sulla base di tre principi ben definiti:
– vista
– ascolto
– criterio (con il quale lui stesso seleziona i dati raccolti nel caso in cui essi siano in contraddizione)

Poiché l'osservazione dello storico greco delle piramidi avviene solo nel V secolo a.C. ovvero migliaia di anni dopo la costruzione delle piramidi è comprensibile che la storia narrataci da Erodoto sia solo l'interpretazione di ciò che ha visto (le piramidi) e di ciò che ha ascoltato dalla tradizione orale e dalle informazioni ottenuti dalla casta sacerdotale filtrate attraverso il proprio personale criterio.

Erodoto, nelle sue Storie, riferisce che il faraone Cheope costrinse 100.000 dei suoi sudditi a lavorare come schiavi alla costruzione della sua tomba, durante il periodo di 3 mesi all’anno di inondazione del Nilo. Il lavoro durò 30 anni (di cui 20 per la messa in opera dei blocchi) e venne svolto con sistemi di armature in forma di gradinate, utilizzando macchine formate da travi corte.

Gli egittologi considerano queste affermazioni come verità assolute, quando in realtà, sono voci riferite oralmente allo storico greco da sacerdoti vissuti ben 2000 anni dopo omettendo in più il paradosso matematico della collocazione di un blocco circa ogni 8 minuti scaturente da un banale calcolo matematico assumendo come base il numero di blocchi (2,5 milioni circa) costituenti la grande piramide.

Inoltre in altri brani, i sacerdoti di Eliopoli raccontano ad Erodoto che il periodo predinastico egizio era durato quanto il tempo che impiega il sole a sorgere due volte dal posto in cui tramonta, il che interpretato alla luce del fenomeno della precessione degli equinozi, significa circa 40.000 anni e ciò, dagli storici moderni, non viene preso in considerazione, così come non vengono prese in considerazione altri elementi degni di nota come la Stele dell'Inventario scoperta dall'egittologo Auguste Mariette, scavando nei pressi della Grande Piramide in un tempietto detto la "Casa di Iside".

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La traduzione di quel documento riservò una sorpresa perché nella stele Iside veniva indicata come "la Signora della Piramide" e vi si affermava che al tempo di Cheope, una piramide, la Sfinge, il Tempio a valle della Seconda piramide ed altre strutture erano già presenti sulla piana di Giza.

E ancora:

1) Christopher Dunn ha dimostrato, con strumenti moderni, che diverse superfici in granito lavorate nell’antichità sono lisce al 1/50 di millimetro, e che gli strumenti utilizzati nella perforazione erano più efficienti di quelli odierni. Analizzando la spirale del taglio su alcune "carote" (cilindri prodotti dalla trivellazione) di granito rinvenute a Giza, si può calcolare la velocità di penetrazione del trapano rotante nella roccia: 2,5 mm a giro, contro i 2/1000 di mm a giro scavati da un trapano moderno, che funziona a 900 giri/minuto. Ciò non può essere ottenuto, ovviamente, con un cilindro di rame azionato a mano e sabbia di quarzo, come vorrebbero gli egittologi ufficiali. Dunn suggerisce una tecnologia basata sulle vibrazioni ad alta frequenza (una specie di martello pneumatico che vibra alla frequenza degli ultrasuoni), compatibile con l’indagine microscopica condotta su un foro praticato nel granito: il trapano aveva tagliato più velocemente il quarzo, rispetto al feldspato (minerale più tenero). Ovviamente, una simile tecnologia non è raggiungibile con i mezzi di 4500 anni fa.

2) Il professor David Bowen del Dipartimento di scienze della terra dell’Università del Galles ha elaborato un metodo di datazione basato sull’isotopo radioattivo Cloro-36, che può fornire una stima del tempo trascorso da quando una roccia fu esposta per la prima volta all’atmosfera. Dei test preliminari, eseguiti sulle "pietre azzurre" di Stonehenge nel ‘94, fornirono un’età superiore ai 14.000 anni, contro i 4000 normalmente accettati.

3) Lontano dai consueti preconcetti sulla preistoria dell’uomo, il buon senso suggerisce che popolazioni come gli Egizi dinastici e gli Incas si stabilirono nei pressi delle vestigia di una civiltà precedente, scientificamente e tecnologicamente avanzata, a cui loro davano un significato magico-religioso. Sia le tradizioni orali riferite dagli indigeni peruviani ai cronisti spagnoli del XVI secolo che le fonti storiche egizie definiscono i giganti di pietra come l’opera degli Dei civilizzatori, della perduta Età dell’oro: un ricordo trasfigurato del passato, tramandato oralmente di generazione in generazione.

4) La Pietra di Palermo (V dinastia, 2500 a.C.), il Papiro di Torino e l’Elenco dei Re di Abido, scolpito da Seti I (XIX dinastia, 1300 a.C.), la storia d’Egitto redatta da Manetone, sacerdote di Eliopoli (III a.C.), gli scritti degli storici greci Erodoto (V a.C.) e Diodoro Siculo (I a.C.) sono tutti considerati fonti attendibili della storia egizia dinastica, mentre vengono ignorati quando parlano della lunghissima era predinastica, il Primo Tempo, durata 30.000 o 40.000 anni.

Sulle piramidi sono state scritte fiumi di parole sia dalla archeologia ufficiale ortodossa sia da quella 'alternativa' proprio in virtù che l'ortodossia accademica non è stata in grado di fornire risposte certe alle modalità di costruzione delle stesse, della loro funzione e neppure alla paternità dei progetti.

Sarebbe oltremodo pretestuoso cercare noi di offrire nuove teorie e ipotesi a quelle già previste nel panorama della ricerca. Ciò che vogliamo fare è perlomeno ipotizzare che possa esistere una storia parallela a quella studiata sui libri di scuola e che non viene menzionata dagli autori legati al mondo accademico poiché altamente, concedetemi il termine, rivoluzionaria.

Una storia che affonda le sue radici decine di migliaia di anni fa, prima di ciò che viene ricordato come Diluvio Universale.

In questo percorso ci vengono in soccorso alcuni documenti come il Papiro di Torino, la Pietra di Palermo, la lista reale di Berosso e la lista reale sumerica di cui abbiamo già parlato nell'articolo “Le Città degli Elohim” e che ci raccontano di una serie di re, sovrani dei, che governarono nel mondo diverse decine di migliaia di anni prima.

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Da qui vogliamo partire per raccontare la nostra personale interpretazione dei fatti parallelamente a quanto l'archeologia e la paleoantropologia ci hanno abituato a credere.

E per farlo dobbiamo partire da molto lontano e dalle ultime scoperte in campo astronomico relativamente alla storia del pianeta a cui ci sentiamo più vicini e che da sempre ha suscitato interesse e curiosità come se un antico legame ci collegasse ad esso: Marte.

Nel nostro recente articolo “Marte: Storia di un antico Esodo” citiamo le conclusioni degli studi effettuati dallo scienziato Colin Pillinger sulle meteoriti marziane. Questi studi dimostrerebbero che l’acqua allo stato liquido possa essere esistita sul pianeta rosso fino a 400/600 mila anni fa, presupponendo quindi la possibilità di uno sviluppo di forme di vita in modo autonomo e parallelo rispetto al percorso seguito dal genere Homo secondo i più accreditati studi antropologici.

Studi antropologici che, in accordo all'evoluzione darwiniana fanno evolvere il genere Homo attraverso i diversi stadi dall'Australopitecus fino all'Homo Heidelbergensis intorno ai 400-500mila anni fa, passando per Habilis ed Herectus secondo gli schemi sotto riportati.

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Teoria che viene messa in discussione, anche se difficilmente si viene a sapere, da diverse scoperte archeologiche, quella più rilevante forse il ritrovamento di il ritrovamento di due fossili rinvenuti non molto lontano dal lago Turkana in Kenya. La scoperta, vista la sua importanza, è stata riportata sul numero di Agosto (2007) di Nature aggiudicandosi anche la copertina della rivista scientifica.

Il ritrovamento dei due fossili, uno di un Homo habilis e l'altro di un Homo erectus, proverebbe che le due specie, contrariamente a quanto creduto finora, non sono l'una l'evoluzione dell'altra. Dall'analisi dei nuovi reperti si è constatato che le due specie del genere Homo hanno convissuto, fianco a fianco, nell'Africa orientale per almeno mezzo milione di anni.

Il che significherebbe che, come peraltro teorizzato da Paolo Bolognesi, non si dovrebbero considerare le varie razze di Homo una conseguente all'altra come siamo abituati a credere, ma ciascuna coesistente all'altra quindi non ci sarebbe mai stata una evoluzione ma differenti evoluzioni parallele conclusasi con la scomparsa dei vari diversi generi Homo, escluso il Sapiens, per motivi non del tutto noti.

Inoltre il Bolognesi puntualizza il fatto che milioni di anni fa la popolazione della terra non era di miliardi di persone ma di poche miglia di persone. Ipotizzando che un'ominide fosse stato più evoluto degli altri potrebbe aver avuto una evoluzione molto superiore al resto degli altri homo, fino ad arrivare a una conoscenza tecnologica. E' probabile che un genere di ominide di poco precedente alla nostra specie, sviluppatasi in una regione ben delimitata del pianeta, con una cultura e un'evoluzione tecnologica più evoluta altre aree del pianeta si fosse mostrato, alle altre razze meno progredite e sarebbero accolti come divinità. A maggior ragione se, l'ominide di cui parla Bolognesi, invece di essere autoctono della Terra, fosse originario di Marte!

In accordo con quanto riscontrato nei testi mitologici sumeri e di molte altre culture narranti dell'arrivo (o della presenza) di dei e semi-dei in un certo punto remoto della linea del tempo storica abbiamo cercato di ipotizzare il seguente scenario che andiamo a presentare nel proseguio dell'articolo.

Così come sulla Terra il genere Homo attraversava i diversi step evolutivi (o le evoluzioni parallele di Bolognesi) che l'avrebbero portato a diventare Homo Herectus e ancora Heidelbergensis così su un pianeta Marte idoneo alla vita, una specie senziente e intelligente diversa, ma simile, faceva lo stesso. Possiamo, per comodità di comprensione chiamare costoro Anunnaki, Elohim, Giganti, Titani, mediando la terminologia dei miti sumero-babilonesi e classici della cultura ellenica.

Per motivi che non possiamo determinare il loro percorso li portò già centinaia di migliaia di anni fa ad avere raggiunto un livello tecnologico simile a quello che l'umanità 'terrestre' avrebbe raggiunto solo in tempi recenti: viaggi spaziali, manipolazioni genetiche, fisica quantistica e chissà cosa altro.

E' probabile che quando sulla terra l'Australopiteco iniziò a camminare in posizione eretta su Marte questa ipotetica specie avesse già registrato un vantaggio evolutivo di un paio di milioni di anni.

Se assumiamo questo e prendiamo per vero l'ipotesi di Dillinger questi, che io non esito a chiamare Anunnaki, furono costretti a evacuare il loro pianeta in un intorno che va da 500 a 400mila anni fa, che guarda caso riporta alla lista di Beroso e all'Enuma Elish sumero tradotto da Sitchn il quale riporta l'arrivo degli Anunnaki intorno a 450.000 anni fa.

In uno scenario apocalittico come quello descritto nel film “2012” di Roland Emmerich è ragionevole pensare che il 95% della popolazione autoctona di Marte possa essere perita nella morte del loro mondo e che solo pochi esemplari di quella specie riuscì a giungere sul nostro pianeta.

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Uno sparuto gruppo di individui ricordati come Anunnaki (successivamente Elohim, quando assumeranno caratteristiche 'divine' e di comando) arriva sulla Terra e, come riportato in diversi miti cosmogonici, opererà una manipolazione genetica sul DNA degli Heidelbergensis per creare un essere senziente utile a svolgere attività lavorative per loro conto in sostituzione degli igigi (la classe lavoratrice Anunnaka).

Di questo abbiamo già trattato nell'articolo “Il Seme degli Dei”, ma soprattutto nella conferenza tenuta dal Progetto Atlanticus durante il 2° Memorial Carlo Sabadin durante il quale è stato presentato il nostro lavoro "Manipolazioni genetiche all'alba del genere umano" nel quale citiamo ciò che riteniamo ragionevoli prove di un intervento esogeno alla comparsa dell'Homo Sapiens facendo riferimento a ricerche genetiche come quelle di K.Pollard e alle 'anomalie' difficilmente spiegabili dalla teoria di Darwin come a titolo esemplificativo, tutta una serie di mutazioni e di delezioni di alcune tracce genetiche così come la scomparsa di una coppia di cromosomi nel confronto con i nostri parenti più stretti, i primati.

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I primi esemplari di Sapiens compaiono all'incirca 300.000 anni fa per essere destinati a popolare e civilizzare l'intero globo terracqueo secondo lo schema accreditato della Out of Africa II il quale si fonda su evidenze archeologiche e genetiche.

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Ma anche nel caso della Out of Africa, non me ne vogliano i puristi accademici, non c'è uniformità di vedute né certezza.

Prove linguistiche, genetiche, geografiche e di altro tipo continuano a confermare per il popolamento delle Americhe lo schema tradizionalmente accettato delle “tre ondate” di migrazione. Sulle date, invece, c'è una profonda incertezza: la cronologia ricavata dai dati genetici è compatibile con migrazioni avvenute durante fasi in cui i ghiacci si erano un po' ritirati, ma da un punto di vista archeologico si sa ancora veramente poco.

Riassumendolo in breve e senza addentrarsi in particolari, con la terza migrazione sono arrivati gli Inuit dell'Alaska e delle Aleutine, con la seconda i Na-dene (Apaches, Navajos e gli abitanti della costa pacifica a nord della California) e con la prima tutti gli altri, gli Amerindi propriamente detti.

Qualche anno fa fu scoperto a Kennewick, una località dello stato americano di Washington uno scheletro vecchio di 9000 anni che presentava delle caratteristiche un po' strane: le fattezze del volto sono caucasoidi e non amerinde e il suo DNA mitocondriale contiene l'aploguppo X, tipicamente euroasiatico. Cominciamo a dire subito che “caucasoide” non significa molto: ordinariamente con questo termine si intende un europeo, un nordafricano o un mediorientale, in contrasto con altri “tipi” come il negroide o l'orientale (il tipico aspetto degli asiatici nordorientali). In realtà caucasoide significa tutto e nulla: probabilmente erano somaticamente caucasoidi i primi uomini anatomicamente moderni usciti dall'Africa e quindi, semmai, sono gli orientali che si sono successivamente differenziati a partire da antenati caucasoidi. La stessa cosa è successa nelle Americhe, dove i primi nativi assomigliavano davvero poco ai loro discendenti attuali.

La presenza dell'aplogruppo X pone altri interrogativi. Fino ad allora era stato notato solo in Europa ed in Medio Oriente. La sua è comunque una distribuzione strana: gli aplogruppi hanno solitamente una elevata frequenza in una zona geograficamente ben delimitata. Invece X è debomente presente in molte aree: medio oriente (con particolare frequenza fra i drusi del Libano), nordafrica, Italia, Isole Orcadi, paesi nordici a lingue uraliche (ma solo Finlandia ed Estonia: è molto più raro nei popoli geneticamente e linguisticamente a loro connessi nelle steppe russe). Ed è sempre in percentuali inferiori al 5%, tranne che nei drusi, nelle Orcadi e in Georgia. Fra i nativi americani lo troviamo fra Na-dene e Algonchini (gli Amerindi del nordest, tra Canada e USA settentrionali),sia in popolazioni viventi che in sepolture. La percentule è tipicamente il 3 %, con alcuni picchi oltre il 10% in alcune tribù. In Sudamerica è presente negli Yanomami.

L'aploguppo X americano fu facilmente correlarlo a incroci con bianchi dopo la venuta degli europei (a cominciare dai Vichinghi nel IX secolo), ma la distanza genetica tra il tipo nordamericano e quello europeo è troppo alta per dare validità all'idea. Contemporaneamente era stata notata un'altra stranezza: le punte delle lance della cultura Clovis, la più antica documentata in Nordamerica, sono simili a quelle che venivano fabbricate in Francia dai Solutreani qualche migliaio di anni prima. Punte del genere si trovano soltanto in Francia, penisola iberica e Nordamerica.

Partendo dagli interrogativi che la presenza dell'aplogruppo X pone ai genetisti e alla paleoantropologia noi del Progetto Atlanticus andiamo a ipotizzare una visione azzardata e che richiama in causa quegli Elohim/Anunnaki che avevano lasciato alcune pagine fa dopo avere creato l'homo sapiens attraverso l'ibridazione tra il loro DNA e quello di un Herectus, o di un Heidelbergensis e che Progetto Atlanticus chiama “Out of Atlantis”.

Ma prima è interessante osservare alcuni dettagli che sono stati presentati dal Progetto Atlanticus nel lavoro “Il Cammino del Sapere”, disponibile in formato PDF gratuitamente nel sito blog degli autori “Le Stanze di Atlanticus”.

Questi dettagli corrispondono ad alcune caratteristiche fenotipiche che quasi sempre gli antichi testi associavano alle divinità, o ai semi-dei. Sto parlando del fenomeno del biondismo e del rutilismo, meglio ancora se associati dal colore chiaro di occhi.

Diverse mummie disseminate in ogni luogo del pianeta mostrano caratteristiche comuni appartenenti alle famiglie reali o divine di ogni tempo. Come ad esempio la nonna di Tutankhamon, nella immagine sottostante, risulta avere i capelli biondi e chiari lineamenti caucasici.

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Oppure ancora l'Uomo di Cherchen, in Cina che presenta tratti caucasici del tutto inattesi in estremo oriente.

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Come scrive Adriano Romualdi nel suo articolo “I Capelli Biondi nella Grecia Antica” la stragrande maggioranza degli eroi e degli dei di Omero sono biondi: Achille, modello dell’eroe acheo, è biondo come Sigfrido, biondi sono detti Menelao, Radamante, Briseide, Meleagro, Agamede, Ermione. Elena, per cui si combatte a Troia, è bionda, e bionda è Penelope nell’Odissea. Peisandro, commentando un passo dell’Iliade (IV, 147), descrive Menelao xanthokòmes, mégas én glaukòmmatos “biondo, alto e con gli occhi azzurri”. Karl Jax ha osservato che tra le dee e le eroine d’Omero non ce n’è una che abbia i capelli neri.

Che un certo ideale nordico contrassegnasse il vero elleno fino ai tempi più tardi, potrebbe confermarlo questa notizia del medico ebreo Adimanto, vissuto all’epoca dell’Impero Romano. Egli scrive (Physiognomikà, 11, 32): “Quegli uomini di stirpe ellenica o ionica che si son conservati puri, sono di statura abbastanza alta, robusti, di corporatura solida e dritta, con pelle chiara e biondi.

Ma moltissime altre civiltà associano capelli biondi o rossi e occhi azzurri a una caratteristica divina: egizi, sumeri, indiani e mesoamericani.

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E non dimentichiamo che anche il Quetzalcoatl dei Maya era ricordato come di carnagione chiara con capelli e barba rossa, soggetto quindi al fenomeno del rutilismo ovvero quella caratteristica delle persone che hanno peli e capelli rossi o castano ramato.

In egual modo veniva descritto Viracocha, il colonizzatore secondo la civiltà Inca, proveniente da est. Si ha notizia che un disegno rinvenuto a Palenque somiglia ad un Semita.

Scrittori come Taylor Hansen, Cieza de Leon, De La Vega, Simone Waisbarg, Kolosimo ed altri, che hanno indagato su quanto raccontato dagli spagnoli durante la loro invasione nelle Americhe, ci presentano un gigante bianco, barbuto, con un tridente, che regge una catena alla quale è legato un serpente mostruoso. Identificato dagli Iberici con San Bartolomeo, simile al Nettuno di Platone (Poseidonis di Atlantide); che raffigura il "dio bianco" Viracocha, il creatore del mondo, al quale era consacrato il tempio di Tiahuanaco (città chiamata Chuquiyutu da Diego D’Alcobada), palazzo definito la vera ottava meraviglia del mondo per le sue dimensioni. La sola sala del trono era 48 metri per 39.

Gli spagnoli parlano di sessanta giorni e sessanta notti di pioggia incessante. Dopo il Diluvio, Viracocha si stabilì nell'isola sul lago Titicaca e plasmò gli uomini d'argilla e vi soffiò dentro la vita, insegnò loro il linguaggio e le scienze, i costumi e li distribuì nel mondo volando da un continente all'altro. Si diresse poi a Tiahuanaco; da qui inviò due emissari a ovest e a nord. Lui prese la strada per Cuzco. Sopra una carta geografica possiamo tracciare la cosiddetta "Rotta di Viracocha" che passa da Pukara, città distrutta dalla caduta di un fuoco dal cielo, come avvenne per Sodoma e Gomorra. Pukara è equidistante sia da Tiahuanaco che da Cuzco.

Questa caratteristica è occasionale nelle popolazioni caucasiche e si crede relazionata con una pigmentazione più chiara e la presenza di lentiggini ed un'alta propensione al melanoma e ad altri problemi cutanei; tuttavia pur non sembrando essere relazionata con una pigmentazione oculare alcuni la mettono in relazione con il colore verde.

Oggi il rutilismo è diffuso in Europa occidentale, in particolare sulle coste dell'Atlantico. E' ritenuto dai genetisti "un carattere residuale, ereditato da una popolazione in cui era presente nella totalità o quasi degli individui e conservatosi in quelle zone dove l'ibridazione è stata più lenta". Circa 20 mila anni fa, sebbene già esistente come mutazione individuale nei Sapiens Sapiens, il rutilismo è diventato il tratto fenotipico dominante degli abitanti della paleo-Europa. Secondo i genetisti si è trattato di una risposta fisiologica al clima glaciale, freddo e scarsamente illuminato.

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Si è imposto in questo tipo di ambiente perché la pelle chiara favorisce l'assunzione della vitamina D e soprattutto perché i rossi trattengono meglio il calore e quindi risultano meno esposti al congelamento, caratteristica fisica ideale per sopravvivere in un periodo di freddo rigido, oppure su un pianeta più lontano dal Sole e quindi meno 'caldo' della Terra.

Attualmente i rossi sono concentrati soprattutto nel nord Europa, alla fine dell'era glaciale, invece, il rutilismo doveva risultare assai indicato anche a latitudini mediterranee. Basta considerare che la linea degli alberi ad alto fusto durante il massimo glaciale del Wurm era situata sulla direttrice Mar Nero-Liguria-Spagna (45° parallelo), mentre oggi la troviamo al circolo polare. Anche l'uomo di Neanderthal, che abitava le stesse zone in tempi precedenti, aveva i capelli rossi. La scoperta è stata fatta analizzando due soggetti vissuti tra i 40 e i 50 mila anni fa, uno in Spagna e uno in Italia. Ma si tratta di una convergenza evolutiva. L’attuale rutilismo dei Sapiens Sapiens, infatti, nonostante il provato incrocio tra le due specie, non è un'eredità neanderthaliana, è dovuto a un'espressione diversa dello stesso gene MC1r mutato. Evidenza che naturalmente punta i riflettori sull'adattamento alle condizioni climatiche: le popolazioni presenti in Europa durante l’era glaciale hanno assunto questo connotato fenotipico, che era già presente a livello individuale nei loro antenati, ma che solo per ragioni ambientali è diventato patrimonio genetico della generalità degli individui.

Una cosa interessante è la leggenda della tribù ancestrale dei Si-Te-Cah ricordata dalla tradizione orale degli indiani Paiute del Nevada... si parla di uomini bianchi di alta statura con i capelli rossi. Siamo intorno al 45° parallelo, quindi alla stessa latitudine dell’area che in Europa ha ospitato la cultura cromagnoide il che farebbe pensare che anche dall’altra parte dell’oceano ci fossero condizioni climatiche tali da determinare la diffusione del rutilismo.

Pure gli "uomini del mare", invasori dell'Egitto, vengono indicati come "rossi" e addirittura nelle leggende Cinesi troviamo un popolo dai capelli rossi. La parola Rutennu o Rotennu deriva da Rut o Rot che significa rosso. Di tale colore il mare che bagnava l'Egitto, "il mare dei Rossi".

Rut deriva da Rute che con Daytia era una delle due isole superstiti di Atlantide; punto di partenza della razza che soggiogò quella che dimorava sulle sponde del Nilo originando i Rutennu: gli uomini del mare di Rute.

Il popolo degli Yxsos veniva definito una razza più rossa di quella egizia e, per loro stessa ammissione, proveniva da quella terra che si stendeva fra il Pacifico e il Sud atlantico chiamata "Oceano Ethiopicus", nota come Etiopia, notoriamente popolata da "neri". Terra che formava una sorta di ponte fra i popoli dell'Atlantico, del Mediterraneo e del Pacifico.

Significativo che il vocabolo "Kush", trasformazione del nome Cuzco (un collegamento con le Ande?), sia un vocabolo non ebraico tramandatoci dalla Bibbia, che si ritrova nel nome degli Etruschi, Etr-ush e definisca gli Etiopi e la loro terra; quella di Koshu. Inoltre l'antico nome di Ur era Kish.

Quindi l'origine di molti popoli sembra si trovasse nel mezzo dell'Atlantico, in quella Rute che apparteneva ad Atlantide.

Rossi erano tutti i popoli sulle sponde delle terre intorno a quest'ultimo perduto continente: i Maya, gli Incas, gli Aztechi, gli Indios americani, i Pellirosse; razze che affermavano di provenire da una terra chiamata Aztlan o Atlan naufragata nell'Oceano Atlantico in seguito a cataclismi e terremoti.

Vivo è il ricordo fra il popolo rosso americano. I Delaware ricordano l'età dell'oro e quella della distruzione di una grande isola oltre l'oceano; i Mandan conservano un'immagine dell'Arca; i Dakota raccontano che gli avi salparono da un'isola sprofondata a oriente.

Gli Okanocan parlano di giganti bianchi su di un'isola in mezzo all'oceano che venne distrutta; i superstiti divennero rossi in seguito alle scottature del sole per aver navigato per giorni su di una canoa.

Ad uno dei più antichi ceppi della razza rossa appartengono anche i Guanci delle isole Canarie; individui con occhi azzurri, capigliatura bionda come alcuni Incas e Chimù.

Gli antichi ebrei avevano i capelli biondi e crespi non comuni ai popoli orientali, orgogliosi della loro cultura monoteista da considerarsi gli "eletti".

Seguendo le tracce di questo colore giungiamo fino al Pianeta Rosso: "Marte". Secondo Brinsley Le Poer Trench, il libro di Enoch proverebbe che l'Eden si trovava su quel pianeta. Enoc nel terzo cielo, quello di Marte, appunto, contemplò il giardino del Paradiso e al centro vide l'albero della Vita.

Perchè queste caratteristiche venivano associate al 'divino'? E come mai troviamo tratti caucasici, indoeuropei presso culture che, secondo la storia e la genetica, non dovrebbero avere avuto contatti fino al XVI secolo? E perchè tutti parlano di una origine di queste divinità da un luogo sconvolto da un cataclisma e quindi sede e origine di queste caratteristiche fisiche?

Per cercare di rispondere alle sopraccitate domande dobbiamo tornare all'ibridazione e chiamare in causa un noto passo biblico.

"quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sopra la faccia della Terra e nacquero loro delle figliole avvenne che i figli di Dio videro che le figliole degli uomini erano belle e se ne presero per mogli tra tutte quelle che più loro piacquero e queste partorirono loro dei figli. Sono questi i famosi eroi dell'antichità”

Quali uomini? I Sapiens, nati dall'esperimento genetico degli Anunnaki promosso da Enki come narrato nell'Inuma ilu Awilum e anche nella Genesi biblica se vogliamo.

Quali figli di dio? I figli appunto degli Anunnaki arrivati da Marte.

Quali famosi eroi dell'antichità? Coloro che saranno ricordati come 'Giganti', uomini famosi, probabilmente caratterizzati da biondismo e/o rutilismo. I cosiddetti Nephilim e che si collegano alla figura e al ruolo di Atlantide non tanto quale culla non del genere umano, che rimane l'Africa e la teoria dell'Out of Africa, tanto quanto punto di origine di quelle caratteristiche fenotipiche attribuite a quelle divinità civilizzatrici che effettivamente dopo il diluvio riportarono la civiltà nel mondo secondo l'ipotesi Out Of Atlantis.

Un parallelismo tra le teorie Out of Africa II e Out of Atlantis dove una non sostituisce l'altra ma si integrano armoniosamente.

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Non sto parlando di razze secondo i tradizionali canoni. Sto parlando di eredità genetiche, alberi genealogici che hanno avuto origine da diversi punti di partenza e dove, per qualche motivo, alcune caratteristiche fisiche (occhi azzurri+capelli biondi oppure occhi verdi+capelli rossi) rappresentavano un elemento identificativo di coloro che appartenevano a delle stirpi divine.

I punti di partenza genealogici possono essere L'Homo Heidelbergensis (H.Erectus/Ergaster) da cui ha avuto origine il fenotipo negroide e gli aplogruppi ad esso collegati derivanti dalla prima ibridazione.

Il Neanderthal da cui ha avuto origine il fenotipo del rutilismo (capelli rossi e pelle chiara) tratto fenotipico dominante degli abitanti della paleo-Europa. Fenotipo che ragionevolmente mi fa pensare agli individui selezionati per portare la civiltà nel mondo dopo il Diluvio, gli Enkiliti, gli Elohim.

Il Cro-Magnon, biondo con gli occhi azzurri, alto tra 1,80 e 1,90 m, antagonisti dei Neanderthal come peraltro ricordato nel passo biblico in cui si parla di Esaù e Giacobbe. Tra l'altro una statura di quel livello significava apparire come 'Gigante' rispetto all'altezza media del Sapiens.

Il successivo incrocio tra tutti questi fenotipi nel corso dei millenni ha portato all'uomo moderno con la diversità di caratteristiche evidenziata dai numerosissimi rami genetici chiamati aplogruppi.

Possiamo allora giungere al seguente schema che descrive sinotticamente le riflessioni fin qui fatte per cercare insieme di definire una conclusione a questo percorso storico.

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Il mito classico ci racconta di una violenta guerra tra Titani e Dei con la vittoria di questi ultimi. Guerre incredibili sono citate anche nei testi sanscriti Veda come il Mahabarata dove vengono descritte armi che ricordano i più moderni arsenali bellici e anche più avanzate. La Bibbia stessa ricorda la cura con cui Yahweh procede all'annientamento del popolo degli Anakiti (notare l'assonanza con Anunnaki) e lo sterminio di Giganti viene più o meno raccontato in molte leggende di diverse culture un po' ovunque nel mondo.

Come se a un certo punto, nella storia remota, forse ancor prima del Diluvio Universale, in quella che fu la utopica età dell'oro, l'Atlantide, i Nephilim si fossero ribellati al potere dei 'padri' Titani in una sorta di guerra civile pro-tempore in cui i Sapiens diventavano eserciti, pedoni di una ipotetica scacchiera.

Zeus che combatte contro Crono. Davide (biondo) che combatte contro Golia (titanico gigante anakita). Thor (il rosso) e Odino (il biondo) che combattono contro l'equivalente dei Titani greci nella mitologia norrena.

I biondi (o rossi) Nephilim contro i 'vecchi' Titani Anunnaki in guerra tra di loro per diventare gli Elohim, gli Dei e regnare incontrastati sugli Uomini Sapiens Sapiens nei millenni a venire.


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GLI "ANTICHI DEI" TRA NEO-EVEMERISMO E CULTI ASTRONOMICI

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10109

Una chiave di lettura proposta dal Progetto Atlanticus inclusiva di elementi di neo-evemerismo e culti astronomico-cosmologici nell'interpretazione del mito e della figura degli "Antichi Dei"

Quando affrontiamo certe tematiche della paleoarcheologia e più in generale ai misteri che accompagnano il nostro remoto passato spesso incrociamo nel nostro percorso di ricerca autori del calibro di Biagio Russo, Mauro Biglino i quali ci presentano una chiave di lettura totalmente diversa ed eterodossa del mito e dei testi sacri universalmente riconosciuti dove l'origine del 'divino', gli 'Antichi Dei' per utilizzare un costrutto molto utilizzato dal Progetto Atlanticus, viene riletta quale questi fossero esseri in carne ed ossa, umani, oppure extraterrestri così come invece avanzato da molti altri appartenenti al filone della “Teoria degli Antichi Astronauti” come per esempio Sitchin, Alford, Von Daniken o Tsoukalos.

Ho avuto l’opportunità di incontrare Biagio Russo, di colloquiare con lui più di una volta anche su argomenti non propriamente attinenti alla sua pubblicazione e di conoscere la persona oltre che l’autore. Una persona di grande disponibilità ed umiltà, due qualità che raramente si addicono a chi ne sa sicuramente molto più di te.

Con il suo lavoro, da più parti considerato meritevole di lode, Biagio Russo, intervistato in passato anche da Sabrina Pieragostini, giornalista di Italia 1, laureata in Lettere Antiche presso l’Università di Pavia e divulgatrice tramite il sito blog Extremamente.it, ci conduce per mano in una indagine che si avvale di una disamina precisa sugli indizi e le testimonianze di cui sono latori antichi testi dei popoli antichi, con piglio scientifico e speculativo che avvince il lettore.

Contenuti verificati e verificabili, ma soprattutto provenienti sempre ed esclusivamente da fonti originali quali testi scritti o curati da autorevoli esponenti accademici di fama internazionale esperti di tutte quelle scienze che sono state necessariamente toccate. Ma anche testi originali molto antichi, tra i quali, in primis, le traduzioni delle tavolette sumero-accadiche ad opera dei padri dell’assiriologia e sumerologia come i professori Poeble, Smith, Kramer, Thorkild, Bottéro, o i professori italiani Furlani, Saporetti e Pettinato.

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E' una interpretazione che ai nostri occhi suona come totalmente nuova, un approccio mai azzardato prima. In realtà osservando la storia della filosofia possiamo osservare che un tale approccio metodologico fu già concepito nel IV secolo prima di Cristo e prese il nome di evemerismo.

L'evemerismo consiste nell'interpretazione delle religioni in chiave razionalistica, per cui gli dei sarebbero personaggi realmente esistiti, divinizzati dai posteri per le loro imprese, e i miti sarebbero ricordi, fantasticamente elaborati, di vicende storiche antichissime. Autore di questa teoria fu Evemero di Messina, il quale s'inserisce nella corrente di pensiero greca iniziata con gli antichi logografi, che pretendevano di ricavare notizie storiche dalle tradizioni mitiche delle singole città.

L'opera di Evemero, dal titolo "sacro resoconto", (piuttosto dell'ambiguo "sacra scrittura") si inserisce in un filone letterario a lui contemporaneo in cui storiografia,etnografia e opportunismo politico erano commisti a scapito del rigore intellettuale che aveva caratterizzato la storiografia del secolo precedente.

L'opera non ci è giunta intera, ma grazie al compendio in Diodoro Siculo (V 41-46 e VI 1) ed ai numerosi frammenti della traduzione di Ennio intitolata Euhemerus, abbiamo un'idea complessivamente adeguata del contenuto di questo scritto, probabilmente diviso in tre libri rispondenti alla descrizione geografica (I), politica (II), teologica (III) di un arcipelago dell'Oceano Indianovisitato dall'autore a seguito di una tempesta che lo portò fuori rotta.

L'evemerismo nella cultura greca rispondeva all'esigenza di giustificare la presenza di un'enorme produzione mitologica, nonché la grande considerazione in cui essa era tenuta; d'altro lato, poiché la speculazione contrapponeva il “mito” al logos come una non-verità rispetto alla verità logica, si sentiva la necessità di ridurre alla logica, ossia di razionalizzare, i miti apparentemente razionalizzabili: un tentativo di ricavare la verità da forme menzognere; era in fondo la ricerca della verità nel senso della filosofia greca.

Ripreso da Ennio nell'Euhemerus, l'evemerismo fu utilizzato dai primi autori cristiani nella loro polemica antipagana e fu poi ripreso dall'Illuminismo nella sua critica alle credenze religiose. Si denominò neo-evemerismo una corrente esegetica storico-religiosa del sec. XIX, facente capo a H. Spencer, secondo cui ogni religione trae origine dal culto degli antenati. Tali modi di porsi di fronte alla produzione religiosa sono stati superati negli studi storico-religiosi e tuttavia talvolta tentativi di razionalizzazione di tipo evemeristico emergono negli studi storico-filologici.

Tale chiave di lettura è quella che consente che permette al Progetto Atlanticus di interpretare la figura di Yahweh non come essere divino trascendente, ma entità materiale, fatta di carne ed ossa e sentimenti e comportamenti molto più umani che divini come Mauro Biglino ci ricorda nel seguente estratto dove vengono analizzate le figure degli Elohim Yahweh e Kamosh.

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Cita:
“In Giudici 11 Jefte, comandante delle forze israelite, sta combattendo con Ammoniti, Moabiti… e nella controversia con il re di Ammon dice (versetto 24): “Non possiedi tu quello che Kemosh, tuo elohim, ti ha fatto possedere? Così anche noi possediamo tutto ciò che Yahweh, elohim nostro, ha dato in possesso a noi”.


Yahweh e Kemosh sono evidentemente uguali, hanno gli stessi diritti e gli stessi poteri, nessuno dei due è considerato superiore all’altro.

Mauro Biglino a questo punto ci fa notare ulteriori aspetti molto significativi.

La prima è che questo è uno dei tantissimi errori commessi dai masoreti che hanno attribuito agli ammoniti l’elohim Kemosh che invece era l’elohim dei moabiti... uno dei 1500 errori di questa fattispecie come peraltro segnalato dal Professor Menachemk Cohen dell'Università Bar-Illan di Tel Aviv

La seconda annotazione del Biglino è che questi elohim di rango inferiore combattevano tra di loro per dei fazzoletti di terra, mentre i loro colleghi più alti in grado si occupavano dei grandi imperi.

Tornando alle parole testuali di Biglino:

Cita:
“Che Kemosh fosse alla pari di Yahweh lo sapeva anche Salomone, molti decenni dopo; gli fa infatti erigere un luogo di culto così come fa erigere un luogo di culto a Milcom, l’elohim degli ammoniti. Salomone sapeva che era bene tenersi buoni tutti gli elohim che operavano in quel territorio: in fondo Yahweh poteva anche scomparire da un momento all’altro e allora il buon senso diceva che era meglio avere rapporti anche con gli altri”


Un altro aspetto interessante si trova nella stele di Mesha (850 a.C.): iscrizione su basalto nero fatta compilare da Mesha, signore appunto dei moabiti che tra le altre cose contiene il resoconto di una battaglia per la conquista di un centro abitato; alla linea 13 c’è scritto: “andai e combattei, la presi, uccisi tutti, settemila uomini, ragazzi, donne, ragazze e serve, poiché li avevo votati a Astar-Kemosh…”

Nella stele di Mesha, ci ricorda Biglino, si racconta anche che Kemosh dimorava presso i moabiti nei territori conquistati esattamente come la Bibbia dice che Yahweh dimorava con il suo popolo e vi si legge anche di come i moabiti vennero sconfitti nel momento in cui Kemosh era adirato con il suo popolo, esattamente come succedeva ad Israele quando Yahweh era adirato con i suoi.

Insomma i due elohim paiono essere proprio uguali in tutto: stessi diritti, stessi poteri, stesse mire di conquista territoriale, stesse esigenze in termini di sacrifici, stessi ordini di sterminio…

E volendo tale impostazione non si allontana neppure di molto da quanto sostenuto dagli stessi esegeti ebraici studiosi dei sacri testi talmudici i quali affermano (e possiamo leggere una interessante conversazione al riguardo su un forum cui partecipano grandi esperti di tradizione e cultura ebraica)

http://consulenzaebraica.forumfree.it/? ... 864&st=165

dove si afferma che

La Bibbia contiene molti segreti e ciò è noto da millenni agli ebrei attraverso i testi della tradizione orale. Alcune delle cose spiegate da Mauro Biglino sono comuni agli ebrei, ma risultano totalmente estranee e sorprendenti ad un pubblico non ebraico abituato a leggere la Bibbia dalle traduzioni.

Per esempio il termine ebraico “mal’ach” tradotto in italiano con “angelo” ha spesso come soggetto gli essere umani comuni. Sono relativamente pochi i casi in cui il termine “mal’ach” indica apparizioni fuori dal comune. Questo per l’ebreo che legge la Bibbia in ebraico è assolutamente normale. Gli angeli, nell’ebraismo sono anche le azioni divine, che possono essere portate a termine attraverso vari mezzi, fra cui: comuni cittadini, profeti, microorganismi e cose materiali e queste stesse cose sono dette “mala’achim” ovvero “coloro che svolgono un compito”.

Che la Bibbia parli di ingegneria genetica è noto da sempre agli ebrei attraverso il Talmud, ma gli autori del Talmud non attribuirono mai tali conoscenze scientifiche avanzate ad esseri provenienti da altri mondi, come appunto vuole la linea interpretativa di Mauro Biglino.

L’ingegneria genetica altro non fu che l’eredità degli umani che vissero prima del diluvio universale narrato nella Bibbia (racconto presente in altre forme in varie altre tradizioni distanti nel tempo e nello spazio). In 1656 anni, la durata dell’era prediluviana si raggiunse un livello scientifico clamoroso, in parte derivante dal fatto che i prediluviani sapevano sfruttare pienamente la memoria e le altre parti del cervello con tutte le specialità cui esso è dotato. In parte perché avevano una vita longeva, conseguenza del tipo di atmosfera diverso che vi era prima del diluvio la quale rallentava notevolmente l’invecchiamento.

Nel Talmud non è narrata la favola degli angeli caduti; questi, come testimoniato da vari scritti ebraici antichi, altro non sono che i governanti di quel mondo, detti “shoftim” = “giudici”. Nella Bibbia i cosiddetti “figli di D-o”, che in ebraico l’originale ha: “benè haelohim”, altro non sono che la categoria della classe dirigente. Gli “elohim”, come vuole l’etimologia di questo termine, altro non sono che i “giudici”. Il termine “ben”, in ebraico spesso designa appartenenza oltre che figliolanza. Pertanto i benè haelohim sono coloro che appartengono alla classe degli elohim ovvero dei giudici umani, assolutamente umani.

Su varie cose Mauro ha ragione: la Bibbia, come egli afferma, non è un libro di religione; ma questo discorso, come d’altronde anche altre cose simili che afferma, non riguardano certamentegli ebrei e l’Ebraismo, né la religione ebraica perché questa è quasi sconosciuta e proibisce severamente il proselitismo. Dunque, dato che non ha mai avuto una volontà di divulgazione, i suoi contenuti rimangono ignoti ai più.

Gli ingegneri genetici erano i “refaim” vocalizabile altrimenti con “rofim”=medici, e non gli “elohim”. Questi c’entrano in parte, nell’era prediluviana per l’appoggio a questi concesso come rappresentanti del potere.

E ci stiamo limitando a riportare le testuali parole dell'esegeta talmudico autore di tale post; parole che a mio parere hanno un peso specifico importante e rivelano cose sconvolgenti, che molti di noi hanno solo teorizzato e ipotizzato sulla base delle ricerche autonomamente svolte, ma che l'esegeta dichiara come note... e note da sempre!

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Progetto Atlanticus, riprendendo le parole di Fabio Marino, medico psichiatra con la passione per l'astronomia, gli enigmi della Storia e co-Direttore della webzine “Tracce d'Eternità” e del suo articolo “La Bibbia e gli alieni - Mitopoiesi moderna o neo-Evemerismo sostenibile?”, come penso sia noto, si presenta come un chiaro esempio di sostenitore dell’ipotesi del paleo-contatto.

Ultimamente, si osserva una spiccata tendenza ad interpretare (o a voler interpretare) gli scritti biblici come un vero e proprio resoconto di contatti con civiltà aliene; e di questa tendenza esistono addirittura diversi filoni, alcuni dei quali prevedono finanche la creazione ex novo del genere umano attraverso manipolazioni genetiche.

Si tratta, chiaramente, di un’impostazione che filosoficamente possiamo definire “neo-evemerismo” (neologismo coniato dallo stesso Marino, che riprende il principio base del pensiero di Evemero in cui però ad essere divinizzati sarebbero stati gli alieni in visita sul nostro pianeta.

Un notevole tentativo, in epoca recente, di studiare l’Antico Testamento (e segnatamente il Libro della Genesi) in chiave scientifica è rappresentato dall’ottimo ed affascinante “In principio. Il libro della Genesi interpretato alla luce della scienza” (1981, Mondadori), di Isaac Asimov. In esso, ancora Fabio Marino ci fa notare di come l’autore raffronti le affermazioni contenute nella Genesi biblica con le attuali conoscenze scientifiche, traendone, di fatto, un quadro interlocutorio utilizzando, com’è ovvio, le categorie di un popolo dell’antichità.

Sempre Marino, nella conclusione del suo articolo avverte dei possibili rischi e limiti nella esclusiva interpretazione in chiave letterale dei testi antichi senza per questo voler sminuire il lavoro di molti ricercatori indipendenti ma sottolineando il fatto che probabilmente un atteggiamento più “scientifico” permetterebbe una messe di risultati più sostenibili o meno esclusivi.

Ciò che ci proponiamo in quest'articolo è, senza troppe pretese, il voler presentare una sorta di superamento dell'approccio neo-everista che integri la chiave antropologica nella lettura degli “Antichi Dei” con la rappresentazione metaforica del 'divino' come espressione di un antico culto pagano astronomico-solare risalente al periodo preistorico precedente alla fine della glaciazione di Wurm e forse a cavallo della stessa. Che è poi la chiave di lettura presentata e seguita dal Progetto Atlanticus nell'interpretazione dei fatti e dei misteri della storia e della preistoria.

I più accesi critici dell'approccio neo-evemerista sono proprio coloro i quali percepiscono un errore sostanziale il considerare il mito come un testo storico o esclusivamente storico. Il mito diventa allora non la mitizzazione di eventi passati, ma un trattato prescientifico espresso attraverso allegorie e altre figure retoriche secondo i modelli letterari culturali delle popolazioni antiche, finalizzato a descrivere e spiegare come è fatto l'universo. Il che non nega a priori l'esistenza di civlità o di superciviltà in un tempo dimenticato dalla storia come anche cerchiamo di fare nell'ambito delle nostre ricerche.

E non vuole dire neppure che gli anti-neo-evemeristi (mi si conceda questo nuovo neologismo) seguano necessariamente la corrente ortodossa e dogmatica di certa scienza. Anzi...

Vale la pena ricordare i preziosi contributi offerti da Giorgio Giordano caratterizzati da un notevole e sempre ricercato rigore scientifico pur confutando molte delle teorie accademiche maggiormente accreditate.

Notevole la sua determinazione nel presentare una analisi critica alla teoria antropologica dell'Out of Africa così come descritto nel seguente estratto del suo articolo “La prima umanità” tratto dal suo blog “La Macchina del Tempo”

Nonostante le numerose scoperte che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni, è ancora diffusa la falsa opinione di una preistoria da sussidiario elementare, quella dei cosiddetti uomini delle caverne, visti come esseri estremamente basici e incapaci di un pensiero elevato. Evidenti tracce di civiltà, al contrario, sono riscontrabili già all'apparizione dell’uomo, oltre un milione di anni prima della ben nota esplosione della cultura dell’Homo sapiens, avvenuta a partire da circa 200 mila anni fa.

La prima umanità, che generalmente definiamo dell’Homo erectus, era decisamente avanzata. Niente esseri ricurvi e capaci solamente di grugniti, niente sassi appena scheggiati usati come utensili e popolazioni in balia della natura. L'uomo è apparso quasi due milioni di anni fa. Homo habilis, Homo rudolfensis, Homo georgicus, Homo erectus e Homo ergaster esistevano più o meno contemporaneamente.

Pare che questi primissimi appartenenti al genere Homo non siano ominidi distinti, l'uno l'evoluzione dell'altro, ma che in realtà rappresentino solo variabilità somatiche tra individui della medesima specie. L'antichità dei reperti georgiani ha fatto perfino dubitare dell'origine africana della nostra specie. Ormai, peraltro, è ampiamente rivalutata la teoria evolutiva multi-regionale, in alternativa al modello Out of Africa.

In definitiva, abbiamo forme interfeconde, appartenenti a un unico flusso umano, con inevitabili derive genetiche in occasione di isolamento geografico e viceversa profondi rimescolamenti del Dna a seguito di grandi migrazioni.

Oggi il nome Homo ergaster è spesso attribuito alle popolazioni dei primi uomini stanziati in Africa, mentre con il termine erectus si preferisce indicare la prima umanità asiatica. Homo erectus era in grado di fabbricare sofisticati utensili già 1,8 milioni anni fa. Le impronte di Laetoli, in Tanzania, che risalgono a ben 3,6 milioni di anni fa, appartenute all'Australopithecus afarensis, indicano una postura eretta e un andatura bipede, ma l'arco plantare risulta molto meno accentuato e gli alluci divergenti. Homo ergaster, 1,5 milioni di anni fa, invece, aveva un piede anatomicamente moderno. Ed era un perfetto corridore. Il famoso ragazzo di Turkana non era poi così diverso da noi. Era un dodicenne di 160 centimetri che sarebbero diventati 185 al raggiungimento dell'età adulta. Si può supporre che in linea generale avesse un aspetto assai simile a un uomo moderno, con una struttura corporea paragonabile agli attuali Masai, anche se la capacità cranica era di 880 cm³, che sarebbero diventati 910 cm³ con la maturità, molto meno dell'uomo moderno che in media raggiunge i 1350 cm³. Uomini con una scatola cranica più piccola, è vero, tuttavia già con una mente in grado di elaborare concetti "raffinati".

Circa 60 mila anni fa i Sapiens in arrivo dall'Africa si sono stanziati in massa in Medioriente. Qualcuno si è anche unito ai Neanderthal. Attorno ai 50 mila anni fa quei Sapiens si sono divisi: alcuni sono andati verso l'Europa, altri si sono diretti verso il Caucaso (altri ancora verso mete extraeuropee di cui non ci occupiamo). I primi sono entrati in Europa circa 45 mila anni fa in almeno due forme, Cro-Magnon e Brunn (simile a Combe-Capelle). Invaso il continente, questi due tipi di Sapiens si sono accoppiasti tra loro e con i Neanderthal, e probabilmente anche con l'Homo Heidelbergensis, giacché la genetica è tuttora alla ricerca di un uomo misterioso che ci ha fornito diversi geni.

Grazie a una certa stabilità climatica, tra i 35 e i 22 mila anni fa si è sviluppata la raffinata cultura paleoeuropea delle Veneri, con una popolazione verosimilmente caratterizzata dalla mutazione del rutilismo (capelli rossi e lentiggini) e da grandi dimensioni fisiche, a cui si attribuisce l'aplogruppo I. Circa 23 mila anni fa è tornato il freddo intenso, durato poi sino a 17 mila anni fa. L'aplogroppo I in quel periodo si è ritirato verso sud. Nell'area franco-ispanica e lungo i bordi della calotta glaciale è sorto l'aplogrupopo I1, mentre nell'area mediterranea e nei Balcani l'aplogruppo I2. Nel frattempo le popolazioni rimaste ai confini d'Europa (che erano di tipo cromagnoide) hanno sviluppato l'aprogruppo R1, che sarà poi degli indoeuropei.

Ma è in altre sue pubblicazioni a presentare la fotografia di una società umana prediluviana diversa da quella cui siamo abituati a pensare. Una civiltà globale di decine di migliaia di anni fa che, esattamente come noi, si prodigavano di comprendere le dinamiche del cosmo e rispondere a quelle ataviche domande del “chi siamo?”, “cosa facciamo?” e “dove andiamo?” cercando di dare risposta attraverso gli strumenti e i modelli culturali dell'epoca, producendo miti cosmogonici descriventi i movimenti degli astri e del Sole, venendo così a definire un culto cosmologico, astronomico, solare tradotto nei miti che verranno tramandati poi nei secoli/millenni a venire.

E' ancora Giorgio Giordano a ricordarci che, sotto questa veste, il mito diventa pertanto una complessa narrazione incentrata sugli eventi celesti osservabili dagli antichi uomini appartenenti a questa civiltà globale, descritti sotto forma di avventura terrena, con protagonisti Dei, chimere o eroi.

I moti del Sole, della Luna, dei pianeti e delle costellazioni, vengono incarnati in una storia che a prima vista sembra dire delle cose, ma che in realtà vuole significare tutt'altro. Questo perché la mitologia si esprime attraverso l'allegoria. Per noi moderni è difficile comprendere il motivo per cui gli uomini preistorici che inventarono i miti, per parlare di astronomia e di altri “saperi” ancestrali, utilizzarono immagini simboliche e non il linguaggio descrittivo che invece caratterizza i nostri trattati scientifici.

In quest'ottica la lista reale di Sumer che più volte abbiamo citato nei nostri precedenti lavori assumerebbe tutt'altro significato. Un significato astronomico legato ai cicli precessionali del pianeta Terra.

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Il prof. Santillana e la dott.ssa Hertha von Dechend nel loro famoso trattato ''Hamlet's Mill'' (Il Mulino di Amleto) sostengono fermamente questa tesi. Essi affermano che a partire almeno dal 6.000 a.C. nel mondo esisteva un complesso di conoscenze astronomiche scientifiche e che tale dottrina utilizzava apposite convenzioni mitologiche: gli dei sono pianeti, gli animali sono costellazioni (zodiaco significa “quadrante di animali”) ed i riferimenti topografici sono metafore per l’ubicazione, in genere del Sole, nella sfera celeste; gli antichi sembravano inoltre usare un ''codice numerico precessionale'' presente in molti miti e nell'architettura sacra di tutto il mondo.

Gli astronomi moderni hanno calcolato che un grado del movimento precessionale si compie in 71,6 anni. I miti essendo storie basate su simbologie umane, animali ecc. difficilmente avrebbero potuto adottare come riferimento un tale numero decimale, ma potevano servirsi dello stesso numero arrotondato all'intero più vicino.

Il numero ''dominante'' del codice precessionale risulta essere infatti il 72. Si possono poi ottenere tutta una serie di altri numeri collegati: si può ad esempio dividere per due ed ottenere il 36, sommargli quest'ultimo per originare il 108, moltiplicare questi numeri per 10, 100, 1.000 e formare 360, 3.600, 36.000 oppure 720, 7.200 ecc.; il 108 (un grado e mezzo del ciclo precessionale) può essere diviso per 2 e dare 54 (con i suoi multipli 540, 5.400 ecc.). Molto importante era anche il numero 2.160 (numero di anni necessario al Sole per attraversare completamente un segno zodiacale nel movimento precessionale); diviso per 10 forma il 216, moltiplicato per 2 dà 4.320 e quest'ultimo moltiplicato ancora per 10, 100, 1.000 origina 43.200, 432.000, 4.320.000 ecc.

I numeri del codice precessionale affiorano in continuazione, nel mondo antico, sotto molteplici forme.

In un mito nordico che descrive l'Apocalisse, si può calcolare che i guerrieri che escono dal Walhalla per combattere contro il ''Lupo'' sono 432.000; lo storico babilonese Berosso (3° secolo a.C.) attribuì ai mitici sovrani di Sumer un regno totale di 432.000 anni; lo stesso Berosso fissò la durata del periodo compreso fra la Creazione e la Distruzione Universale, in 2.160.000 anni; nell'altare del fuoco indiano, nell'Agnicayana, ci sono 10.800 mattoni; nel più antico dei testi vedici, il noto Rig-Veda, ogni strofa è composta da quaranta sillabe per un totale di 432.000 .

Ricordiamo inoltre che la Grande Piramide costituisce una rappresentazione dell'emisfero terrestre in scala 1:43.200 e che il numero 216 si trova rappresentato nelle misure della Camera del Re.

Nel calendario Maya del Lungo Computo figurano le seguenti formule: 1 Katun = 7.200 giorni; 1 Tun = 360 giorni; 2 Tun = 720 giorni; 5 Baktun = 720.000 giorni; 5 Katun = 36.000 giorni; 6 Katun = 43.200 giorni; 6 Tun = 2.160 giorni; 15 Katun = 2.160.000 giorni.

Nella cabala ebraica ci sono 72 angeli attraverso i quali i Sephiroth ( i poteri divini) possono essere avvicinati o invocati; la tradizione rosacrociana parla di cicli di 108 anni in relazione ai quali la confraternita segreta fa sentire la propria influenza.

In India i testi sacri chiamati Purana parlano di quattro età della terra chiamate Yuga che insieme formano 12.000 ''anni divini''; le rispettive durate di queste epoche sono: Krita Yuga = 4.800 anni; Treta Yuga = 3.600 anni, Davpara Yuga = 2.400 anni; Kali Yuga = 1.200 anni; inoltre come nel mito di Osiride ( che vedremo in particolare), il numero dei giorni che compongono l'anno è fissato in 360, un anno dei mortali corrisponde ad un giorno degli dei e un anno degli dei equivale a 360 anni dei mortali. Se ne deduce che il Kali Yuga, consistente in 1.200 anni degli dei, ha una durata di 432.000 anni mortali, un Mahayuga o Grande Anno (formato da dodicimila anni divini contenuti nei quattro Yuga minori) equivale a 4.320.000 anni dei mortali; mille di questi Mahayuga (che formano un Kalpa o giorno di Brahma) equivale a 4.320.000.000 anni dei mortali.

La mitologia egiziana narra della dea Nut (il cielo), moglie del dio del Sole: Ra, che era amata dal dio Geb (la Terra). Quando Ra scoprì la tresca, maledisse la moglie e proclamò che non avrebbe dato alla luce un figlio in nessun mese dell'anno. Allora il dio Thor, anch'egli innamorato di Nut, giocò a tavola reale con la Luna e le vinse cinque giorni interi che aggiunse ai 360 che all'epoca formavano l'anno. Nel primo di questi cinque giorni fu generato Osiride. Si legge inoltre che l'anno era costituito da 12 mesi (12 è il numero dei segni dello zodiaco) di 30 giorni (30 è il numero dei gradi assegnati lungo l'eclittica a ciascun segno zodiacale).

Nel mito di Osiride si narra che durante uno dei suoi viaggi compiuti nel mondo per diffondere i benefici della civiltà alle altre regioni della Terra, 72 uomini della sua corte, capeggiati da Seth, cospirarono contro di lui. Al suo ritorno lo invitarono ad un banchetto dove misero in palio un forziere di legno e d'oro per colui che fosse riuscito ad entrarvi con l'intero corpo. Quel forziere era stato costruito proprio perle misure di Osiride, che vi entrò perfettamente. I cospiratori chiusero il forziere, inchiodarono il coperchio e gettarono il tutto nel Nilo.

Il forziere non affondò, navigò sul Nilo (ricordate la storia di Mosè abbandonato sulle acque dello stesso fiume?) e fu recuperato da Iside, moglie di Osiride. Seth , tuttavia, ritrovò il forziere nascosto nel frattempo da Iside e tagliò il corpo del re in quattordici pezzi che sparse tutt'intorno. Ancora una volta Iside intervenne, recuperò i pezzi e grazie alle sue potenti arti magiche, riunì le parti del corpo del marito che, in condizioni perfette generò Horus (che poi vendicherà il padre uccidendo lo zio Seth), per poi subire un processo di rinascita astrale che lo portò a diventare il dio dei morti e dell'oltretomba.

Ad Angkor Thom, il muro del Bayon è sormontato da 54 torri, ognuna con quattro figure scolpite per un totale di 216 raffigurazioni; il cortile principale è circondato da un muro che presenta cinque porte di accesso ognuna delle quali attraversate da altrettanti ponti costeggiati da una doppia fila di imponenti figure scolpite: 54 deva e 54 asura (totale 108 immagini per ponte e complessivamente 540 raffigurazioni). Il prof. Santillana e la dott.ssa Hertha von Dechend affermano che tutta Angkor Thom costituisce ''un colossale modello del ciclo precessionale''.

Anche i sette saggi della mitologia indù diventerebbero in questa ottica una metafora del moto apparente della costellazione dell'orsa maggiore appunto composta da sette stelle. La lenta e instancabile rivoluzione apparente delle sette stelle dell’Orsa attorno al Polo Nord, quale moto maestoso del trainare, ha nei secoli suggerito all’uomo l’idea di un carro e della sua ruota; i sumeri la chiamavano il Lungo Carro, nella Grecia arcaica erano associate alla Ruota di Issione rotante appunto attorno al polo, mito che sembra derivare dal dio sanscrito Ashivan, il cui nome significa Auriga dell’Asse: Asse, Aksha, era la parola sanscrita per ruota, che i greci importarono come Ixion o Issione.

Seguendo il filo di questi pensieri, potremmo dire che il Grande Carro o Ruota della vetta del Nord (Septem triones = sette buoi, settentrione) traina con i suoi Sette Raggi l’aratro della Vita: l’evidenza delle sette Stelle dell’Orsa Maggiore è di fatto la Dimora celeste dei Poli, la zona che comprende l’Orsa Minore (polo attuale planetario) ma soprattutto il Drago (polo nord solare e delle eclittiche).

Rivelatrici e degne di nota sono inoltre le figure ispirate al dinamismo della Costellazione: il “Carro di Artur” e la svastica.

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Ciò che impariamo da tutto ciò è che gli uomini hanno scoperto verità fondamentali studiando lo “spazio aereo” situato perpendicolarmente sopra le loro teste, appunto il luogo delle costellazione circumpolari. A cominciare dalla comprensione del meccanismo del Tempo e del moto precessionale, che si rende evidente con lo spostamento della Stella Polare, che segna il Nord celeste.

Il fatto che l'isola o il continente polare siano mitici è perfettamente comprensibile dando un'occhiata alla cartina disegnata da Mercator nel 1606: in mezzo al Mare Artico compare un'enorme terra quasi perfettamente circolare, con “quattro fiumi”, come quelli dell'Eden, disposti a forma di svastica, che tradizionalmente è il simbolo del Polo e della rotazione terrestre. Pure Oronzio Fineo, anche se con meno dettagli, nel suo portolano del 1531 rappresenta questa stessa terra circolare tagliata in quattro spicchi, come assi cardinali, al centro dell'Artico.

Terre che non sono mai esiste realmente e che vogliono semplicemente essere lo specchio terreno di un continente “celeste”, paradisiaco o “che sta sopra”, secondo la ben nota equazione “così in cielo come in terra”.

Entriamo qui nell'ambito dell'archeoastronomia e più specificatamente di quella del secondo tipo, ovvero lo studio degli allineamenti solari, lunari o stellari degli antichi monumenti. Per esempio molte prove dimostrano che Stonehenge rappresenti un antico "osservatorio astronomico", sebbene l'ambito del suo utilizzo sia ancora, tra i ricercatori, oggetto di disputa. Certamente Stonehenge e molti altri monumenti antichi sono allineati con i solstizi e gli equinozi. In area mediterranea risalta l'acropoli di Alatri, la cui forma riproduce alla perfezione la costellazione dei Gemelli al momento del solstizio d'estate. Anche il complesso della Grande Piramide di Giza sarebbe allineato con le stelle della cintura di Orione, rispecchiando il significato assegnato a quella costellazione dagli antichi egizi.

Più in generale L'archeoastronomia è lo studio di come gli antichi interpretavano i fenomeni celesti, come li utilizzavano e quale ruolo avesse la volta celeste nelle loro culture. Clive Ruggles suggerì che questa disciplina scientifica non dovesse essere limitata solo allo studio dell'astronomia antica, ma alla ricchezza di interpretazioni che gli antichi trovavano nella volta celeste.Viene spesso gemellata con l'etnoastronomia, lo studio antropologico dell'osservazione del cielo (skywatching) nelle società contemporanee.

Questa disciplina scientifica è anche strettamente legata all'astronomia storica, che utilizza documenti storici degli eventi celesti, e alla storia dell'astronomia, che usa documenti scritti per valutare le tradizioni astronomiche del passato.

L'archeoastronomia utilizza diverse metodologie per svelare le ricerche del passato includendo archeologia, antropologia, astronomia,statistica, probabilità e storia. Poiché questi metodi sono diversi, ed usano dati provenienti da differenti discipline, l'archeoastronomia è una scienza interdisciplinare. Il problema di integrare tutti questi dati in un sistema coerente ha impegnato per molto tempo gli archeoastronomi.

L'archeoastronomia colma le nicchie complementari dell'archeologia del paesaggio e dell'archeologia cognitiva[senza fonte]. Evidenze oggettive e la loro connessione con la volta celeste possono rivelare come un ampio paesaggio possa essere integrato dentro credenze riguardanti i cicli della natura, come l'astronomia Maya e la sua relazione con l'agricoltura. Altri esempi che hanno integrato le conoscenze e il paesaggio comprendono studi dell'ordine cosmico alla base dell'orientamento di strade e costruzioni negli insediamenti.

L'archeoastronomia è una disciplina che può essere applicata in tutte le culture e a tutte le epoche. Le interpretazioni della volta celeste sono differenti da cultura a cultura. Ciò nondimeno, quando si esaminano antiche credenze, vi sono metodi scientifici che possono essere applicati trasversalmente a tutte le culture.

è forse la necessità di bilanciare gli aspetti sociali con gli aspetti scientifici della paleoarcheologia che portò Clive Ruggles a descriverla come un: "... un campo di lavoro accademico di alta qualità da un lato, ma dall'altro con speculazioni senza controllo e al limite della follia.

Durante gli anni sessanta, Alexander Thom fece una rigorosa ricerca sui monumenti megalitici inglesi, pubblicando i risultati sul "Megalithic sites in Britain".

Oltre a presentare la sua teoria della iarda megalitica, argomentò anche, con dati statistici, che la gran parte dei monoliti in Britannia sono orientati come veri e propri calendari. A suo avviso i monumenti indicano punti sull'orizzonte dove il Sole, la luna e le principali stelle sorgono agli estremi stagionali come il solstizio d'estate e d'inverno e gli equinozi d'autunno e primavera.

E' ragionevole pensare che la stessa definizione dei primi calendari umani, ivi compreso quello in uso presso le culture mesoamericane, olmeche prima fino ad arrivare al più noto calendario Maya, siano frutto dell'osservazione degli astri.

L'interrogativo che veniamo a porci è come l'uomo preistorico sia giunto a questa incredibile capacità di calcolare in modo così preciso fenomeni astronomici di lunghissimo periodo come la precessione degli equinozi che sappiamo essere caratterizzata da un tempo pari a circa 26.000 anni e, potrei sbagliarmi, ma sfido chiunque di voi a comprendere questo moto astronomico con la sola osservazione empirica degli astri.

Un conto è la determinazione dei tempi di rotazione (ciclo giorno/notte) e di rivoluzione (stagioni) grazie all'osservazione dei cicli lunari e dei moti degli astri in quanto il loro ciclo si ripete più volte nel corso di una generazione di individui. Altro conto è un ciclo precessionale che si completa nell'arco di 26mila anni il che significa che la civiltà dell'uomo che la storia ricordi non ha avuto tempo di assistere... a meno che essa non sia molto, ma molto più antica.

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L'accusa che spesso si rivolge alla corrente dei neo-evemeristi consiste sul fatto che questo si fondi sull'idea che gli antichi fossero poveri ignoranti, che hanno mitizzato le cose che non capivano in una rivisitazione del concetto del culto del cargo. Quando il mito invece è espressione di menti raffinate che descrivevavno l'universo e le sue regole attraverso allegorie, non è originato da un'incomprensione, ma da una profonda consapevolezza.

Ed ecco che questa giusta accusa e critica nei confronti dell'approccio evemerista diventa pretesto e occasione per definire quale sia l'approccio e la chiave di lettura che noi di Atlanticus vogliamo adottare nello studio delle tematiche quali paleoantropologia, archeoastronomia e quant'altro.

Ed è una posizione che integra l'antropomorfismo del divino e il culto astronomico derivante da una erudita conoscenza di fenomeni non solo cosmici, ma anche metafisici, quantistici, che gli antichi uomini avevano già compreso migliaia (forse decine di migliaia di anni fa)

Io invece voglio qui cercare di proporre il tentativo di un approccio inclusivo di entrambe le posizioni.

Alla luce degli studi e delle ricerche avanzate e presentate in codesto articolo è ragionevole pensare che il mito antico, così come quello classico, sia la rappresentazione in chiave allegorica di erudite conoscenze preistoriche in ambiti quali astronomia, metafisica, scienza e cosmologia. Basti pensare ai testi Veda e alle analogie che vi si riscontrano con le più recenti scoperte in ambito della fisica e della meccanica quantistica che ormai aprono la porta anche a tematiche più propriamente spirituali filosofiche come concetti quali coscienza, anima, spirito. Vedasi le ricerche di Penrose e Hameroff concernenti alcune particolari strutture cerebrali, dette microtubuli, sede della coscienza e delle correlazioni tra queste e la realtà percepita (o realizzata) dai nostri sensi corporei.

Ma se il mito fosse questo si potrebbe giungere alla conclusione che nessuno degli “Antichi Dei” che spesso abbiamo coinvolto nella spiegazione delle vicende umane del remoto passato così come del tempo attuale nel tentativo di disegnare quell'ipotetica “Scacchiera degli Illuminati”, quel “Mosaico della Verità” che tanto sta a cuore al Progetto Atlanticus non siano mai realmente esistiti in quanto pura allegoria di pianeti, stelle e costellazioni.

Nessun Enki, nessun Enlil sarebbero mai esistiti. Nessuna ibridazione, nessun Player A, B, C o quant'altro. Nessun Anunnaki, Giganti, Titani, Yahweh e compagnia cantante? Tutto da rifare?!

Come conciliare questo principio con gli articoli di Adriano Romualdi sull'antropomorfismo delle divinità del mondo classico e non solo caratterizzate da alcuni tratti comuni come il biondismo e il rutilismo presenti in pressoché tutti i miti di culture antiche lontane tra di loro sia nel tempo come nello spazio se questi figure divine fossero solo allegorie di moti astronomici complessi come i cicli precessionali?

La risposta va forse letta nel tempo e nell'evoluzione temporale della cultura di quella civiltà globale prediluviana la cui esistenza non viene negata come abbiamo visto né dai neo-evemeristi, né dagli anti-evemeristi.

Suggerisco il seguente esempio. Ipotizziamo che tra 10mila anni venisse ritrovato la pagina di un testo scolastico di geometria di oggi sul “Teorema di Pitagora”.

Qualcuno potrebbe disquisire sulle caratteristiche divinatorie di Pitagora. Altri sulle sue origini, altri ancora potrebbero concludere che Pitagora non sia altro che una 'metafora' scritta per descrivere una conoscenza matematica-geometrica di un'epoca perduta.

Ecco nuovamente il conflitto intellettuale tra neo-evemeristi e anti-neo-evemeristi apparentemente inconciliabili. Ma come il Teorema di Pitagora racconta sia di una conoscenza così come di un personaggio realmente esistito allora anche i miti antichi parlano sia di conoscenze astronomico-cosmologiche sia di personaggi realmente esistiti.

Ciò che consideriamo noi del Progetto Atlanticus, che è poi la conclusione a cui siamo giunti ascoltando le diverse posizioni presentate da ricercatori provenienti da diverse scuole è che ci fu un tempo molto antico, un tempo che la storia colloca nella preistoria, durante il paleolitico, prima della glaciazione di Wurm, durante il quale esisteva una civiltà di esseri umani, il cui percorso evolutivo è ancora da chiarire all'interno del dibattito Out of Africa sì, Out of Africa, osservatori delle stelle e del cosmo, abili navigatori e in possesso di determinate, specifiche e avanzate conoscenze in ambito astronomico, architettonico e culturale. Uomini eruditi che codificarono il loro sapere in una serie di opere anche strutturali come piramidi e siti megalitici, rifacendosi alle misurazioni dei mutamenti celesti, calendari o quant'altro.

Persone che, plausimibilmente avevano caratteristiche fenotipiche particolari e comuni, come i capelli rossi, l'alta statura, i capelli biondi o gli occhi azzurri così come testimoniato dalle descrizioni registrate nei testi sacri e nelle leggende dei popoli antichi e supportato da diverse scoperte archeologiche che hanno riportato alla luce esemplari mummificati di individui proprio con le medesime caratteristiche e con tratti caucasici laddove non ci si sarebbe mai aspettato di trovarne e di cui abbiamo parlato approfonditamente nel nostro precedente articolo #147;Out of Atlantis, Una Storia alternativa”.

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Diffusione della caratteristica capelli rossi in Europa

Ed è tra questi uomini che io non posso fare a meno di pensare alla presenza di un Enki, di un Enlil, di un Yahweh, di un Viracocha, dei sette saggi indù, e di tutti gli altri Elohim (o Anunnaki) in carne ed ossa, realmente esistiti a cavallo della fine dell'ultimo periodo glaciale di Wurm che si prodigarono in seguito di civilizzare nuovamente un mondo devastato dal violento cataclisma ricordato come Diluvio Universale, da uno di essi, o da diversi di essi considerando la possibilità di diversi cataclismi locali successivi a uno globale presumibilmente avvenuto intorno ai 13000 anni fa come testimoniato da evidenze di un impatto meteoritico in quel tempo supportato peraltro dall'interpretazione talmudica di cui ai primi paragrafi del presente articolo.

Abbiamo pertanto in questa interpretazione dei fatti la coesistenza di uomini culturalmente avanzati (se non anche tecnologicamente) artefici di una civiltà tanto simile in molti aspetti quanto diversa in altri dalla nostra e autori di un complesso sistema di conoscenze astronomiche e cosmologiche che in una seconda fase venne mitizzato dai popoli del post-diluvio i quali associarono allegoricamente le descrizioni di questi saperi quali cicli precessionali, equinozi, solstizi, costellazioni con quegli stessi nomi di coloro che per i post-diluviani dovevano essere visti come 'divinità' secondo la logica del culto del cargo.

Coloro che un tempo furono uomini nel mito diventano allegoria di quel sapere che quegli stessi uomini del passato avevano scoperto. Questo non significa che non siano mai esistiti.

Significa solo che ci dobbiamo abituare a leggere il mito su tre diversi piani di lettura:
- storico (legato alla narrazione di fatti realmente accaduti in perfetto neo-evemerismo)
- scientifico (legato alla rappresentazione allegorica di saperi astronomico-cosmologici)
- metafisico (legato ad aspetti spirituali cui oggi lentamente ci stiamo riavvicinando grazie alle porte aperte dalla fisica quantistica)

E da questo punto di vista, non stiamo imparando nulla di nuovo, se non il riscoprire saperi di migliaia, forse decine, forse centinaia di migliaia di anni fa.


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MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:44 
L'ANNO ZERO DELLA CIVILTA' POSTDILUVIANA

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10117

Il mito di un grande diluvio che ricoprì tutte le terre emerse è ricollegabile alla memoria collettiva di quei gruppi umani che avevano assistito, dopo l’ultima grande glaciazione, alla formazione di mari mediterranei, alla scomparsa di continenti… Il diluvio universale ha quindi un fondo di verità storica e costituisce un archetipo, ha cioè un contenuto primordiale e universale che è presente nell’inconscio collettivo, o comunque è un primo esemplare, un modello primitivo. Del diluvio universale parlano testi antichi di varie culture asiatiche: assirobabilonesi, indiani, cinesi; ne parla la Bibbia, ne parla la mitologia classica.

Molte tra le antiche civiltà hanno al loro interno un punto che le accomuna; sia, trattato come argomento religioso, sia come epopea o mito di Eroi, sia come accadimento con crisma di storicità: questo è il Diluvio, o più Diluvi che, come nel ciclo “Avatarico” Indu, nelle tradizioni Amerinde, e nei loro paralleli racconti sia degli Aztechi messicani, dei Maya costaricensi e degli Incas peruviani, esplicitamente pongono un Diluvio alla fine di ogni Era ciclica; ed il prospetto dei quali ricorda in maniera inequivocabile - a parte qualche importante variante indigena - quello delle cosmologie arcaiche del Vecchio Continente.

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I Chibcha, popolazione della Colombia centrale, hanno tramandato il mito di Bechica. Vecchio e di razza diversa, apparve fra la popolazione colombiana portando saggezza e civiltà;un giorno però sua moglie Chia, tanto bella quanto spregevole e maligna e gelosa del marito, decise di prendere il sopravento e con l’aiuto della magia provocò un enorme diluvio in cui perirono numerose persone. Bochica, arrabbiatissimo esiliò la moglie in cielo (dove divenne la Luna, destinata a risplendere la notte), recuperò i pochi superstiti rifugiatisi nei monti ed iniziò nuovamente ad impartire loro leggi, a coltivare la terra, il culto del Sole portando nuova civiltà.

Quale connessione lega tutte queste civiltà? la risposta più plausibile è il medesimo ceppo arcaico originario, una civiltà mondiale che si espandeva colonizzando e portando la propria cultura e religione ai popoli che abitavano i continenti o il continente di quegli antichissimi tempi, una civiltà che conviveva con ceppi indigeni non ancora civilizzati (forse un bene per loro), un po’ come oggi noi conviviamo con gli Indios amazzonici, o gli aborigeni australiani, o tribù centro-africane.

Sconvolgimenti, cataclismi dovuti con tutta probabilità ad eventi celesti quali la caduta di frammenti di comete, come si può desumere dal “Libro etiopico di Enoch” o veri e propri asteroidi come quello ritenuto colpevole 65 milioni di anni fa dell’estinzione dei dinosauri, hanno decretato la fine di queste civiltà, magari poi una rinascita e nel rispetto della ciclicità una nuova distruzione.

L’archeologia e la geologia ortodosse, da sempre hanno portato avanti la teoria di una tragedia localizzata e successivamente entrata a far parte del patrimonio mitologico della gente. Ma questo non spiega in maniera convincente come le caratteristiche dei racconti sia quasi comune in tutte le civiltà. Se il disastro fosse stato locale, ogni popolo o tribù avrebbe verosimilmente creato un mito con caratteristiche diverse: alcune ad esempio avrebbero potuto essere state salvate dall’intervento di una maga, altre potrebbero essere scappate dalla forza dell’acqua creando una macchina volante, e così via. Ma come si evince leggendo questi racconti, quasi tutti prevedono come mezzo di fuga una nave o arca, costruita per opera di un solo uomo particolare e ordinata da un Dio impietosito, che salva una coppia di ogni essere vivente (=il seme della vita).

I superstiti o i nuovi creati (questi per insegnamento), hanno mantenuto un ricordo atavico, e pur nella loro seguente dispersione e diversificazione territoriale, il retaggio della loro “unicità” di civiltà progenitrice ancestrale, si possono riconoscere, in questi miti che affondano le radici in una certezza anche se non ancora del tutto dimostrata ma sicuramente storica. Il ricordo de “L’età dell’oro” lo Zep-Tepi Egizio “Il primo tempo” quando regnavano gli Dèi e la pace si estendeva sul mondo è nostalgicamente presente in tutti i popoli. In Mesopotamia costituisce uno dei principali argomenti delle mitologie sumera e assiro-babilonese. Addirittura fondamentale sembrerebbe per l'ideologia religiosa sumera, in quanto il diluvio vi è inteso come l'evento sacro che divide qualitativamente il tempo in due parti: l'ante-diluviano e il post-diluviano.

Scavi in Mesopotamia testimoniano di una grande alluvione verificatasi certamente verso il 2900 a. C., agli inizi del periodo protodinastico: tracce consistenti di questo diluvio sono presenti a Shuruppak, la città del diluvio secondo la leggenda mesopotamica di Utnapishtim, mentre quelle trovate a Ur appartengono a due diluvi molto più limitati, uno più recente e uno più antico di quello avvenuto a Shuruppak.

Secondo la tesi di Hancock la deglaciazione è stata repentina ed improvvisa; allo scioglimento delle enormi distese di ghiaccio avrebbe risposto un repentino innalzamento delle acque del mare che avrebbero inghiottito coste, porti, città marinare ed anche alcune di quelle più interne; si parla infatti di un aumento del livello dei mari anche di 100 mt. In effetti oggi in tutte le parti della Terra abbiamo tracce inconfutabili del passaggio delle acque come reperti fossili marini nell’entroterra (si pensi ad esempio che in una palude interna dell’America centrale sono sta rinvenuti i resti d’una balena!). Dunque, afferma Hancock, vengono alla luce in modo piuttosto palese:

Cita:
“… non solo le chiare impronte di un popolo sconosciuto che prosperò DURANTE l’ultima glaciazione, ma pure i segni di un’intelligenza superiore in possesso di sofisticate tecnologie e dettagliate conoscenze scientifiche sulle ere cosmiche PRIMA di qualunque civiltà conosciuta...”


Non altrettanto fondamentale è l'argomento nella posteriore letteratura assiro-babilonese che, tuttavia, fornisce maggiori ragguagli sulla vicenda mitica. oltre al problema delle vie e dei tempi di diffusione del racconto, a partire da una cultura originaria in cui avrebbe preso forma e significato, sono di fondamentale interesse le differenziazioni dallo schema comune, per la loro capacità di connotare e qualificare le culture che ne sono portatrici. come accade in un mito indonesiano (is. di Nias) che parla di un'inondazione rivolta contro le montagne. La Terra era ancora confusa con le acque, come appare in numerosi miti cosmogonici, e il diluvio è inteso come un rinnovamento, una rigenerazione: una specie di grande bagno purificatore e restauratore delle energie originarie, fonte della rinascita o della nascita di un'umanità nuova.

Tale idea comporta, almeno in potenza, una concezione ciclica del divenire: quasi che l'umanità perfetta delle origini si corrompesse con il passare del tempo e, a un dato momento, avesse bisogno di essere rigenerata per dar vita a un nuovo ciclo. Platone narra, del Diluvio atlantideo, e il riferimento cronologico di cui egli parla (9.000 anni prima del millennio dei propri contemporanei - tale sarebbe la distanza dell'avvenimento citato) è un riferimento generico, da intendere nel senso che l'evento si era verificato 9 millenni prima; cioè, secondo l'attuale datazione, nell'XI millennio a.C. Il calcolo astrologico dà esattamente la data del 10.960 a.C., scadenza ciclica del "Diluvio di Acqua".

Precisa che i Greci rammentavano nelle loro memorie solo l'ultimo Diluvio, di Deucalione e Pirra, ma che molti altri ne erano capitati in tempi più remoti. Non solo, ma aggiunge che tale tipo di fenomeno sarebbe avvenuto "di nuovo nel solito intervallo d'anni", mostrandoci dunque che non era questione di favoleggiamenti - come purtroppo molti da allora fino a oggi hanno supposto - bensì di "vera storia". La Mesopotamia tratta a sua volta del Diluvio nell'Epopea di Gilgamesh, nell’Atra-Hasis, e nel mito Sumerico del Diluvio di Ziusudra; la Bibbia con il suo Noé, (racconto di chiara provenienza mesopotamica), e con essa le varie versioni tratte da libri apocrifi.

Possiamo chiamare questo soggetto mitico in vari modi: Noè, Deucalione, Ermete-Toth, Quetzacoatl, ma, egli si salvo' su di un'arca, assieme alla sua famiglia e a molti animali, portando con se le conoscenze scientifiche, tecniche ed esoteriche.

Focalizziamoci ora sulla figura chiave di Noè, nipote di Matusalemme, il che lo rende discendente diretto di Adamo ed Eva lungo la linea di Set la cosiddetta "grande genealogia dei Setiti" nel capitolo 5 della Genesi.

Bisnonno di Noè fu Enoch. Il patriarca Enoch era il candidato ideale per assumere un ruolo importante nella letteratura apocrifa fiorita negli ultimi secoli prima di Cristo e nel primo secolo dell'era cristiana. Oltre a vantare un'indubbia antichità che lo fa vivere in un'epoca mitica e particolarmente suggestiva, esso rappresenta anche il settimo patriarca antidiluviano, ad imitazione del settimo re antidiluviano della tradizione babilonese, Emmeduranki, destinatario della rivelazione dei segreti divini. E fu così che Enoch si trasformò nel prototipo dell'iniziato ai misteri celesti, diventando il prestanome di tutto un corpus di apocrifi a carattere sapienziale.

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Enoch, patriarca antidiluviano padre di Matusalemme, di lui nella Genesi si afferma che “camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso”, si precisa, cioè, che Enoch visse in stretto contatto con Dio o con i suoi rappresentanti celesti, e poi fu rapito e portato definitivamente da loro. Ciò significa che la vita di Enoch fu qualcosa di misterioso e di eccezionale, che è appunto raccontata nel libro di Enoch, il quale non è incluso ufficialmente nella Bibbia perché, come dice S. Agostino, il libro di Enoch era troppo antico per essere ammesso nel canone biblico, anche se non è più antico della maggior parte dei racconti che formano la Genesi della Bibbia ufficiale, tenendo presente anche il fatto che il libro di Enoch fu usato ufficialmente dalla dottrina cristiana fino al III secolo.Il Libro di Enoch è, quindi, un testo apocrifo di origine giudaica la cui redazione definitiva risale al I secolo a.C.

L’intera opera non è altro che un resoconto particolareggiato dei viaggi che Enoch intraprese con esseri non di questo mondo che sono identificati con gli Angeli e con gli Arcangeli. Tuttavia, se dopo ogni viaggio Enoch ritornava sulla Terra, nell'ultimo viaggio egli rimase a vivere fra gli “Angeli”.

Il libro di Enoch non è altro che la versione biblica di un testo Sumero nel quale il protagonista è chiamato col soprannome Enmeduranki, che significa "Maestro nell’unione fra cielo e Terra". Ciò non è strano, poiché molti studiosi ritengono che la Genesi della Bibbia sia la copia dell’antichissima “Storia Fenicia” di Sanchoniathon, e che la stessa Genesi biblica sia un adattamento successivo di quella Sumerica. Inoltre, storie simili sono presenti in molte tradizioni e religioni antichissime, come nei Veda, i testi sacri dell’antica cultura indiana.

Quindi il libro di Enoch è una delle testimonianze importanti del contatto di un uomo con specie non di questo mondo, questa volta, però la veridicità della storia è supportata dalle varie citazioni di riferimento della Bibbia, che vanno dalla Genesi all'Apocalisse di San Giovanni, e le citazioni di vari Santi che rendono tale testo meno apocrifo e più ufficiale che mai. L’esistenza di U.F.O., di alieni, di esseri multidimensionali, di umanità che sono esistite prima di noi e di altre cose misteriose, è perfettamente compatibile con la dottrina cristiana e, più generalmente, con Dio. Ma non bisogna dimenticare che da sempre l’uomo interpreta i testi sacri, credendo spesso in cose non vere perché l’uomo non ha saputo interpretare i testi sacri. Effettivamente è illogico pensare che Dio avesse detto che il nostro è il solo mondo abitato e questo lo sapevano pure molti personaggi biblici, come San Paolo che in una lettera agli Ebrei parla di mondi (abitati) creati dalla manifestazione (il verbo) di Dio.

Ma il Libro di Enoch oltre a testimoniare questo particolare rapporto tra questi “Antichi Dei” e gli Uomini ci interessa in questo articolo poiché ci offre la descrizione della nascita di Noè. Una nascita che viene descritta come inaspettata da parte del padre di Noè, Lamec, il quale, per le strane fattezze del figlio chiede a suo padre, Matusalemme, di conferire proprio con Enoch attanagliato dal dubbio che sua moglie possa avere concepito suo figlio con un, testuali parole, figlio del Dio del cielo.

Il suo corpo era bianco come la neve e rosso come un bocciolo di rosa: i suoi capelli in lunghi riccioli erano bianchi come la lana e gli occhi erano molto belli.. E quando aprì gli occhi, illuminò tutta la casa come il sole e la casa intera era splendente.

Noè sembra nascere quindi come portatore di anomale caratteristiche fenotipiche cro-magnoidi o neanderthaliane in una famiglia di Sapiens in un tempo in cui le relazioni tra Uomini e Dei (e semi-dei) erano molto più strette e consuete di quanto possiamo immaginare.

Un Noè imparentato con gli dei secondo le logiche che abbiamo presentato in “Out of Atlantis” spiegherebbe il perché la sua famiglia venne scelta per preservare la specie e la genetica 'divina' e ciò eleverebbe lui e i suoi figli niente di più al ruolo dei Nephilim, o dei Vigilanti se utilizziamo la nomenclatura presentata nel Libro di Enoch. Ovvero dei Cro-Magnon, dei Neanderthal, le cui caratteristiche abbiamo visto in articoli precedenti essere spesso associati ad elementi divini, destinati a diventare i primi sovrani della futura civiltà post-diluviana.

Ed ecco perché Enki, l'Anunnako apicale, informò Noè, un figlio di Sapiens ma con caratteristiche da Nephilim, caratteristiche cro-magnoidi quali il capello chiaro e l'occhio azzurro, della necessità di costruire un'arca dove contenere le specie animali e vegetali della Terra fornendo specifiche istruzioni per la sua costruzione.

Secondo l’Antico Testamento, le dimensioni straordinarie dell’Arca misuravano trecento cubiti in lunghezza, cinquanta cubiti in larghezza e trenta cubiti in altezza. Storicamente si pensa che un cubito sia la lunghezza dell’avambraccio di un uomo o circa fra 45 e 50 cm. E’ interessante rilevare che le dimensioni dell’Arca con le proporzioni sei a uno (lunghezza a larghezza) venivano considerate così idonee alla navigazione che l’architetto della marina George W. Dickie usò volutamente la stessa proporzione quando costruì la nave degli USA ‘Oregon’, che fu varata nel 1898. Per un certo tempo, la Oregon fu considerata la nave ammiraglia della flotta americana ed era uno dei vascelli più stabili mai costruiti.

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Alla costruzione dell'arca, nella forma e misura dettate a Noè, unico uomo "giusto" meritevole di salvezza, partecipano i suoi figli e le loro mogli che, salvandosi dalla catastrofe, diventeranno i capostipiti delle popolazioni della terra post-diluvio.

Possiamo credere alla favoletta delle coppie di animali che salgono sull'arca in fila indiana così come ci viene raccontata a catechismo, ma è ovvio che se intraprendiamo la strada di una concreta storicità dell'evento del Diluvio e della storia di Noè è evidente che le parole del testo biblico vogliono descriverci qualcosa d'altro.

Più che a coppie di animali e piante è più ragionevole pensare a una sorta di banca genetica nella quale Noè e la sua famiglia, ovvero il gruppo di persone selezionate per la preservazione della specie, abbia caricato le matrici genetiche di quegli animali e vegetali utili alla nuova civiltà destinata a sorgere dalle ceneri dell'età dell'oro atlantidea.

Nulla di diverso rispetto a quello che stiamo facendo anche noi oggi nell'estremo nord del mondo e chissà in quanti altri posti sconosciuti.

Nell'isola di Spitsbergen, desolato arcipelago delle Svalbard, è stata ormai completata la superbanca delle sementi, destinata a contenere i semi di tre milioni di varietà di piante di tutto il mondo. Una «banca» scavata nel granito, chiusa da due portelloni a prova di bomba con sensori rivelatori di movimento, speciali bocche di aerazione, muraglie di cemento armato spesse un metro.

Tra sorrisi e flash dei fotografi, nel 2008 è stato inaugurato il Svalbard Global Seed Vault, o «Deposito sotterraneo globale dei semi». Il premier norvegese ha portato dentro la prima scatola di sementi. Perché di questo si tratta: una «banca dei semi», un deposito che conterrà semi di 100 milioni di specie vegetali di uso alimentare, raccolti in un centinaio di paesi.

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La prima scatola introdotta nella nuova banca includeva semi di varietà uniche di mais, riso, grano e sorgo provenienti da Asia e Africa, e poi varietà europee e sudamericane di melanzane, lattughe, orzo e patate. Una banca dei semi è sempre una cosa utile, e durante la cerimonia inaugurale lo hanno sottolineato i due «padrini»:

«Con il cambiamento del clima e altre forze che minacciano la diversità della vita sul nostro pianeta, la Norvegia è orgogliosa di ospitare una struttura capace di proteggere qualcosa che non sono solo i semi, ma la base essenziale della civiltà umana», ha detto il premier Stoltenberg. Mentre Maathai, fondatrice del Green Belt Movement africano - un movimento partito dalla semplice attività di piantare alberi per poi diventare un movimento insieme ambientalista e per la giustizia sociale, ha sottolineato «l'interesse pubblico di una banca di semi». Bei discorsi, tenuti a 130 metri all'interno della montagna ghiacciata: il Global Seed Vault è un frigorifero naturale. Ieri erano già arrivate 676 scatole contenenti 10 tonnellate di semi di 268,000 diverse varietà vegetali. Impresa imponente, e ovviamente costosa.

Il Global Seed Vault appartiene al governo della Norvegia, che ne ha finanziato la costruzione con circa 9,5 milioni di dollari; poi si tratta di raccogliere i campioni di semi, impacchettarli, schedarli e spedirli nella nuova banca, e questa parte del progetto è affidato a una fondazione chiamata Global Crop Diversity Trust, che ha raccolto contributi di diversi paesi e agenzie internazionali (e un importante finanziamento della Bill e Melinda Gates Foundation).

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La stampa internazionale l'ha soprannominato il «Doomsday vault», il deposito del «giudizio universale»: l'idea è che se l'umanità dovesse far fronte a un disastro, un'alluvione universale, un inverno nucleare, in quel deposito troverebbe tutti i semi adatti a ogni regione, clima, terreno, per ricominciare da capo la produzione agricola.

Tornando a Noè avevamo lasciato il nostro intrepido alle prese con la costruzione dell'arca...

Cita:
“... Il Signore disse a Noè: «Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. D'ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina. Anche degli uccelli mondi del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra...”


Cita:
“… Nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò nell'arca Noè con i figli Sem, Cam e Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli...”


Cita:
“... Quelli che venivano, maschio e femmina d'ogni carne, entrarono come gli aveva comandato Dio: il Signore chiuse la porta dietro di lui... Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l'arca che si innalzò sulla terra...”


Un racconto quello del Diluvio che seppur romanzati secondo la mitizzazione dei fatti ad opera dei popoli antichi oggi è quasi confermato essere memoria di fatti realmente accaduti.

Alcuni geologi che studiano il paesaggio della zona nord-occidentale degli Stati Uniti credono che, in un arco di tempo molto lungo, fino a 100 catastrofiche inondazioni abbiano colpito quell’area. A quanto dicono, nel corso di una di queste inondazioni la regione fu sommersa da un muro d’acqua alto 600 metri che avanzava fragorosamente a oltre 100 chilometri orari: spostò 2.000 chilometri cubi d’acqua che pesavano oltre 2.000 miliardi di tonnellate. Scoperte simili hanno indotto altri scienziati a credere che la possibilità che un diluvio universale ci sia veramente stato è concreta.

I geologi hanno individuato alcuni anomali innalzamenti eccezionali del livello medio del mare, centrati intorno al 12400, 9600 6000 e 5500 a.C. Dopo ognuno di essi il mare risultò molto più alto. L'ultimo diluvio dovrebbe aver innalzato il livello di vari metri sopra l'attuale. Questa spinta del mare fratturò la diga naturale del Bosforo e provocò l'inondazione del lago interno alla foce
del Danubio.

Quest'ultimo evento è stato scoperto da ricercatori che hanno studiato il Mar Nero occidentale. Sono state scoperte tracce di città e il tutto è databile proprio al 5500 a.C.

Vasile Droj universologo di Roma che a dispetto del nome si tratta di una città della Romania, elaborò la teoria più di 20 anni fa ma recenti ricerche sia personali che di alcuni scienziati nella detta regione indusse l’autore a scrivere su un libro le sue ricerche sull’origine della civiltà.

Ecco i preliminari: nel 1997 due ricercatori USA Wiliam Ryan e Walter Pitman del Lamont Doherty Earth Observatory di Palisades studiando delle conchiglie fossili e vari residui geologici dai fondali osservarono con stupore che non superano 7.500 anni, prova evidente che il mare non è più vecchio di quell’età. Un altro americano Robert Ballard l’esploratore del Titanic individuò a più di 100 metri sotto l’acqua strutture rettangolari di pietra proveniente da quell’epoca. Anche una spedizione scientifica organizzata dal CNR e dalla Columbia University ha trovato sui fondali delle coste turche indizi geologici attinenti all’ipotesi di un cataclisma recente 7.500 anni fa.

Le prove degli antichi eventi catastrofici convalidano la teoria dei ricercatori americani secondo la quale fu uno straripamento del Mediterraneo nel Mar Nero in seguito all’innalzamento delle acque. Un lembo di terra nel Bosforo si rompe e una cascata gigantesca di acque inonda per anni e anni la parte bassa dove si trovava un lago che poi diventò il Mar Nero. Fu un Diluvio che nei miti diventò il Diluvio universale che si tramandò alla tradizione di molti popoli della zona e anche di regioni molto lontane.



Le antiche culture mediterranee sono abbastanza vecchie però non risalgono nella memoria al di là della soglia dei 6000 anni Gli storici antichi greci conoscevano abbastanza bene la civiltà egizia descrivendo in dettaglio eventi di migliaia di anni prima di loro però sapevano poco di una civiltà nordica di cui però parlavano con grande ammirazione e rispetto.

Era il Regno degli "Iper Borei" Questo perché la civiltà Atlantideo iperboreica era di altre migliaia di anni più antecedente. L’aureola e il granderispetto verso quella civiltà veniva dal fato che i greci consideravano i loro grandi dei e antenati scesi proprio da là. La localizzazione della Zona non sarebbe difficile: era là da dove veniva il freddo vento Boreas cioè al di là del Istros (Danubio-Potamos) intorno ai Monti Carpati più o meno dove si trova oggi la Romania. Questa era la zona approssimativa dove i superstiti della grande catastrofe atlantidea si stabilirono oppure erano già contemporanei se non precedenti agli Atlantidei.

Proprio da questa zona ponte fra Oriente ed Occidente vengono i più antichi reperti archeologici che toccano e superano la soglia dei 6000 anni come la ceramica neolitica ultrageometrica ma specialmente le geometriche statuine di pensatori (vedi il Pensatore di Hamangia fig.1). che nascondono nel loro corpo parametri e segreti delle piramide egizie più di 1.500 anni prima della loro costruzione. Nella stessa zona nel sito archeologico di Tartaria (Romania) sono state trovate tavolette con scrittura cuneiforme 1.000 anni più vecchie che quelle sumere (fig. 2). Ecco perché i greci attribuivano ad Apollo che veniva da quelle zone la paternità della scrittura e dei numeri.

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I greci stessi sono venuti dal nord. le tre tribù di migratori "i ioni, i dori e i corinti sono scesi dalla zona dei Carpazi per fondare poi la Grecia. Nello stesso nord iperboreo si trovavano tutti i centri di grande iniziazione dai misteri eleussini ai misteri orfici.

Inizialmente i ricercatori hanno ipotizzato che l'invasione marina nel bacino del Mar Nero sia stata rapida e che abbia provocato un'onda talmente alta da sollevare le barche e navi dei siti della costa orientale fino a portarle in cima alle montagne esattamente come accadde all'arca di Noè arenatasi alla fine del disastro sul monte Ararat.

Come abbiamo già descritto in alcuni nostri precedenti articoli sappiamo che, solitamente, quando ci riferiamo alle vicende bibliche della Genesi, le immaginiamo verificarsi in quella stessa area geografica tra la Palestina e le valli del Tigri e dell’Eufrate, ovvero dove poi si mossero le storie di Abramo, di Isacco, Giacobbe, e degli altri protagonisti della storia degli Ebrei. In realtà non vi sono elementi nel testo biblico originale che lascino intendere che quanto raccontato in Genesi relativamente alle storie dei patriarchi, da Adamo a Noè, sia avvenuto davvero nell’antica mesopotamia o nella terra di Sumer.

La storiografia descrive le prime società umane antecedenti alla fine dell’ultimo periodo glaciale come primitive e dedite alla raccolta e alla caccia non essendosi ancora realizzata la cosiddetta ‘rivoluzione agricola’. Ma sono quelle stesse società che avrebbero eretto complessi megalitici giunti fino a noi come Gobekli Tepe in Turchia, i Nuraghe in Sardegna e, se retrodatiamo la datazione delle costruzioni della piana di Giza come molti asseriscono, anche le Piramidi e la Sfinge. Senza dimenticare le tanto discusse Piramidi di Visoko.

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Ricostruzione grafica piramide di Visoko

Già nelle ricerche che hanno portato alla pubblicazione del libro “Genesi di un Enigma”, è stato affrontato il ruolo e l’importanza storica di quei siti archeologici come Gobekli Tepe, Kiziltepe e le più recenti scoperte, sempre alle pendici montuose del complesso montuoso dell’Ararat, del sito di Karahan Tepe, a 63 km a est di Urfa, anch’esso risalente a più di 10.000 anni fa con pilastri a T e decorazioni molto simili a quelle di Gobekli Tepe.

Quello stesso Ararat dove appunto la Bibbia racconta essersi arenata l’arca di Noè. Arca che forse non proveniva da sud, come è facile immaginare collocando la storia di Noè propria della tradizione mesopotamica; forse arrivava dal Nord, dalla regione del Mar Nero, ove si era insediata e sviluppata una civiltà urbana più evoluta degli standard che la storia classica è solita riconoscere al periodo storico pre-glaciale.

Una civiltà che, fino a prima del Diluvio, diede origine ai complessi megalitici dell'area, da Baalbek alle Piramidi di Visoko, dalle Ziggurat ai complessi di Arkhaim in Russia, da Derinkuyu alla base del Bucegi in Romania fino alle più recenti scoperte di piramidi in Crimea.

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Uno dei regni del tempo di Atlantide, andato cancellato con il Diluvio Universale la cui memoria si è preservata nel mito grazie ai sopravvissuti alla catastrofe. Sopravvissuti umani, e meno umani, più divini, come Noè, caratterizzati da alcune caratteristiche come appunto l'occhio azzurro ora non più esclusivo dei Nephilim, ovvero della seconda generazione di Anunnaki ma a disposizione degli esseri umani attraverso Noè e la sua discendenza.

Uno studio danese conferma: il colore deriva da una mutazione avvenuta fra 6 e 10 mila anni fa. Secondo una recente ricerca pubblicata sul Daily Mail e condotta da scienzati dell’Università di Copenhagen (dove avere gli occhi chiari non è certo una rarità), il colore azzurro degli occhi deriva da una mutazione genetica che risale a circa 10000 anni fa. Lo studio, pubblicato sul periodico Human Genetics, dimostra il verificarsi di una singola mutazione in un gene chiamato OCA2. La mutazione sarebbe avvenuta in una sola persona, abitante le coste del Mar Nero e avrebbe causato la cessazione di produzione del pigmento castano, modificandolo in blu.

«All’inizio c’erano gli occhi bruni. Il cambiamento è legato al gene OCA2 che ha letteralmente spento la capacità di produrre il marrone», annuncia la sua suggestiva teoria il danese Hans Eiberg, università di Copenhagen che ha coordinato una squadra di genetisti. «è la mia scommessa», aggiunge il ricercatore, lasciando trasparire l’orgoglio di appartenere a una popolazione composta in prevalenza da individui con caratteristiche tipiche del Nord Europa.

Il professore è arrivato alla conclusione anche guidato da un ragionamento che viene ripercorso in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Human genetics. L’antichissima mutazione, avvenuta nel Neolitico, riguarda un gene coinvolto nella produzione della melanina, il pigmento che dà colore ad alcune parti del corpo (capelli, occhi e pelle). Il castano in seguito all’alterazione non viene spento del tutto ma semplicemente ridotto in modo che avvenga una diluizione, uno schiarimento dell’iride. Nei soggetti albini come poteva essere Noè invece l’Oca2 viene disattivato completamente.

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Bimbo albino... Noè aveva questo aspetto alla nascita?

Per giungere a queste conclusioni Eiberg ha esaminato il Dna di individui con occhi azzurri che vivono in aree diverse come Giordania, India, Danimarca e Turchia. Tutti hanno rivelato lo stesso assetto genetico. Da qui la teoria: «Hanno le stesse origini». Probabilmente dunque nella zona a nord est o nord ovest del Mar Nero a un certo punto della storia ci fu una migrazione che portò gli occhi azzurri nei Paesi dove oggi li ritroviamo stabilmente.

Legge con curiosità la ricerca Alberto Piazza, ordinario di genetica umana all’università di Torino, ora impegnato in un lavoro sull’origine caucasica degli Etruschi della Toscana: «L’ipotesi di datazione del cambiamento mi pare innanzitutto un po’ campata in aria — argomenta —. La mutazione è concentrata in una sequenza del Dna ed è stato funzionale all’ambiente come potrebbe essere una importante variazione del clima o una malattia. Le ragioni sono sconosciute. Un po’ quello che sappiamo è avvenuto per il colore della pelle dell’uomo. In origine era nera poi in certi gruppi ha prevalso quella bianca.

Seguire il percorso del carattere occhio azzurro significa seguire il percorso dei Nephilim e della discendenza di Noè attraverso le tre stirpi di Cam, di Sem e di Iafet partendo propriò laddove l'arca si è andata ad arenare: le pendici del monte Ararat.

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In tal senso ci viene in aiuto la genetica a supporto dell'antropologia e in particolar modo lo studio effettuato da Klyosov, A. e Rozhanskii, I. nel loro “Re-Examining the "Out of Africa" Theory and the Origin of Europeoids (Caucasoids) in Light of DNA Genealogy. Advances in Anthropology,” pubblicato nel 2012 in cui sono stati analizzati ben settemila aplotipi di 46 sottoclassi di 17 principali aplogruppi. La constatazione finale che gli aplogruppi Europoidi caucasici non discendono da aplogruppi "africani" A o B è corroborata dal fatto che i portatori di aplogruppi caucasoidi, così come di tutti gli aplogruppi non africani non portano né SNPs M91 , P97 , M31 , P82 , M23 , M114 , P262 , M32 , M59 , P289 , P291 , P102 , M13 , M171 , M118.

Origini diverse per diverse popolazioni umane che supportano l'idea della multiregionalità in sostituzione della più accreditata teoria antropologica dell'Out of Africa.

Ma è davvero possibile pensare che il carattere genetico collegato al colore celeste dell'occhio che gli antichi attribuivano essere una caratteristica divina come ricordano gli articoli di Adriano Romualdi vede la luce “solo” qualche migliaio di anni fa nella storia del genere Homo?

Facciamo finta invece che tale carattere fosse prerogatica degli “Antichi Dei” i quali non dovevano mescolare il loro codice genetico con quello dei Sapiens. Cosa che invece alcuni fecero scatenando le ire di una fazione di “Antichi Dei” che prendono il nome nell'interpretazione logico-storica del Progetto Atlanticus di Enliliti, in contrapposizione agli Enkiliti, ovvero agli Angeli Caduti citati nel libro di Enoch.

Ipotizziamo allora che l'occhio azzurro, il capello chiaro, la pelle bianchissima, fosse il retaggio genetico di coloro che dal cielo, Marte nelle nostre più recenti ipotesi, scesero sulla Terra. Pianeta diverso, caratteristiche fisiche completamente diverse e penalizzanti in un differente ambiente climatico come quello terrestre.

Teoria peraltro che troverebbe alcune conferme in quanto sostenuto nell'opera del dottor Ellis Silver e pubblicata recentemente sul Daily Mail. Il fatto che tanti soffrano di mal di schiena dimostra che ci siamo evoluti in una situazione di gravità più bassa rispetto a quella terrestre. Il fatto che l’esposizione prolungata al sole può crearci guai seri di salute. Il fatto che la testa del bambino che nasce è molto grande e crea sofferenze e problemi alla madre nel parto (addirittura con il rischio di morte per la donna e per il figlio), fatto questo che non si presenta con altre specie terrestri. Il fatto che ci ammaliamo spesso e questo potrebbe dipendere dal fatto che il nostro orologio corporale è tarato sulle 25 ore e non sulle 24 (aspetto questo che è dimostrato dagli studiosi del sonno) e molti altri elementi lasciano supporre al dott.Silver che le nostre caratteristiche fisiche non sono del tutto autoctone della Terra.

Come allora potrebbe essere il nostro 'occhio azzurro'. Ciò ci consente di spostare l'attenzione per un attimo dal Mar Nero all'Oceano Atlantico quale reale punto di origine di quelle caratteristiche genetiche il cui percorso segna il cammino che gli “Antichi Dei” haano seguito dopo il Diluvio per portare la civiltà nella nuova umanità post-diluviana.

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Nella mappa possiamo osservare in arancione il percorso fatto dal Sapiens secondo la teoria antropologica dell'Out of Africa che si integra con il percorso in rosso fatto dagli Atlantidi dopo l'inabissamento di una delle principali insediamenti atlantidei: l'arcipelago delle Azzorre.

Il tutto integrato ulteriormente dalla storia di Noè, figlio di un Nephilim atlantideo e quindi portatore del gene occhio azzurro, atterrato alle pendici del monte Ararat dopo l'inondazione del Mar Nero.

Sempre sul piano genetico vale la pena osservare le seguenti due mappe tematiche che rappresentano gli studi genetici mitocondriali tratti dal cromosoma X e dal cromosoma Y sovrapposti nell'ultima alla mappa di Donnelly descrivente l'Impero di Atlantide secondo la sua interpretazione storica del mito.

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Dalla mappa di Donnelly osserviamo che il fu impero di Atlantide includeva tutta l'area circostante il Mar Nero: Caucaso, Georgia, Crimea, Ucraina e Turchia e a scendere la valle del Tigri e dell'Eufrate.

Quella Turchia di Kisiltepe, di Gobekli Tepe edificate proprio nei pressi del massiccio montuoso di cui il monte Ararat fa parte. Ovvero dove la Bibbia ci dice che si sia arenata l'arca...

Non voglio fare l'Adam Kadmon della situazione, ma è possibile che siano tutte coincidenze?

La risposta forse ce la può offrire la chiave di lettura suggeritaci da un nostro collega ricercatore di nome Alessio Pallini, il quale gestisce la pagina facebook: “E.DIN: la Terra degli Anunnaki”.

http://www.facebook.com/LaTerraDegliAnunnaki

Come abbiamo detto prima sappiamo dalla Bibbia che l'arca di Noè aveva delle specifiche precise di cantieristica navale riprese anche dai più moderni costruttori nautici. Le dimensioni straordinarie dell’Arca misuravano trecento cubiti in lunghezza, cinquanta cubiti in larghezza e trenta cubiti in altezza. Storicamente si pensa che un cubito sia la lunghezza dell’avambraccio di un uomo o circa fra 45 e 50 cm ovvero le dimensioni dell'arca dovevano essere circa ossia circa 137 metri di lunghezza, 23 di larghezza e 13 di altezza.

Ad ogni modo la descrizione che viene data dell'arca è quella di un parallelepido che riscontriamo anche nelle rappresentazioni artistiche che i pittori hanno realizzato nel corso dei secoli. Misure e forme che hanno fatto pensare qualche anno fa di avere ritrovato l'arca proprio là dove il testo biblico dice di essersi arenata.

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La cosiddetta “anomalia del monte Ararat” è un oggetto non identificato che appare su alcune fotografie, risalenti alla fine degli anni quaranta, sulla cima del monte Ararat, in Turchia. Secondo alcuni studiosi biblici potrebbe trattarsi dei resti della struttura lignea dell'arca di Noè che, secondo il racconto della Bibbia, si sarebbe arenata proprio su questo monte.

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L’Ararat, la cui cima non è facilmente accessibile, si trova al confine tra la Turchia e l'Armenia, allora parte dell'Unione Sovietica. Era quindi una zona militarmente rilevante. Sono state condotte numerose osservazioni dallo spazio che non hanno chiarito l'origine dell'anomalia. La prima ed unica spedizione di ricerca in situ è stata organizzata nel 2004, ma le autorità turche le hanno impedito di raggiungere la cima.

L'anomalia è situata all'estremità nord-ovest dell'altopiano occidentale del monte Ararat, a 4.724 metri di altitudine, a circa 2,2 chilometri in linea d'aria dal vertice (5.137 metri). L'oggetto sembra essere situato sul bordo di una brusca pendenza. L'anomalia venne localizzata per la prima volta nel corso di una missione aerea dell'US Air Force, il 17 giugno 1949; il monte Ararat si situava infatti sulla frontiera tra Turchia e Unione Sovietica, ed aveva dunque un importante interesse strategico durante la guerra fredda. L'oggetto venne subito analizzato perché "troppo lineare per essere naturale e apparentemente sotto il ghiaccio" e presto si ipotizzò che si trattasse dell'arca di Noè. I servizi segreti statunitensi ipotizzarono anche la presenza di una base segreta sovietica nel punto in cui si era fotografata l'anomalia.

La pellicola fotografica venne classificata come segreta, benché con un livello di riservatezza poco elevato, ed altre fotografie sono state scattate nel corso degli anni da aerei e da satelliti. Sei foto del 1949 furono declassificate nel 1995 ai sensi del Freedom of information Act e trasmesse a Porcher Taylor, professore della University of Richmond, presso il Center for Strategic and International Studies di Washington, un'istituzione specializzata nello studio delle informazioni ottenute via satellite. Taylor divenne uno dei più grandi sostenitori del ritrovamento dell'arca.

L'area del Monte Ararat è stata inoltre ispezionata per ulteriori ricerche dallo SPOT nel settembre 1989, dal Landsat nel 1974 e dallo Space Shuttle nel 1994, oltre che dal KH-9 nel 1973 e dal KH-11 nel 1976 e nel 1990-1992. A causa delle pessime condizioni meteorologiche e delle limitazioni tecnologiche, queste non furono in grado di risolvere il mistero; alcuni studi hanno però confermato la presenza di legno sotto il ghiaccio e di una struttura piana. Nel 2000 venne organizzato un progetto di ricerca, in collaborazione tra Insight Magazine e Space Imaging (ora GeoEye), utilizzando IKONOS; il satellite registrò l'anomalia il 5 agosto e 13 settembre 2000, ricostruendo inoltre un video computerizzato delle immagini.

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Nel 2004 Daniel McGivern annunciò che intendeva finanziare una spedizione da 900.000 dollari sulla cima del monte Ararat per il mese di luglio dello stesso anno, con lo scopo di stabilire la verità sull'anomalia dell'Ararat. Dopo vari preparativi, tra cui l'acquisto di immagini satellitari appositamente realizzate, le autorità turche tuttavia non gli concessero l'accesso alla cima, poiché quest'ultima è situata in una zona militare. La spedizione fu in seguito accusata dalla National Geographic Society di essere soltanto un colpo mediatico abilmente montato, dato che il suo capospedizione, il professore turco Ahmet Ali Arslan, era stato già accusato di avere falsificato fotografie della presunta arca.

La CIA, che ha esaminato le immagini satellitari di McGivern, ha d'altra parte ritenuto che l'anomalia fosse costituita da "strati lineari di ghiaccio coperti dalla neve accumulata di recente". Uno dei membri della spedizione McGivern si è in seguito dissociato dal proprio gruppo sostenendo che alcuni pezzi di legno ritrovati sull'Ararat fossero probabilmente stati portati lì appositamente da alcuni manovali curdi che erano a conoscenza della spedizione.

Ma se la Bibbia afferma che l'arca avesse quelle misure perché alcuni sostengono che fosse rotonda?

Da una traduzione di una tavoletta mesopotamica in argilla, antico 4 mila anni e ricoperto di segni incisi in cuneiforme interpretato dal curatore del British Museum, Irving Finkel, si è subito capito di trovarsi di fronte alla descrizione del Diluvio Universale. Tuttavia ha notato un dettaglio originale: nel testo ci sono le indicazioni per costruire una enorme barca di forma circolare. “è stata una sorpresa scoprire che l’Arca era rotonda”, ha detto lo studioso ai giornalisti dell’Associated Press.

Sul suo blog ha aggiunto: “Nessuno aveva mai pensato a questa possibilità. La tavoletta descrive il materiale necessario per costruirla: corda in fibra di palma, nervature di legno e tinozze di bitume bollente per rendere il vascello impermeabile. Il risultato è un tradizionale coracle (una barca fluviale tondeggiante, tuttora usata nel Regno Unito e in Oriente), ma di dimensioni gigantesche, con una superficie di 3600 metri quadrati, equivalenti a mezzo campo di calcio, con pareti alte 6 metri. La quantità di corda necessaria, se distesa in linea retta, collegherebbe Londra a Edimburgo”

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Oggi gli studiosi sono concordi nell’affermare che furono gli Ebrei, durante il periodo Babilonese del VI secolo a.C., ad assimilare i miti e le tradizioni del popolo che li aveva conquistati e deportati. Nel 1872, fu scoperta la prima versione babilonese del diluvio all’interno dell’Epopea di Gilgamesh, l’antico poema babilonese nel quale il re e semidio, nel suo viaggio alla ricerca dell’immortalità, incontra Utnapishtim , l’uomo al quale il dio Ea/Enki ha permesso di salvarsi con le varie specie animali a bordo di una grande nave sigillata con pece e bitume.

Ma lo stesso racconto è presente in versioni ancora più antiche, con protagonista il re Atrahasis (in accadico il molto saggio) e il re sumero Ziusudra (dalla lunga vita). Nomi diversi utilizzati per la medesima vicenda mitica.

C’è da dire che un’arca a forma di scodella, comporterebbe problemi di vario genere, inoltre il diluvio è riportato in molti antichi miti, cambiano solo i nomi. Tra tutti, quello del diluvio rivela una concezione ciclica del cosmo. Nell’Antico Testamento il diluvio è unico, ma in altri testi (anche di epoche diverse) ha come principale protagonista la Luna.

Per esempio la narrazione babilonese parla di Isthar, la dea Lunare. E’ descritta come la causa del diluvio, ma allo stesso tempo anche la salvatrice dei sopravvissuti, raffigurata nel battello che lei, come Noè, aveva costruito. Il settimo giorno inviò una colomba in segno di pace e di cessato pericolo.

In Cina abbiamo un mito con protagonista la dea lunare Shing- Moo, divinità femminile che per tradizione è comparabile alla Vergine Maria. Dopo il diluvio Shing-Moo manda sulla terra gruppi di persone per il ripopolamento.

Ognuno di questi popoli potrebbe avere filtrato il ricordo e il racconto dell'immane catastrofe secondo i propri canoni culturali e quindi la stessa arca descritta in molti modi diversi.

Ad ogni modo l'idea dell'arca rotonda ha delle interessanti correlazioni con un sito archeologico nei dintorni dell'Ararat ben noto agli appassionati e ai ricercatori paleoarcheologici: Gobekli Tepe un sito archeologico a circa 18 km a nordest dalla città di #350;anl#305;urfa inTurchia, presso il confine con la Siria, nel quale è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra, risalente a circa 11-12mila anni fa e che ha sconvolto tutte le certezze sulle origini della civiltà.

Göbekli Tepe sfida la storiografia ufficiale. E' diversi millenni più antico delle piramidi egizie; risale a molto tempo prima delle civiltà antiche a noi note, come quella mesopotamica, minoica e maya. Fu costruito da uomini che erano ancora nell'età della pietra.

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E' come se fosse il punto di partenza della civiltà post-diluviana e la sua relativa vicinanza all'Ararat sembra essere ulteriore conferma della veridicità del racconto di Noè. L'ipotesi, certamente azzardata, ma altrettanto plausibile e degna di valutazione suggerita dal sopraccitato Pallini e poi arricchita dalle nostre considerazioni è che Gobekli Tepe potesse essere luogo di imbarco e/o sbarco dell'arca (o delle arche) che salvarono gli esponenti di quella stirpe atlantidea di Nephilim, la seconda stirpe di Anunnaki, risultanti dall'incrocio naturale tra un Anunna e un Sapiens, e portatori di quelle caratteristiche con i quali i miti descrivono semi-dei e sovrani vari: occhio azzurro, capelli biondi e rossi.

Considerando che le arche avrebbero dovuto contenere anche il materiale necessario per potere successivamente ottemperare alla possibilità di ricostruzione dopo il terribile disastro il nostro collaboratore Alessio Pallini si interroga sul fatto che Gobekli Tepe fosse un osservatorio astronomico e non fosse un sito "faunistico"?

Le strutture di Gobekli Tepe sono circolari, lo stile delle steli ritrovate presso il sito, stranamente simili a quelle ritrovate nei dintorni di Visoko, se vogliamo anch'esse relativamente vicino all'area di influenza di una presunta civiltà antidiluviana coinvolta nel cataclisma.

Oltre alle steli più famose ritraenti figure antropomorfe presso Gobekli abbiamo diverse colonne raffiguranti animali.

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Ulteriore stranezza è che il periodo di catalogazione ufficiale del sito è un PPNA - PrePottery Neolithic di classe Advance e ciò significa che ci troviamo in un periodo precedente alla stanzialità dell'uomo collegata alla rivoluzione agricoltura e alla pastorizia, ma gli animali raffigurati non sono gli animali canonici che uno si aspetterebbe di trovare in una "fattoria" e il fatto che il fatto che la struttura di concentrica e non circolare sembra quasi che abbia la funzione di "incanalare" o dall'esterno verso l'interno o viceversa e regolare il flusso.

Luogo ideale quindi per sbarchi e imbarchi, in un vascello ancorato a quella stele di Gobekli alta 5 metri possibile punto di ormeggio dell'arca da cui, 'levando l'ancora' man mano che le acque salivano, si staccò finendo poi ad arenarsi sull'Ararat.

Considerando anche il fatto che Gobekli si trova in una regione che rappresenta il punto di unione di tre continenti possiamo fare finta che fosse stata identificata dai prediluviani come 'zona rossa' dove accogliere gli esuli dell'Atlantide in vista della fine. Come accade nel film 2012 in quella sperduta regione della Cina dove convergono tutti coloro che sono stati selezionati e scelti per salire a bordo di quelle enorme navi per poter sopravvivere alla fine dell'umanità.

I semi-dei dell'est, i Nephilim dell'europa, i prediluviani delle terre mesopotamiche, gli “antichi dei” di Atlantide in arrivo dalle Azzorre... Yahweh stesso, giungono infine a Gobekli 12mila anni fa in attesa dell'inizio della fine salendo a bordo di ciò che poi verranno ricordate come “arca”. Quei Nephilim biondi dagli occhi azzurri che diventeranno artefici e primi sovrani della storia dell'umanità post-diluviana sopravvissuta: le società gilaniche in Europa, i Sumeri in mesopotamia e tutti gli altri.

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Possiamo provare a interpretare il sito come gobekli tepe come zoo? O come laboratorio scientifico ove venivano compiuti quegli esperimenti di manipolazione genetica su animali e vegetali in modo del tutto analogo a quanto facciamo oggi?

Un sito costretto alla smobilitazione urgente al momento del Diluvio e dal quale caricare sull'arca i risultati delle manipolazioni ottenute dall'ingegneria genetica prediluviana. Ingegneria genetica supportata anche da ulteriori evidenze come ad esempio il fatto che è stato recentemente scoperto che E' stato scoperto che il frumento, una delle piante fondamentali per l'alimentazione umana e all'origine della rivoluzione agricola neolitica, è il risultato di una fusione di ben tre piante diverse, due graminacee e una pianta erbacea, ciascuna delle quali aveva già i suoi geni.

La Rinascita Enkilita aveva bisogno di piante utili al sostentamento del genere umano post-diluviano; il frumento fu uno dei doni degli "Antichi dei"?

Il grano possiede quattro volte più geni di noi uomini e un genoma di 17 miliardi di nucleotidi, oltre cinque volte più grande del nostro. è quindi una pianta eccezionale, cresciuta accidentalmente per la nostra fortuna e poi da noi selezionata e gelosamente tramandata, che sfama un quinto del pianeta, offrendo appunto un quinto dell'apporto calorico necessario per la nostra vita.

è terminato in questo periodo l'immane sforzo collettivo per determinare la sequenza del suo enorme genoma, che per la sua complessità aveva sfidato finora tutti i nostri sforzi. Nella sua sequenza determinata principalmente, ma non esclusivamente, a Liverpool in Inghilterra, e pubblicata su Nature, si possono vedere tante cose e impararne altrettante.

Perché tanti geni? Perché si tratta della fusione di ben tre piante diverse, due graminacee e una pianta erbacea, ciascuna delle quali aveva già i suoi geni. In verità nelle migliaia di anni che sono passati dalla fusione, il cui ultimo evento è da collocare circa 8 mila anni fa, ma che è cominciato molto prima, alcuni di questi geni sarebbero potuti andare persi. Ma non è così: la maggior parte di essi è stata conservata, e precisamente i geni della crescita e quelli che producono materiale nutritivo.

Si sa che i geni importanti per la sopravvivenza e la crescita, detti non a caso geni regolatori, sono presenti quasi uguali in tantissime specie diverse e sfidano i secoli e i millenni. Nel caso del grano sembra che siano rimasti anche nelle loro posizioni originali, come dire che ciò che funziona bene non si cambia. Questo è certamente uno dei misteri del processo evolutivo, che nella sua essenza cambia e trasforma un po' tutto, ma alcune cose le lascia addirittura intatte.

Che cambi un po' tutto lo dimostra anche qui il fatto che la parte del genoma del grano che non porta geni utili è piena di "carcasse", cioè di geni morti e di corpi fossili di virus ormai irrimediabilmente, e fortunatamente, inattivi. Ma i geni che portano il materiale nutritivo sono rimasti invece tutti sorprendentemente attivi.

Gobekli Tepe, il Mar Nero, rappresentano davvero il punto di partenza della civiltà post-diluviana e non è un caso che la Rivoluzione Agricola post-diluviana mosse i primi passi proprio dalla mezzaluna fertile mesopotamica. Perché lì, gli “Antichi Dei”, i sopravvissuti di Atlantide, ricominciarono a ricostruire quella civiltà distrutta dal Diluvio.

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[wbf]LA RELIGIONE DI ATLANTIDE

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO_ID=10124

Tante volte abbiamo parlato di un antico sapere, risalente a un’epoca antecedente alla fine della glaciazione di Wurm. Un tempo in cui secondo l’archeologia e l’antropologia, l’Uomo sarebbe stato poco più che cacciatore raccoglitore, incapace di qualsiasi tipo di organizzazione sociale complessa e dedito ancora al nomadismo non avendo ancora realizzato quelle importanti scoperte che lo fecero uscire dalla preistoria: scrittura, agricoltura, passando quindi da uno stato nomade a uno caratterizzato da stanzialità con le conseguenze legate alla grande rivoluzione neolitica di circa ottomila anni fa.

Un tempo, ricordato solo nei miti, e non accreditato dalla storiografia ufficiale, a cui gli antichi guardavano con profondo rispetto e divina riverenza... Un tempo in cui gli “Antichi Dei” camminavano insieme all’Uomo e lo governavano con rettitudine e giustizia. Un tempo vissuto con rimpianto nelle leggende dei nostri avi i quali ricordavano quel periodo come una utopica età dell’Oro durante la quale una antica civiltà perduta governava su tutta la Terra.

Solo un mito dicono gli archeologi... Ma allora come possiamo spiegare tutte quelle incredibili coincidenze, quegli elementi comuni in letteratura o in architettura oltre che in molti altri campi che ci portano invece a disegnare uno scenario completamente diverso caratterizzato dalla presenza, nemmeno così invisibile, di questa civiltà perduta che siamo soliti chiamare con il nome di Atlantide?

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A un occhio attento non possono sfuggire alcuni dettagli stilistici nelle costruzioni di popoli così lontani tra di loro e che la storia ci insegna non essere mai entrati in contatto in epoche antiche, ma che difficilmente possono essere frutto del caso, e che anzi possiamo concretizzare validamente come testimonianza di un progetto architettonico condiviso se non addirittura frutto della medesima mano.

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Secondo Richard Cassaro, autore di "Scritto nella Pietra", è possibile riscontrare come tutte le antiche civiltà che costruivano piramidi in tutto il mondo praticassero una sorta di comune e avanzata "religione universale".

Una deduzione, volendo, relativamente semplice risultante dall’osservazione di un linguaggio architettonico che tutti condividevano, e che è ancora visibile nelle rovine dei loro templi. Sottolineiamo questo parallelo nella foto qui sotto evidenziando come gli antichi Egizi, i Maya, e gli Indonesiani - tutti costruttori di piramidi che teoricamente gli studiosi e gli archeologi sostengono non avere avuto nessun tipo di collegamento culturale tra di loro - abbiano costruito templi con uno stesso particolare elemento architettonico: il Trittico.

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Ciò rappresenta il fatto che tutte le culture delle piramidi abbiano costruito templi con un "Trittico" di porte, con la porta al centro più larga e più alta delle due laterali.

Infatti, come possiamo vedere, ciascuna delle facciate di questi templi possiede lo stesso inconfondibile modello a tre porte. Sorprendentemente, l'universalità di questo fenomeno architettonico deve ancora essere notata dagli archeologi, e Cassaro ha scelto il termine "Trittico" per descriverlo, a causa della sua somiglianza con i Trittici dipinti da molti pittori rinascimentali, molti dei quali erano presumibilmente a conoscenza del loro significato come cercheremo di spiegare più avanti.

Questi antichi templi a Trittico non sono un fenomeno isolato, ma, come abbiamo detto, sono presenti in quasi tutte le culture antiche del mondo. Qui sotto vediamo otto templi Maya della penisola dello Yucatan che presentano il Trittico.

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L'abbondante presenza del Trittico in tutto il mondo antico non è una coincidenza casuale. Il Trittico rappresenta più di un semplice elemento architettonico. il Trittico è il simbolo principale di una avanzata Religione Universale, parte integrante di ciò che noi del Progetto Atlanticus chiamiamo “Eredità degli Antichi Dei”, che in antichità è stata condivisa a livello globale, soprattutto dalle culture che costruivano piramidi e siti megalitici.

Cassaro afferma inoltre che la scoperta del Trittico comporta, per la prima volta, la prova conclusiva del fatto che le culture antiche di tutto il mondo abbiano condiviso le stesse convinzioni spirituali e aggiungo io le stesse conoscenze scientifico-tecnologiche. Ciò implica infine che queste culture non si siano evolute in modo indipendente, ma che probabilmente discesero da una stessa origine comune ancor più remota, presumibilmente antidiluviana.

Per chi conosce la storia del cristianesimo delle origini possiamo individuare che questa religione universale simboleggiata dal Trittico sia stata vietata in occidente duemila anni fa dalla Chiesa Cattolica, ma essa ha comunque continuato in tempi moderni, sopravvivendo nelle credenze, nell’arte e nell’architettura delle società segrete.

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[i]Il modello Trittico è visibile sulle facciate delle più famose sedi di società segrete.[/i]

Questo elemento architettonico il quale, insieme ad altre moltissime coincidenze, accomuna culture lontane nel tempo e nello spazio in tutto il mondo va di pari passo con un’altra icona molto interessante e importante che spesso passa inosservata. Un’icona religiosa esistente tra le rovine di tute le più antiche culture del mondo, ma altrettanto scarsamente documentata da parte del mondo accademico: un dio pagano che simmetricamente impugna oggetti o animali rappresentato in modo incredibilmente simile in tutto il mondo.

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Con entrambe le braccia tese in direzioni opposte (destra e sinistra) questo personaggio tiene "oggetti gemelli" in ogni mano, in modo perfettamente simmetrico. Questi oggetti sono di solito animali, spesso serpenti, ma a volte anche vegetali o bastoni magici. L'opera è quasi sempre perfettamente simmetrica, proprio come posa dell'icona.

La domanda nasce spontanea. Se le culture antiche si sono evolute separatamente, come gli studiosi ci dicono, allora come è possibile che questa stessa icona religiosa sia presente in tutto il mondo con una tale somiglianza di stile da non poter essere solo la coincidenza di una raffigurazione artistica estetica?

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Sembrerebbe proprio che le antiche culture di tutto il mondo siano state "unite" nelle loro credenze spirituali, molto probabilmente come risultato di un "patrimonio culturale comune" derivante dalla nostra sconosciuta preistoria.

C'è stata davvero una Età dell'oro dell'umanità nel nostro passato remoto, come sostenuto dai greci, dagli indù e da molti altri antichi popoli nella loro mitologia e nella loro cosmogonia? Potrebbe essere questo sapere, questa Religione Universale, quella “unica lingua” parlata ai tempi della biblica Torre di Babele?

E la sopraccitata icona, insieme con la saggezza spirituale e le conoscenze tecnologiche, fu "ereditata" dai posteri sopravvissuti postdiluviani i quali decisero di mettere a disposizione i loro saperi alla novella umanità che si apprestava a risorgere dopo l’immane catastrofe di dodicimila anni fa che mise fine all’esperienza atlantidea?

Moltissime domande rimangono senza una risposta certa, ma nelle prossime pagine cercheremo di rispondere ad esse ripercorrendo la storia di questi antichi simboli/icone.

è interessante notare che l'icona è stata parzialmente riconosciuta simile dagli studiosi di culture del Vecchio Mondo e culture del Nuovo Mondo, definendola secondo due chiavi di lettura in funzione di ciò che questa tiene nelle mani. Essa è stata definita "Signore degli animali", principalmente nel Vecchio Mondo mentre, nel caso dei ritrovamenti oltreoceano gli studiosi sono soliti chiamarla come il "Dio dei bastoni".

Il Signore degli Animali (noto anche nella letteratura anglosassone come Master of Animals) è un termine generico per una serie di divinità provenienti da una varietà di culture. Queste a volte hanno equivalenti femminili, la cosiddetta Signora degli Animali.

Invece il Dio del bastone è una delle principali divinità nelle culture andine. Di solito raffigurato in possesso di un bastone in ogni mano. Le sue altre caratteristiche sono sconosciute, anche se egli è spesso raffigurato con serpenti sul suo copricapo o sui vestiti. La più antica rappresentazione conosciuta di questo Dio è stata trovata su alcuni frammenti in un luogo di sepoltura nella valle del fiume Pativilca e datati al carbonio al 2250 a.C. Questo la rende la più antica immagine di un dio trovata nelle Americhe. Ma nulla vieta di pensare che possano essere esistiti simili reperti anche più antichi.

Proprio come il semplice crocifisso esprime una dottrina metafisica completa che esprime temi complessi come "sacrificio", "vita", "morte" e "resurrezione", allo stesso modo questo Dio che stringe in mano animali o bastoni codifica una sola dottrina metafisica multiforme o religione universale.

Secondo Cassaro: "Questa religione si riferisce a verità spirituali e permanenti su chi siamo, da dove veniamo, perché siamo qui e dove stiamo andando, come vedremo tra un attimo".

Ecco di seguito come l'icona appare
misteriosamente in una serie di manoscritti esoterici e alchemici pubblicati e tranquillamente circolati nel corso degli ultimi secoli, accenno di ciò che (forse) diventerà più chiaro nella prosecuzione della lettura dell’articolo.

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[i]Il Mercurio alchemico, da Tripus aureus (The Golden Tripod) di Michael Maier, c. 1618. Mentre Mercurius egli presiede l'opus alchemico, integrando i principi del sole e della luna.[/i]

Molti di questi manoscritti sono stati pubblicati durante il Rinascimento europeo. E’ ragionevole pensare che gli autori di queste opere conoscessero il significato storico di questa icona ma non è chiaro come esattamente ne siano venuti in possesso. Se ciò fosse vero dobbiamo dunque pensare anche che stessero cercando di preservare l'antico significato dell'icona per i posteri.
Si noti come l'icona sia sempre raffigurata in possesso di oggetti singoli, seguendo l'antica simbologia. Questi oggetti gemelli sono molto spesso associati con il sole e la luna, archetipo in chiave astronomica degli opposti.

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[i]Christian Androgynes (alchemico), XVII e XVIII secolo. [/i]

Qui di seguito, l'icona ha due teste, un maschio, una femmina con ancora il sole in un lato e la luna nell’altro

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[i]Un antico simbolo Ermetica "Rebis", dal "Materia Prima" di Valentinus, stampata a Francoforte nel 1613. Il Sole (e compasso massonico) nella mano destra, la Luna (e la squadra massonica) nella mano sinistra. L'icona ha due teste. A destra maschio, femmina di sinistra.[/i]

Ai nostri lettori più attenti non sarà sfuggito un particolare interessante. Chiamato "Rebis", questa figura mitologica è stata descritta nei testi alchemici nel corso degli ultimi secoli. La mano destra del Rebis è associata con il sole e la mano sinistra con la luna. Il Rebis tiene inoltre uno compasso nella mano destra bilanciato da una squadra tenuta nella mano sinistra. Questo è importante poiché se combinati, la bussola e la squadra, formano il noto simbolo della Massoneria.

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Il compasso, dato che disegna un cerchio o un simbolo spirituale , indica la nostra natura "spirituale", come esseri umani. Allo stesso modo, la squadra, dato che disegna un quadrato o un simbolo materiale, indica la nostra natura "materiale".

Questa figura che tiene contemporaneamente il compasso e la squadra ci ricorda che come uomini non siamo solo materiali (corpo) ma anche spirituali (anima); siamo quindi in parte umani e in parte divini.

Il simbolo della stella a sei punte direttamente sopra il capo dei Rebis è poi un simbolo dell'integrazione di queste forze opposte (sole e la luna), e il loro equilibrio nel Rebis. Il disegno si tratta quindi di un'istruzione rappresentata in chiave criptica che ci insegna a integrare le nostre forze opposte al fine di trascendere il corpo e scoprire il Sé eterno divino dentro e sopra.

Il Rebis è dunque un simbolo del Sé spirituale superiore, il "dio Sé," racchiuso dentro ognuno di noi, in quanto è una rivelazione per noi circa la nostra eterna natura divina. Questa eterna natura divina non è immediatamente evidente data la limitazione dei nostri cinque sensi. Quindi, il messaggio dei Rebis è un messaggio che abbiamo bisogno di sentire, perché è una spiegazione di chi siamo veramente dentro.

E' quindi possibile che questa concezione fosse conosciuta in tutto il mondo antico, simboleggiata da queste figure e sia stata una religione, un sapere universale condiviso a livello globale?

Nonostante abbiano riconosciuto l'icona nelle loro rispettive discipline, gli studiosi del Vecchio e Nuovo Mondo non sono riusciti a riconoscere la presenza dell'icona in tutto il mondo né a capire il senso di questa presenza. Questi due aspetti, ripetiamo, lascerebbero presupporre con ragionevole certezza l’esistenza di una cultura globale e comune diffusa in tempi remoti su tutto il pianeta.

Possiamo osservare come anche le ubicazioni e gli allineamenti dei principali siti archeologici misteriosi portano a questa potente conclusione.

Passate ricerche mi hanno fatto conoscere le piramidi di Xianyang in Cina attraverso un articolo nel quale l’ articolista si diceva sconcertato dalla presenza di piramidi in Cina.

Come Progetto Atlanticus non siamo rimasti invece per nulla stupiti poiché come sapete la nostra ipotesi, mediata dalle teorie di Sitchin, é che le piramidi mesoamericane di Teotihuacan sono state ‘progettate’ dallo stesso gruppo di individui che ha progettato quelle di Giza e quelle presenti nel resto del mondo, e che essi possano essere arrivati in Messico solo attraverso due rotte: una che passa per l’oceano ad ovest dell’ Africa, e una che passa attraverso la Cina.

La Cina è peraltro al centro di leggende, miti e storie di visite aliene e giustappunto molte di loro vedono protagonista la piramide di Xianyang. Abitanti dei villaggi locali raccontano per esempio che i loro lontani antenati parlavano di grandi navi del cielo grande che navigavano ed utilizzavano la piramide come un punto di atterraggio e di rifornimento in modo del tutto analogo a quello che viene raccontato nelle “Cronache Terrestri” di Zecharia Sitchin.

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Come possiamo vedere, la Piramide di Xianyang é in realtà un complesso di 4 piramidi, 2 maggiori e 2 minori, di cui 3 in linea retta con la quarta, più piccola, leggermente spostata sulla sinistra rispetto alla retta immaginaria. Lo stesso schema che osserviamo a Giza e a Teotihuacan, semplicemente applicato a 4 piramidi anzi che a 3.

Inoltre, come fa notare l’autore della ricerca dalla quale ho estratto i contenuti dell’analisi delle piramidi cinesi, é bene notare il complesso di piccole piramidi perfettamente allineate in maniera verticale affianco alla piramide più piccola di questo strano allineamento comune ai 3 siti. Se sovrapponiamo questo pattern di Xianyang al complesso di Giza, notiamo che in corrispondenza della piramide qui numerata come 1, troviamo la piramide di Menkaure di Giza, numerata come 3 nella immagine che paragona Giza a teotihuacan.

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Ebbene anche vicino alla piramide di Menkaure son presenti piccole piramidi disposte in perfetto allineamento verticale. E’ vero, vicino alla piraide di Menkaure esse appaiono ‘di fronte’ e sono molto più piccole di questa piramide faraonica, mentre a Xianyang son di lato, ma la loro presenza a me sembra indicativa.

Infine, una nota curiosa, Sumer, Egitto e Messico sono legati dalla figura di dei associati al serpente/drago come Ningishzidda, Thot, Quetzalcoatl, e proprio la Cina viene definita come la ‘terra del dragone’… una ulteriore coincidenza da catalogare.

Così come serpente fu colui che offrì ad Adamo ed Eva, capostipiti di ciò che poi diventerà l’umanità, il frutto della conoscenza scatenando l’ira di un dio, che come abbiamo più volte ripetuto nel corso dei nostri lavori, potrebbe non corrispondere al DIO trascendente cui siamo abituati a credere.

Conoscenza che potrebbe corrispondere a un insieme di saperi legati a quelle tecnologie e a quelle scienze di cui l’Uomo dispose fin da prima del Diluvio Universale, almeno stando a quanto descritto all’interno del testo biblico, comprensivo dell’apocrifo di Enoch narrante degli Angeli Caduti e di ciò che offrirono all’Uomo: dalla medicina alla scrittura, dall’agricoltura alla lavorazione dei metalli, dall’astronomia alla fisica quantistica, volendo interpretare i testi veda come veri e propri compendi di fisica teorica moderna, ovviamente utilizzando modalità e dinamiche che non possono essere comprese dall’uomo contemporaneo.

All’interno di questo insieme di conoscenze, possiamo inserire anche una serie di conoscenze metafisiche in grado di offrire risposte sui grandi interrogativi dell’umanità sulla natura dell’universo e sulla natura stessa dell’essere umano. Sapere che oggi codifichiamo all’interno di religioni e filosofie, vecchie e nuove, ma che forse, nell’ottica della “Eredità degli Antichi Dei” rappresentava una vera e propria forma di scienza. E’ oggi infatti che, in virtù della rivoluzione galileiana, scienza e spiritualità, fisica e metafisica, materiale e trascendente, hanno intrapreso percorsi diversi.

Un tempo, e l’esoterismo egizio ce lo insegna, queste dimensioni, oggi apparentemente antitetiche, camminavano di pari passo. E non possiamo fare a meno di osservare di come ciò che oggi potremmo ritenere essere un limite non ha impedito a quei popoli antichi di edificare imperi, costruzioni e effettuare importantissime scoperte in ambito che oggi definiremmo scientifico.

Il livello di conoscenza in campo medico raggiunto dagli egizi è infatti invidiabile ed è dimostrato dal ritrovamento di molti oggetti chirurgici e di reperti ossei caratterizzati da interventi chirurgici di grande precisione, anche a livello cerebrale, e protesi incredibilmente ‘tecnologiche’, seppur ovviamente costruite con gli attrezzi propri di quel tempo remoto. In più non sappiamo ancora oggi come costruirono le grandi piramidi di Giza, sempre che sia stato realmente opera loro, né sapremmo edificarle noi oggi!

Piramide che, oltre a essere una opera architettonica di immane grandezza è anche un simbolo che possiamo leggere in chiave mistico-religiosa, senza cadere nella trappola di equiparare la religione e la spiritualità così come la intendiamo oggi al modo in cui gli antichi vivevano questa dimensione mistica. Impariamo ad abituarci al pensare alla ‘religione’ antica come a una sorta di mondo esoterico-alchemico tipico invece degli ‘scienziati’ rinascimentali e oltre, almeno fino a Newton.

Non tutti sanno forse che Newton viene definito come “l’ultimo alchimista” proprio per la sua passione nei confronti dell’occulto, dell’esoterismo, della cabala e dell’alchimia. Uno dei padri del pensiero scientifico in realtà dedicò vent’anni allo studio della magia come ci aiuta a dimostrare il seguente articolo del “Corriere Storico” (vedi link incluso nelle ‘fonti’).

«Newton non fu il primo scienziato dell’ età della ragione. Piuttosto fu l’ ultimo dei maghi, l’ ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ ultima grande mente capace di vedere con gli occhi di coloro che cominciarono a costruire il nostro patrimonio intellettuale poco meno di diecimila anni fa», disse nel 1942 il celebre economista John Maynard Keynes, dopo essersi aggiudicato alla casa d’ aste Sotheby’ s un baule di carte appartenute a Isaac Newton (1642-1727), giudicate dai più di «nessuna rilevanza scientifica». Le carte di Keynes sollevarono un interrogativo: vi fu o meno fecondazione reciproca fra gli studi di alchimia e le ricerche scientifiche del genio di Woolsthorpe?

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La questione è lontana dall’ essere risolta, anche perché Newton lasciò dietro di sé un milione di parole sull’ alchimia, una gran mole di materiale per larga parte redatto in codice. Lo scopritore della gravitazione universale, comunque, figura centrale di quell’ illuminismo scientifico che oscurò ogni propensione verso le arti magiche, arrivò a quei risultati «immergendosi» in esse: lo afferma Michael White, scrittore e divulgatore scientifico del Sunday Times oltre che biografo di Leonardo e Stephen Hawking, in una nuova biografia di Newton.
L’autore sostiene che egli arrivò «alla teoria della gravitazione universale grazie anche alla pratica alchemica» cui si dedicò con tenacia ossessiva (ma con molto riserbo per via dei ruoli pubblici e accademici che ricopriva) negli anni Settanta e Ottanta del suo secolo.

Oggi c’ è un rinnovato interesse per l’ alchimia come dimostrano i nuovi studi, la riscoperta di autori dimenticati, la corsa ai manoscritti rari. Più che in una moda irrazionale contrapposta allo scientismo, le ragioni del fenomeno stanno forse nella natura stessa di una disciplina che coniugava la pratica empirica alla ricerca filosofica e spirituale: in piena «dittatura della tecnica», come direbbe Emanuele Severino, non può non affascinare una disciplina che univa la tecnologia (l’ uso di storte, alambicchi, forni, atanor) a un’ ideologia dove la ricerca aveva fini di guarigione e perfezionamento spirituale.

Ha scritto Mircea Eliade: «Mentre lo yoghin lavora col flusso mentale sul proprio corpo per giungere alla trasformazione di se stesso, l’ alchimista che tortura i metalli si concentra sulla materia per purificarla, ma in entrambi i casi il fine è realizzare l’ autonomia dello spirito dalla materia». E Newton fu attirato proprio dall’ aspetto spirituale di quell’ arte. Seguace dell’ eresia ariana, lo scienziato era pervaso da forte spirito religioso: in opposizione alla dottrina trinitaria poneva Cristo «in qualche posto tra Dio e l’ Uomo», mediatore di tutte le azioni dell’ universo, gravitazione compresa.

Alla costante ricerca della teoria unificata che portasse al modello completo dell’ universo, Newton pensò che le intuizioni scientifiche e i calcoli matematici non gli avrebbero dato le verità ultime: eccolo allora unire all’ indagine razionale gli studi biblici e la speculazione religiosa, ma soprattutto l’ alchimia, che riteneva frutto della prisca teologia, di antichi saperi provenienti dalla Cina, dagli arabi, dall’ ermetismo alessandrino e poi rinascimentale, secondo il quale le trasmutazioni prodotte nel crogiolo riflettevano i fenomeni dell’ universo.

Newton si applicò all’ alchimia con passione e metodo rigoroso: mise assieme una biblioteca straordinaria, catalogò gli elementi e i passaggi dell’ Opera, appuntò diligentemente le reazioni, confrontando segretamente i risultati con altri adepti dell’ Ars Magna. Secondo White, la teoria della gravità (pensata prima del periodo alchemico, ma illustrata nei Principia del 1687) «gli fu in parte ispirata dal lavoro nel campo dell’ alchimia». Gli alchimisti erano molto interessati all’ antimonio, sostanza che, una volta purificata, mostrava affinità con l’ oro: essa formava un amalgama cristallino detto regulus (piccolo re), simile a una stella con raggi di luce, o linee di forza, convergenti verso il centro.

Secondo White, gli esperimenti sul regolo stellato (1670), furono «un contributo inconscio al lento processo nel corso del quale Newton comprese dapprima l’ attrazione e poi la gravitazione universale». Convinto della corrispondenza fra micro e macrocosmo, Newton poteva vedere nella stella al centro del regulus il Sole e, nelle linee convergenti, le forze che attraggono i pianeti. Gli stessi continui mutamenti delle sostanze nel crogiolo suggerivano il concetto di «attrazione» e «repulsione» causate da principi attivi, cioè dall’ unico Spirito operante nell’ universo. Nella sua Introduzione all’ alchimia, Elémire Zolla ha scritto che «una sensibilità resa sottile dalla pratica alchemica vedrà l’ unità del mondo, l’ essenza che tutto lega».

Il laboratorio alchemico può, dunque, avere affinato la sensibilità di Newton fino a fargli vedere, per via analogica, la forza che lega i corpi nell’ universo; forza che, nel suo animo religioso, non poteva essere che divina.

Ecco la “Religione di Atlantide”. Ecco la “Scienza di Atlantide”! Non vi era differenza tra Scienza e Spiritualità... Durante l’Età dell’Oro antidiluviano vigeva l’approccio alchemico. Quello che manca oggi. Un nuovo paradigma, proveniente da un tempo perduto, in grado di superare i limiti dogmatici che entrambe le modalità di approccio devono necessariamente introdurre nelle loro conclusioni per giustificare e dimostrare le proprie tesi.

Tornando alle piramidi. La concezione sacrale di piramide affonda le proprie origini nelle filosofie proprie dell’Asia partendo dal concetto del monte sacro: il monte Meru.

ll monte Meru noto anche come Sumeru (o Sineru) col significato di “magnifico Meru”, è una montagna sacra della mitologia induista e buddhista; alta 84.000 yojana (circa 470.000/940.000 km) si trova al centro dell’universo, nel continente mitologico Jambudvipa. Molti templi induisti, come il tempio di Angkor Wat in Cambogia, sono stati edificati come rappresentazioni simboliche del monte.

Strano il fatto che un valido esempio del concetto di montagna sacra e di montagna sacra fatta dall’uomo la troviamo non in Asia, ma bensì in Messico, dove è sita la più grande piramide del mondo (in metri cubi), questa è la piramide di Cholula. Cholula, in lingua nahuatl Tlahchiualtepetl, tradotto significa proprio “montagna sacra fatta dall’uomo”

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La piramide di Cholula misura 500 metri per lato ed è alta 64 metri ed è considerata la struttura più grande mai costruita dall’uomo, con i suoi 4,5 milioni di metri cubi. La piramide è composta, in realtà, di quattro momenti costruttivi sovrapposti, di cui uno solo è stato per ora portato alla luce.

Come questo concetto (montagna sacra e replicazione di montagna sacra fatta dall’uomo) di matrice orientale si sia sparso in tutto il globo, è di nuovo uno di quei “misteri” che difficilmente verranno a galla e che va ad aggiungersi alle icone summenzionate oltre che alle analogie presenti nelle opere letterarie di tutte queste popolazioni.
Tornando al concetto del monte vale la pena ricordare di come nella filosofia Buddista si descriva che al centro dell’oceano cosmico, al tempo della creazione emerse il Monte Meru, simile a una piramide con quattro facce, ciascuna formata da pietre preziose, ove risiede il pantheon buddhista, luogo in cui ai suoi abitanti sono sconosciuti sia la miseria che il dolore.

Il Meru è circondata da sette anelli concentrici di montagne d’oro, intervallati da mari di acqua piovana, racchiusi in un circolo di montagne di ferro, e all’esterno, nelle quattro direzioni, i quattro continenti.

Tale conformazione venne utilizzata per la costruzione delle antiche città sacre dell’Asia.
Ma questo modello architettonico non lo ritroviamo solo in Asia! Basta comparare l’affascinante complesso cambogiano di Angkor Wat con i disegni della mappa della antica capitale Nahua, l’Azteca Tenochtitlan.

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Da queste comparazioni, si riesce ad intravedere, ancora una volta, qualcosa che vuole essere sfuggente, un’epoca antica, dove un determinato ceppo etnico avanzato, visitò ogni parte del mondo diffondendo un retaggio comune di cultura, culti e sapienza.

Personalmente non ritengo che sia così rivoluzionario ammettere da parte di chi detiene le verità storiche che vengono divulgate ed insegnate, il fatto che decine di migliaia di anni fa (l’Egitto ha una storia di 30.000 anni e forse più facendo riferimento alla lista reali del papiro di Torino o a quella di Beroso) un ceppo etnico evoluto, navigando, o addirittura volando, abbia visitato tutto il globo, o meglio, le aree geografiche maggiormente predisposte a livello climatico a garantire un certo livello di vita sociale, con lo scopo di erudire.

Jim Alison è il curatore di uno studio affascinante sulle relazioni geodetiche tra gli antichi centri culturali di tutto il pianeta. Presentiamo di seguito un estratto delle prime due parti di questo lavoro tratto dal blog “1X4X9”, un ottimo sito che presenta interessanti ricerche da cui sono stati tratti elementi utili anche per la conclusione di questo articolo. La ricerca completa può essere consultata sul Jim Alison's Geodesy Site.
I grandi cerchi sono le circonferenze che possono essere sviluppate intorno alla superficie terrestre che hanno come centro il centro della terra.

L'equatore è un grande cerchio. Anche i meridiani di longitudine che attraversano i poli nord e sud sono grandi cerchi. Per ogni posizione in un grande cerchio, anche la sua posizione agli antipodi è sul cerchio. Oltre all'equatore stesso, ogni grande cerchio attraversa l'equatore in due posizioni agli antipodi, a 180° di distanza. Oltre all'equatore e ai meridiani di longitudine che corrono verso nord e sud, ogni grande cerchio raggiunge le sue massime latitudini in due posizioni che sono a 90° di longitudine est e ad ovest dei due luoghi in cui il grande cerchio attraversa l'equatore.

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L'Isola di Pasqua, Nazca, Ollantaytambo, Paratoari, Tassili n'Ajjer e Giza sono tutti allineati su un unico grande cerchio. Altri siti antichi che si trovano all'interno di un decimo di un grado da questo grande cerchio includono Petra; Perseopolis; Khajuraho; Pyay, Sukothai e Anatom Island.
Ollantaytambo, Machu Picchu e Cuzco sono all'interno di un quarto di grado. L'Oracolo di Siwa nel deserto egiziano occidentale è all'interno di un quarto di grado. Nella valle dell'Indo, Mohenjo Daro e Ganweriwala sono all'interno di un quarto di grado. L'antica città sumera di Ur e di templi di Angkor in Cambogia e Thailandia sono all'interno di un grado di questo grande cerchio. Il tempio di Angkor a Preah Vihear è all'interno di un quarto di grado.

Questo cerchio attraversa la sorgente e la foce del Rio delle Amazzoni, la linea di demarcazione tra Alto e Basso Egitto, la foce del Tigri-Eufrate, il fiume Indo e il Golfo del Bengala vicino alla foce del Gange. Il cerchio attraversa anche un certo numero di aree del mondo che sono in gran parte inesplorate, tra cui il deserto del Sahara, la foresta pluviale brasiliana, gli altopiani della Nuova Guinea, e le aree sottomarine del Nord Atlantico, l'Oceano Pacifico meridionale e il Mar Cinese Meridionale .
L'allineamento di questi siti è facilmente osservabile su un globo terrestre con un anello orizzonte. Allineando due qualsiasi di questi siti su questo anello anche tutti gli altri risulteranno allineati. Con l'ausilio di programmi software che ci mostrano atlanti del mondo 3-D è facile visualizzare questo grande cerchio intorno alla terra. Le quattro immagini qui sotto sono centrate su due località dove il grande cerchio attraversa l'equatore ed i due luoghi in cui il grande cerchio raggiunge le sue massime latitudini. Il cerchio attraversa l'equatore a 48°36' di longitudine ovest e 131°24' longitudine est. La latitudine massima del cerchio è di 30°22' di latitudine nord a 41°24' longitudine est e 30°22' latitudine sud a 138°36' di longitudine ovest.

I due punti antipodali per l'equatore sono i poli nord e sud. Tutti i grandi cerchi hanno due punti agli antipodi. Ogni punto lungo l'equatore è equidistante a 90°, o un quarto della circonferenza della terra, dai poli nord e sud. Per qualsiasi cerchio, la distanza tra i punti antipodali dell'asse da qualsiasi punto lungo il cerchio è un quarto della circonferenza della terra. Per ogni grande cerchio diverso dall'equatore, la longitudine dei punti dell'asse sono 90° est e ovest dei due punti dove il grande cerchio attraversa l'equatore.

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I grandi cerchi che corrono da nord a sud lungo i meridiani di longitudine hanno i loro punti dell'asse sull'equatore, 90° di longitudine est e ad ovest dei punti in cui il cerchio meridiano attraversa l'equatore e a 90° di latitudine dai poli dove i meridiani raggiungono le loro latitudini massime.

La distanza dai punti dell'asse su qualsiasi punto lungo una circonferenza meridiana è un quarto della circonferenza della terra, ma i 90° di longitudine dal punto dell'asse al punto in cui il cerchio meridiano attraversa l'equatore è 6225 miglia, mentre i 90° di latitudine dal punto dell'asse alla latitudine massima del cerchio meridiano ai poli è 6215 miglia. Questo perché la circonferenza polare della terra è 24,86 mila miglia, mentre la circonferenza equatoriale è 24,901 mila miglia, a causa del rigonfiamento della terra all'equatore e del suo appiattimento ai poli.
Il nostro sistema moderno di calcolo in gradi di latitudine dall'equatore ai poli si basa sulla variazione angolare nord-sud lungo la superficie della terra.

Come risultato, i gradi di latitudine sono leggermente più lunghi ai poli, dove la terra è schiacciata, e leggermente più corti al rigonfiamento dell'equatore. Come risultato, la latitudine dei punti asse deve essere regolata leggermente per compensare la distanza più lunga in gradi di latitudine ai poli e la distanza più breve in gradi di latitudine all'equatore.

I due poli del grande cerchio di allineamento degli antichi siti sopra illustrato si trova a 59°53' di latitudine nord e 138°36' di longitudine ovest e a 59°53' latitudine sud e 41 24' longitudine est. Il polo dell'asse meridionale è in acque profonde a circa 500 miglia dalla costa dell'Antartide. Il punto dell'asse nord si trova nell'angolo nord-occidentale della British Columbia su una linea di cresta glaciale a circa 6.500 metri sul livello del mare.

La circonferenza di questo grande cerchio è 24892 miglia. Questa è leggermente inferiore alla circonferenza equatoriale della terra, perché subisce meno l'effetto del rigonfiamento.

I siti sopra elencati sono mostrati in senso orario partendo da Giza sulla proiezione azimutale nella figura qui sotto. La proiezione è centrata sul polo dell'asse nel sud-est dell'Alaska. Qualsiasi distanza dal centro di una proiezione azimutale rispetta la stessa scala. Poiché tutti i siti sul grande cerchio sono equidistanti dal polo del suo asse ad un quarto della circonferenza della terra, l'allineamento forma un cerchio perfetto a metà strada tra il centro e il bordo esterno della proiezione.

Ciò che ulteriormente colpisce è che le distanze tra alcuni di questi siti possono essere espresse matematicamente secondo la regola della sezione aurea.

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Ciò dimostra un collegamento tra tutti questi luoghi e di conseguenza l’appartenenza dei loro costruttori a una civiltà ‘madre’. Così come testimoniato peraltro dalla presenza di architettura megalitica su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico.

La regione di San Augustin si trova nell'alta valle del fiume Magdalena ed è incorniciato dalla Cordigliera delle Ande centrale e orientale, a 2000 m di altitudine. Ci sono diversi siti da esplorare nella zona di San Augustin che copre circa 250 chilometri quadrati, ma il più importante è il Parque Archeologico, un sito di 78 ettari con circa 130 statue in esposizione.

Nel museo in loco, si nota immediatamente la somiglianza delle statue con quelle del Guatemala e del mondo olmeco, e anche con quelle di Chavin de Huantar, nel Perù centrale. Perfettamente scolpite con squisita abilità con una firma artistica che è stata mantenuta per tutto il sito e attraverso diversi millenni. Il museo espone anche una statua particolare che ricorda da vicino un Moai dell'Isola di Pasqua.

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Harold T. Wilkins in Città segrete del Vecchio Sud America ha fatto notare circa le statue di San Augustin che c’è molto di più di una semplice somiglianza con gli strani monumenti che si trovano sull'Isola di Pasqua e delle isole della Polinesia e Micronesia quali Ponape, Malden, Pitcairn e Marchesi. Infatti, le rovine ritrovate nella zona sembrano retrodatare anche la presenza delle prime culture andine. L'aspetto più sorprendente del sito in tal senso sono i dolmen di sembianza europea o tombe a corridoio.

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Le tombe a corridoio sono molto più comuni di quel che si pensa in Europa. Forse la più famosa e antica è quella irlandese di Newgrange, non lontano da Dublino, così particolare da essere ancora oggi un enigma per quanti cercano di decifrarlo. Questo sito è una grande tomba a corridoio parte di una più complessa necropoli neolitica, oggi Patrimonio dell'Umanità, conosciuta col nome di Brú na Bóinne (la dimora dei Boinne): la sua nascita avvenne ben 600 anni prima di quella delle piramidi egiziane e 1000 rispetto a Stonehenge e ancora oggi non è chiaro il motivo per cui fu realizzato.

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Risalente a circa 6000 anni fa, l'architettura presente in quest'area riflette la smisurata conoscenza di questa misteriosa popolazione, capace di calcoli matematici, geometrici ed astronomici pressoché perfetti.

La serie di tombe che si possono trovare nei tre siti componenti l'area (Dowth,Knowth,Newgrange) sono scavate in immense colline artificiali formando perfetti corridoi e stanze. Qui non solo si tumulavano i morti ma si celebravano riti particolari (probabilmente solari visto l'orientamento architettonico di questi complessi) di cui, però, non abbiamo maggiori informazioni. Quello che si capisce è che queste opere d'arte neolitiche furono erette per vedere moltissime albe nel corso della storia.
Il tumulo di Knowth è il più grande dell'area e fu eretto, non solo per accogliere i morti, ma, chiaramente, anche per svolgere rituali. Qui ci sono due entrate perfettamente opposte l'una all'altra che convergono verso il centro perfetto della struttura. Proprio nella parte centrale vengono separate da uno spesso muro. Le parti separate sono comunicanti attraverso piccole fessure dalle quali due ipotetici interlocutori avrebbero potuto parlare tranquillamente.

la leggenda narri che fu questo il luogo in cui venne concepito l'eroe mitologico Cú Chulainn, la cui assonanza con il dio azteco Kukulkan non sembra essere soltanto una coincidenza, di cui abbiamo già parlato in precedenza nel nostro blog “Le Stanze di Atlanticus” collegato al forte preistorico di Dun Aengus sulla strada del perduto mondo di Hy Brazil.

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[i]Il forte di Dun Aengus. Sembra essere stato ‘tagliato a metà’ da un immane cataclisma migliaia di anni fa[/i]

Tornando alle tombe a corridoio delle Americhe non possiamo non osservare che queste siano state costruite in modo del tutto analogo a quelle di mezza Europa, situate ad un livello molto più profondo (10 e 15 metri) e costruiti con un altro tipo di pietra rispetto alle altre sculture del sito di San Agustin. Questo fa pensare alla possibilità che la cultura che ha scolpito le statue sia, per così dire, ‘inciampata’ su questo sito megalitico molto più antico e che lo abbia venerato ad un grado così elevato, tanto da rimanere e costruire i propri templi accanto ad esso, anche copiando il loro stile. Alcuni di questi sembrano infatti ricostruiti utilizzando statue scolpite al posto delle pietre originarie.

D’altronde sono gli stessi popoli nativi americani ad affermarlo. La leggenda delle popolazioni peruviane racconta che in un tempo remoto, quando la Terra era divenuta inospitale in seguito ad un grande cataclisma che aveva "oscurato il cielo e posto il sole in ombra", venne da sud un gruppo di uomini dalla pelle bianca ed il viso barbuto definiti i Viracochas. Secondo le leggende Incas, i Viracochas edificarono grandi opere architettoniche, fra le quali il Sacsahuaman, una gigantesca fortezza situata a nord di Cuzco, ex capitale dell’impero Inca, nonché la misteriosa città di Tiahuanaco, sulle sponde del lago Titicaca.
Nel nostro passato sono state costruite varie opere colossali, tra cui le piramidi in Egitto e opere megalitiche in sud America.

Molti si sono chiesti come sia stato possibile costruire simili opere in un passato remoto con gli scarsi mezzi dell’epoca.

Obiettivamente, per quanto per alcune cose si sono trovate delle spiegazioni ragionevoli, altre rimangono avvolte nella più totale oscurità. Se si pensa alle costruzioni megalitiche di Machu Picchu, non si può non rimanere sorpresi e chiedersi come sia stato possibile costruire simili opere su un cocuzzolo così impervio. Come è stato possibile trasportare blocchi pesanti centinaia di tonnellate su una montagna? E non solo.

Molti di questi blocchi sono sagomati in modo particolare, in maniera da potersi incastrare perfettamente con blocchi complementari. Una capacità ingegneristica e architettonica che, paradossalmente e anacronisticamente, sembra essere stata appannaggio solo delle popolazioni più antiche non essendo state, le generazioni future, più in grado di replicare quelle incredibili opere.

E non dimentichiamo un particolare importante: i popoli del sud America non conoscevano la ruota!

Vi renderete conto come questo complichi le cose, niente carri, niente carrucole o argani o altri marchingegni che implichino l’uso della ruota.
Secondo la leggenda incaica i Viracochas erano capaci di trasportare i massi facendoli spostare "al suono delle trombe".

Chiunque fossero, i Viracocha erano comunque legati ad altri gruppi che in epoche diverse approdarono in varie zone del pianeta per portare nuovi spunti di civilizzazione.

Le loro caratteristiche comportamentali sembrano riconducibili a quelle di un ceppo vivente dalle seguenti caratteristiche comuni:

1.  Creature di razza bianca, con capelli biondi o rossi e dotate di sistema pilifero sviluppato e corporatura robusta.

2.  Costumi miti, improntati al rispetto reciproco ed alla tolleranza.

3.  Spiccata conoscenza dell’astronomia e dei moti ciclici terrestri.

Vennero chiamati Viracocha in Perù, Quetzalcoatl in Messico, Oannes in Mesopotamia. Oggi, studiandone i modi e le caratteristiche, ci appaiono membri della stessa razza.

Il mix di costruzioni lascia grande confusione nell'interpretazione dei manufatti originali e della loro posizione.

Tornando nuovamente ai reperti di San Agustin chiunque li abbia costruiti, una presunta spedizione del British Museum tra il 1899 e il 1902, ha perso molte delle statue più elaborate e le foto originali di tutto il complesso: "Una barca si è rovesciata nelle rapide del Rio Patia, nei pressi di Tumaco, e solo una delle statue originali fu trasportato lungo il percorso del Rio Magdalena, raggiunto poi il British Museum".

Le altre parti del sito sono tutti ugualmente bizzarri, statue con zanne e occhi accigliati, ma tra tutti i manufatti spiccano statue di piccoli strani uomini con teschi allungati, come quelli già ben noti in molte parti del pianeta.

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La datazione al carbonio fa risalire la parte più antica del complesso al 3300 a.C. Quindi contemporanea con l'esplosione del megalitico in Europa, il primo faraone, e l'inizio del Calendario Maya.

Una nuova ricerca pubblicata questo mese sulla rivista Neurosurgical Focus, ha cercato di svelare la storia, l'origine e il contesto etnico dei teschi allungati presenti nel bacino dei Carpazi, nell'Europa centro-orientale nel territorio dell'Ungheria.

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[i]Alcuni dei crani allungati presenti nel bacino dei Carpazi Fonte delle foto[/i]

Il fenomeno dei crani allungati è stato osservato in tutti i continenti e nelle diverse culture di tutto il mondo. Mentre alcuni teschi mostrano un allungamento di natura genetica, come quelli di Paracas, in Perù, è anche ben noto che diversi gruppi di persone in tutto il mondo usavano modificare intenzionalmente la forma del cranio attraverso la pratica nota come deformazione cranica, eseguita con l'aiuto di una forte pressione esercitata sulla testa, di solito dal primo giorno di vita sino ai 3 anni di età.

La pratica di deformazione intenzionale del cranio era un tempo diffusa in tutto il mondo, già a partire dal tardo Paleolitico, ma forse anche prima. Nel bacino dei Carpazi, i teschi allungati risalgono alla tarda Età del Ferro, conosciuta in questa regione come il Periodo di Unno-germanico (5° - 6° secolo d.C.), e sono stati ritrovati negli antichi insediamenti di tutti i popoli di questo vasto territorio: Sarmati, Alani, Goti e Unni. Più di 200 crani allungati sono stati trovati nel Bacino dei Carpazi fino ad oggi.

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[i]Ricostruzione del volto di una donna del 5° secolo appartenente alle tribù orientali dei Goti, scoperta in Austria. fonte foto.[/i]

Gli Unni occuparono il bacino dei Carpazi dal 5° secolo e da qui condussero le campagne contro le diverse regioni d'Europa. Dopo la morte di Attila, capo degli Unni, avvenuta nel 453 d.C., molte tribù germaniche si ribellarono contro gli Unni che vennero cacciati dal bacino dei Carpazi. La rilevante diffusione della deformazione cranica artificiale in Europa e nel bacino dei Carpazi può essere attribuita ai movimenti degli Unni, avvenuti nel 4° e 5° secolo, che spinsero le popolazioni di origini germaniche verso ovest. L'usanza è sopravvissuta tra le popolazioni fino all'inizio del 7° secolo.
Un team di ricercatori dell'Università di Debrecen e del College of Nyiregyhaza in Ungheria ha studiato un sottogruppo di nove crani allungati portati alla luce tra il 1996 e il 2005 dai due cimiteri distanti tra loro 70 chilometri, nella parte nord-orientale della grande pianura ungherese. Il loro obiettivo è stato quello di mettere in luce l'origine e il contesto storico di questa usanza praticata nel Bacino dei Carpazi.

La ricerca ha rivelato che i crani appartenevano a uomini e donne, sia adulti che adolescenti, di età compresa tra i 15 e gli 80 anni.

Tutti i teschi hanno caratteristiche della razza Europoide, che connotavano sia gli Unni che le tribù germaniche su larga scala. Si delineano quattro tipi principali di deformazione cranica - obliquo tabellare, tabellare eretto, obliquo circolare, ed eretto circolare - ottenuti attraverso diversi metodi, tra cui la compressione del cranio con elementi rigidi solidi, oppure con strumenti più flessibili come bende, fasce, nastri e acconciature. I teschi variano da un po' deformato a deformato pesantemente.

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[i]Disegni che illustrano diverse tecniche di modifica intenzionale del cranio utilizzate nel Bacino dei Carpazi. A. Oggetto rigido pressato da una benda, B. Bendaggio semplice, C. Doppio bendaggio. [/i]

Esaminando le caratteristiche dei teschi sullo sfondo di documenti storici relativi alla grande migrazione di popolazioni provenienti dall'Asia verso l'Europa, insieme con la presenza di teschi allungati in altre regioni in tutta l'Asia e l'Europa, gli autori dello studio hanno concluso che la presenza di teschi allungati nel Bacino dei Carpazi è probabilmente legata ai movimenti degli Unni.

"Questa popolazione è entrata in contatto con gli Alani turchi che usavano la deformazione cranica", scrivono gli autori dello studio. "Gli Unni possono essere considerati solo come dei trasmettitori e non gli sviluppatori di questa tradizione".

Gli autori sostengono che questa usanza si sia diffusa da est a ovest in 6 fasi, a partire da 4000 anni fa. Partendo dall'Asia centrale, nel territorio occidentale del Tien-Shan, passando attraverso il Caucaso e le steppe di Kalymykia, fino al bacino del Danubio (l'attuale Romania, Serbia, Croazia, Slovenia, Austria, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca), per poi dividersi in tre regioni distinte - il Gruppo Germanico Centrale, in cui curiosamente i teschi allungati erano tutti di sesso femminile; il Gruppo Germanico del sud e Sud-ovest, conosciuto dai siti di sepoltura nei territori bavaresi e renani; e il Gruppo del Rodano - che si trova nel sud-ovest della Svizzera, l'est della Francia e il nord Italia.

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[i]Mappa che mostra la diffusione del costume della deformazione cranica dall'Asia centrale verso l'Europa centrale e occidentale in sei fasi. I - Gruppo Asiatico Centrale, II - Gruppo Caucasico, della regione del Volga e della steppa di Kalmykia, III - Gruppo del Bacino del Danubio, IV - Gruppo Germanico Centrale, V - Gruppo Germanico del sud e Sud-ovest, VI - Gruppo del Rodano. fonte immagine.[/i]

I teschi allungati del Bacino dei Carpazi
appartenevano al Gruppo del bacino del Danubio, che rappresentava la terza fase nell'espansione eurasiatica del costume trasmesso dagli Unni da est a ovest. Gli autori dello studio ritengono che l'allungamento del cranio denotava un migliore status sociale degli individui e fosse un segno di appartenenza etnica in Europa centrale.

Notare il passaggio di questa cultura nell’area circostante il Mar Nero; area che molti genetisti identificano come punto di comparsa del carattere fenotipico dell’occhio azzurro attribuito alle divinità da molte antiche culture.

Gli antichi sumeri pensavano che gli occhi azzurri fossero un segno distintivo degli dei. La nobiltà e l'aristocrazia sumera era caratterizzata da occhi azzurri come dimostrano molte delle loro statuette. Lo stesso storico Diodoro Siculo afferma che il colore azzurro degli occhi era una caratteristica che spesso veniva associata alle divinità egizie.

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Allo stesso modo così veniva rappresentata la nobiltà nella cultura egizia. Nel libro dei morti gli occhi del dio Horus venivano descritti come scintillanti e la pietra usata nel diadema noto come Udjet (l'occhio di Horus) era il lapislazzulo, appunto di colore azzurro o blu.

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Ma gli occhi azzurri o verdi non sono una prerogativa degli 'dei' della mesopotamia o dell'europa. La stessa caratteristica la troviamo nelle divinità e nelle genealogie aristocratiche d'oltreoceano!

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Io comincerei a pensare che, pur facendo parte tutti del genere Homo, abbiamo avuto origini diverse e che i diversi rami fenotipici (o aplogruppi) si siano poi mischiati in una sorta di società multi-razziale durante l'epoca di Atlantide con i discendenti degli "Antichi Dei" portatori di genotipo diverso (Alieno? Atlantideo?) visti come divinità in virtù delle loro tecnologie/capacità avanzate.
Non sto parlando di razze secondo i tradizionali canoni. Sto parlando di eredità genetiche, alberi genealogici che hanno avuto origine da diversi punti di partenza e dove, per qualche motivo, alcune caratteristiche fisiche (occhi azzurri+capelli biondi oppure occhi verdi+capelli rossi) rappresentavano un elemento identificativo di coloro che appartenevano a delle stirpi divine.

Come nel caso di Viracocha in Perù presso gli Inca appartenente a una stirpe di una razza divina di uomini bianchi con i capelli rossi e con la barba.

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I punti di partenza genealogici possono essere:

-  L'Homo Heidelbergensis (H.Erectus) da cui ha avuto origine il fenotipo negroide e gli aplogruppi ad esso collegati.

-  Il Neanderthal da cui ha avuto origine il fenotipo del rutilismo (capelli rossi e pelle chiara) tratto fenotipico dominante degli abitanti della paleo-Europa. Fenotipo che ragionevolmente mi fa pensare agli individui selezionati per portare la civiltà nel mondo dopo il Diluvio, gli Enkiliti, gli Elohim.

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-  Il Cro-Magnon, biondo con gli occhi azzurri, antagonisti dei Neanderthal, da sempre, guardiamo alle caratteristiche di fisiche di Esaù e Giacobbe.

L'"incrocio" tra tutti questi fenotipi nel corso dei millenni ha portato all'uomo moderno con la diversità di caratteristiche evidenziata dai numerosissimi rami genetici chiamati aplogruppi.

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"E' concepibile che i popoli germanici abbiano adottato le abitudini degli Unni (inclusa l'intenzionale deformazione cranica) in primo luogo perché volevano essere integrati nell'Impero Unno e adattarsi ai conquistatori", scrivono gli autori dello studio.

Mentre lo studio getta nuova luce sulla consuetudine di deformazione cranica in Europa, e in particolare in Ungheria, è nostra opinione che gli autori non hanno adeguatamente spiegato il motivo per cui così tanti gruppi di persone si sono sforzati tanto per trasformare la forma del loro cranio. Per scoprire questa risposta, è necessario risalire alle più antiche origini di questa usanza. Chi furono i primi a modificare i loro crani? Volevano forse emulare un gruppo elitario di persone che era venuto prima di loro? Se sì, chi?

Viene da domandarsi se gli antichi 'dei', Viracocha in Sud America, e Quetzalcoatl in America Centrale non abbiamo introdotto usanza e stili in questa zona, condividendo la loro saggezza, la tecnologia e la conoscenza sciamanica. Bochica è la versione colombiana di queste due divinità, descritto come un viaggiatore barbuto che era molto influente.

L'enigma di che ha costruito questi siti e perché sono stati costruiti è ancora un mistero da scoprire.
Tema scottante, quello delle teste allungate. Soprattutto perché da sempre, le fonti ufficiali, i maestri delle scuole elementari ci hanno sempre fatto credere che le mamme fasciassero la testa ai propri figli per fargliela allungare. O per lo meno, questa é la versione ufficiale. Eppure, i crani allungati sono stati rinvenuti in piú parti del mondo e a quanto pare questa caratteristica, per alcuni popoli, piú che un'usanza era una precisa caratteristica del loro DNA come dimostrerebbero gli esami effettuati da Brien Foerster sui teschi di Paracas.

Il teschio di Paracas è stato trovato a Paracas, una penisola sul mare nella provincia di Pisco, nella regione di ICA a sud di Lima presso la costa meridionale del Perù. Regione già citata nell’ambito delle nostre ricerche per i particolari “fori di Valle Pisco” che si ipotizza essere stati fatti sfruttando la perduta tecnologia dello Shamir, narrato nella tradizione midrashico-talmudica ebraica parlando di Re Salomone.

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Il popolo Paracas viveva sulla costa e probabilmente erano discendenti di una popolazione giunta via mare. Sembra essere stato un popolo dedito alla pesca, infatti, sono stati trovati cumuli di conchiglie di mare e una rete sepolta nella sabbia. Strumenti di pietra rinvenuti in zona sono stati datati addirittura a ottomila anni fa.

Fu nel 1928 a Paracas la scoperta da parte dall’archeologo peruviano Julio Tello dei resti di un villaggio sotterraneo che si estende per uno o due chilometri all’epoca già pieno di sabbia. E di un enorme cimitero anch’esso sotterraneo. Nel 2011 una troupe televisiva andò a filmare il luogo ma il cimitero e il villaggio erano riempiti di sabbia trasportata dal vento dell’oceano. I luoghi di sepoltura non sono visitabili.

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Le tombe contenevano famiglie intere, i resti erano avvolti da vari strati di stoffa colorata e decorata purtroppo le tombe erano state saccheggiate, dagli huaqueros (scavatori clandestini) in cerca di manufatti d’oro e d’argento vasellame e dei famosi tessuti Paracas.

Profanatori di tombe che, fortuna nostra, avevano invece lasciato i teschi. Ne furono rinvenuti 90 databili a 3000 anni fa. Probabilmente ve ne sono ancora altri in collezioni private, nei magazzini di Musei oppure ancora sepolti in zona. I teschi di Paracas sono tra l’altro i teschi allungati più grandi al mondo. E sono soprannominati i “Paracas skulls”.

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[i]Rielaborazione sulla base di un teschio[/i]

I teschi allungati non sono stati trovati unicamente a Paracas, sono state scoperte tra gli Olmechi in Messico, a Malta nell’isola Malese di Vanuatu, in Egitto, Iraq Africa Russia Siria Perù Bolivia etc. La pratica è andata avanti fino al XX secolo in Congo e nell'isola di Vanuatu.

Nella maggior parte dei casi si tratta di deformazione indotta sui crani dei bambini attraverso fasce o assi di legno. Mentre a Paracas i crani non sono stati deformati.

Nella maggior parte dei casi la deformazione cranica è indotta si tratta di una deformazione intenzionale fatta sui bambini, infatti, il cranio alla nascita è duttile ed era deformato applicando fasce o piccole assi di legno sul retro del cranio ben strette e per un lungo periodo, di solito dai primi mesi di vita fino a 3 anni. La deformazione cranica fu una tecnica utilizzata in varie parti del mondo, ma può soltanto deformare il cranio, infatti, non ne altera il volume, il peso o altre caratteristiche umane.

I teschi allungati rinvenuti a Paracas, sono invece ben diversi. I teschi allungati sono naturali e non si tratta di una condizione clinica, 90 teschi sono stati trovati dall’archeologo Tello il che esclude la possibilità che possa trattarsi di soggetti con idrocefalia che causerebbe l’arrotondamento del cranio mentre i crani rinvenuti sono allungati ed hanno caratteristiche diverse da quelli tradizionali.
Nei teschi allungati sono presenti due piccoli fori naturali nella parte posteriore del cranio, secondo Lloyd i fori servirebbero per il passaggio di nervi e vasi sanguigni come i fori presenti nelle mascelle umane.

Inoltre il volume dei teschi è fino al 25% più grande per il 60% più pesante dei teschi umani e tutto ciò non si può ottenere con una semplice deformazione tramite assi di legno legati sul capo, o con strette bende. Infine, a ulteriore conferma dell’origine non umana (o quantomeno non Sapiens) dei teschi di Paracas si osserva la presenza di un solo unico osso parietale invece che dei canonici due.

Le suture craniche sono quelle linee che percorrono il cranio umano in modo frastagliato ma logico in funzione del ruolo che devono svolgere. E’ mediante loro che il cranio mantiene una sua particolare elasticità mentre consente lo sviluppo del cervello. Nel neonato sono praticamente aperte, assieme alle fontanelle, mediante un tessuto che si definisce “filo/cartilagineo”. Svolgono il massimo cambiamento nel corso del primo anno di età, per andare poi gradatamente assestandosi e calcificandosi. Le fontanelle sono i punti d’incontro delle suture.

Le suture, come evidenti nella sottostante immagine, sono una caratteristica umana. Sono pertanto l’espressione della genetica umana, così come si presenta oggi. Altre varianti genetiche potrebbero quindi, presentare aspetti diversi. I crani dolicocefali, presentano suture craniche completamente diverse anzi, non hanno per nulla le saturazioni che presenta l’essere umano di oggi.

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[i]Teschio umano a sinistra – Teschio dolicocefalo a destra (senza la sutura sagittale)[/i]

Mentre nell’essere umano comune, la crescita del cranio è consentita dall’elasticità delle suture, nei crani allungati si assiste a una crescita consentita dall’elasticità del cranio nella parte posteriore che, ne genera l’allungamento.

Sono quindi presenti, a dispetto di tutti gli studi antropologici comunemente accettati, due genetiche diverse. Ma a questo punto come non porsi il seguente quesito? Due genetiche umane diverse e contemporanee, risultanti dallo stesso percorso evolutivo o, frutto di un inserimento genetico innestato nel genere umano?

Dobbiamo necessariamente ricordare che presso tutte le antiche popolazioni del pianeta, gli esseri che avevano il cranio allungato, il più delle volte accompagnati da particolari caratteristiche fisiche di cui abbiamo ampiamente discusso in precedenti articoli pubblicati dal Progetto Atlanticus, erano considerati esseri divini o comunque per questo collegati alla sovranità e riconosciuti come tali. Ciò permette di ipotizzare la possibilità che fossero loro a essersi innestati in un preistorico e pre-esistente gruppo umano, presumibilmente arretrato dal punto di vista scientifico-tecnologico. Per questo motivo i popoli ricorrevano alla deformazione cranica per essere simili a loro, per emulazione, come i giovani oggi tendono ad assomigliare ai loro idoli. E per questo motivo la loro genetica recessiva si perse in quella prevalente dominante, dando luogo a tutta una varietà di crani parzialmente dolicocefali.

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Juan Navarro, direttore del Museo di storia a Paracas, museo che ospita 15 teschi Paracas ha


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[WBF]OCEANO ATLANTICO: ANDATA E RITORNO

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10132

Howard Barraclough Fell (1917-1994), meglio conosciuto come Barry Fell, è stato enormemente influente negli Stati Uniti. Era un abile e rispettato biologo marino presso la Harvard University il cui interesse per l'epigrafia lo ha portato a essere descritto dai suoi seguaci come "il più grande linguista del XX secolo" anche se gli scettici lo ritenevano solo "uno pseudoscienziato che ha minacciato per annullare più di un secolo di un'attenta progressi nella ricerca archeologica e antropologica ".

Nulla di più ingiusto, in quanto Barry Fell era prima di tutto uno scienziato il che significa che egli fosse in grado di presentare ciò di cui era fermamente convinto secondo una certa misura di oggettività .
La prima incursione di Fell in epigrafia è stato uno studio di petroglifi polinesiane pubblicati nel 1940, ma è stato il suo libro “America BC” (1976) che in realtà lo ha spinto nell'ambito della ricerca archeologica 'borderline' a cui siamo avvezzi.

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In esso, ha sostenuto che ci sono numerosi esempi di incisioni proprie del Vecchio Mondo che possiamo ritrovare su superfici rocciose e oggetti in tutto il Nord e il Sud America. Questo fu seguito da Saga America (1980), in cui ha ampliato le identificazioni delle incisioni e dei linguaggi per includere l'arabo e altri linguaggi, nonché mappe ed uno zodiaco. Il terzo, “Bronze Age America” (1982), concentrata sul riconoscimento di testi scandinavi dell'età del bronzo, ovvero 2000 anni più vecchi di eventuali iscrizioni runiche conosciute in Europa, a Peterborough, Ontario (Canada).

Secondo Barry Fell, c'erano stati numerosi contatti precolombiani tra Europa, Africa e Asia e il Nuovo Mondo che risale ad almeno 3000 anni prima della nascita di Cristo.

Nella prima metà degli anni Settanta un collaboratore del professor Barry Fell, di nome John William, scoprÏ nella Widener Library dello Harvard College una copia dí un curioso documento, stampato a New York nel 1866, incluso in un libro sugli indigeni wabanaki del Maine. Si trattava díunsolo foglio, scritto dal missionario francese Eugene Vetromile, un sacerdote che aveva predicato agli indigeni, ed era intitolato “La preghiera del Signore” in geroglifici Micmac.
Al primo sguardo, Barry Fell si rese conto che almeno la metà dei segni geroglifici di quel foglio erano simili ai geroglifici egizi, nella loro forma semplificata detta ‘ieratica’. Ciò che destava maggior sorpresa e il sospetto dí una mistificazione erano però le precise corrispondenze tra i significati dei segni egizi e la trascrizione in inglese del testo micmac riportato nel documento.

Sospetti decaduti dopo la scoperta della dichiarazione del sacerdote francese Pierre Maillard il quale aveva affermato di essere egli stesso l'inventore dei geroglifici micmac.

Come avrebbe potuto però Maillard conoscere i geroglifici egizi, per inventare il sistema di scrittura micmac? L'esame delle date mostra immediatamente l'impossibilità di ciò, poichè Maillard morì nel 1762, ovvero sessant'anni prima che Champollion pubblicasse la prima decifrazione della stele di Rosetta.

Qualsiasi somiglianza tra il sistema di Maillard e quello egizio doveva quindi essere puramente casuale come giustamente ci ricorda Alberto Arecchi nell'articolo “Il mistero dei Micmac” da cui abbiamo preso la seguente immagine e la storia sopraccitata.

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In alto: La versione del Salmo 116 (Non nobis Domine)
in geroglifici micmac, trascritta nel 1738 ca. Dall’Abbate
Maillard. In basso, lo stesso testo trascritto in geroglifici egizi.

Nel nostro precedente articolo “Antiche Rotte commerciali” avevamo già evidenziato quegli indizi che ci fanno ragionevolmente pensare a contatti tra le popolazioni residenti sulle due sponde dell'atlantico concentrandoci su quelli ipotetici tra le civiltà mesoamericane e le culture mesopotamiche facendo specifico riferimento tra le altre cose al cammino del Peabirù, alla Fuente Magna, al manoscritto 512 e al Monolite di Pokotia riprendendo il lavoro di ricerca di Yuri Leveratto.

Una ricerca che ci porta alla conclusione di come, secondo Bernardo Biados, i Sumeri circumnavigarono l’Africa già nel terzo millennio prima di Cristo, ma, arrivati presso le isole di Capo Verde, si trovarono sbarrato il passaggio dai venti contrari che soffiano incesantemente verso sud-ovest. Si trovarono pertanto obbligati a fare rotta verso ovest, cercando venti favorevoli. Fu così che giunsero occasionalmente in Brasile presso le coste dell’attuale Piauì o Maranhao. Da quei punti esplorarono il continente risalendo gli affluenti del Rio delle Amazzoni, in particolare il Madeira e il Beni o percorrendo il già citato "Cammino del Peabirú".
In questo modo arrivarono all’altopiano andino, che probabilmente nel 3000 a.C. non aveva un clima così freddo. Si mischiarono così alle genti Pukara che a loro volta provenivano dall’Amazzonia (espansione Arawak), e ai popoli Colla (i cui discendenti parlano oggi la lingua aymara). La cultura Sumera influenzò le genti dell’altopiano, non solo dal punto di vista religioso, ma anche lessicale. Molti linguisti infatti hanno trovato molte similitudini tra il proto-sumerico e l’aymara.

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La Fuente Magna e il Monolite di Pokotia

Ma questa volta lasceremo da parte il mondo mesopotamico per concentrarci sulle regioni nord-atlantiche, altrettanto misteriose, anche se sappiamo come l'archeologia alternativa preferisca focalizzarsi maggiormente sull'area medioorientale.
Esiste una teoria, che riprendiamo dall'articolo di Steven Sora pubblicato su “Atlantis Rising” e, in lingua italiana, sul sito Liutprand, che vede l'antico e misterioso popolo dei Pitti in Scozia, discendere nientepopodimeno che da un'altrettanta misteriosa tribù algonchina del nordamerica. Proprio i Micmac di Fell.

Per affrontare correttamente il tema dobbiamo dimenticarci gli stereotipi cui siamo abituati a credere quando ci interfacciamo con la cultura dei nativi americani e che certa cinematografia ci ha indotto a pensare.

La discussione sulla capacità dei popoli pre–colombiani dell’America del Nord non ha mai riguardato qualcosa di più di incidenti isolati, in parte a causa della necessità di dipingere un quadro dei popoli americani come selvaggi. Con navi di grandi dimensioni, superiori a quella di Colombo, città di certo più grandi di quelle europee, e più precisi nella matematica e della misurazione del tempo, gli Americani evidentemente trascendevano ogni nostra precedente comprensione.

Che i nativi americani avessero una cura per il più grande dramma dei marinai che navigavano su lunghe distanze non era l’ultima sorpresa per i francesi. Quello che sarebbe cresciuto fino a diventare Montreal si chiamava Hochlaga, ed era un villaggio pianificato con strade che partivano da una piazza centrale. Anche gli spagnoli trovarono che la città azteca di Tenochtitlan era più grande della stessa Siviglia, gli europei avrebbero incontrato molte sorprese anche dai nativi americani del Nord. La risposta è semplice: gli americani non erano i selvaggi descritti nelle storie dei conquistatori del Nuovo Mondo.

Una delle maggiori sorprese venne dal linguaggio d’un ramo della tribù algonchina chiamato Micmac. Entrando alla foce del San Lorenzo, i francesi incontrarono questa tribù che circondava la loro nave con due distinte flotte di canoe cinquanta ciascuno. La capacità della popolazione nativa di riunire un gran numero di persone sul fiume era abbastanza una sorpresa, e i francesi scoprirono ben presto che sapevano spostarsi su grandi distanze, nonché, eventualmente, fare numerosi viaggi in Scozia e alle isole settentrionali.
Gli europei avrebbero scoperto che le popolazioni native del nord–est avevano effettivamente impegnarsi in un vasto commercio che portava loro sia i beni sia le conoscenze provenienti dagli angoli più remoti del continente. Dal Messico arrivava la capacità di coltivare fagioli e mais. Da sud–est venivano le conchiglie, da nord–est l’ossidiana, e dai Grandi Laghi veniva il rame. Gran parte del commercio era condotta per vie d’acqua.

La capacità di navigare a grande distanza nel mare era nota pure a Colombo. Sappiamo che, presso il popolo dei Caribi, Colombo aveva trovato canoe, complete di alberi, che potevano contenere 25–70 persone. Colombo sequestrò una nave dei Maya Putun più grande della sua. Poteva contenere altrettanti o più marinai di una delle sue navi. I Maya avevano una flotta di un centinaio di navi e avevano costruito moli a Tulum e sull’isola di Cozumel per il commercio. Dall’altra parte del continente, i Kwakiutl nel nord–ovest avrebbero avuto canoe oceaniche, capaci di contenere 7–10 persone. Chiaramente il commercio era ben consolidato in America, prima che gli europei arrivassero.

Un quadro completamente diverso dall'idea di “cacciatori di bisonti” con la quale forse in modo troppo riduttivo immaginiamo i popoli delle praterie e delle foreste del nordamerica. E' quindi ragionevole pensare che questi popoli con queste conoscenze nautiche siano stati in grado di realizzare viaggi transatlantici secoli prima di Cristoforo Colombo e secoli prima dei Vichinghi?
In realtà esiste più di un indizio che consente di dimostrare la fondatezza di questa ipotesi. Ed è ancora l'articolo di Steven Sora riportato su Liutprand a dimostrarlo.

Dopo che Cesare aveva conquistato la Gallia, una canoa con tre sopravvissuti sbarcò in Germania. Un capo di una tribù germanica di frontiera consegnò gli uomini al governatore Quinto Metello, che riconobbe che non erano europei. L’incidente è stato registrato dallo storico romano Plinio. Altri esempi sono citati in altre opere dello stesso periodo. Gli Inuit erano conosciuti e si sapeva che attraversavano il gelido Nord Atlantico in kayak, e un kayak era posto a decorare la cattedrale di Nidaros in Norvegia.

Quando Colombo era ancora un cartografo, navigò a Galway in Irlanda. Una potente corrente raggiunge le isole britanniche sin dal Golfo del Messico. Quando Colombo era lì, s’imbatté con due pellerossa, individui dalla fronte piatta che chiamò "indiani", cioè provenienti dall’India. L’incidente contribuì a convincerlo della sua missione per raggiungere l’Asia attraverso l’Atlantico.

Cosa ancora più strana di queste visite accidentali, i nativi americani avevano attraversato l’Atlantico, centinaia di anni prima, e "scoperto" l’Europa, e potrebbero avere colonizzato la Scozia. Erano le tribù marittime che Cartier incontrò, i Micmac. Gli storici confinano queste persone ad una zona di Terranova e della Nuova Scozia, benché una parte della tribù non appartenesse al gruppo più alto degli Algonchini, ma ad un gruppo più basso, dalla pelle più scura, e si coloravano la pelle con tintura blu.

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Pittura blu che non può non ricordare al lettore attento un nostro vecchio articolo intitolato “Quegli Uomini dalla Pelle Blu” nel quale, riprendendo la recente vicenda di Paul Karason si sosteneva l'ipotesi che la raffigurazione degli dei nella mitologia antica fosse legata all'utilizzo di oro o altri metalli allo stato molecolare per scopi medici
Amon in Egitto fu spesso raffigurato con il viso blu e la carnagione blu, così come anche Shou, Thoth, venivano raffigurati di colore azzurro o blu. Vishna in India, celebrato come il Dio Supremo.

In Guatemala, in Messico, Colombia, Perù, Bolivia, leggende tramandate per secoli, parlano di visitatori di colore blu. Il grande dio Sin, di Khafajah, antica città mesopotamica che conobbe il suo splendore con il popolo sumero sotto anche conosciuto come il Dio dalla pelle azzurra e dai capelli di lapislazzuli.

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Come sostiene Giorgio Pastore nel suo libro “Dei del Cielo, Dei della Terra” pubblicato da Eremon Edizioni nel 2007 a pagine 243 e 244, all’origine della credenza che i nobili e l’aristocrazia di tutti i secoli siano collegati agli atlanti dei c’è la conferma di Manetone e di Erodoto relativamente al fatto che gli Egizi, i quali facevano molta attenzione all’uso dei colori nei loro affreschi dipingevano Amon e Shu con la pelle azzurra e Osiride e Thot con la pelle verde. Questi sarebbero stati abitanti di Atlantide, scampati al disastro che interessò la loro terra così come il resto del mondo. La prima elìte. I primi sovrani del mondo.

E anche i Micmac erano soliti dipingersi la pelle di blu, esattamente come i popoli scozzesi con i quali i nativi americani condividono incredibilmente molte caratteristiche. I Pitti si dipingevano i volti e la pelle con tatuaggi. Come i Micmac, che indossavano pochi abiti, perché non volevano coprire le loro opere d’arte.

Copricapi piumati esistevano tra i Micmac, e il rango di chi l’indossava era determinato dalla quantità di piume. Questa usanza esisteva anche tra i Pitti, gli unici europei a indicare il proprio rango con questo metodo.

Entrambi, Micmac e Pitti, avevano tradizioni matriarcali. Ciò significa che gli individui risalivano alle origini della loro famiglia attraverso la madre. I Celti vivevano in un’organizzazione di tipo patriarcale. Le famiglie di entrambi, Pitti e Micmac, erano organizzate in un sistema di clan. Mentre la famiglia era la prima la lealtà, il clan era molto importante. Il Clan Chattan, che significa il Clan del Gatto, è stato il più grande della Scozia. Nel prendere decisioni tra i clan, le donne sedevano nei consigli dei Pitti e dei Micmac così come presso i fieri Irochesi. Le donne avrebbero determinato quale uomo sarebbe stato il capo del popolo.

Quando giungeva il momento di festeggiare, le danze degli indiani americani sono ben note. Tra le terre delle isole britanniche, gli scozzesi e gli irlandesi sono noti per le loro danze. Gli Highlanders sono noti per la riunione annuale dei Clan, che corrisponde al pow–how, la più ampia riunione tribale degli Indiani d’America.

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Certe caratteristiche razziali erano condivise tra i Pitti e i Micmac. Entrambi tali popoli erano più bassi rispetto ai loro vicini, ed entrambi avevano la carnagione più scura.

è probabile che i Celti, in confronto, fossero più alti, con capelli rossi o biondi, occhi azzurri, come gli abitanti delle isole britanniche più tardi.

L’espressione "irlandese scuro" o "irlandese nero" sopravvive oggi per distinguerli dai cugini celtici. Gli antropologi propendono ufficialmente per una fusione con sangue mediterraneo, o addirittura africano, anche se non ci sono prove.

Tatuaggi e visi tinti in blu valsero loro il nome di "nasi blu", un soprannome che ancora esiste in centinaia di barche da pesca da Terranova al Maine.

E’ anche un soprannome per i residenti costieri del Nord–Est. I Micmac potevano indossare perizomi, ma potevano stare al caldo con un abbondante strato di grasso animale strofinato sulla pelle. Questa “giacca” teneva al di fuori il gelo e permetteva loro di navigare il gelido Atlantico.
Ma i misteri dei Micmac non si limitano a questo.

Come ci ricorda Alberto Arecchi nel suo articolo “Il Mistero dei Micmac” è necessario segnalare ciò che gli stessi algonchini hanno raccontato ai primi ricercatori. Il primo resoconto pubblicato fu quello di John Johnston, un agente della trib#728; shawnee, il quale scrisse, in una lettera del 7 luglio 1819: “Questa gente conserva la tradizione che i suoi antenati abbiano attraversato il mare. La sola tribù da me conosciuta che ammetta una origine straniera. Sino ad epoca recente ossia al 1819 hanno compiuto sacrifici annuali per celebrare il loro arrivo sicuro in questo paese. Non sanno però da dove o in quale epoca siano arrivati in America.

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Indiani Micmac in abiti tradizionali

Forse è significativo anche il fatto che gli algonchini abbiano mantenuto la tradizione, ancora viva quando Johnston redasse il suo rapporto scritto, che esistessero altri popoli stranieri in America, in tempi antichi. Johnston dice, su tale punto, che gli algonchini li informarono come segue. “E' opinione prevalente tra di loro che la Florida sia stata abitata da una popolazione bianca, che usava attrezzi di ferro. Piede Nero (un celebre capo) afferma di avere spesso udito dire da parte dei vecchi che si trovavano spesso ceppi díalberi, sotto terra, che erano stati tagliati da strumenti affilati.”

Gli algonchini sarebbero di discendenza mista, con una proporzione maggiore di sangue mongolico verso ovest ed una proporzione maggiore di sangue europeo verso la costa orientale. Tale supposizione si può confrontare con l'evidenza linguistica.

Ricercatori russi hanno raccolto vocabolari per circa 25.000 parole dalle molte tribù nomadi che vivono allíestremità nord-orientale della Siberia e delle isole adiacenti.

Queste, con gli studi della struttura grammaticale delle lingue, mostrano una chiarissima affinità con le lingue parlate nellíestremità nord-occidentale dellíAmerica. » chiaro che una comunicazione ed anche una migrazione si è verificata tra l'Asia ed il Nord America in tempi relativamente recenti. » altamente probabile che una tale comunicazione e migrazione si sia prolungata per migliaia dí anni.

Quando sbarcarono in Scozia, i popoli celtici più alti li chiamarono "folletti" (pixies), un nome che esiste ancora nel folclore delle isole britanniche. I Romani li chiamavano Pitti.

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Le regioni abitate dai Micmac tra Quebec
e (guarda caso) Nova Scotia

I Pitti erano ben distinti dai Celti che vivevano nelle Highlands, i quali conservarono i loro costumi e la loro lingua. Nell’81 d.C. le ostilità tra vicini portarono alla guerra e i Pitti devastarono un terzo del britannico. Due storici romani, Nennio e Gildas, registrarono tali antiche ostilità e Gildas afferma che questi fossero venuti dall’altra parte del mare.

La realtà di traversate oceaniche precolombiane sarebbe stata negata un giorno dal nazionalismo degli europei, nel tentativo di legittimare le loro conquiste e lo spirito razzista. Le prove sempre più emergenti di precedenti viaggi di scoperta (e di migrazioni) fatti in entrambe le direzioni ci presenta però un quadro molto diverso da quello accademicamente riconosciuto e consolidato.

Un quadro che inevitabilmente incrocia il cammino con le popolazioni celtiche e la teoria dell'Out of Atlantis, teoria antropologica che Progetto Atlanticus ha presentato in precedenti articoli e che forse può aiutarci a comprendere meglio quel misterioso mondo rappresentato dall'esoterismo druidico.

Da dove venivano i druidi? Alcuni dicono da Occidente, altri da Oriente. Alcuni vogliono che essi abbiano avuto origine in Atlantide, a Occidente, altri ipotizzano che i druidi quali noi li conosciamo dai testi classici siano il prodotto della fusione di una cultura neolitica locale con i Celti sopraggiunti da Oriente.

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Come apprendiamo leggendo “La Realtà Druidica”, articolo pubblicato su Bibrax, Associazione Culturale Celtica la storia esoterica delle radici del druidismo è bella e affascinante. I maghi di Atlantide avevano svelato i misteri della natura ed agivano in armonia con la sua potenza.

Ma vi furono alcuni che usarono questa stessa potenza per i propri fini, allo scopo di dominare e manipolare gli altri. "La Guerra di Atlantide fu la guerra della magia bianca contro quella nera, tra coloro che vedevano nella Natura la grande Madre Divina degli uomini e usavano i suoi doni per il benessere del genere umano, e quelli che vedevano nella Natura la Tentatrice Satanica, che faceva offerte di oscuro dominio e crudele potenza" (Eleanor Merry). Quando la catastrofe si abbatté su Atlantide, i signori oscuri si inabissarono mentre cercavano di tenersi stretti al loro potere temporale.

I saggi bianchi, invece, dotati di conoscenze superiori e di una più profonda fede nella supremazia della ricchezza spirituale su quella materiale, si misero in viaggio sia verso Oriente sia verso Occidente. A Ovest, essi sbarcarono sulle coste americane, a Est sulle spiagge irlandesi e sulle coste occidentali della Gran Bretagna.

Se accettiamo questa teoria sulle origini dei primi druidi, saremo in grado di renderci conto più agevolmente del motivo per cui esistono così tante impressionanti somiglianze tra le dottrine e le pratiche degli Indiani d'America e quelle dei druidi entrambi portatori di un sapere esoterico precedente il cosiddetto “Diluvio”.

Nelle fonti letterarie antiche non esistono testimonianze che accennino alla provenienza da Atlantide dei druidi.

Tuttavia, nella tradizione celtica trovano posto inondazioni catastrofiche, e nel Libro Nero di Camarthe, per esempio, una fanciulla di nome Mererid porta allo scoperto "la fontana di Venere" dopo essere stata stuprata da Seithennin. Dopodiché l'acqua della fonte ricoprì la Terra.
In Gran Bretagna si narra la storia di Ys inghiottita dalle acque.

La malvagia figlia del re praticava la magia nera, e impossessatasi della chiave che il padre teneva al collo e che apriva la diga che proteggeva Ys dal mare, riuscì a far sprofondare il regno e se stessa allo stesso tempo.
Ambedue questi racconti, come pure alcune antiche storie del Graal, parlano degli stessi fatti accaduti ad Atlantide: una violenza fatta alla natura il cui esito è lo scaturire delle acque che inondano le terre.

Lo stupro della vergine Mererid, per esempio, può essere visto come un'immagine mitica della violenza fatta alla natura dai maghi di Atlantide dediti alla magia nera. Il fatto che la violenza scateni allagamenti incontrollabili ben si adatta dal punto di vista simbolico, perché ciò che sfrutta le terre è la consapevolezza analitica maschile non addomesticata dall'unione con il femminile, ed è la potenza vendicatrice del femminile, simboleggiata dalle acque, che è costretta a sommergere l'insensibile maschile. Ed è strano osservare come oggi la storia sembri sul punto di ripetersi, con le acque prodotte dallo scioglimento delle calotte polari che innalzano il livello dei mari in risposta alla nostra violenza sulla biosfera.

Nel Lebor Gabala érenn (Libro della conquista dell' lrlanda) si parla del diluvio biblico, ma Caitlín Matthews ha avanzato l'ipotesi che per questa e per altre storie "sia forse a qualche vaga reminiscenza di Atlantide e della fanciulla a guardia della fonte che si ispirarono alcune delle storie nel loro aspetto primitivo" Quel che è certo è che la tradizione celtica parla di sei razze che sono giunte in Irlanda dall' "al di là della nona onda" (l'estremo confine delle terre al di là del quale si stendono i mari neutrali) La Compagnia di Cessair, la Compagnia di Partholon, il Popolo di Nemed, i Fir Bolg, i Tuatha de Danaan e i Milesii. Il Libro della conquista dell'lrlanda fa una cronaca delle invasioni di queste sei razze, cercando di integrare memorie dei bardi e tradizione biblica, facendo di Cessair la nipote di Noè. Ma sono i Tuatha de Danaan, i Figli di Danu o Dana, la razza divina che ha preso dimora nelle vuote colline del sidhe al sopraggiungere dei Milesii, quelli che alcuni esoteristi identificano negli stessi Atlantidi.

La società dei celti nell’Europa occidentale degli ultimi secoli a.C. era dominata dalla leggendaria casta sacerdotale dei druidi, benché gran parte delle informazioni in merito ci giungano da autori greci e romani. La relazione più consistente ci viene fornita da Giulio Cesare, conquistatore della Gallia (la moderna Francia) nonché condottiero d’una sfortunata invasione della Britannia nel 55 a.C. Pur occupandosi in primo luogo di questioni militari, Cesare s’interessò anche alle usanze dei galli, compresa la loro religione .

Il primo autore ad occuparsi dei druidi fu il geografo greco Poseidonio, vissuto intorno al 100 a.C., tuttavia la storia dei druidi scivola spesso nel regno delle illazioni come il presunto legame con Stonehenge. Anche se la loro origine risale a parecchi secoli prima di Poseidonio, rimane comunque una lacuna notevole di almeno mille anni tra la loro apparizione e l’ultima fase dell’edificazione del luogo megalitico più famoso del mondo. La mancanza di connessioni viene confermata dalla documentazione archeologica relativa all’epoca dei druidi sia a Stonehenge sia altrove in Gran Bretagna.

Da Stonehenge emergono ben poche testimonianze di attività dopo la definitiva collocazione delle pietre sarsen e delle bluestones, solo alcuni frammenti sparsi di ceramica consentono di risalire all’epoca dei druidi. Di fatto i cerchi di pietra non svolgevano alcun ruolo nella religione dei druidi, incentrata sull’utilizzo di templi di pietra o di boschetti: difatti, il termine “druido” deriva probabilmente dalla parola dru, cioè “quercia“.

E' possibile allora che i famosi “cerchi di pietra” e un certo tipo di megalitismo europeo non siano tanto una tradizione celtica quanto paradossalmente una fattura nordamericana algonchina? Di monoliti, o pietre erette che sono tra i più caratteristici elementi del paesaggio celtico europeo, se ne trovano esempi non meno impressionanti dei monoliti giganti della Bretagna anche in Nordamerica.

Gli anelli di pietre, talvolta doppi, con o senza una pietra centrale, sono pure caratteristici delle terre celtiche, ma li ritroviamo in Vermont e nel Connecticut, così come presso Burnt Mountain nel Massachusetts, e molte altre località del New England. In Irlanda essi hanno un diametro minimo di tre metri, e quelli dell'America hanno dimensioni simili.

I popoli del New England usavano un alfabeto ogam composto almeno di dodici segni, identici a quelli in uso in Portogallo ed in Spagna nella tarda Età del bronzo, verso l’800 a.C. I segni del New England hanno gli stessi valori di pronuncia di quelli della penisola iberica; quando si assegnano loro i suoni iberici, si possono leggere frasi appropriate al loro contesto.

Le possibilità che due eventi tanto simili possano verificarsi indipendentemente possono essere calcolate con la teoria matematica delle probabilità.

Esiste meno di una probabilità su 430 milioni che alfabeti identici di dodici lettere nascano in modo indipendente, presso due civiltà che non hanno alcun rapporto tra loro. Per l’alfabeto ogam di diciassette lettere di Monhegan, Maine, e dellíIrlanda, le probabilità di un’origine indipendente in due luoghi diversi sono inferiori ad una su 300 milioni di milioni. » un altro modo per dire che le probabilità di un tale doppio evento sono inesistenti. In altri termini, coloro che scrivevano iscriziioni ogam celtiche in Iberia ed in Irlanda dovevano appartenere allo stesso popolo che scriveva le iscrizioni corrispondenti nel New England.

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Il megalitismo europeo, la storia del misticismo druidico così simile allo sciamanesimo dei nativi americani, le misteriose conoscenze e tradizioni delle tribù algonchine nordamericane dei micmac così simili a quelle dei Pitti dei quali potrebbero essere i progenitori supportano l'ipotesi della Out of Atlantis a integrazione delle origini dei popoli amerindi come frutto della sola migrazione di popoli mongoloidi attraverso lo stretto di Bering.

Qualche anno fa fu scoperto a Kennewick, una località dello stato americano di Washington uno scheletro vecchio di 9000 anni che presentava delle caratteristiche un po' strane: le fattezze del volto sono caucasoidi e non amerinde e il suo DNA mitocondriale contiene l'aploguppo X, tipicamente euroasiatico. Cominciamo a dire subito che “caucasoide” non significa molto: ordinariamente con questo termine si intende un europeo, un nordafricano o un mediorientale, in contrasto con altri “tipi” come il negroide o l'orientale (il tipico aspetto degli asiatici nordorientali).

In realtà caucasoide significa tutto e nulla: probabilmente erano somaticamente caucasoidi i primi uomini anatomicamente moderni usciti dall'Africa e quindi, semmai, sono gli orientali che si sono successivamente differenziati a partire da antenati caucasoidi. La stessa cosa è successa nelle Americhe, dove i primi nativi assomigliavano davvero poco ai loro discendenti attuali.

Ammettendo che l'uomo di Kennewick fosse un Na-Dene, potrebbe essere valida l'ipotesi che i Na-dene (e a maggior ragione gli amerindi che li avevano preceduti lungo la via dello Stretto di Bering) siano migrati dalla Siberia prima che nei popoli rimasti là si fissasse quella importante caratteristica che sono gli occhi a mandorla. Iin effetti se si eccettuano gli Inuit, pur venendo tutti dall'Asia (con la eventuale eccezione – vedremo – degli europei solutreani) nessun nativo americano è caratterizzato dagli occhi a mandorla.

La presenza dell'aplogruppo X pone altri interrogativi.

Fino ad allora era stato notato solo in Europa ed in Medio Oriente. La sua è comunque una distribuzione strana: gli aplogruppi hanno solitamente una elevata frequenza in una zona geograficamente ben delimitata. Invece X è debomente presente in molte aree: medio oriente (con particolare frequenza fra i drusi del Libano), nordafrica, Italia, Isole Orcadi, paesi nordici a lingue uraliche (ma solo Finlandia ed Estonia: è molto più raro nei popoli geneticamente e linguisticamente a loro connessi nelle steppe russe). Ed è sempre in percentuali inferiori al 5%, tranne che nei drusi, nelle Orcadi e in Georgia. Fra i nativi americani lo troviamo fra Na-dene e Algonchini (gli Amerindi del nordest, tra Canada e USA settentrionali),sia in popolazioni viventi che in sepolture. La percentule è tipicamente il 3 %, con alcuni picchi oltre il 10% in alcune tribù. In Sudamerica è presente negli Yanomami.

L'aploguppo X americano fu facilmente correlarlo a incroci con bianchi dopo la venuta degli europei (a cominciare dai Vichinghi nel IX secolo), ma la distanza genetica tra il tipo nordamericano e quello europeo è troppo alta per dare validità all'idea. Contemporaneamente era stata notata un'altra stranezza: le punte delle lance della cultura Clovis, la più antica documentata in Nordamerica, sono simili a quelle che venivano fabbricate in Francia dai Solutreani qualche migliaio di anni prima. Punte del genere si trovano soltanto in Francia, penisola iberica e Nordamerica.

In quegli anni l'aplogruppo X non era documentato in Asia settentrionale e quindi nel 1999 due ricercatori dello Smithsonian Institute, Dennis Stanford e Bruce Bradley, unirono le due cose, ipotizzando che dei solutreani fossero arrivati in Nordamerica dall'Europa lungo la banchisa polare, cacciando foche e vivendo come gli attuali Inuit. All'epoca , cone si vede dalla carta edita dalla National Geographic Society, l'Atlantico settentrionale era coperto di ghiacci come adesso l'Artico: la calotta polare in Europa, oltre alla Scandinavia, copriva pure la Gran Bretagna, arrivando quasi alle attuali coste tedesche, mentre in America si estendeva almeno fino alla latitudine di New York.

Quindi era teoricamente possibile attraversarlo. Contro questa ipotesi, detta “ipotesi solutreana” ci sono due obiezioni principali: la differenza di età fra la cultura solutreana, attiva tra 22000 e 16500 anni fa, mentre le tracce più antiche dei Clovis sono di appena 13.500 anni fa, e il fatto che i Solutreani (e i loro successori Magdaleniani) fossero degli abilissimi pittori (le testimonianze di arte rupestre e nelle grotte in Francia sono vastissime), mentre non ci sono tracce di arte nel periodo Clovis.

La prima obiezione ha in se una sua validità, la seconda chiaramente no: l'ambiente tipico della traversata atlantica sui ghiacci non consentiva certo questa attività, e ne potrebbe essere stato perso il ricordo. Se l'ipotesi di Stanford continua ad essere valida a proposito delle punte, potrebbe però cadere come spiegazione della presenza dell'Aplogruppo X, che è stato recentemente rinvenuto in popolazioni dell'Asia settentrionale.

Se volessimo disegnare alcune mappe a supporto

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che ricordano in modo estremamente significativo la mappa di Donnelly relativamente all'antico regno di Atlantide.

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Non è quindi così assurdo pensare che il sapere posseduto da druidi e micmac al di qua e al di là dell'Atlantico, anche a prescindere da tutti i successivi contatti che le precedenti ricerche di Yuri Leveratto, H.Fell, così come quella di molti altri archeologi e ricercatori 'borderline', ai quali va tutto il nostro plauso e la nostra ammirazione, dimostrano già di per sé una storia capace da sola di rivoluzionare il pensiero comune, non è escluso dicevamo che l'origine di tutto questo sia da ricercare in una civiltà madre, comune a entrambe le culture, antecedente alla storia tradizionalmente conosciuta.
Una civiltà che ricordiamo solo nel mito e che, a prescindere dal nome con la quale vogliamo identificarla, esisteva da molto tempo prima che il periodo glaciale di Wurm lasciasse spazio alla nostra era geologica.[/f]


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PIATTAFORME MEGALITICHE

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10133

Andiamo a Persepoli, in Iran. Secondo la definizione che la Treccani offre di Persepoli sappiamo che questo è uno dei principali complessi architettonici della dinastia achemenide a nord dell'odierna Shiraz.

Fu il principale centro amministrativo della culla della civiltà persiana, e soprattutto il luogo più emblematico del potere dei ‘Re dei Re’, destinato alle cerimonie più rappresentative e alla custodia dei tesori di maggiore importanza per la dinastia.

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Fondata da Dario I (518 a.C.), fu ampliata dai suoi successori, fino ad Artaserse III (metà 4° sec. a.C.); data alle fiamme dai Macedoni, continuò comunque a essere abitata ed ebbe ancora importanza sotto i Sasanidi. I resti grandiosi dei palazzi reali, della tesoreria, delle strutture amministrative, di servizio e residenziali sorgono su una vasta terrazza rettangolare.

Ed è su questa vasta terrazza che vogliamo soffermarci oggi. Infatti non tutti sanno che questa terrazza, questa piattaforma, sulla quale appunto sorgevano i gloriosi edifici dell’impero persiano, è formata da una serie di enormi blocchi di pietra di dimensioni veramente ciclopiche.

Pensate che a Persepoli si osservano blocchi di dimensioni molto maggiori rispetto a quelli utilizzati per esempio nell’edificazione della grande piramide di Giza in Egitto.

Tra questi edifici (la porta delle nazioni, la sala del trono, il palazzo di Dario) il più importante e anche quello sui cui puntare la lente è l’adapana di cui oggi sono rimaste in piedi soltanto 13 delle 72 colonne che lo formavano. E sappiamo come il numero 72 sia strettamente legato al ciclo della precessione degli equinozi e quindi più in generale a quel culto solare astronomico che secondo noi rappresentava il corpus mistico-spirituale dell’antica civiltà prediluviana.

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Abbiamo visto che la Treccani attribuisce la costruzione della cittadella a Dario a cavallo tra il V e il VI sec. a. C., ma, come giustamente osserva l’autore di un articolo pubblicato sul sito “Civiltà antiche e antichi misteri” come possiamo essere sicuri che Dario I costruì ANCHE la piattaforma megalitica?

Sappiamo che le datazioni al C14 relativamente alle pietre non possono essere fatte. Questo metodo funziona solo sui resti organici, per cui la datazione delle rocce viene fatta spesse volte in funzione della datazione dei resti organici ritrovati in zona. Ergo se per esempio un sito fosse stato utilizzato successivamente, anche di secoli o millenni come “fossa comune” la datazione sarebbe condizionata dal periodo di realizzazione di tale fossa.

Per capirci meglio: se tra 5000 anni datassero con il C14 il sito del tempio di Segesta in Sicilia e per sbaglio utilizzassero i campioni organici dei picnic dei visitatori contemporanei del sito daterebbero Segesta al 2014... Ovviamente questo è solo un esempio, non è proprio così, ma spero che questo possa rendere l’idea dei limiti della metodologia di datazione più comunemente utilizzata quando ci si riferisce a siti megalitici.

Allora... A questo punto... Non è che magari Dario si limitò a costruire gli edifici politici e di culto dell’impero persiano sopra una solida piattaforma già esistente? Riciclando un sito quindi costruito da altri prima di lui, magari persino di qualche millennio?!

Non sarebbe nemmeno la prima volta... I Romani costruirono a Baalbek i loro templi sopra una piattaforma megalitica abbandonata da precedenti culture. La piattaforma sopra la quale sono stati posti i templi è rialzata di nove metri, formata da blocchi fino a nove metri di lunghezza e due di spessore, larghi due. Nessuno ne ha mai calcolata la quantità occorsa, ma si stima superi sicuramente la cubatura della Grande Piramide.

Anche a Gerusalemme non abbiamo notizie certe riguardo l'origine della piattaforma che nel corso della storia ha ospitato, prima il tempio di Re Salomone, poi il tempio di Erode, ed oggi è la sede della Cupola della roccia e del muro del pianto.

Riguardo a Baalbek checché ne dica l’archeologia ufficiale è comunque difficile attribuire ai romani l’intera costruzione dato che, solitamente, nella loro architettura (basta osservare gli edifici di epoca romana) venivano utilizzate pietre più piccole; e altrettanto non vi sono testimonianze di civiltà in possesso di tecnologie idonee ad erigere le pietre colossali che si ammirano nella piattaforma di Baalbek.

Stiamo parlando di un piedistallo che si eleva di ben tredici metri rispetto al terreno dove il lato occidentale è stato eretto con lastroni squadrati di nove metri e mezzo, alti quattro e spessi tre e mezzo; ognuno del peso di circa 500 tonnellate.

Le tre pietre più grandi sono conosciute come "Triliton", o " La Meraviglia delle Tre Pietre"; le loro dimensioni sono veramente esagerate, di diciotto o venti metri, e il loro peso di mille tonnellate.

Nonostante queste esagerate e ciclopiche proporzioni non hanno ostacolato il loro posizionamento millimetrico. Tutte queste pietre sembrano essere state estratte tutte da una cava vicina, dove ne possiamo ammirare ancora una, conosciuta come la "pietra del Sud", la quale misura ventuno metri di lunghezza, dieci di altezza e ha uno spessore di quattro metri e mezzo; sembra raggiungere il ragguardevole peso di 1200 tonnellate.

Essa è tuttora attaccata alla vena madre come se a un certo punto i lavori di estrazione si fossero interrotti di colpo.

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Visto che le considerazioni dell’archeologia ufficiale al riguardo personalmente non mi soddisfano e anzi lasciano più dubbi che altro, mi sorgono spontanee alcune domande sorgono allora spontanee.

1) QUANDO furono costruite?
2) CHI le costruì
3) COME furono costruite?
4) A COSA servivano?

Sembra abbastanza scontato che a nostro parere queste ciclopiche piattaforme, così come molti altri siti megalitici ritrovati nel mondo, possano essere i resti di complessi architettonici risalenti a decine di migliaia di anni fa costruiti quindi da civiltà antidiluviane dimenticate dalla storia.

Relativamente al CHI ci sono alcuni particolari indizi che offrono alcune possibili soluzioni. Il nome ebraico di Baalbek è "Beth-Shemesh", ovvero la "Casa di Shamash", nome semitico del dio sumero Utu, capo degli astronauti, al quale si attribuisce un ruolo importante nel disegno e nella costruzione, sia dell’oracolo libanese che dell’Arca del diluvio.

Fra le molte leggende che riguardano l’edificazione di Baalbek osserviamo quella maronita, che vede in Caino, figlio di Adamo, il suo costruttore durante un attacco di pazzia. Un altro mito, il più significativo a mio avviso, attribuisce l’edificazione del sito a demoni (io preferisco il termine “Angeli Caduti”, Azazel, Belial, Dagon, Moloch e appunto... BAAL) e “giganti”, “giganti” protagonisti della costruzione di Baalbek anche per arabi ed ebrei i quali credono che l’intero sito sia opera di Nimrod. Nimrod che dopo il diluvio avrebbe inviato dei giganti a costruire la fortezza di Baalbek, così chiamata in onore a Baal, Dio dei Moabiti, adoratori del sole.

Il riferimento agli angeli caduti non è casuale.

C’è un popolo a cavallo tra gli altopiani turchi e quelli iranici che è avvolto dal mistero e che sopravvive ancora oggi: è il piccolo popolo degli Yezidi. Fu George Gurdieff nel suo “Incontri con uomini straordinari” a testimoniare per primo agli occidentali qualcosa sulla sua religione misteriosa. Misteri come la paura degli yazidi di trovarsi chiusi dentro un cerchio disegnato per terra, come la loro religione che esisteva già prima del tempo di Abramo.

Attualmente esistono quasi 500.000 Yazidi nel mondo. Principalmente nell’area curda dell’Iraq. Il loro centro spirituale è Lalish, a nord di Mosul, ma si trovano anche in Armenia, in Georgia, in Turchia, Siria. In Europa, la Germania conta oggi la comunità più grande con oltre 30.000 persone.

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Guardando la mappa del Kurdistan possiamo osservare
che questa area include Gobekli Tepe, il Monte Ararat e
quegli altopiani turco/iranici dove, in teoria, la civiltà
rinacque dopo il Diluvio Universale biblico

Al di là di tutte le speculazioni che ci sono state su questo popolo e sui tantissimi tentativi di screditarli, nella realtà di loro si sa ancora poco. I loro testi sacri non sono reperibili, le loro radici e tradizioni risalgono a oltre 4000 anni fa, il loro retaggio culturale eredita tradizioni di origine antico mesopotamica, sui culti di Ahura-Mazda, sulla religione dei Parsi e sul Zoroastrismo, condensa nella propria tradizione elementi di giudaismo cabalistico, di cristianesimo mazdeo e nestoriano e infine di misticismo islamico, con una forte influenza sufi.

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Il simbolo originale di Melek Taus include simbologia
cuneiforme ereditata dall’epoca sassanide

Ma perché sono cosi importanti?

In questo popolo c’è qualcosa di decisamente fuori dagli schemi che la storia testimonia: il culto arcaico degli angeli.

Oggi si parla di yazdismo soprattutto rispetto all’Islam, in quanto minoranza, religiosa ed anche etnica, in quanto rientra nel cosidetto ambito culturale curdo. Sotto l’impero ottomano vennero perseguitati crudelmente, e solo pochi anni fa Saddam non fu da meno, motivi per i quali il popolo Yazida è molto cauto nel divulgare il proprio retaggio culturale. Inoltre, grazie anche al maestro #703;Adi, (Adi Ibn Mustafà) che nel 1162 riformò lo Yazdismo introducendo elementi islamici, la comunità yazida trova un suo equilibrio con il contesto religioso culturale che lo circonda.

Tuttavia la loro tradizione spirituale è molto più antica e risale indietro di molti millenni. I Dasin – come essi si chiamano – affermano di essere gli unici veri discendenti di Adamo, celebrano profeti come Noè, Sem, ma anche Enoch e tra le pochissime scritture sacre, annoverano il Libro della Rivelazione, il Libro dell’Illuminazione e il misterioso Libro Nero (della Creazione), che viene conservato in segreto e di cui non si ha traduzioni.

Attualmente le comunità Yazide sono molto frammentate, ma conservano un ordinamento sociale tutto loro, molto simile a quello delle confraternite Sufi: si suddivide infatti tra laici (detti mur#299;d#257;n, che significa “aspiranti“) e iniziati, con varie categorie di diaconi e di inservienti, tra cui cantori (“Qaww#257;l”), danzatori (“Ko#269;iak”) e confraternite di “faq#299;r” (chiamati anche “teste nere“).

Il termine, Yazid, in lingua pahlavi “Yazd”, significa “angelo”, mentre “Yezidi” significa “coloro che pregano gli angeli”. Nella loro spiritualità si tratta sia di demoni, che di angeli. Forse è un influsso dello Zorastrismo, il cui messaggio di fondo poggia sui concetti del bene e del male.

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Raffigurazione sumerica (secolo XX a. C.) di Inanna dea della
Luna e una delle sette divinità sumeriche. Emblematica la
raffigurazione dell’entità alata di fronte a un uccello.

Nella tradizione delle religioni questa degli Yazidi potrebbe entrare all’interno del contesto della religione Mandaica (comunemente ritenuta anche questa una delle più antiche religioni monoteiste esistenti) se non fosse per il fatto che la principale entità venerata dagli Yazidi è Melek T#257;#363;s, un angelo dalle sembianze di un pavone.

La figura di questo Melek Taus/angelo-pavone, è antichissima. Il culto si fonda sulla credenza di un dio primordiale, la cui azione è terminata con la creazione dell’universo. Melek T#257;#363;s, invece, è un’entità divina attiva: funge da demiurgo. La sua funzione raccoglie in sé una valenza dualistica: la capacità di essere il fuoco della luce, come il fuoco che brucia – bene e male nella medesima espressione. In tal modo gli Yezidi spiegano come l’essere umano – avendo in sé le due medesime forze, porti con sé anche una piccola scintilla di Melek T#257;#363;s.

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Il Mausoleo dello Shaykh ‘Ad#299; ibn Mus#257;fir a Lalish, dove
morì nel 1163, è meta di pelleggrinaggio degli Yazidi che
lo considerano l’incarnazione di Malak Ta’us.

Gli Yezidi credono che da Dio giungano sia le forze del bene, che quelle malvage, e che l’uomo deve usare la sua mente per scegliere il giusto, come fece Melek Taus. Questa visione dell’uomo – rispetto alle religioni monoteistiche dominanti – si fonda quindi sulla sua possibilità di scelta individuale, probabilmente uno dei motivi per il quale il popolo Yazida venne perseguito.

Pertanto la vita di ogni Yezida su questo mondo è considerata una prova, paragonabile a quella di Melek Taus, che venne ricompensato da Dio, perché quando ricevette il comando (insieme agli altri 7 angeli della creazione) di pregare per Adamo, egli si rifiuta per non andare contro l’ordine precedentemente ricevuto di pregare solo per il suo Dio, che lo creò dalla sua luce. Ed è in questa scelta che si distingue Melek Taus: mentre gli altri sette angeli pregano anche per Adamo, solo Melek Taus non lo fa, motivo per cui Melek Taus diventa il rappresentante di Dio sulla terra, come dicono gli Yezidi.

Questo aspetto di “purezza dell’intenzione” è un valore che si riflette in molte usanze Yazide, come l’utilizzo simbolico di vesti bianche che caratterizzano gli iniziati al culto e comunque molti degli adepti nelle loro funzioni spirituali.

Secondo gli Yazidi le malattie nella vita dipendono da una visione del mondo che ha una relazione distonica con il divino (Dio – le azioni – l’anima).
Fino a oggi gli Yezidi tradizionali credono che la malattia sia la conseguenza di un peccato. Nel caso di malattia essi vanno da un indovino, il “Kocek“. Essi gli raccontano la loro sofferenza e dopo una riflessione di alcune ore o una notte, in cui l’indovino sogna l’ammalato, egli può dirgli a quale santo rivolgersi attraverso l’applicazione della terra sacra di Lailish.

Alcuni di questi santi-entità sono: Sheikh-Mus e Sheikh-Hassan per quanto riguarda i polmoni e le malattie reumatiche, l’arcangelo Gabriel (Izraiel) per le malattie dell’anima, le entità Baba-Deen e Ama-Deen per i dolori al ventre, l’angelo Hagial per le malattie neurotiche, l’entità Sherf-Al Deen per le malattie della pelle.

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La bandiera degli Yazidi

Il popolo Yazida non ha mai smesso di tramandare la propria tradizione religiosa, una tradizione spesso accusata e perseguita, forse perché ancora l’unica a tramandare un rapporto diretto dell’essere umano con la dimensione angelica.

Una tradizione tuttavia che gli Yazidi conservano – in modo sempre cauto e discreto – e che ha loro assicurato la sopravvivenza nei millenni. Qualcosa che pone lo Yezida decisamente fuori dagli schemi di far dipendere la sua vita spirituale da altri.

E se gli Yazidi fossero da considerare come gli ultimi custodi dell'eredità degli antichi dei, appartenenti a un ceppo genotipico ben specifico che affonda le proprie radici nel periodo subito immediatamente dopo il Diluvio?

Non va dimenticato di evidenziare infatti che molte popolazioni degli altopiani caucasici, curdi compresi, presentano quelle caratteristiche proprie della regalità di un tempo perduto: capelli chiari e occhi azzurri. D’altronde, come abbiamo visto in molte altre occasioni nell’ambito delle ricerche del Progetto Atlanticus sappiamo che il fenotipo “occhio azzurro” compare per la prima volta proprio nei dintorni del Mar Nero dopo la presunta inondazione che potrebbe essere stata raccontata nei miti antichi come “Diluvio”.

Già. Ma di quale Diluvio? Siamo certi che lo stesso “Diluvio” che mise fine alla civiltà di Atlantide sia contemporaneamente anche quello che contraddistinse l’area del bacino del Mar Nero?

Io credo, ma ne parleremo in un futuro articolo, che bisogni considerare ragionevole prevedere due momenti ben distinti quali spartiacque della storia misteriosa che andiamo a indagare.

Il primo, avvenuto dodicimila anni fa circa, coincidente alla fine della glaciazione di Wurm, che distrusse quella civiltà urbana globale avanzata che siamo soliti ricordare con il nome di Atlantide.

Il secondo, avvenuto alcune migliaia di anni dopo, che coinvolse quelle civiltà post-atlantidee della zona del Mar Nero e che diede il via alla cosiddetta ‘diaspora’ dell’occhio azzurro e degli indo-europei in giro per il mondo, facendoli entrare in contatto (e in conflitto) con le popolazioni semite dell’asia minore.

Quell’occhio azzurro che poteva essere anche una specifica caratteristica di Nimrod. Secondo la Genesi 10,8-12, egli era infatti figlio di Kus (Cush) o Etiopia, figlio di Cam, figlio di Noè, di cui sappiamo le peculiarità del suo aspetto fin dalla sua nascita grazie alle descrizioni offerte da Enoch. Il che rende il patriarca annoverabile di diritto tra i “Nephilim”, così come la sua discendenza diretta fino a Nimrod e oltre.

Nimrod era inoltre grande cacciatore e fu il primo fra gli uomini a costituire un potente regno. Il nucleo iniziale del regno fu Babele, insieme ad alcune altre città, ma poi si spostò ad Assur dove fondò Ninive. In seguito si sposò con la propria madre Semiramide, la quale dopo la sua morte dichiarò che egli era diventato il dio sole Baal. Secondo alcuni ebrei Nimrod venne ucciso da Esaù.

La Genesi non fa altri riferimenti a Nimrod, ma forse il fatto che il suo regno fosse inizialmente attorno a Babele e probabili notizie riferite da fonti andate perdute hanno contribuito ad attestare la tradizione che gli attribuisce l'idea di costruire la torre di Babele.

D'altronde secondo il racconto biblico di Genesi capitolo 10, il regno di Nimrod includeva le città di Babele, Erec, Accad e Calne, città del Paese del Sinar. La tradizione ebraica giunge alla conclusione che probabilmente fu sotto la direttiva di Nimrod che ebbe inizio Babele e la sua torre. Lo scrittore ebraico Giuseppe Flavio.

Tornando a Baalbek e in generale agli altri siti megalitici. Sul COME siano stati edificati possiamo ovviamente solo fare delle ipotesi, delle congetture... andando a ripescare tra le ricerche portate avanti dal Progetto Atlanticus e presentate anche in occasione della prima serie del podcast possiamo pensare a due tecnologie perdute principali:

- Levitazione sonica
- Shamir

Molti popoli raccontano di un periodo in cui i loro avi erano in grado, con la sola forza del suono, di spostare enormi massi. Beh... oggi questo non è più solo un mito...

Da un articolo pubblicato sulla rivista di divulgazione scientifica “Le Scienze” Sfruttando la pressione generata dalle onde sonore, è possibile manipolare porzioni microscopiche di numerosi oggetti sia solidi sia liquidi senza un contatto meccanico. Lo ha dimostrato un dispositivo sviluppato al Politecnico di Zurigo, in grado di modulare il campo di levitazione sia nel tempo sia nello spazio, garantendo la possibilità di trasportare e manipolare diversi oggetti simultaneamente.

Ovvero un nuovo metodo per la levitazione acustica descritto sulle pagine della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” da Daniele Foresti e colleghi, del dipartimento d'Ingegneria meccanica del Politecnico di Zurigo, garantisce un preciso controllo del movimento e una notevole versatilità di utilizzo.

Non è forse questo un ottimo esempio di punto di contatto tra i ricercatori scientifici e i ricercatori ‘borderline’? Io sono convinto che se questi due mondi, quello della ricerca scientifica e quello definito, in modo denigratorio, “pseudoscienza” facessero entrambi un passo indietro, un atto di umiltà, per ripartire non più come ‘nemici’, ma come ‘pari livello’, la ricerca tutta ne gioverebbe.

Arrivando infine al PERCHE’ queste piattaforme siano state costruite...

Qui mi tocca richiamare in causa un autore che molti mi accusano di abusare... Il caro Sitchin. Le strane coincidenze, rilevate da Sitchin nel triangolare le Piramidi, L’Ararat, il Monte Santa Caterina, le perfezioni geometriche, non casuali, evidenziano tali punti come riferimenti nel definire i così detti "Corridoi di Volo" degli esseri che lo scrittore indica provenienti dal pianeta Nibiru conosciuto dai Sumeri.

Baalbek diviene così il centro di uno di questi corridoi che utilizzava, come riferimento, il Monte Santa Caterina situato, tra l’altro, sulla stessa linea dell’Ararat che, con il Monte Umm Shumar, formava un "corridoio" più lungo.

A Baalbek si conservava inoltre una "pietra dello splendore", ossia un "Omphalos", la pietra conica che "sussurrava messaggi incomprensibili all’uomo", che "lanciava le parole", il dispositivo che Baal voleva installare sulla Vetta di Zafron, altro nome con il quale si indicava, appunto, Baalbek. L’incrocio delle strade di Ishtar, il luogo da cui si poteva tenere uniti cielo e terra, uno dei luoghi "dell’atterraggio". Il punto ove nell’epopea di Gilgamesh si situa la "Foresta dei Cedri".

La pietra conica ricorda il Dur.An.Ki., "il legame fra cielo e terra", controllato dal dio Enlil in un luogo detto Ki.Ur descritto come "un’altissima colonna che si perdeva nelle nuvole" e posto su di un piazzale che non poteva essere "scosso o ribaltato" e serviva al Dio "per pronunziare parole rivolte verso i cieli". Tale descrizione lo presenta a noi come un mezzo usato per le telecomunicazioni.

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L’origine delle pietre coniche sembra si debba ricercare
in Egitto e non solo perché "conica" era la "Camera
Celeste" (il Ben-ben) con la quale il Dio scese in Terra.

Erodoto parla di un essere immortale che gli Egizi veneravano ed il cui culto risaliva ai tempi dei Fenici: "Nella Fenicia esiste un tempio grande e bello a lui dedicato. Nel tempio si trovano due colonne, una d’oro puro, l’altra di smeraldo, che di notte s’illuminano di splendore". La pietra lucente e brillante dei sumeri, il Na.Ba.R. Zecharia Sitchin annota che l’oro è il migliore conduttore elettrico e lo smeraldo la pietra ottimale per gli impianti laser; in grado di emettere un irreale bagliore.

Ulteriore collegamento lo si trova negli scritti dello storico Macrobio, che parlano di un oggetto dedicato al sole, portato dalla terra del Nilo (l’Egitto) a Baalbek; una pietra magica e sacra dalla forma conica.

Tutto questo mi porta a concludere che queste antiche piattaforme megalitiche corrispondessero a “basi”, basi di lancio, di partenza di velivoli antidiluviani, sia di trasporto che a scopo bellico, i quali collegavano le varie regioni della Missione Terra Anunnaka, fin dall’arrivo degli Anunnaki sulla Terra, da Nibiru o da Marte che sia stato.

Basi che ovviamente necessitavano anche di strumenti di comunicazione sofisticati, rappresentati dall’Omphalos e dalla descrizione che ne viene fatta.
Ma non solo. Alcune teorie, che mi sento di poter condividere, ipotizzano che tali piattaforme potessero servire anche per sostenere le torri “Zed”, le quali potevano essere a tutti gli effetti l’equivalente delle “Wardenclyffe Tower” di Nikola Tesla.

Nota anche come Torre di Tesla, la Wardenclyffe Tower fu una delle prime torri aeree per la trasmissione senza fili. Venne progettata da Nikola Tesla e destinata alla telefonia commerciale senza fili attraverso l'Atlantico, alla radiodiffusione e alla dimostrazione pratica del trasferimento di energia senza fili. La struttura non fu mai completamente operativa e la torre venne demolita nel 1917.

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Se questo fosse vero andrebbe compreso il motivo del perché tale potente strumento tecnologico venne nascosto (oppure messo al sicuro) all’interno della Grande Piramide, perlomeno secondo quanto sostenuto da Mario Pincherle nel suo libro "La Grande Piramide e lo Zed”.

Come riporta Piergiorgio Lepori in un articolo riportato su Edicolaweb.net secondo Pincherle quest'ultima altro non è se non un involucro. Un enorme nascondiglio in cui, vero tesoro, è nascosto lo Zed con il suo carico di mistero spirituale e scientifico.

Al di là dell'interpretazione di Pincherle di totale rottura con i canoni storico-scientifici, lo spirito con cui il testo è stato scritto rispetta i dettami della scienza ufficiale e positiva, ovvero il metodo empirico e il metodo dell'osservazione come ad esempio la riproduzione in laboratorio delle tecniche di trasporto dei blocchi granitici interni alla piramide.

Le ipotesi fatte sono suffragate da forti prove tecniche e storiche, nonché da insospettabili e poco pubblicizzati ritrovamenti archeologici. Chiaramente si arriva ad una conclusione, al momento, indimostrabile; eppure nella piramide di Khufu mai nessuno è stato sepolto, tanto per fare un esempio, cosa confermata anche da antichi manoscritti in cui i primi predatori arabi, entrando nella piramide, la trovarono così com'è ora.

Se riflettiamo inoltre sul nome occidentalizzato di Cheope (Khufu) e che etimologicamente significa "sarcofago", le conclusioni non sono poi così affrettate o fuori luogo: la Piramide come sarcofago dello Zed ed il sarcofago di pietra contenuto nella Camera del Re, realizzato con le misure del cubito reale, proprio come l'arca dell'Alleanza.

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Dunque la camera del Re fa parte di una struttura composta da elementi granitici che nell'insieme è chiamata Zed. In particolare interessa la disposizione della parte superiore a questa camera, perché è costituita da cinque ranghi di travi disposte una accanto all'altra e ognuna, pesa poco più di 70 tonnellate.

Dunque, sappiamo che il granito è composto in gran parte di quarzo, che è piezoelettrico, un particolare fenomeno elettromeccanico. Ossia quando questo materiale è sollecitato da forte pressione, o comunque quando vibra, per esempio in seguito a una percossa, compaiono delle cariche elettriche sulla superficie.

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Il passo è breve, a ragione di ciò, per intravedere nell'enorme apparato dello Zed una batteria di produzione di energia elettrica.

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Il che trasforma il complesso piramidale di Giza, ma potenzialmente anche le piattaforme megalitiche oggetto del presente articolo, come centri di produzione di energia destinata ad alimentare la tecnologia antidiluviana di quelle civiltà governate, come dicono gli antichi testi, dagli “dei”...

Questo consentirebbe anche di ipotizzare il perché siano scomparsi, forse demoliti prima dell’arrivo del Diluvio, o immediatamente dopo, onde evitare che l’umanità selvaggia riportata allo stato brado dall’immane catastrofe entrasse in possesso di particolari tecnologie senza essere assolutamente in grado di gestirle, con tutti i rischi annessi e connessi al caso specifico.

Forse un tempo queste torri Zed svettavano nel cielo, appoggiate su piattaforme megalitiche come quella di Persepoli, andando a formare una rete energetica wi-fi come quella immaginata da Tesla destinata a fornire energia alle strutture della “Missione Terra” degli Anunnaki già centinaia di migliaia di anni fa e poi successivamente utilizzate dalle nazioni antidiluviane collegate al mito di “Atlantide”, almeno per come Progetto Atlanticus concepisce la civiltà atlantidea.

Ad ogni modo tutto sembra essere andato distrutto. Distrutto, pensiamo noi, dalla paura del Player A, giusto per tornare a utilizzare la chiave di lettura metaforica della “Scacchiera” raccontata nelle pagine di articoli e pubblicazioni del Progetto Atlanticus.

Distrutto da quel Player A che temeva l’immaturità del genere umano e il comportamento distruttivo e pertanto indegno di entrare in possesso di tecnologie e saperi derivanti dall’antico splendore antidiluviano.
Davvero vi sentireste di dargli torto?


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IL RUOLO DEL PLAYER A E LE SUE PAURE

Vi è una scena, verso la fine del celebre film di fantascienza di Schnaffer “Il pianeta delle Scimmie” del 1968 nella quale viene data lettura della XXIX pergamena.

Una pergamena tenuta volutamente segreta dall’elite scimmiesca al fine di evitare la dissoluzione delle credenze sulle quali si fondava l’intera società del popolo delle scimmie, le quali non conoscevano e non dovevano conoscere la vera storia del passato del loro pianeta.

Essa recitava:

Cita:
“... Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l'artiglio del demonio. Egli è il solo fra i primati di Dio che uccida per passatempo, o lussuria, o avidità. Sì, egli uccide il suo fratello per possedere la terra del suo fratello. Non permettere che egli si moltiplichi, perché egli farà il deserto della sua casa e della tua. Sfuggilo, ricaccialo nella sua tana nella foresta, perché egli è il messaggero della morte..”


Un duro giudizio nei confronti del genere umano, ma che a mio avviso, ben rispecchia i possibili timori manifestati dal Player A all’epoca del dibattito intercorso tra i due Player, A e B appunto, in merito alla eventualità di offrire all’uomo, al Sapiens in modo particolare, determinati saperi e tecnologie. Preferiamo usare il termine Sapiens piuttosto che il generico Uomo perché, come abbiamo visto nel corso delle nostre ricerche e delle puntate del podcast “Atlanticast”, tale terminologia rischia di risultare fuorviante.

Vale la pena ricordare che il Player A è, secondo la chiave di lettura suggerita dal Progetto Atlanticus, colui che, tra i tre attori protagonisti della storia dell’Uomo, agisce per mantenere l’umanità a uno stato di ‘beata ignoranza’ in attesa di tempi migliori, consapevoli del fatto che un’umanità dotata di conoscenze tecnologico-scientifiche, ma al tempo stesso assente di equilibrio e armonia spirituale, rappresenterebbe un grande pericolo per il pianeta,

Tutto questo in netta contrapposizione con il pensiero e l’atteggiamento del Player B, ovvero con coloro che agiscono al fine di consentire invece all’umanità di raggiungere quell’equilibrio spirituale e quel tasso di consapevolezza idoneo al raggiungimento di un nuovo livello evolutivo;

Quella stessa contrapposizione che caratterizza la mitologia sumera nella descrizione socio-psicologica delle due divinità principali: i due fratelli Enki ed Enlil, rispettivamente appartenenti al Player B il primo e al Player A il secondo.

Mi immagino infatti Enlil ammonire proprio con le parole utilizzate nella sopraccitata scena de “Il pianeta delle Scimmie” il proprio fratello Enki nel tentativo di convincerlo a recedere dal suo intento di rendere partecipe il Sapiens, creato esclusivamente per essere servo degli dei come ci racconta l’Inuma Ilu Awilum, della tecnologia e della alchemica scienza anunnaka, simbolicamente rappresentata dal frutto della conoscenza di biblica memoria.

Un sentimento peraltro confermato dal racconto sitchiniano della XIV tavoletta presentato nel “Libro perduto del Dio Enki” dove i due fratelli interagiscono fra di loro in modo del tutto... potremmo dire in modo del tutto umano.

Cita:
“... Babili (Babilonia), dove Marduk aveva proclamato la propria sovranità, fu risparmiata dal Vento del Male.Il Vento del Male divorò tutte le terre a sud di Babili, colpì anche il cuore della Seconda Regione.Quando, subito dopo la Grande Calamità, Enlil ed Enki si incontrarono per controllare i danni della devastazione, Enki considerò presagio divino il fatto che Babili fosse stata risparmiata!

‘Che Marduk fosse destinato alla supremazia, è confermato dal fatto che Babili è stata risparmiata!’

Così disse Enki a Enlil.

‘Deve essere stato il volere del Creatore di Tutte le Cose!’ Così Enlil replicò. Fu allora che gli rivelò della visione avuta in sogno e della profezia di Galzu.

‘Se sapevi tutto ciò, perché mai non hai evitato l’uso delle Armi del Terrore?’ Così gli chiese Enki.

‘Fratello mio, il motivo era che già abbastanza era successo!’ Così Enlil disse a Enki con voce rotta dal dolore.

‘Dopo la tua venuta sulla Terra, ogni volta che la missione è stata ostacolata da un impedimento, abbiamo sempre escogitato un modo per aggirare l’ostacolo.La creazione dei Terrestri, è stata la soluzione più ingegnosa. Ma è stata anche la causa di una serie di cambiamenti del tutto indesiderati.

Quando hai ben compreso i cicli celesti e hai assegnato le costellazioni, chi in essi avrebbe mai potuto presagire le mani del Destino? Chi poteva distinguere fra i Fati scelti e il Destino immutabile?

Chi ha proclamato presagi falsi, chi ha pronunciato vere profezie?Decisi perciò di tenere per me le parole di Galzu.

Era davvero l’emissario del Creatore di Tutte le Cose, era forse una mia allucinazione? Accada quel che accada! Così mi son detto.’

Enki ascoltava le parole del fratello muovendo il capo in segno di assenso.

‘La Prima Regione è desolata, la Seconda Regione è in confusione, la Terza Regione è ferita.Il Luogo dei Carri Celesti non esiste più; ecco ciò che è accaduto!’ Così disse Enki a Enlil.

‘Se questo era il volere del Creatore di Tutte le Cose, questo è quanto è rimasto della nostra Missione sulla Terra!Il seme è stato gettato dall’ambizioso Marduk, tocca ora a lui raccoglierne i frutti!’

Questo disse Enlil a Enki, suo fratello; accettò poi il trionfo di Marduk.

‘Che il numero di rango di Cinquanta, che intendevo concedere a Ninurta, sia invece dato a Marduk. Che Marduk dichiari la sua supremazia sulla desolazione delle Regioni! In quanto a me e a Ninurta, non intralceremo più il suo cammino. Partiremo alla volta delle Terre al di là degli Oceani, completeremo ciò per cui eravamo venuti. Porteremo a termine la missione di procurare oro per Nibiru!’

Questo Enlil disse a Enki; scoramento permeava le sue parole.

‘Sarebbero andate diversamente le cose se non fossero state usate le Armi del Terrore?’ Così chiese Enki in tono di sfida al fratello...”


Nella suddetta tavoletta troviamo un riferimento a delle fantomatiche ‘armi del terrore’, forse le stesse usate durante le “guerre degli dei” descritte nei testi veda e nella mitologia biblica quali causa di distruzione delle città di Sodoma e Gomorra, oltre che in altri miti causa della scomparsa della civiltà della valle dell’Indo e delle città di Moehnjo Daro e Harappa.

Speculazione letteraria del Sitchin quella della XIV tavoletta? Molto probabilmente sì, così come d’altronde quella del Pianeta delle Scimmie è probabilmente solo una semplice speculazione cinematografica.

Eppure non possiamo negare come in tutto questo sia riscontrabile un messaggio comune e correlato a molti indizi ritrovati nell’ambito della mitologia mesopotamica e classica e anche alla filosofia contemporanea, Hobbes e Locke in primis.

Stiamo parlando dell’"Homo homini lupus" come affermava Plauto e che ritroviamo anche in Erasmo da Rotterdam e in Francis Bacon, ma soprattutto in Hobbes? Quindi un “homo” preferibilmente da mantenere in una 'gabbia' seppur apparentemente 'dorata'?

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O invece aveva ragione Locke nella sua esposizione poi ripresa da Kant con le seguenti parole nel suo saggio "Cos'è l'Illuminismo?"

Cita:
“... L'illuminismo è dunque l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro...”


Ergo, che quelle del Sitchin e molte altre siano libere speculazioni letterarie frutto della fantasia o effettivamente come posso pensare io dei messaggi introdotti in opere letterarie o cinematografiche, esse rappresentano un significativo contenuto che ci permette di indagare a fondo nella psicologia del Player A, ovvero di Enlil e di tutti i suoi seguaci successivi.

D’altronde questo meccanismo, quello di inserire messaggi più o meno criptici all’interno di ambiti diversi, è lo stesso che veniva seguto secoli fa dall’ermetismo e dal mondo esoterico in generale il qualo lo faceva con le opere architettoniche e pittoriche, ma in generale con tutta l’arte del periodo: Divina Commedia compresa.

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Forse abbiamo già detto in passato di come il dolce stilnovo non sia altro che un linguaggio esoterico usato da Dante e dagli altri appartenenti alla medesima scuola.

“O Voi che avete gl'intelletti sani
mirate la dottrina che s' asconde
sotto il velame delli versi strani”

Così si rivolge Dante al suo uditorio privilegiato capace di comprendere un insegnamento che si nasconde sotto il velo dei suoi versi, una dottrina che non è per tutti, ma solo per gli iniziati, per coloro che, appunto, hanno “gli intelletti sani”.

Una medaglia conservata a Vienna recante l'immagine di Dante e la scritta F.S.K.I.P.F.T. è stata interpretata come “Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius” e vista come la verifica storica dell'appartenenza del poeta all'ordine dei Fedeli d'Amore, o Fede Santa, associato a quello dei Templari, ma la sua opera parla da sola e indica il cammino della trasmutazione dell’essere umano che la Divina Commedia illustra.

Cita:
http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines_articoli_immagini_th/HL_PRD_10136/eva/2%20simbolo.jpg


Molti non capiscono perchè in quella frase, in mezzo a termini latini ce ne sia uno ebraico (kadosh), il fatto è che kadosh in ebraico significa "puro", ma in mezzo a quella frase identifica il 30° grado della massoneria, Cavaliere Kadosh.

Dante compie il suo viaggio durante la settimana santa, all'equinozio di primavera, quando gli antichi misteri celebravano una morte e una rinascita, nella natura che esce dal gelo e nell'uomo-Dio vincente sulla cristallizzazione della materia: il candidato ai misteri, colui che ha acquisito consapevolezza di trovarsi in una dimensione pesante e innaturale per il figlio della luce, in una selva oscura e di aver smarrito la retta via, viene spinto a volgere gli occhi in alto, verso la montagna, simbolo del percorso iniziatico, dalla quale verrà l'aiuto.

Come accadeva in passato perché non potrebbe accadere anche oggi? Perché non dovrebbe accadere anche oggi con i film, i cartoni animati, la musica? Un argomento questo peraltro affrontato nell’articolo del Progetto Atlanticus intitolato “Veicoli di Messaggi”.

Relativamente all’aspetto cinematografico vorrei citare il film “Ultimatum alla Terra” con Keanu Reeves, remake di un film del 1951, nel quale appunto vediamo dipanarsi nella trama le logiche che sottendono la psicologia del Player A, ovvero il timore, non infondato, che l’uomo non sia in grado di gestire le potenti tecnologie che la scienza anunnaka detiene, quantomeno non nel modo corretto.

Ci sono due scene in modo particolare, come quella nel quale il protagonista parla con un suo ‘collega’, dove possiamo osservare molto bene le due posizioni ideologiche del Player B (Enki) e del Player A (Enlil), così come ancora durante il colloquio sempre del protagonista con un professore, dove si evidenzia l’auspicio la speranza, del Player B.

Credo possa essere simpatico e utile vedere questo film a corollario della lettura di questo articolo perché ritengo che spesso un film o una canzone siano in grado di veicolare un messaggio, un contenuto, in modo molto più efficace ed efficiente di mille libri, mille ricerche e/o studi.

Ecco perché gli ermetici e gli esoterici utilizzano ancora oggi, esattamente come facevano in passato, con efficacia questo tipo di canali legati al mondo della rappresentazione artistica in una forma più ampia attraverso il ricorso a figure simboliche come quelle usate per identificare Enki e la sua fiducia ed Enlil e la sua paura.

Una paura, come abbiamo detto, quella del Player A, non del tutto infondata, se guardiamo al nostro mondo: guerre, fame, povertà, inquinamento, violenze, distribuzione di risorse a dir poco vergognosa in cui il 10% del mondo consuma e usufruisce del 90% delle risorse e molte altre cose negative.

Ci comportiamo come i padroni del mondo, quando dovremmo ricordarci che siamo ospiti, tanto quanto le altre specie vegetali e animali presenti sul pianeta, e dovremmo pensare sempre a tutelare la “casa” che abbiamo avuto in ‘concessione’. Immagino e spero infatti che voi lettori non distruggiate o sporchiate di proposito la casa in cui abitate, sia essa di proprietà che in affitto. Perché allora l’uomo si comporta così nei confronti del pianeta?!

Ma dove e quando si è consolidata la paura del Player A così tanto da essere presente anche in alcuni protagonisti della nostra storia presente?

La storia antica ci parla di antiche guerre, combattute tra gli dei, nelle quali sono state usate armi di indicibile potenza, alcuni parlano addirittura di guerre atomiche. Probabilmente guerre nelle quali sono stati utilizzati ordigni di potenza simile se non superiore, ma sfruttando tecnologie a noi sconosciute.

Abbiamo diverse descrizioni di queste armi nei testi Veda: vimana, battaglie aeree, armi laser e soprattutto nefaste e potentissime esplosioni simil-nucleari. Ne abbiamo visto menzione anche nel passo della cosiddetta XIV tavoletta.

Ne abbiamo indizi presso Mohenjo Daro, presso il Lunar Crater nel subcontinente indiano, nel racconto di Sodoma e Gomorra…

Cita:
http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines_articoli_immagini_th/HL_PRD_10136/eva/4%20missili.jpg


La storia recente ci ha insegnato la follia umana dell’arma atomica. Hiroshima, Nagasaki. Centinaia di migliaia di persone morte in un solo istante. E quelle due bombe non erano niente se paragonate alla potenza distruttiva degli arsenali atomici durante la guerra fredda. Noi possiamo solo immaginare gli scenari apocalittici del mondo post olocausto nucleare. Mi viene in mente il film “The Day After” oppure il manga giapponese Ken Shiro.

Eppure il mondo potrebbe avere già assistito a uno scenario simile. Potremmo già avere vissuto nel lontano passato l’apocalittico scenario da olocausto nucleare.

La distruzione del pianeta e l'autodistruzione dell'Uomo. Ecco in cosa consiste la paura del Player A e, forse, il motivo del perché certi segreti non devono essere rivelati e certe tecnologie ancora non possono essere di dominio pubblico.

Ciò spiegherebbe perché il Player A, da non confondere con il Player C, abbia da sempre cercato di evitare che l'Umanità post-diluviana tornasse ad avere certe capacità/potenzialità prima che fosse davvero pronta a gestire queste incredibili forze. Ai loro occhi non siamo ancora pronti e pertanto rischieremmo di provocare quegli stessi disastri già accaduti decine di migliaia di anni fa.

Vi invito a riflettere in merito al fatto che realmente il concetto dell’atomo ha origine in un’antichità sconosciuta. Lo studioso romano Lucrezio, nel sec. I a.C., scrisse di particelle di materia “che si muovono in ogni direzione attraverso tutto lo spazio”.

Epicuro (sec. IV a.C.) e Leucippo (sec. V a.C.) accettarono entrambi la teoria atomica, che attribuirono al greco Democrito. Egli parlò di un’organizzazione della materia che solo nel corso dell’ultimo secolo è stata accettata veramente dai fisici moderni.

Democrito riprese la propria concezione dal fenicio Mosco, che a sua volta riportò una tradizione ancor più antica, nella quale si affermava in modo più preciso che gli atomi, base della materia, erano a loro volta divisibili, il che è stato provato solo nell’ultima metà dello scorso secolo, con la scoperta d’una miriade di particelle subatomiche.

La tradizione di Mosco può essere derivata dall’India, ove si trova il più profondo studio della teoria atomica, ricordato da fonti antiche. Il saggio indù Uluka, oltre 2500 anni fa, affermava che ogni cosa è composta di paramanu ossia “semi di materia”. La Tavola Varahamira, datata al 550 a.C., cercò di misurare i singoli atomi e la figura che propose è simile a quella che oggi conosciamo per l’atomo d’idrogeno.

Alcuni testi sanscriti contengono riferimenti a unità di misura temporali che coprono uno spettro molto ampio. Ad un’estremità, secondo i testi cosmologici indù, c’è il kalpa o “giorno di Brahma”, che equivale a 4,32 miliardi di anni. All’altro estremo, come si dice nel Brihath Sathaka, troviamo il kashta, e quando operiamo sui vari rapporti di multipli e sottomultipli ci rendiamo conto che corrisponde a 300 milionesimi di un secondo.

Gli studiosi moderni del Sanscrito non hanno idea del perché nell’antichità si ricorresse a tali suddivisioni del tempo, tanto grandi e tanto minuscole. Tutti loro però sanno che quelle suddivisioni erano in uso e sono obbligati a conservarne la tradizione.

Ogni tipo di divisione del tempo presuppone però che la durata di un’unità potesse essere misurata. La sola cosa che esista in Natura, che possa essere misurata in tempi di miliardi di anni ad un estremo o di qualche centinaio di milionesimi di secondo all’altro estremo, è il dimezzamento di disintegrazione dei radio–isotopi atomici.

Questi intervalli spaziano dall’uranio 238, che ha un dimezzamento di 4,51 miliardi di anni, alle particelle sub–atomiche, come i mesoni K e gli iperioni, il cui dimezzamento si misura in centinaia di milionesimi di secondo.

Lo spettro della divisione del tempo presso gli antichi Indù coincide con i periodi di disintegrazione degli isotopi radioattivi. Se gli antichi Indù, o una civiltà ancor più antica della loro, dalla quale essi poterono ereditare la misura del tempo, possedevano una tecnologia che poteva scoprire e misurare la materia nucleare e sub–atomica, ciò potrebbe significare che avevano accesso all’energia nucleare.

Lo scienziato nucleare Professor Luis Bulgani era convinto che gli Egizi utilizzassero i materiali radioattivi come una forma di protezione. Egli scrisse nel 1949:

Cita:
“Credo che gli antichi Egizi afferrassero le leggi del decadimento atomico. I loro sacerdoti e i loro saggi erano familiarizzati con l’uranio. Infine, è possibile che usassero le radiazioni per proteggere i loro luoghi sacri. I pavimenti delle tombe potevano essere stati rifiniti con roccia radioattiva, capace di uccidere un uomo o almeno di danneggiarne la salute”.


Molti famosi egittologi e archeologi, che esplorarono per primi le antiche tombe lungo la valle del Nilo, morirono di mali misteriosi. Essi furono colti da improvvisi collassi circolatori, con sintomi di affaticamento estremo, difficoltà respiratorie o danni cerebrali e sintomi di follia, tutti sintomi di possibili avvelenamenti da radiazioni.

Spesso, leggende criptiche o antichi testi nascondevano possibili allusioni ad armi nucleari e ai loro effetti. In Cina, l’opera letteraria Feng–Shen–I conteneva il racconto d’una guerra dei Quattro Giganti Celesti di Ching–chang con Chiang–Tzu–ya e il Generale Huang–fei–hu di Hsich’I. E. T. C. Werner riferisce come, durante la guerra, uno dei Giganti, Mo–li ch’ing, usasse una lancia magica chiamata “Nuvola Blu”, e quali fossero le conseguenze.

Cita:
“Generò un vento nero che produsse decine di migliaia di lance che perforarono i corpi degli uomini e li trasformarono in polvere. Il vento fu seguito dalla ruota di fuoco, che riempì l’aria di feroci serpenti. Il denso fumo si chiuse sugli uomini bruciati e nessuno poté sfuggire”


Non sembra essere, in un racconto mitizzato, la descrizione di un’esplosione nucleare?

Persino i Pangive, una tribù bantu dell’Africa, raccontano di una strana storia:

Cita:
“Il fulmine della vita è avvolto in un uovo speciale. La prima madre ne ricevette il fuoco. Quando l’uovo si ruppe e si aprì, ne uscirono tutte le cose visibili. La metà superiore si aprì in una grande albero a forma di fungo, che salì alto nel cielo”


E ancora O.E. Gurney riferì un’antica iscrizione degli Hittiti, che diceva:

Cita:
“Nubi di polvere salgono alla finestra celeste, le case s’incollano come ceneri ardenti d’un cuore. Gli dèi sono soffocati nei loro templi. Le pecore muoiono negli ovili, i buoi nelle stalle. La pecora abortisce l’agnello, la vacca il vitello. L’orzo e il grano non crescono più. Buoi, pecore, uomini cessano di concepire, e le femmine pregnanti abortiscono”


Si trova una delle testimonianze letterarie più sorprendenti della distruzione compiuta dall’uomo, presso le antiche culture tibetane, nelle Stanze di Dzyan, tradotte alla fine del sec. XIX. Le Stanze raffigurano un olocausto che coinvolge due nazioni in guerra, con l’uso di veicoli volanti e di terribili armi.

Cita:
“Il Gran Re delle Facce Risplendenti, il capo di tutte le Facce Gialle, si adirò nel comprendere le malvagie intenzioni delle Facce Scure.

Mandò i suoi mezzi volanti con persone animate da buone intenzioni a tutti i capi, suoi fratelli, per dire loro: preparatevi e muovetevi, uomini di legge, e scappate prima che la terra non sia travolta dal crescere delle acque.

I Signori della Tempesta stavano pure arrivando. I loro veicoli di guerra si avvicinavano alla terra. Entro una notte e due giorni, il Signore delle Facce Scure sarebbe arrivato, ma la terra era stata protetta prima che le acque scendessero a coprirla.

I Signori dagli Occhi Oscuri avevano predisposto le loro armi magiche. Erano esperti nell’alta magia Ashtar, e volevano usarla ... Che ciascun Signore delle Facce Risplendenti investa l’aereo di ciascun Signore delle Facce Scure e alla fine tutti loro fuggiranno ... Il Gran Re cadde sopra la sua Faccia Risplendente e pianse. Quando i re erano riuniti, le acque della terra erano già state disturbate.

Le nazioni attraversarono le terre asciutte. Si mossero davanti al fronte d’acqua. I re allora raggiunsero le terre sicure con i loro aerei e arrivarono nella terra del Fuoco e dei Metalli ... Missili stellari esplosero sulle terre delle Facce Scure mentre essi dormivano.

Le bestie parlanti rimasero silenziose. I Signori aspettavano ordini, che non vennero, perché i loro comandanti dormivano. Le acque crebbero a coprire le vallate. Nelle terre alte si rifugiarono i sopravvissuti, gli uomini dalle facce gialle e dall’occhio diritto”


Anche se la traduzione di questi testi risale a più d’un secolo fa, essi descrivono forme di distruzione nucleare che ci sono divenute familiari solo negli ultimi cinquant’anni.

è significativo anche la distruzione attuata da mani umane qui descritta sia accoppiata a movimenti cataclismici delle acque oceaniche.

Le inondazioni massicce possono essere state casualmente coincidenti con l’olocausto, ma appare più probabile che l’inondazione sia stata il risultato di un improvviso cambiamento del livello del mare, causato dall’improvviso sciogliersi dei ghiacciai dell’Età Glaciale.

Se i Signori delle Facce Gialle” fossero stati Mongoli preistorici, abitanti della regione del Gobi, il diluvio descritto potrebbe essere stato una grande onda di marea che spazzò l’Asia orientale e la Siberia alla fine del Pleistocene. Se ciò è vero, tuttavia, significa che la dimenticata guerra nucleare e la distruzione causata dall’acqua avvennero oltre dodicimila anni fa.

Leggende di grandi battaglie con armi terribili, avvenute in una remota antichità, si trovano attraverso tutto il mondo.

I mitologi dell’antica Grecia raccontavano la storia di una guerra durata dieci anni tra i Titani e gli Dèi dell’Olimpo, conclusasi con una gran violenza. Allora Zeus “non trattenne più la propria anima, la sua mente divenne furiosa ed egli mostrò tutta la propria forza”. Egli fece uso delle sue “armi divine”, prese ai Ciclopi e agli Hekatoncheires.

Innanzitutto il Re degli Dèi “avvolse nelle proprie mani la sacra fiamma”, e infine “i fulmini scaturirono dalle sue mani”. La terra che dava la vita “si ruppe e si bruciò, e tutte le foreste bruciarono nel fuoco”. Gli oceani bollirono e i vulcani urlarono, eruttando migliaia di massi.

I Titani furono presto sconfitti, fatti prigionieri per sempre e confinati nel Tartaro.

L’etnologo R. Baker, in uno studio sul folklore dell’antico popolo canadese dei Piute, raccolse una leggenda dal capo Mezzaluma, che parla d’un tempo “prima che il freddo scendesse dal Nord”, quando la tundra canadese era ricca di vegetazione.

Cita:
“Nei giorni in cui qui c’erano grandi foreste e verdeggianti paludi, vennero i demoni e resero schiava la nostra gente e mandarono i giovani a morire tra le rocce sotto terra (nelle miniere?).

Ma allora arrivò il tuono e la nostra gente fu liberata. Imparammo che esistevano città meravigliose del tuono, sotto i grandi laghi e i fiumi del sud. Molti della nostra gente partirono per andare in quelle scintillanti città e testimoniarono delle grandi case e del mistero degli uomini che stavano lassù nei cieli.

Poi però i demoni ritornarono e ci fu una terribile distruzione.

Coloro dei nostri che erano andati a sud, ritornarono a dichiarere che tutta la vita nelle città era morta, e non rimaneva altro che silenzio”


Questo è ciò che sapevano i Piute. Non conoscevano altri dettagli riguardo a tali eventi, sapevano solo questa storia, ripetuta per generazioni. In modo significativo, la citazione di “foreste e paludi” che crescevano sugli attuali territori di tundra del Canada, al tempo in cui questi eventi accaddero, punta ad un’epoca precedente l’ultima Era Glaciale, oltre 50.000 anni fa.

Gli Hopi del sud–ovest degli attuali USA hanno una tradizione molto simile, che offre un altro scorcio di storia non documentata. La storia si chiama Kuskurza, la Terza Era del Mondo degli Anziani Perduti, ed è stata raccolta da Frank Waters:

Cita:
“Alcuni, nel Terzo Mondo, fecero un potuwvotas, o scudo volante, e con i loro poteri magici lo fecero volare attraverso il cielo. Molti di loro volarono su di esso verso la grande città, l’attaccarono e poi ritornarono con una tale velocità che non si ricordavano neppure dove fossero stati.

Presto altri, di altre nazioni, si misero a fare altri potuwvotas, e volarono e si attaccarono gli uni contro gli altri. Così la corruzione e la distruzione colpirono la gente del Terzo Mondo, come era accaduto agli stranieri.

Nell’antica India, il testo del Karna Parva raccontava la storia della “Guerra degli Dèi e degli Asura” con il gran condottiero Sankara Mahadeva che combatté contro i suoi nemici, i Daitya e i Danava. Il condottiero si spostava nel suo “raggiante veicolo celestiale” e attaccò la tripla città di Tripura, distruggendola completamente con la sua “arma divina” e mandando “tutte le razze ribelli a bruciare, in fondo all’Oceano d’Occidente”.


Il testo del cap. XXXIV del Karna Parva dice:

Cita:
“L’illustre divinità partì veloce, e il suo mezzo, che rappresentava il centro dell’intero universo, penetrò nella tripla città. Grandi urla di dolore furono lanciate da tutti quelli colpiti, che cominciavano a cadere. Allora la tripla città fu bruciara e gli Asura furono bruciati, e i Danava sterminati dagli Dèi”.


Altri due antichi testi indiani, il Drona Bhisheka (cap. XI) e lo Harivamsa (cap. LVI), offrono descrizioni di altre terribili distruzioni avvenute durante la stessa guerra, in cui città intere furono “consumate in un inferno che tutto abbracciava“ e “mandate giù nelle acque profonde”.

Nei poemi epici indù del Mahabharata e del Ramayana vi sono descrizioni ancor più dettagliate, di migliaia d’anni fa, quando grandi re–dèi si spostavano nei loro Vimana (macchine volanti) e guerreggiavano lanciando armi micidiali contro i loro nemici. Le descrizioni di quelle armi negli antichi versi — la loro forza, le loro caratteristiche distruttive e gli effetti — suonano incredibilmente moderni.

Ci sono troppi dettagli simili, in modo impressionante, al racconto d’un testimone oculare di un’esplosione nucleare: la brillantezza dell’esplosione, la colonna di fumo e di fuoco che sale, il fallout, calore intenso e onde d’urto, l’aspetto delle vittime e gli effetti velenosi della radiazione. Sino a settant’anni fa queste antiche descrizioni erano considerate mera fantasia, ma con l’avvento dell’era nucleare, nel 1945, improvvisamente i testi dell’antica India poterono essere compresi nel loro pieno significato.

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Alcuni studiosi sono dell’opinione che questa orribile guerra sia scoppiata nel periodo subito precedente alla caduta dell’impero preistorico Rama, in India, e fosse dapprima combattuta nella regione dell’attuale Kashmir. Stiamo considerando pertanto la possibile conseguenza di un ancor più antico conflitto nucleare, che risale a 40 millenni prima di tutte le precedenti tracce.

In modo molto significativo, nella storia esoterica–occulta, il 50000 a.C. corrisponde alla fine della perduta civiltà di Mu nel Pacifico e alla fine della Prima Fase della civiltà di Atlantide nella regione dell’Atlantico il che potrebbe significare che questi due antichi popoli progrediti aver combattuto una primitiva guerra mondiale, nella quale entrambi soccombettero alla catastrofe, e tale guerra potrebbe aver coinvolto l’attuale India nel fuoco incrociato nucleare?

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E' degno di nota il fatto che gli Hopi ed altri Popoli Nativi degli USA e del Canada abbiano conservato leggende sull’esistenza di un’antica Età del mondo, in cui gli antenati costruirono grandi città attraverso l’emisfero occidentale e conoscevano come volare per superare grandi distanze.

Le divisioni e la guerra, però, spinsero quei popoli preistorici ad attaccarsi l’un l’altro nei cieli, distruggendo tutto il loro ambiente e costringendo i sopravvissuti alla schiaviù e all’esilio, senza che mai più potessero ricostruire le loro civiltà.

è notevole il fatto che queste vecchie leggende concordino sul periodo in cui si verificarono gli eventi. Ovvero “prima che ci fossero le montagne di ghiaccio, quando invece le terre dell’estremo Nord erano coperte da grandi foreste”.

Ora sappiamo, su basi geologiche, che ci furono tre distinti periodi in cui si ebbero tali condizioni di libertà dal ghiaccio alle latitudini boreali, quando le vaste foreste crescevano al di sopra del circolo polare artico: durante il periodo interglaciale Sangamoniano, tra 110000 e 138000 anni fa, nel periodo interglaciale Yarmouth tra 200000 e 380000 anni fa, e nel periodo interglaciale Aftoniano tra 455000 e 620000 anni fa.

E’ possibile che i Nativi Americani abbiano un ricordo di tempi in cui una civiltà scomparsa si distrusse da sola, centinaia di migliaia d’anni fa, in un’epoca incredibilmente remota?

L’archeologo Francis Taylor trovò nel Rajasthan muri storici scolpiti, recanti testi iscritti i quali mostravano la gente del luogo che pregava d’essere risparmiata dalla “gran luce” che veniva a distruggere la città. Sembra che le iscrizioni siano state ricopiate da fonti più antiche, che risalgono a parecchie migliaia d’anni fa. è stata citata questa espressione di Taylor:

Cita:
“E’ molto sconvolgente immaginare che qualche civiltà possedesse una tecnologia nucleare, tanto prima di noi. La cenere radioattiva aggiunge credibilità agli antichi racconti indiani che descrivono una guerra atomica”


Può non essere soltanto una coincidenza il fatto che, al tempo in cui la misteriosa città del Rajasthan fu distrutta, circa 12mila anni fa, ci sia stata anche un incremento delle tracce di rame, stagno e piombo nei ghiacciai che circondavano il mondo, indici di una gran massa di prodotti inquinanti liberata di colpo nell’atmosfera e circolati con le alte correnti d’aria intorno al globo, così come un incremento drammatico delle concentrazioni d’uranio nel corallo che cresceva, da 1,5 parti per milione sino ad oltre 4 parti per milione. I paleo–climatologi non sono mai stati capaci di spiegare questi eventi con eventi di origine naturale.

Ogni scienza ha i suoi aspetti oscuri, e Soddy ha aggiunto queste parole:

Cita:
“Non possiamo leggere in quelle leggende una certa giustificazione per la credenza che qualche antica dimenticata razza di uomini abbia raggiunto non solo le conoscenze che per noi sono recenti, ma anche la potenza che non è ancora stata raggiunta? Credo che possano esserci state civiltà nel passato che avevano familiarità con l’energia atomica, e che usandola malamente si possano essere totalmente distrutte”


Un primo esempio può essere ricondotto a quella civiltà che si autodistrusse intorno all’undicesimo millennio a.C. attraverso un conflitto globale nucleare che pose fine a un certo numero di antiche civiltà progredite, e sconosciute, in un terribile olocausto.
Un secondo caso, verso la fine del quarto e l’inizio del terzo millennio a.C., fu invece quando qualcuno cercò di attivare un accumulatore di energia, il che causò un grave incidente elettrico tra la ionosfera e la superficie terrestre, bruciando letteralmente e fondendo parte della griglia energetica del pianeta, in punti geometricamente ben identificabili.

Il che non può non riportare alla memoria gli esperimenti di Tesla gettando nuova luce sui motivi che ne decretarono la fine.

Le scoperte di Tesla furono realmente rivoluzionarie per l’epoca e incredibilmente moderne. Alcune di esse avrebbero, se realizzate, cambiato completamente il volto del mondo garantendo energia pulita e gratuitamente a tutta l’umanità già oltre un secolo fa, risolvendo molti dei problemi ambientali e di accesso alle risorse a cui assistiamo oggi. In che modo? Sfruttando l’etere come fonte e veicolo di energia.

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Ma cos'è l'etere di Tesla?

Non era né etere "solido" di Maxwell e Hertz, né quello gassoso di Lorentz. L'etere di Tesla consiste in "cariche immerse in un fluido isolante" che riempie ogni spazio.

Le sue proprietà variarono a seconda del suo movimento relativo e dalla presenza di massa e di un ambiente elettrico o magnetico: l'etere di Tesla veniva irrigidito variando rapidamente forze elettrostatiche, e viene coinvolto così in effetti gravitazionali.

"La terra è - come ha spiegato Tesla, una palla di metallo caricata che si muove attraverso spazio" e che crea un'enorme quantità di energia variando rapidamente forze elettrostatiche, che diminuiscono di intensità". Lui illustra come i moti meccanici sono prodotti da una forza elettrostatica diversa che agisce attraverso un mezzo gassoso, che è eccitata dai cambi rapidi di potenziale elettrostatico. Se si presume che enormi stress elettrostatici agiscano, attraverso questo mezzo, variando rapidamente di intensità, si potrebbe muovere un corpo attraverso di lui.

L'etere è normalmente neutrale elettricamente, e penetra ogni materia solida. "L'energia" non esiste in forma fisica, ma è "il potenziale di lavoro" è "tempo" che è una misurazione arbitraria della percentuale di moto della materia che attraversa lo spazio pieno di etere. Tutti gli eventi accadono nel presente, ed il "passato" e "futuro" sono soltanto metafore.

Questa energia gratis che è illimitata è universalmente lavoro potenziale, creato dal moto perpetuo della materia e dal cambio perpetuo di forze più forti e più deboli attraverso le quale viene mantenuto l'equilibrio dell'universo.

Quando la materia solida viaggia attraverso lo spazio, subisce il "vento dell'etere" e le differenze in potenziali elettrici provocano dei cambiamenti nel dislocamento elettromagnetico all'interno della massa ed del vento dell'etere.

Il campo elettrico della terra crea il dislocamento magnetico all'interno dell'etere e lo accumula all'interno del campo elettrico di terra. La differenza tra il dislocamento magnetico all'interno di una massa ed il dislocamento magnetico fuori della massa dell'etere è la "gravità".

Ed è per lo stesso motivo che non verrà mai rivelato al mondo il segreto contenuto nella grande piramide, ovvero la torre djed (o zed) che altro non è se non una antichissima “Torre di Tesla”, ovvero quello strumento in grado di ricevere e inviare informazioni e potenza senza fili comunicanti propagando in tutto il pianeta l’energia così ricavata. Sostanzialmente la centrale energetica di tutto l’impero di Atlantide.

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Da sinistra a destra: posizione dello zed all’interno della grande
piramide, rappresentazione pittorica della torre zed (torre di
Tesla), torre/bobina di Tesla che fornisce energia alla “Lampada
di Dendera”

Anche Tesla cercò di costruire un simile apparecchio: la Wardenclyffe Tower (1901-1917), anche conosciuta come la Torre di Tesla, era una delle prime torri aeree senza fili intesa a dimostrare l’abilità di ricevere e inviare informazioni e potenza senza fili comunicanti. L’apparato del nucleo non fu mai completamente operativo e non fu completato a causa di problemi economici.

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La torre fu chiamata così dopo che fu acquistata da James S. Warden, un avvocato e banchiere dell’ovest che comprò possedimenti in Shoreham, Long Island, circa 60 miglia da Manhattan.

Qui costruì una comunità di ritrovo conosciuta come Wardenclyffe-On-Sound. Warden credeva che con la messa in funzione del sistema mondiale di Tesla sarebbe nata nell’area una “città della radio”, e offrì a Tesla 200 acri (81 ettari) di terra vicino alla ferrovia su cui costruire la torre per telecomunicazioni senza fili e le attrezzature del laboratorio.

Le principali teorie cospirazioniste prevedono che Tesla fu boicottato e tutti i suoi progetti sequestrati da parte delle forze occulte in seno ai governi delle superpotenze e delle multinazionali al fine di bloccare ogni tipo di sperimentazione sulla free energy di modo da non perdere il controllo sull’energia da parte dell’elite.

Ma, alla luce di quanto presentato nel corpo di questo articolo, ciò potrebbe essere fatto per evitare che i buoni principi di Tesla potessero provocare involontariamente il ripetersi di quell’incidente elettrico tra la ionosfera e la superficie terrestre che distrusse gran parte della griglia energetica del pianeta con conseguenti cataclismi, morte e distruzione.

Qualcosa che forse Tesla rischiava davvero di realizzare se prendiamo in considerazione l’idea che l’evento di Tunguska sia stato provocato proprio dall’attivazione della Wardenclyff Tower. Tre anni dopo il completamento della torre, Tesla annunciò un’altra delle sue scoperte: sarebbe bastato dare una potente energia ai suoi trasmettitori per trasformare la litosfera terrestre in un gigantesco portalampade. Bastava in pratica infilare un bastone metallico nel terreno, collegarlo ad un trasformatore, per avere elettricità a volontà.

Tesla era dell’opinione che per generare l’energia iniziale fosse sufficiente usare impianti idroelettrici. Il punto debole di tanta invenzione stava nel fatto che se il trasmettitore avesse inviato, anziché su tutto il globo in maniera uniforme, una forte quantità d’energia in un solo punto, allora si sarebbe verificata una distruzione totale.

Secondo i calcoli, con questo sistema si poteva inviare tranquillamente un’energia pari ad una bomba nucleare da 10 megatoni. La storia ci ricorda che Tesla non ebbe mai la possibilità di sperimentare la sua rivoluzionaria invenzione. Nel 1903 il sostenitore Morgan ritirò il finanziamento.
Perché Morgan ritirò il finanziamento? Per evitare che l’umanità godesse della free energy? O per l’intervento del Player A al fine di impedire che l’umanità entrasse in possesso di un’arma così distruttiva?

Ad ogni modo a quel punto Tesla fu abbandonato da tutti. Sommerso dai debiti, dovette svendere il laboratorio di Colorado Springs per pochi dollari, tanto che nel 1906 non ebbe più soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti della Wardenclyffe, che rimase vuota. Fu proprio in quel periodo che la vita di Tesla iniziò a rivestirsi di mistero.

Quando il mondo cominciò la corsa agli armamenti, che poi sfocerà nella prima guerra mondiale, Tesla cercò di portare acqua al suo "mulino" proponendo un sistema di distruzione più potente. Si crede però che siano state solo dicerie, appoggiate da un fatto insolito come la sparizione della nave francese Jena che saltò in aria in circostanze misteriose. è noto che Tesla rimase neutrale dinanzi a quest’esecrabile gesto. Egli aveva dichiarato, in precedenza, che il suo trasmettitore avrebbe potuto mandare "onde d’urto" d’intensità tale da causare un’esplosione nella santabarbara di una nave da guerra e farla saltare in aria. Il fatto poi che la Wardenclyffe, anche senza operatori, potesse funzionare senza problemi ha fatto sì che ci fossero state, in seguito, delle supposizioni su un suo impiego nel caso della Tunguska.

In pratica nel 1908 Tesla sembra che abbia detto:

Cita:
"Il mio non è un sogno. Si possono realizzare impianti senza fili in grado di rendere inabitabile qualsiasi zona della Terra, senza esporre la popolazione d’altre parti a seri danni o avere inconvenienti collaterali."


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Quante volte i conflitti totali possono avere imperversato e distrutto l’umanità nel remoto passato? Possiamo noi, oggi, commettere nuovamente lo stesso terribile errore?

Parlare di guerre atomiche nell'antichità secondo gli standard della scienza accademica equivarrebbe a parlare di supereroi che sollevano gli enormi blocchi di pietra e costruiscono la piramide di Giza.

Ci siamo talmente abituati all'idea che la nostra civiltà sia l'unica tecnologicamente avanzata nella storia del nostro pianeta,da non poter minimamente prendere in considerazione il fatto che invece potrebbe essere stata l'ultima di una lunga serie che in passato sono state annientate da guerre o da cataclismi naturali.

Osservando con attenzione numerosi oggetti all'apparenza inspiegabili e fuori dalla apparente collocazione archeologica,si può invece scoprire una realtà estremamente lontana da quella di numerosi cavernicoli che inseguivano gli animali con tanto di clava meglio noti come "cacciatori-raccoglitori". Se confrontiamo quello che ci dicono i testi Indu con le descrizioni degli effetti delle espolosioni nucleari ci accorgiamo che tali analogie non possono essere frutto della semplice fantasia di persone ma bensì dati reali e testimonianze dirette di eventi talmente sconvolgenti da spingere molte persone a nascondere tale analogia con scuse o eleborazioni mentali affermando che sono frutto della fantasia della gente del posto.

Ma oltre all'uso della bomba atomica o qualunque nome essa si chiamasse, sembra che in quegli stessi testi sia descritto un vero e proprio arsenale militare altamente avanzato che probabilmente la civiltà umana di allora sfruttava per annientare nemici altrettanto potenti.

Le civiltà tecnologicamente avanzate dell'antichità ci sono state più volte,e più volte sono state annientate da cataclismi e a giudicare da quanto narrano i testi indu anche da guerre non convenzionali facendo ricorso ad armi dalla potenza così devastante da far apparire delle normalissime bombe le nostre attuali bombe atomiche.

Un trauma nella coscienza collettiva che deve essere dimenticato ed evitato e che per il quale determinati soggetti, seguendo le logiche e i timori già di Enlil, seguono la strada del Player A.

Persone che sanno bene cosa si nasconda nei reconditi angoli segreti della misteriosa storia passata dell’umanità e del corpus letterario alchemico-esoterico, ma che nonostante questo negano, negano con tutte le loro forze ogni tipo di ricerca che in qualche modo possa riportare alla luce quell’antico e terribile segreto reclutando indirettamente i cosiddetti ‘scientisti’, ignari di questo segreto, di modo da poter continuare a sostenere nelle accademie, e quindi nell’opinione pubblica, quella tranquilla storia dogmatica che ci vede come una evoluzione delle scimmie in un progresso tecnologico lineare che ci ha portato dall’età della pietra in modo del tutto lineare appunto.

Tutto questo per dormire sonni tranquilli ed evitare che l’Uomo possa entrare in possesso di una conoscenza esoterica e tecnologie così incredibilmente distruttive da rappresentare un pericolo per sè e per gli altri.

Pur non condividendo l’atteggiamento e la filosofia del Player A e dei suoi ‘affiliati’ più o meno consapevoli credo vada riconosciuto loro la validità delle loro motivazioni.

A differenza del Player C costoro non sfruttano l’ignoranza del genere umano al fine di dominarlo o controllarlo.

Il loro comportamento si avvicina di più a quello di un buon padre di famiglia che impedisce al proprio bambino di maneggiare una pistola carica riponendo la stessa al sicuro, in un armadio chiuso a chiave, protetta dalla curiosità del proprio figlio, in attesa che questi sia sufficientemente maturo per poter ‘svelare’ il segreto contenuto nell’armadio.

In buona sostanza il Player A tenderebbe ad evitare che certe tecnologie e certi saperi vengano alla luce e resi di dominio pubblico, prima che i sapiens siano in grado di utilizzarli, per evitare che questi li possano usare nel modo sbagliato distruggendosi e distruggendo il mondo.

Accanto e contrapposto al ruolo del ‘padre’ rappresentato dal Player A troviamo quello della ‘madre’, rappresentata dal Player B, il quale invece si propone di educare e istruire il genere umano per prepararlo a poter aprire quell’armadio chiuso a chiave di cui si parlava prima, il cosiddetto velo di maya, richiamando la terminologia induista già utilizzata dal filosofo tedesco Arthur Schopenhauer.

Padre e madre, censore il primo, istruttrice il secondo, in perfetto e alchemico equilibrio, anche se al nostro livello di ricerca tutto questo si traduce in un duro scontro tra le posizioni dell’accademia tradizionale e quelle della ricerca alternativa
Entrambi i mondi, sia quello accademico tradizionale che quello alternativo borderline sono alla ricerca della verità, o quantomeno entrambi i mondi hanno il loro ‘ruolo’ e a volte mi sembra di vederli proprio come quegli Enki ed Enlil così ben raccontati nella traduzione della XIV tavoletta che abbiamo visto prima.

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LA MACCHINA DELLA RESURREZIONE

Lo Zed è, per definizione, l’elemento più misterioso della Grande Piramide di Giza. Perfettamente integrato nelle simmetrie del monumento, esso è situato nel cuore della piramide che gli egittologi attribuiscono artificiosamente al faraone Cheope. Quale funzione abbia mai potuto avere non è stato definitivamente chiarito.

Eppure, le teorie sono numerose e ciascuna di esse sembra possedere una buona dose di attendibilità. Tuttavia, come spesso accade in queste occasioni, l’ipotesi “ufficiale” appare la meno accreditata.

Gli egittologi, infatti, considerando la particolarità dell’architettura, hanno destinato lo Zed ad una finalità meramente ingegneristica: le sue “camere”, infatti, avrebbero dovuto avere una funzione di “scarico” per smaltire il peso dei blocchi superiori alla cosiddetta Camera del Re, così da evitarne il collasso strutturale.

Un’analisi che è stata smontata pezzo per pezzo, con argomenti significativamente esaustivi, dagli studiosi indipendenti, soprattutto considerando che non vi è ‘contatto’ tra la struttura in granito dello Zed e il resto della piramide come vedremo in seguito e come ha dimostrato l’Ing.Pincherle nel corso dei suoi approfonditi studi in merito.

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Lo Zed è una torre di granito interrotta da 5 livelli che spesso viene raffigurata in molti dipinti egizi, composta da quattro ampie camere, una delle quali era la camera dei Re, con in mezzo una vasca di granito definita erroneamente “sarcofago”, ricavata da un un unico blocco di granito intagliato in modo assolutamente perfetto, talmente tale che alcuni antichi testi egizi raccontano che questa vasca, "fu tagliata da una luce divina", il che ci ricorda le applicazioni di quello Shamir di cui abbiamo tante volte parlato nel corso delle nostre ricerche.

Gli antichi egizi hanno descritto questa torre ricorrendo alla simbologia geroglifica della loro religione; spesso abbinato al simbolo dell’Ankh, lo Zed (o Djed) veniva associato alla figura di Osiride quale rappresentazione della sua spina dorsale. La comprensione della simbologia dello Zed e dell’Ankh all’interno del misticismo e dell’esoterismo egizio ci tornerà molto utile alla fine dell’articolo, specificatamente per i loro significati legati al ciclo vita-morte-resurrezione che permeava la religione egizia principalmente in riferimento al viaggio ultraterreno del faraone, appunto reincarnazione di Osiride.

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Osiride era un antico dio del grano. I suoi seguaci lo identificarono con una divinità pastorale di nome Anzti o Anedjti e si insediarono in tempi predinastici nella sua città nel Delta. Il loro simbolo di culto era appunto il pilastro djed, il cui significato non è ancora del tutto chiarito. Forse rappresentava un albero a cui furono tolti i rami, forse un cedro della Siria o del Libano che i seguaci di Osiride portarono dalla loro patria e per il quale chiamarono la loro città Djedu. Più tardi questo nome fu cambiato in Pa-Uzir, da User, il nome egizio di Osiride, e per i greci diventò Busiris.

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Il culto di Osiride si diffuse presto in molte regioni dell'Egitto. Egli diventò un dio della terra, della vegetazione e dell'agricoltura. Anche il legame del dio con i riti funebri provenne dai tempi antichi, visto che già durante la V dinastia egli aveva assorbito i dei funerari di Abydos (come Khenti-Amentiu) ed i faraoni defunti vennero identificati con lui. Questo aspetto funerario raggiunse una tale importanza, da elevare Osiride a dio supremo dell'Egitto. Nel concetto religioso dei primi tempi, la mitologia inseriva Osiride fra le divinità dell'enneade ermopolitana. Non fu difficile, vedere in questo dio della vegetazione un figlio di Geb, dio della terra e divinità dell'enneade che prima dei faraoni aveva regnato sull'Egitto. La dea Nut venne considerata sua madre e come fratelli ebbe Iside, Seth e Neftis.

Secondo il mito gli uomini in quei tempi remoti erano ancora dei barbari. Osiride gli insegnò il giusto modo di comportarsi, come coltivare la terra, la costruzione delle case e come venerare le divinità. Inoltre stabiliva per loro delle leggi. Nell’insegnamento Osiride ebbe l'aiuto del suo scriba Thot che creò l'arte e la scienza e diede un nome alle cose. Il governo di Osiride si basava sulla forza di persuasione e non sulla violenza.

Dopo la civilizzazione dell'Egitto, Osiride decise di portare i suoi insegnamenti anche al mondo circostante, usando gli stessi metodi.

Un comportamento, quello di Osiride, che noi del Progetto Atlanticus identifichiamo come equivalente a quello del Player B, spesso associato a Enki, Viracocha e anche a quegli Angeli Caduti, definiti come Vigilanti nel libro di Enoch, citato non a caso, in quanto strettamente correlato come vedremo con il tema dello Zed.

L'antico Libro di Enoch, un libro sacro che fu ritrovato nelle Grotte di Qumram, in Israele, racconta che il pilastro "Zed” è in realtà molto più antico della Grande Piramide, che oggi lo ospita, e che fu trasportato inizialmente da un luogo non meglio definito della Mesopotamia con un carro trainato da 600 buoi ed in seguito posto sulla cima della piramide di Saqqara prima di essere definitivamente smontato e nascosto all’interno della Grande Piramide di Giza.

La Piramide di Saqqara (o di Zoser) come forse quasi tutti sanno è una piramide a gradoni, la più antica delle piramidi egizie, sulla cui superficie dell’ultimo gradone è stata riscontrata dall’ingegnere e grande studioso Mario Pincherle una importante presenza di diorite. La diorite è un materiale molto duro il cui uso sul tetto della piramide avrebbe avuto poco senso in realtà, se non quello di sostenere un enorme peso. Sempre Pincherle evidenzia poi che la base in diorite della cima dell'antica piramide di Saqqara è proprio compatibile con le misure della base ed il peso del pilastro "Zed".

Ciò confermerebbe quanto descritto nel Libro di Enoch relativamente al trasporto dello Zed dalla mesopotamia, forse da Babilonia, fino a Saqqara. E’ possibile allora pensare che la storia dello Zed sia correlata anche alla costruzione della mitica torre di Babele, una torre, costruita per ergersi verso il cielo fino a “raggiungere” metaforicamente dio e sfidarlo.

Forse l’obiettivo poteva addirittura essere quello di muovere guerra contro gli dei tentando di uscire dalla tradizionale interpretazione monoteistica del testo aderendo maggiormente a una idea evemerista della figura del ‘divino’.

Un racconto biblico quello della torre di Babele che, come molti altri, presenta un importante parallelo in un poema sumerico più antico, “Enmerkar e il signore di Aratta” in cui si narra del conflitto, probabilmente reale, che aveva contrapposto le città di Uruk e appunto di Aratta, intorno al 3000 a.C.

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L’utilizzo della diorite nella costruzione della piramide di Saqqara e la titanica edificazione della torre di Babele di cui purtroppo poco sappiamo, non può che farci tornare alla memoria un altro luogo dove sono stati trovati incredibili blocchi di diorite e andesite sapientemente lavorati da mani che ragionevolmente erano in possesso di tecnologie a noi sconosciute.

Stiamo parlando di Puma Punku e dei suoi incredibili blocchi intagliati di cui abbiamo già fatto menzione in nostri precedenti articoli. Puma Punku è in grado di suscitare nel visitatore profondi interrogativi su chi abbia popolato questa regione e su chi e come abbia edificato le incredibili opere presenti sull’altipiano a pochi chilometri dal lago Titicaca, anch’esso carico di misteri. Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare questo luogo è rimasto imbarazzato dinanzi alla peculiare lavorazione e forma dei blocchi di pietra disseminati nell’area. Le leggende locali ci indicano essere Tiwanaku un tempio, costruito in un antico passato dagli uomini del posto per commemorare l’arrivo degli dei del cielo nella vicina Puma Punku.

Il tempio principale del Puma Punku, affacciato su di una vasca cerimoniale o piazza sprofondata, perfettamente levigata, è una delle costruzioni in pietra più grandi del nuovo mondo, in cui a blocchi di pietra di 440 tonnellate ne seguono altri più piccoli, di 200, 100, e via via fino a quelli di 80 e 40 tonnellate.

Il Puma Punku colpisce per la dimensione dei blocchi, ma colpisce anche per la raffinatezza della decorazione scultorea. Ovunque giacciono sparsi al suolo parti di quelli che furono portali, finestre, nicchie o semplici blocchi di pietra. In nessun luogo del nuovo mondo, e probabilmente neppure del vecchio, si trova traccia di una lavorazione della pietra tanto precisa e raffinata. Come in un gigantesco gioco a incastri, ogni blocco era progettato per incastrarsi perfettamente con quelli adiacenti tramite un complesso sistema di indentature, incavi e morsetti metallici. Dai pochi frammenti rimasti, sembra che anche il tetto di questi straordinari edifici fosse costituito di enormi lastre di pietra.

Il rebus di Puma Punku sta tutto nella precisione millimetrica dei suoi blocchi di pietra, specialmente quelli a forma di H. Sono tutti della stessa grandezza come fossero stati prodotti in serie con una sorta di stampo, hanno linee perfette, scanalature levigate, fori di estrema precisione e, come gli altri blocchi, sembrano fatti per essere assemblati a incastro, al fine di creare megalitiche muraglie e insolite costruzioni.

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Molti ingegneri sono rimasti stupiti e ammirati da cotanta perfezione millimetrica, che sarebbe difficile da ottenere anche al giorno d’oggi con i moderni mezzi in nostro possesso. Questi enormi blocchi sono infatti composti di diorite, una pietra vulcanica dura quasi come il diamante, la stessa ritrovata sopra la piramide di Saqqara.

A questo punto possiamo quasi immaginare Puma Punku come il cantiere ‘edile’ in cui venivano prodotti i blocchi necessari all’edificazione delle opere antidiluviane come appunto potevano essere lo Zed o la Torre di Babele, sempre che i due non siano in realtà la medesima cosa.

Se questo fosse vero potremmo allora identificare due momenti diversi nella edificazione dello Zed e in quello della Grande Piramide ed effettivamente è interessante osservare come il pilastro in granito non sia congiunto con alcun punto della piramide, ma altresì separato da una intercapedine vuota che separa nettamente i blocchi di granito facenti capo alla misteriosa torre Zed dai blocchi di calcare che invece caratterizzano la struttura della Grande Piramide. Proprio come se la Piramide gli fosse stata costruita intorno!

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All'interno della Camera del Re, che viene a trovarsi sotto cinque enormi blocchi di granito, equivalenti ai piani alti dello Zed, è stato rinvenuto quello che viene ritenuto dall’archeologia tradizionale il sarcofago di Cheope, in granito rosso, un materiale ancora oggi dificilissimo da lavorare che, per le sue dimensioni e caratteristiche, ha fatto sorgere il dubbio in diversi ricercatori alternativi che potesse essere in realtà il contentore dell'Arca dell'Alleanza, visto che nessun corpo vi è mai stato ritrovato all’interno e neppure quello sfarzoso corredo funerario che le sepolture egizie ci hanno abituato a vedere.

Esattamente come viene descritto nella Bibbia nel libro dell’Esodo dove leggiamo:

Cita:
"Faranno un'Arca in legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza e un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d'oro puro: dentro e fuori la rivestirai. Farai sopra di essa un bordo d'oro tutto attorno. Fonderai per essa quattro anelli d'oro e li fisserai ai suoi piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull'altro lato. Farai delle stanghe di legno di acacia e le rivestirai d'oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell'Arca per trasportare l'Arca su di esse. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell'Arca: non verranno ritirate di lì. Nell'Arca collocherai la Testimonianza che io ti darò."


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In questo contesto appare logico riflettere sulla figura del protagonista dell’Esodo ebraico dall’Egitto. Intorno al 1300 a.C. Akhenaton, passato alla storia come “il faraone ribelle”, contrappone un culto monoteista a quello politeista in vigore in tutto l’Egitto, forse continuando l’opera intrapresa da suo padre Amenophis III; fonda una nuova capitale ad Amarna, a circa 200 km a sud del Cairo; il popolo resta però in maggioranza fedele agli antichi dei. Seguaci di Akhenaton e del nuovo ed unico dio Aton saranno una esigua minoranza della popolazione egizia, alcune razze tipicamente africane e la quasi totalità degli hyksos, i discendenti delle tribù semite che intorno al XVII secolo a.C. avevano invaso il nord dell’Egitto dominandolo per due dinastie, prima di essere definitivamente sottomessi.

Dopo circa diciassette anni di governo Akhenaton scompare nel nulla e la restaurazione politeista si accanisce contro di lui con una accurata damnatio memoriae: quasi tutti i segni visibili del suo passaggio – iscrizioni, sculture, documenti – vengono distrutti; la stessa città di Amarna è rasa al suolo.

Secondo recenti ipotesi un’insurrezione della popolazione, guidata dal clero tebano, costrinse il faraone eretico ad abbandonare l’Egitto per stabilirsi in Palestina con tutti i suoi seguaci; a conferma di ciò esiste una lettera nella quale il governatore di Gerusalemme fa esplicito riferimento al divieto di abbandonare le terre dell’esilio. Inoltre va ricordata la forte somiglianza del Sal104, che canta la gloria di Dio nel creato, con l’Inno al Sole di Akhenaton, il faraone che nel XIV secolo a.C. introdusse il culto monoteistico del dio Aton.

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La presunta relazione tra il culto di Aton e Mosè potrebbe spiegarsi in due modi, mentre il caso che gli ebrei in Egitto seguissero tale culto è da escludere essendo all’epoca ancora fortemente politeisti: la cattività babilonese che avrebbe sancito la superiorità del culto di Yahweh sugli altri avviene soltanto nel VI sec. a.C.

Il periodo dell'Esilio fu di importanza fondamentale per la religione ebraica e di conseguenza per le religioni che ad essa si ispirano, come il cristianesimo e l'Islam. Privati del culto del Tempio, ormai distrutto, i sacerdoti giudei e gli intellettuali deportati assieme ad essi elaborarono una versione della loro religione (meno legata al rituale del culto e maggiormente legata ai valori interiori e spirituali) molto innovativa, tale da permetterle di sopravvivere alla catastrofe ed anzi da uscirne rafforzata. Al punto da riuscire ad imporsi come "vera" interpretazione del culto di YHWH non solo agli "am ha'aretz" di Giuda, ma addirittura ai fedeli di YHWH di Samaria, che arrivarono ad adottare come canonica la redazione del Pentateuco elaborata durante e dopo l'Esilio.

Nella realtà storica e archeologica, invece, s'individua una serie di innovazioni importantissime, che caratterizzarono da quel momento in poi il giudaismo.

Il definitivo trionfo del monoteismo più intransigente e l'eliminazione definitiva di tutte le altre divinità del pantheon cananeo. Se la religione pre-esilica era stata fondamentalmente enoteista (riconosceva l'esistenza di altri dèi, ma riteneva lecito per Israele esclusivamente il culto di YHWH) quella post-esilica è intransigentemente monoteistica: YHWH è l'unica divinità esistente, è lui a muovere la Storia, al punto che anche un sovrano persiano può essere emissario della sua volontà, al punto da essere definito "Messia".

Concordanze storiche non meglio precisate fanno ritenere che dietro la figlia di faraone che adottò Mosè si celasse una nobildonna iniziata al culto di Aton, forse la regina Ankhesenamon, figlia di Akhenaton finita dopo varie vicissitudini in sposa ad Haremhab. L’ipotesi più certa diventa a questo punto che Mosè sia stato un cortigiano di Akhenaton, e dunque fu certamente seguace del culto di Aton; questa ipotesi è suffragata dalla data di nascita di Mosè secondo la tradizione il 7 Adar 2368 (corrispondente agli anni tra il 1391-1386 a.C.) che lo fa un contemporaneo del faraone Akhetaton vissuto nel XIV sec a.C.

Il collegamento tra il faraone ribelle ed esiliato col suo probabile sacerdote, il Mosè biblico dell’esodo ebraico, appare estremamente logica; sono infatti facilmente rintracciabili le numerose analogie storiche, circostanziali e cronologiche tra i due personaggi. Lo stesso nome di Mosè sembra di origine egiziana ed il mito della sua infanzia – salvato dalle acque ed educato alla corte dei faraoni, in perfetta analogia col precedente mito del sumero Sargon – appare come il tentativo di mascherare una realtà che non deve essere divulgata.

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Le motivazioni del perché tale storia non doveva essere divulgata tra le altre cose potrebbero avere motivazioni socio-politiche dirompenti.
Ma per capirlo dobbiamo arrivare al 1923, anno dell’apertura della tomba di Tutankhamon da parte di Lord Carnarvon e Howard Carter i quali avevano in realtà, già violato in segreto la tomba circa tre mesi prima dell’apertura ufficiale, trafugando una moltitudine di oggetti preziosi e suppellettili. Ad un primo rapido inventario tra gli oggetti “ufficialmente” ritrovati nella tomba sono presenti anche alcuni papiri dei quali si fa cenno nella corrispondenza privata dei due, in lettere inviate ad amici e colleghi.

Peccato che poco tempo dopo i suddetti papiri risultano inesistenti e cancellati dai successivi inventari. Interrogato in proposito, Carter dichiarerà trattarsi di un clamoroso errore: alcuni rotoli di lino presenti nella tomba erano stati sprovvedutamente scambiati per papiri.

Tale versione appare poco credibile, trattandosi di egittologi esperti. Carter, in particolare, ha alle spalle una lunghissima carriera, ma nessuno solleva obiezioni. Accade però che in un secondo momento le autorità egiziane prospettano la possibilità di togliere a Carter la concessione per continuare gli scavi. Questi allora si reca al consolato britannico e minaccia, nel caso in cui non gli fosse stata rinnovata la concessione, di svelare al mondo intero il contenuto dei famosi papiri¸”…fornendo il vero resoconto…dell’esodo degli ebrei dall’Egitto”

E’ pertanto perfettamente lecito, date tali premesse, supporre che la divulgazione del contenuto dei papiri avrebbe ottenuto effetti indesiderati a livello politico; ed è altrettanto lecito ipotizzare che i papiri narrassero la storia di Akhenaton e dell’esodo suo e dei suoi seguaci verso la Palestina.

Ricordando che era solo di pochi anni prima la famigerata Dichiarazione Balfour (il primo riconoscimento ufficiale delle aspirazioni sioniste in merito alla spartizione dell’Impero Ottomano, costituito da una lettera, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rotschild – principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista – con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un focolare ebraico in Palestina), si comprende come un documento che nella sostanza minava alla base i miti fondatori del movimento sionista – in particolare relativamente ad una presunta omogeneità razziale ed alla volontà di far ritorno alle terre dei propri presunti avi – avrebbe avuto nell’opinione pubblica mondiale un impatto dirompente, delegittimando definitivamente il movimento sionista stesso, che aveva già intrapreso a tappe forzate e con tutti i mezzi disponibili – non escluso il terrorismo – la colonizzazione della Palestina.

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Indirettamente questa vicenda rappresenta a mio avviso una conferma del fatto che il cosiddetto sarcofago di Cheope contenesse in realtà quell’incredibile manufatto rappresentato dall’Arca dell’Alleanza di biblica memoria trafugata da Mosè, sacerdote egiziano legato al culto di Aton, e pertanto in possesso di incredibili conoscenze esoteriche e tecnologiche. Quelle stesse conoscenze che gli consentirono quei prodigi per i quali ancora oggi è ricordato.

Arca dell’Alleanza il cui scopo e funzionamento doveva pertanto essere correlato alla torre Zed, oggetto del presente studio di ricerca, per motivi che ancora oggi ignoriamo, ma che, rifacendoci a quanto si diceva qualche pagina addietro, potrebbero essere legati al desiderio dell’Uomo di ‘raggiungere’ Dio, qualsiasi cosa significhi questo, descritto nel mito della Torre di Babele.

Come sostenuto da Robert Bauval in un suo recente convegno quando osserviamo la Grande Piramide è come se osservassimo una grande “macchina” che non sappiamo utilizzare e a cui forse manca l’energia per poter funzionare. Esattamente come un computer che diventa un pezzo di plastica se gli viene sottratta la corrente e la CPU, così lo Zed, contenuto in essa, potrebbe essere oggi soltanto un incredibile manufatto, retaggio di un tempo antidiluviano, di cui non sapremo mai nè il suo utilizzo, nè il suo funzionamento.

Nè il perché, aggiungo io, a un certo punto venne deciso da qualcuno, qualcuno che rimane ignoto, di provvedere al suo smantellamento da Saqqara per nasconderlo, o proteggerlo, all’interno della Grande Piramide.

Ancora una volta è il Libro di Enoch, e più specificatamente il decimo capitolo del secondo libro, ad aiutarci.

In esso leggiamo infatti che vi è scritto:

[img]"...%20Allora%20il%20Signore,%20Altissimo%20santo%20e%20Immenso,%20mandò%20Uriele%20a%20Noè%20e%20gli%20disse:%20<<Parlagli%20a%20nome%20Mio,%20digli%20che%20si%20tenga%20nascosto,%20rivelagli%20che%20un%20terribile%20cataclisma%20si%20sta%20avvicinando.%20Tutta%20la%20Terra%20verrà%20spazzata%20da%20un%20diluvio%20che%20distruggerà%20tutto%20ciò%20che%20vive%20in%20essa.%20Avvertilo%20in%20che%20modo%20egli%20potrà%20scampare%20e%20come%20il%20suo%20seme%20potrà%20essere%20preservato%20per%20tutte%20le%20generazioni%20future%20del%20mondo>>.%20Poi%20il%20Signore%20disse%20a%20Raffaele:%20<<Prendi%20Azazel,%20il%20caprone%20nero,%20colui%20che%20procede%20alla%20rovescia%20nel%20tempo%20e%20legalo%20mani%20e%20piedi.%20Nascondilo%20nell'oscurità.%20Nascondilo%20nel%20vuoto%20e%20oscuro%20antro.%20Imprigionalo%20là%20dentro,%20così%20le%20immense%20pietre%20di%20granito,%20(ognuna%20delle%20quale%20avrà%20un%20lato%20ruvido%20e%20scabro),%20lo%20chiuderanno%20in%20uno%20spazio%20oscuro,%20entro%20il%20quale%20dovrà%20stare%20per%20lunghissimo%20tempo,%20lontano%20dalla%20luce,%20che%20non%20illuminerà%20il%20suo%20volto%20e%20il%20suo%20segreto>>,%20..."[/img]

Azazel, ricordiamolo, è uno degli angeli caduti che hanno insegnato agli uomini prediluviani le arti e i mestieri, ovvero tecnologie e saperi esoterici proprie della più alta gerarchia anunnaka e che per questo motivo sono equiparabili ai nostri Player B secondo la chiave di lettura presentata dal Progetto Atlanticus. Il caprone nero inoltre sembra un riferimento alla figura del Bafometto, adorato dai Templari proprio come simbolo di conoscenza.

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E’ possibile pertanto che lo Zed sia stato smantellato proprio poco prima dell’arrivo del Diluvio e ricostruito all’interno della Grande Piramide al fine di imprigionare “Azazel”, il caprone nero, o meglio il suo sapere, al fine di evitare che l’Umanità devastata dal grande cataclisma e quindi presumibilmente tornata allo stato di barbarie, non potesse usufruire del grande potere rappresentato da questi.

Il sapere posseduto dagli “Antichi Dei” e che i Player B (Osiride, Enki, i Vigilanti o Angeli Caduti di cui Azazel faceva parte) volevano condividere con i Sapiens. Un potere di cui invece il Player A, e forse non a torto, temeva lo sconsiderato utilizzo da parte dell’Uomo post-diluviano. Un potere, un sapere, un dono che forse possiamo provare a intuire se proviamo a collegare tutti i tasselli del mosaico che questa vicenda ci offre.

Perché è mia convinzione che ciò di cui stiamo parlando quando parliamo dello Zed sia quello stesso dono che ci fu negato all’alba dei tempi, quando fummo cacciati dal giardino dell’Eden: il frutto dell’albero della vita. Ovvero la vita eterna attraverso la trasfigurazione! Un dono che Azazel voleva condividere con la razza del Sapiens, assumendosi il rischio più grande: quello di essere scacciato anch’egli dalla schiera ‘celeste’.

Potremmo avere pertanto identificato i componenti necessari per il funzionamento della più strabiliante macchina che l’umanità possa mai conoscere: la macchina della trasfigurazione! Quella trasfigurazione raggiungibile anche attraverso un percorso più spirituale, così come manifestato dagli insegnamenti alchemico-gnostici che permisero al Cristo la trasfigurazione in corpo di luce sul monte Tabor.

Una macchina che per funzionare necessità di:

- Lo Zed (hardware)
- L’Arca dell’Alleanza (energia)
- L’Ankh (CPU)

seguendo la metafora suggerita da Bauval.

Il primo elemento l’abbiamo trovato all’interno della grande piramide. Il secondo componente è stato ritrovato, ma è andato smarrito, oppure gelosamente custodito ancora una volta dal Player A. Il terzo, per quel che ne sappiamo non è ancora stato trovato.

Come possiamo affermare questo? Partendo proprio dal significato simbolico che gli antichi egizi attribuivano allo Zed e all’Ankh.

Nella religione degli antichi Egizi, lo Zed (o Djed = "stabilità", "presenza") è la rappresentazione della spina dorsale del dio Osiride, re dell'Oltretomba. Per gli Egizi, la spina dorsale era sede del fluido vitale e inoltre Osiride è il Dio della resurrezione, e il Faraone, che durante la vita terrena rappresenta l'incarnazione di Horus, il divino falco, dopo l’esperienza materiale torna a trasformarsi in Osiride.
Osiride si identifica anche con la Costellazione di Orione, e le tre stelle della "Cintura di Orione" rispecchiano perpendicolarmente sulle tre piramidi di Giza la posizione che avevano nel cielo al tempo della loro costruzione, e rilevabile conoscendo il fenomeno della "Precessione degli Equinozi".

Ricordiamo inoltre che l'Egitto era "lo specchio del cielo": la via Lattea al posto del Nilo e le stelle al posto delle piramidi! Quasi che dal basso si potesse scrutare il cielo per riproporre la stessa cosa sulla terra. L’ermetico concetto del “Come in cielo, così in terra” e dell’infinitamente grande nell’infinitamente piccolo nella ricerca del ritorno all’Uno.

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Osiride è lo sposo di Iside, identificata con Sirio, la stella della vita stessa. Visto che il faraone è Osiride /Orione, e che la sua sposa è Iside/Sirio, e che dopo la morte il re si prepara a diventare come Osiride possiamo osservare un continuo balletto tra Faraone=Osiride, Uomo=Dio, e come questo sia di fatto l’allegoria di un continuo ciclo di reincarnazioni “vita->morte->nuova vita” del faraone in una continuità coscienziale che consente lui di fatto quella stessa immortalità propria degli dei.

I Faraoni in questo processo sono pertanto diverse rappresentazioni corporali del medesimo soggetto che compie un continuo viaggio tra aldiquà e aldilà, tra piano materiale e piano metafisico. Sapere e potere gestire questo processo, anche attraverso un meccanismo artificiale come potrebbe essere lo Zed, garantiva l’immortalità per colui che ne poteva usufruire, e di conseguenza, un enorme potere sul resto degli uomini.

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Ecco perché possiamo intendere la Grande Piramide come una macchina per la resurrezione, uno stargate verso il mondo metafisico: una macchina in grado di fornire all’Uomo quel dono che gli fu negato in Eden. Ovvero il segreto per diventare immortali a livello di coscienza, ovvero nell’anima e non nel corpo, e ‘raggiungere’ così il rango di divinità. Esattamente come poteva essere, probabilmente, l’obiettivo degli autori della Torre di Babele, di ieri e di oggi.
Un rischio che gli “Antichi Dei” non potevano e non possono permettersi.

Cita:
http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO_ID=10138


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MessaggioInviato: 02/12/2014, 15:29 
GRAHAM HANCOCK "A BAALBEK LE VESTIGIA DI UNA CIVILTA' DIMENTICATA"

Gli appassionati di archeologia misteriosa- quel settore della ricerca alternativa che vuole riscrivere la storia dell’umanità reinterpretando le scoperte archeologiche- le conoscono bene: le rovine di Baalbek, nella valle della Beqa’ in Libano, sono certamente tra le più straordinarie testimonianze dell’antichità, patrimonio dell’umanità per l’Unesco. Specie quel basamento, nel quale sono incastonati tre blocchi giganteschi pesanti circa 800 tonnellate l’uno. Chi li ha intagliati? Chi li ha trasportati? Chi li ha messi in posa?

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Domande alle quali gli storici e gli archeologi accademici rispondono senza alcun dubbio: gli antichi Romani. Sarebbero stati loro a squadrare i megaliti nella cava distante un chilometro e a portarli nel luogo in cui edificarono il grandioso complesso templare di cui ancora oggi rimangono importanti resti. In particolare, il tempio di Giove Eliopolitano, costruito proprio su quel basamento ai tempi di Nerone.

Punto sul quale i ricercatori alternativi si oppongono tenacemente: i Romani, dicono, trovarono già quelle mura ciclopiche, costruite da una qualche civiltà precedente. Semplicemente, le sfruttarono per innalzare al di sopra di esse i loro santuari nella città che in quel periodo era chiamata Heliopolis ed era il centro principale della provincia di Siria. Lo pensa anche Graham Hancock, notissimo esponente di questa corrente di pensiero.

Nel luglio scorso, lo scrittore britannico ha visitato Baalbek e ha visto l’ultima scoperta: nella cava di pietra utilizzata dagli antichi costruttori, è stato individuato un nuovo, eccezionale pietrone appena sbozzato e poi abbandonato in sito. È il terzo del genere trovato negli anni. Il più famoso è quello denominato “la pietra della gestante”- peso stimato, 1000 tonnellate- che emerge dal terreno per oltre due terzi. Accanto a questo mastodontico masso si sono fatti immortalare migliaia di turisti.

Il secondo megalite, intagliato ma rimasto nella roccia, è ancora più grande: secondo le stime, peserebbe 1200 tonnellate. Eppure, l’ultimo- quello appena riportato alla luce- supera tutti gli altri. Secondo un’equipe dell’Istituto di Archeologia di Germania, è lungo 19,60 metri, largo 6 e alto almeno 5,5. Se fosse stato completamente tagliato, avrebbe avuto un peso record: 1650 tonnellate.
Secondo Hancock, però, l’archeologia ufficiale sbaglia a pensare che siano stati i Romani a scavare questi megaliti e poi a dimenticarli lì, per una qualche ragione sconosciuta. A suo avviso, si tratta invece dell’opera di una civiltà di cui non conserviamo memoria, sviluppatasi molto tempo prima, forse 12 mila anni fa. Anzi, suggerisce un legame tra questi reperti e Gobekli Tepe, la località turca nella quale è stato scoperto un antichissimo e ancora misterioso complesso templare talmente vasto che ci vorranno ancora molti anni prima che sia interamente dissotterrato.

Nell’articolo pubblicato sul suo sito, che costituisce un’anticipazione del libro in lavorazione “Magicians of the Gods”, Graham Hancock scrive: “ Io ipotizzo che stiamo vedendo l’opera dei sopravvissuti di una civiltà perduta, che i Romani costruirono il loro Tempio di Giove su un basamento preesistente antico di 12 mila anni e che essi non erano al corrente di quei giganteschi megaliti intagliati nella vecchia cava perché ai loro tempi erano coperti da uno strato di detriti ( proprio come ne era ricoperto finora l’ultimo blocco appena trovato)”.

In pratica, dice l’autore, se li avessero scavati i Romani, non avrebbero lasciato il lavoro a metà e li avrebbero messi in posa. Se non avessero potuto completarli, in virtù del loro senso pratico, avrebbero comunque trovato un’altra soluzione: li avrebbero spaccati e riutilizzati in pietre più piccole. Invece, evidentemente, i Romani ne ignoravano l’esistenza e quei blocchi eccezionali sono rimasti lì.

Hancock è altrettanto certo che non furono loro né ad intagliare, né ad utilizzare i tre grandi massi collocati nel basamento del tempio, noti con il nome greco trilithon. “Sono cosciente che megaliti anche più grandi di questi, ad esempio la cosiddetta Pietra Tuono di San Pietroburgo, sono stati spostati e posizionati sulla superficie piana in tempi storici, ma spostare e posizionare tre megaliti di 800 tonnellate ad una altezza di circa 6 metri dal terreno, come nel caso di Baalbek, è completamente diverso.”

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Ma se i grandi costruttori del Colosseo e degli acquedotti- molti tuttora funzionanti- non possedevano la tecnologia in grado di mettere in posa quei blocchi giganteschi, come poteva possederla una civiltà ancora più antica? Per Hancock, è possibile, se si pensa ad una cultura evoluta, di raffinato livello tecnico, con conoscenze molto avanzate, annientata da una catastrofe globale: la fine dell’era glaciale.

Circa 10 mila anni fa, il cambiamento climatico fece sciogliere in modo molto rapido la spessa coltre di ghiaccio che ricopriva gran parte dell’emisfero nord. Tutta quell’acqua fece salire all’improvviso il livello dei mari e ricoprì le coste, trasformando per sempre il profilo dei continenti. Si verificarono ovunque alluvioni di dimensioni talmente devastanti, da rimanere impresse per sempre nella memoria collettiva dell’umanità.

“Quando le diverse culture nel mondo parlano del diluvio universale, a me sembra del tutto ragionevole pensare che stiano parlando di questi eventi. Perchè fu davvero un diluvio”, mi ha spiegato durante un’intervista. “L’acqua del mare si innalzò per 120 metri e tutto rimase sommerso. Le terre lungo la linea costiera sprofondarono, parlo di milioni di chilometri quadrati di territorio che furono cancellati.

Nei cosiddetti miti- che si possono ritenere memorie di fatti reali- c’è il ricordo di un diluvio globale. È davvero avvenuto, la scienza concorda. Però, nei cosiddetti miti, c’è anche il ricordo di una precedente civiltà avanzata che fu distrutta. Su questo invece la scienza non è d’accordo. Io preferisco ritenere plausibili tutte e due le parti del racconto. Penso che sia davvero esistita una civiltà molto avanzata.”

Baalbek – con le sue pietre ciclopiche, tanto pesanti che persino una gru moderna faticherebbe a sollevarle- è una tessera di questo mosaico che modifica il quadro complessivo e che apre interrogativi sul nostro passato. Interrogativi che la storiografia ufficiale, tuttavia, preferisce non porsi.


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MessaggioInviato: 09/01/2015, 10:26 
LA STIRPE DEL GRAAL - IL MILLENARIO ALBERO GENEALOGICO DEI PLAYER

Molte volte abbiamo parlato nel nostro blog e nell'ambito delle ricerche del Progetto Atlanticus di specifiche fenotipicità risalenti, a nostro avviso, alla discendenza degli antichi Nephilim, risultato dell'unione tra i figli di dio (Anunnaki atlantidei) e le figlie degli uomini (i Sapiens)?

Una stirpe questa, quella che non esito a definire la stirpe del Graal (e poi vedremo il perché) che ebbe origine proprio dalle prime unioni tra Anunnaki e i Sapiens, rappresentata e successivamente diversificata nei Player suggeriti dal Progetto Atlanticus e per la quale esistono evidenze genetiche nell'analisi degli aplogruppi presenti nella storia e nel mondo.

Quando la società svizzera IGENEA ha effettuato l'esame del DNA sulla mummia del faraone Tutankhamon e ne ha diffuso i risultati, forse in molti hanno pensato ad una bufala, o ad un errore tanto è radicato nella nostra mente l'immagine stereotipata della storia come l'abbiamo imparata dall'infanzia, ma questa scoperta scientifica di straordinario valore adesso mette in dubbio molte delle certezze proclamate dalla storia tradizionale.

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Tutankhamon nacque nel 1341 a.c., figlio del faraone Akhenaton e della sua consorte Nefertiti, Akhenaton precedentemente noto come Amenofi IV o Amenhotep IV è conosciuto anche come il faraone eretico in quanto abolì il culto politeistico istituendo il culto monoteistico del dio ATON, una divinità che contrariamente a tutte le altre non aveva una rappresentazione zoomorfa ma veniva rappresentata come un disco solare che emanava dei raggi che terminavano con delle mani.

Per dare più sostanza a questo profondo cambiamento il faraone della XVIII dinastia spostò la capitale dell'antico Egitto lontano da Tebe, costruendo sul medio corso del Nilo in una zona desertica una città nuova di zecca che fu chiamata Akhetaton che letteralmente significava "l'orizzonte di ATON" e che corrisponde all'odierna Al Amarnah.

Dopo la caduta di Akhenaton, e la restaurazione del politeismo la città fu distrutta e la sua memoria cancellata dalla storia d'Egitto. Anche il nome di Tutankhamon in origine era differente, egli si chiamava infatti Tutankhaton, ma nelle convulse fasi successive alla caduta del monoteismo, ogni riferimento ad ATON doveva essere drasticamente rimosso, anche il nome del faraone doveva fare riferimento al più rassicurante dio Amon.

Tutti i sacerdoti devoti ad ATON, tra cui Mosè, dovettero allora abbandonare il paese per stabilirsi ai confini più remoti del regno: la terra di Canaan.

Questa è la storia che viene raccontata nella Bibbia e che noi conosciamo col nome di Esodo.

Dalla diaspora dei seguaci dell'atonismo sarebbe infatti nata la religione ebraica. Questo troverebbe dei riscontri in similitudini sia stilistiche che di contenuto che si possono trovare tra l'Inno al sole scritto sulla tomba del faraone Ay ed alcune parti della Bibbia come il Libro dei Salmi, ed il Libro dei Proverbi.

E' possibile che il culto di ATON sia continuato anche lontano dall'Egitto, nella terra di Canaan, dove potrebbero essersi rifugiati i seguaci del cosiddetto faraone eretico dando origine al monoteismo. A suffragio di questa tesi vi è uno studio linguistico del 1922 sulla parola Adonai che in ebraico significa Signore e che mette in luce come questa parola non sarebbe di origine semitica ma proverrebbe dall'Egitto.

Adonai = ATON-Ay e prenderebbe il nome dal sommo sacerdote Ay durante il regno di Akhenaton, che divenne anche faraone nel 1323 alla morte di Tutankhamon. Foneticamente le due parole corrispondono a parte la rotazione consonantica t > d che è abbastanza comune.

Ma questo, anche se di rilevante importanza, ci interessa relativamente. Concentriamoci piuttosto in questa fase su quali fossero le origini genetiche della genealogia dei grandi faraoni.

La sopraccitata ricerca di IGENEA ha dimostrato che Tutankhamon, morto prematuramente all'età di diciannove anni per una seria forma di malaria, apparteneva all'aplogruppo R1b1a2, SNP R-M269, il quale è l'aplogruppo più diffuso in Europa occidentale e identifica le popolazioni che dopo l'ultima grande glaciazione hanno popolato l'Europa. Nella tabella che segue ecco i valori dei primi 15 marker del suo cromosoma Y.

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Sembrerebbe davvero pertanto che l'antico Egitto ai quei tempi fosse in effetti governato da sovrani di origine ancestrale europea, il cui DNA era quindi assai differente dal resto della popolazione che amministravano. Oggi meno dell'1% degli egiziani è di aplogruppo R1b.

Fin troppo ovvio allora che se Tutankhamon era R-M269 allora erano dello stesso aplogruppo tutti i faraoni della XVIII dinastia che regnò sull'Egitto dal 1540 al 1299 a.c., il che troverebbe conferma anche da una rapida analisi di alcune mummie della dinastia come quella di Thutmosi IV, molto ben conservata, che presenta tratti del volto nordici e soprattutto i capelli rossi che sono un tratto peculiare per questo aplogruppo.

In effetti test diagnostici sono stati compiuti sul DNA della mummia di Amenhotep III, su una mummia sconosciuta ma che si suppone sia di Akhenaton, confermando che le tre mummie erano tra loro correlate da legami di parentela.

Ahmosi 1540-1515 Ahmes-Nefertari
Amenhotep I 1515-1494 Meritamon
Thutmosi I 1494-1482 Ahmose
Thutmosi II 1482-1479 Hatshepsut
Hatshepsut 1479-1457
Thutmosi III 1479-1425 Hatshepsut Meritre
Amenhotep II 1427-1393 Tia
Thutmosi IV 1394-1384 Mutmuia
Amenhotep III 1384-1346 Tyi
Akhenaton 1358-1340 Nefertiti
Smenkhara 1342-1340 Meritato
Tutankhamon 1340-1323 Ankhesenamon
Ay 1323-1319 Tey
Horemheb 1319-1299 Mutnedjemet

Ad un più attento esame del DNA di King Tut come viene amichevolmente chiamato nel progetto iGENEA, possiamo notare come il suo DNA corrisponda in maniera molto ravvicinata col cosiddetto SWAMH (Super Western Atlantic Modal Haplotype).

Facendo il confronto tra il SWAMH e il DNA di King Tut ho calcolato una GD (Genetic Distance) pari a 7 confrontando 18 marker STR. Ammettendo che DYS426=12 e DYS388=12, essendo marker molto stabili e per DYS19=14 e DYS437=14 che nelle analisi hanno un raro (improbabile) doppio picco, probabilmente dovuto a qualche forma di contaminazione.

L'AMH (Atlantic Modal Haplotype) è un aplotipo modale cioè una firma genetica media all'interno di uno specifico aplogruppo. Questo modale è stato sviluppato dalla società texana FTDNA allo scopo di capire quale fosse il modale più diffuso nell'Europa occidentale, si chiama così perchè è particolarmente concentrato nella fascia atlantica dell'Europa nord-occidentale, partendo dalla costa nordatlantica della penisola iberica, passando per le isole britanniche per arrivare nello Jutland e in Scandinavia.

E' l'impronta genetica tipica dell'aplogruppo R1b1a2 R-M269 ed è caratteristica di alcune subcladi come la L21. Confrontando il modale dei partecipanti al progetto L21+ di FTDNA con quello di King Tut la GD si abbassa a 6.

Occorre anche considerare che la GD più alta = 2 è per il DYS439, che è un marker che cambia molto velocemente attraverso le generazioni soprattutto confrontando un campione di un soggetto che visse più di tremila anni fa.

Una GD = 5 o 6 confrontando 25 marker STR Y-DNA, significa che i due soggetti presi in esame non sono parenti in senso genealogico (1-15 generazioni), ma che molto probabilmente condividono un comune ancestore nel lungo periodo che possono essere anche alcune migliaia di anni. Una GD = 2 significa che i due soggetti sono imparentati soprattutto se condividono lo stesso cognome.

Di questo retaggio resta traccia nella religione degli antichi egizi nel culto del dio Osiride, chiamato anche "il bel dio dell'occidente", signore dei morti e protettore della vegetazione. Il mito di Osiride, probabilmente fa riferimento ad una persona realmente esistita e probabilmente deceduta per morte violenta. Dalla storia dei faraoni emerge anche come essi appartenessero ad una ristrettissima cerchia e fossero costretti per mantenere la purezza della propria stirpe ad incrociarsi tra di loro. Lo stesso faraone Tutankhamon sarebbe stato frutto di un rapporto incestuoso tra un fratello e una sorella entrambi figli di Amenophis III e della sua prima moglie.

A questo potrebbe essere legata la debole costituzione che fu fatale al faraone adolescente.

Il concetto di stirpe pervade tutta la storia dei faraoni. Si pensi ai complessi rituali di imbalsamazione che venivano fatti allorquando un faraone moriva, la preparazione per la vita eterna ricalcava il mito del progenitore Osiride. Secondo la leggenda Osiride fu fatto a pezzi dal crudele fratello Seth. Iside sorella e sposa di Osiride andò ai quattro angoli dell'Egitto per ritrovarne le parti e poter ricomporre le spoglie dell'amato fratello, in questo fu aiutata dal figlio Horus che perse un occhio.

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Mummia di Hatshepsut - Museo del Cairo

Alla morte di Tuthmosis II, colui che diventerà uno dei più grandi faraoni d'Egitto Tuthmosis III è ancora poco più di un bambino, troppo giovane per salire sul trono d'Egitto, al suo posto regnerà per un lungo periodo (1479-1458 a.c.) Hatshepsut figlia di Tuthmosis I e sorellastra di Tuthmosis II.

La sua mummia fu ritrovata dall'archeologo Howard Carter nella sua campagna di scavi della primavera del 1903 in una tomba catalogata con la sigla KV60, ma non essendo una tomba reale, alle spoglie non fu data una grande importanza. Solo recentemente è stata ritrovata la sua mummia, come si può notare dalla foto, la donna aveva una peculiarità genetica molto rara, aveva i capelli rossi il che conferma le sue origini ancestrali e l'appartenenza della stirpe dei faraoni della XVIII dinastia all'aplogruppo R-M269 e giustappunto il gene responsabile dei capelli rossi è un tratto peculiare per questo aplogruppo

E quindi a questo punto è lecito concludere che King Tut appartenesse all'aplogruppo R1-L21. Ma cosa ci faceva questo aplotipo nell'antico Egitto della XVIII dinastia?

Una possibile risposta è che quell’aplogruppo sia parte del retaggio genetico della stirpe del graal su cui Progetto Atlanticus concentrerà i propri sforzi per meglio tracciare quelle linee dinastiche che dai cro-magnon atlantidei antidiluviani arriva fino all’aristocrazia e all’oligarchia elitaria contemporanea, cercando di partire dalle radici dell’albero: la genealogia anunnaka proveniente da Marte.

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Costoro, tra i quali possiamo ben identificare personaggi come Enki, Enlil, Inanna, Marduk e Ishkur, rappresentano l’elite genealogica anunnaka, con tutta probabilità caratterizzata da particolari elementi genotipici esogeni al pianeta e pertanto generanti fenotipi recessivi come possono essere il fattore Rh negativo piuttosto che il gruppo sanguigno zero.

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Dall’incrocio tra Anunnaki e Sapiens, possiamo ipotizzare sorgere i semi-dei ricordati con nomi diversi nei miti di tutto il mondo e fautori della civiltà madre atlantidea. Sono essi i Nephilim riconducibili agli adamiti (ovvero ai figli di Adamo) rifacendoci alla descrizione biblica, caratterizzati da peculiari caratteristiche fisiche: capelli rossi o biondi, occhi azzurri o verdi.

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Dobbiamo pertanto spendere alcune parole sui discendenti di Adamo divisi nei due rami di Caino e di Set, il quale sostituì Abele quale dopo che quest’ultimo venne ucciso.

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Dopo averci detto che “Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch egli divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio” nella terra di Nod, misteriosa regione a Est di Eden, la stessa dove fu confinata Lilith la quale secondo alcuni sedusse Caino dando origine alla sua discendenza.

Il testo biblico ci informa di quel che fecero nel giro di cinque o sei generazioni alcuni discendenti diretti del fratricida: Iabal “fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame”, suo fratello Iubal fu “il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, mentre il fratellastro Tubalkàin fu “fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro”.

In altre parole, la figura di Caino assurge al rango prestigioso di iniziatore della civiltà urbana e di creatore - sia pure attraverso i suoi discendenti - delle arti meccaniche e delle arti liberali (oggi diremmo: della cultura tecnologica e di quella umanistica).

Quello fu anche il periodo in cui i duecento “angeli” con a capo Semeyaza discesero sulla Terra sul monte Hebron insegnando agli uomini, o meglio esclusivamente ai figli di Adamo (non certo a tutti i Sapiens esistenti sul pianeta al momento), tutto il necessario per dare l’avvio a quella che noi chiamiamo civiltà.

In particolare Azazel insegnò agli uomini a fabbricare armi (spade, coltelli, scudi e corazze) ed alle donne a fare braccialetti, ornamenti, tinture e tutto il necessario per renderle più belle. Amezarak insegnò a tagliare le piante e le radici ed Armaros insegnò la Magia ed a fare incantesimi. Baraqal e Temel istruìrono gli astrologi. Kobabel insegnò a riconoscere gli astri del cielo e Arsradel insegnò il corso della Luna ed il calendario.

Circa il ruolo di incivilitore attribuito a Caino dal testo sacro, secondo il Westermann il particolare dimostra che gli ebrei consideravano la fondazione della civiltà urbana come avvenuta prima del Diluvio, dando credito all’esistenza delle civiltà antidiluviane, e fuori della loro storia.

Come descritto nel file “Genealogia Anunnaka” che trovate nel nostro portale “Le Stanze di Atlanticus” l’umanità moderna dovrebbe discendere proprio dalla stirpe di Caino, istruita dai Vigilanti, ma decaduta dal ruolo di potere dopo il Diluvio in quanto troppo avvezza alla dispersione delle caratteristiche genetiche ‘pure’ proprie del Graal che invece vennero preservate nel ramo Sethiano dei discendenti di Adamo che comprende Noè e i suoi tre figli: Cam, Sem, Iafet

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I capelli rossi sono un indizio genetico facilmente rintracciabile anche nell'antico testamento in riferimento al fratello di Giacobbe: Esaù, anche noto col nome di Edom i cui discendenti sono identificati secondo la tradizione ebraica con il popolo principale stanziatosi stabilmente per primo nella zona dell'Italia, e quindi con l'Impero Romano e successivamente con la Cristianità in generale: una delle fonti è anche Bereshit Rabbah, la raccolta dei Midrashim riguardante il primo libro del Pentateuco del Tanakh, Genesi.

"Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo, rossiccio, e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù." Genesi, 25,25

Vale la pena osservare come Esaù sposò Giuditta Ittita (cfr. Genesi 26,34-35), Basemath figlia di Elon, anch'essa ittita. Infatti, le origini di Roma vanno ricercate nella fuga di Enea da Troia dopo la caduta della città verso l’Italia e le sponde di Lazio e Toscana. Una vicenda collegata al misterioso popolo degli Etruschi.

C’è infatti chi sostiene che l'origine degli etruschi sia da ricercare in Lidia, Turchia anatolica meridionale, regione collegata storicamente all’arcaica inondazione del Mar Nero, al mito dell’Arca di Noè, all’origine del fenotipo “occhio azzurro”, fondamentali nella ricerca “Out of Atlantis” portata avanti dal Progetto Atlanticus.

Grazie alla genetica. La scoperta è contenuta in uno studio di Alberto Piazza, genetista dell'Università di Torino, presentato alla conferenza annuale della Società europea di genetica umana in corso a Nizza.

Piazza è andato a cercare la chiave del mistero degli Etruschi, popolo dalla cultura più evoluta rispetto ad altre etnie italiane, proprio dove stanno scritti i segreti più remoti della vita: nel Dna.

L'equipe del genetista ha analizzato il campione di molecole del codice genetico degli abitanti che vivono da almeno tre generazioni nei centri di Murlo e Volterra, due tra i più importanti siti archeologici etruschi, e a Casentino, dove la cultura etrusca è stata ben conservata.

L'equipe di studiosi ha messo a confronto i dati raccolti con quelli di persone di altre aree geografiche, in particolare del Nord Italia, della Sicilia, della Sardegna, della Turchia e dell'isola di Lemnos in Grecia. Ebbene, proprio il Dna degli abitanti di quell'area della Toscana è quello che più di tutti somiglia a quello dei turchi.

"Abbiamo trovato - spiega Piazza - che il Dna degli individui di Murlo e Volterra è molto più simile a quello dei turchi. In particolare una precisa variante genetica è stata trovata nel campione di Murlo e solo nelle persone provenienti dalla Turchia".

I risultati quindi sarebbero congruenti con la versione data dallo storico greco Erodoto nelle sue Storie, in cui narra che il popolo etrusco emigrò dall'antica regione della Lidia, ora parte meridionale della Turchia, spinto dagli stenti di una lunga carestia. La metà della popolazione, sostiene Erodoto, salpò da Smirne inviata dal sovrano per cercare di trovare migliori condizioni di vita.

"Penso che la nostra ricerca - sottolinea Piazza - offra prove convincenti che la ragione è dalla parte di Erodoto, e che gli Etruschi arrivano dalla antica Lidia.

Tornando a Esaù e ai capelli rossi dei faraoni egizi, abbiamo visto in precedenza come il gene dei capelli rossi, altrimenti detto rutilismo, è il segno di una mutazione genetica avvenuta migliaia di anni fa e come questa sia un tratto tipico dell'aplogruppo R1b, del resto basta mettere accanto le due mappe della diffusione dell'R1b (Y-DNA) e la mappa della diffusione percentuale dei capelli rossi in Europa (Fonte Eupedia.com) per vedere come queste siano strettamente legate.

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Mappa della diffusione dell'aplogruppo R1b in Europa

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Mappa della diffusione dei capelli rossi in Europa

A questo punto facciamo un salto di diverse migliaia di anni indietro nel tempo rispetto agli anni di Akenaton.

Nei laboratori del Max Planck Institute di Lipsia l'equipe del Dott. Svante Paabo ha da poco terminato la campionatura completa del genoma dei Neandertal ricavato dalle ossa degli scheletri ritrovati in alcuni siti archeologici, gli esiti di questa ricerca sono disponibili pubblicamente scaricando la relativa press release. Il genoma dei Neandertal è inoltre disponibile per il download sul sito dell'Istituto per ulteriori ricerche.

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Il genoma dei Sapiens ed il genoma di Neandertal coincidono al 99,9%, inoltre le due specie dovrebbero aver convissuto in Europa per 10.000-12.000 anni, dove probabilmente si sarebbero ibridate, quindi i Neandertal potrebbero essere scomparsi per la cosiddetta "estinzione per ibridazione": una forma di evoluzione abbastanza diffusa in natura che vede l'estinzione di una specie a causa della sua ibridazione con un'altra specie che ha il sopravvento.

La percentuale di DNA neandertaliano nel genoma umano (escluso quello africano che ne è privo) è del 4%.

A questo punto potremmo chiederci due cose:

1) Dato che è stato scientificamente provato che alcuni Neandertal/Cro Magnon avevano i capelli rossi e la pelle bianca, è possibile che l'R1b si sia sviluppato circa 35.000 anni fa in seguito ad una ibridazione tra e Sapiens e Neandertal/Cro Magnon da cui sono stati ereditati i geni che provocano il rutilismo (cfr. “Teoria Out of Atlantis”)?

2) Esiste una correlazione tra aplogruppo R1b, origini ancestrali celto-germaniche e ibridazione coi Neandertal?


Ci sono alcuni particolari che avvalorano questa ipotesi: sembra che l'R1b sia autoctono dell'Europa occidentale con origine nei Paesi Baschi; la diffusione segue una direzione OVEST-EST opposta a quella delle grandi migrazioni indoeuropee; la lingua basca è un ceppo linguistico a se stante (ergativo-assolutiva) e non ha analogie con nessun altra lingua indoeuropea (nominativo-accusative); queste stesse aree sono quelle dei costruttori dei megaliti e del successivo sviluppo della civiltà celtica.

Recentemente è stato pubblicato sul magazine PLOS ONE, uno studio di alcuni ricercatori italiani sui resti di un soggetto ibrido con padre Sapiens e madre Neandertal ritrovati presso il Riparo di Mezzena - Monti Lessini (VE). La ricerca è molto interessante ed ha carattere epocale perché si tratterebbe del primo ibrido di questo tipo ritrovato.

Se fosse possibile fare le analisi del cromosoma Y dei resti dell’ibrido di Mezzena si potrebbe capire la posizione di questa mutazione nell' haplotree del R1b e identificare il relativo marker, allora forse potremmo dare una conferma alla struttura dell’albero genealogico del graal.

Questo supporta la possibilità avanzata anche in alcune puntate del nostro podcast nel quale, riprendendo il passo biblico di Genesi 6,1-4) dove leggiamo:

“... C'erano i giganti sulla terra a quei tempi, e anche dopo, quando i figli di Dio s'accostarono alle figliole dell'uomo e queste partorirono loro dei figli. Sono questi i famosi eroi dell'antichità... ”

La mitologia biblica ci sta descrivendo cosa succedeva quando un "figlio di dio" si univa con una bella "figlia degli uomini" ai tempi dei ‘giganti’ ovvero durante il pleistocene, periodo caratterizzato dalla megafauna.

Anunnaki + Sapiens = Nephilim

I Nephilim antidiluviani che, se seguiamo i filoni di ricerca già affrontati dal Progetto Atlanticus dovrebbero avere avuto caratteristiche genetiche e fenotipiche ben specifiche rappresentate da:

- occhi azzurri o verdi
- capelli biondi (o rossicci come i Neanderthal)
- aplogruppi caucasici
- altezza media maggiore dello standard (come i cro-magnon)

Nephilim che sarebbero poi diventati gli "uomini famosi dell'antichità", quindi eroi, semi-dei, sovrani delle prime civiltà umane post-diluviane dando origine ai ceppi originari degli alberi genealogici dell’aristocrazia nobiliare che formano nella sostanza la cosiddetta stirpe del graal.

Ma cosa sarebbe accaduto dall'ulteriore unione tra un Nephilim e un Sapiens?!?!

Nephilim + Sapiens = ?

Possiamo pensare che:

- Nephilim + Sapiens = Nephilim di 2°livello
- Nephilim di 2° + Sapiens = Nephilim di 3°
- Nephilim di 3° + Sapiens = Nephilim di 4°
- .... = Nephilim di N°


Il che significa che l'umanità odierna è già ora in buona sostanza descrivibile come un mix di Nephilim di vario livello.

Gli Anunnaki della mitologia sumera ormai non esistono più e ciò che consideriamo Sapiens Sapiens (noi) non è altro che una diversa gradazione di DNA Nephilim. Come passare dal bianco al nero attraverso una scala di grigi.

Troviamo corrispondenze ai Nephilim antidiluviani nei leggendari Atlantidei delle tradizioni più antiche di molte razze diverse. Il gran re di prima del diluvio, per i musulmani, si chiamava Shedd–Ad–Ben–Ad, ossia Shed–Ad, figlio di Ad, o di Atlantide.

Tra gli Arabi, i primi abitanti del loro paese erano noti come Aditi, dal nome del progenitore Ad, nipote di Cam. Questi Aditi erano probabilmente gli abitanti di Atlantide o Ad–lantis

"Sono impersonati da un monarca a cui tutto viene attribuito, e che si dice sia vissuto per diversi secoli". (Lenormant e Chevallier, "Ancient History of the East", vol. II, p. 295).

Ad proveniva dal nord–est. "Sposò un migliaio di mogli, ebbe quattromila figli e visse milleduecento anni. I suoi discendenti si moltiplicarono notevolmente. Dopo la sua morte i suoi figli Shadid e Shedad regnarono in successione sugli Aditi. Al tempo di quest’ultimo, il popolo di Ad era composto da un migliaio di tribù, ognuna composta di diverse migliaia di uomini.

Grandi conquiste sono attribuite a Shedad, e si dice che gli fossero sottomessi, tutta l’Arabia e l’Iraq. La migrazione dei Cananei, il loro insediamento in Siria, e l’invasione dei Pastori in Egitto sono attribuiti, secondo molti scrittori arabi, a una spedizione di Shedad". (Ibid., p. 296).

Shedad costruì un palazzo ornato di colonne superbe, e circondato da un magnifico giardino. Si chiamava Irem.

"Era un paradiso che Shedad aveva costruito a imitazione del paradiso celeste, delle cui delizie che aveva sentito parlare". ("Ancient History of the East", p. 296).

In altre parole, un’antica, potente razza conquistatrice, che praticava il culto del sole, invase l’Arabia agli albori della storia, erano i figli di Ad-lantide: il loro re cercò di creare un palazzo e un giardino dell’Eden come quelli di Atlantide.
Gli Aditi sono ricordati dagli Arabi come una razza grande e civile.

"Essi sono rappresentati come uomini di statura gigantesca, la loro forza era pari alle loro dimensioni, e spostavano facilmente enormi blocchi di pietra". (Ibid.)

Erano architetti e costruttori. "Innalzarono molti monumenti al loro potere, e quindi, fra gli arabi, nacque l’usanza di chiamare le grandi rovine "costruzioni degli Aditi".

Ancora oggi gli arabi dicono "vecchio come Ad". Nel Corano si fa allusione agli edifici costruiti su "alti luoghi per usi vani", espressioni che dimostrano che si ritiene che la loro "idolatria fosse stata contaminata con il Sabeismo o culto delle stelle". (Ibid.)

"In queste leggende," dice Lenormant, "troviamo tracce di una nazione ricca, che erigeva grandi costruzioni, con una civiltà avanzata, analoga a quella della Caldea, che professava una religione simile a quella babilonese, una nazione, in breve, nella quale il progresso materiale si congiungeva ad una grande depravazione morale e a riti osceni.

Questi fatti devono essere veri e strettamente storici, perché si ritrovano dappertutto tra gli Etiopi, come tra i Cananei, i loro fratelli per l’origine comune".
Non manca neppure in questa tradizione una grande catastrofe che distrugge l’intera nazione Adite, ad eccezione di pochissimi che scappano perché avevano rinunciato all’idolatria. Una nuvola nera invade il loro paese, da cui procede un uragano terribile, che spazza via tutto: il Diluvio.

I primi Aditi furono seguiti da una seconda razza di Aditi, probabilmente i coloni scampati al Diluvio. Il centro del loro potere era nei dintorni del paese di Saba. Questo impero resse per mille anni. Gli Aditi sono rappresentati nei monumenti egiziani come molto simili agli stessi Egiziani, in altre parole erano una razza rossa o bruciata dal sole: i loro grandi templi erano piramidi, sormontate da edifici. ("Ancient History of the East", p. 321).

"I Sabei", dice Agatarchide ("De Mari Erythræo", p. 102), "hanno in casa un numero incredibile di vasi e utensili d’ogni genere, letti d’oro e d’argento, e tripodi d’argento, e tutti i mobili di straordinaria ricchezza.

I loro edifici hanno portici con colonne rivestite d’oro, o sormontate da capitelli in argento. Sui fregi, gli ornamenti, e le cornici delle porte, mettono targhe d’oro incrostate di pietre preziose".

Tutto questo ricorda una delle descrizioni fornite dagli spagnoli dei templi del sole in Perù. Gli Aditi adoravano gli dèi dei Fenici, ma con nomi leggermente cambiati, "la loro religione era soprattutto solare ... In origine era una religione senza immagini, senza idolatria, e senza un sacerdozio”. (Ibid., p. 325.) Essi "adoravano il sole dalle cime delle piramidi". (Ibid.) Essi credevano nell’immortalità dell’anima.

In tutte queste cose vediamo rassomiglianze con gli Atlantidei e con il fenotipo che collega tutti i protagonisti del nostro passato.

Focalizziamo l’attenzione ora a un’altra razza antica, la famiglia indo–europea, la razza ariana.

In sanscrito Adim significa in primo luogo. Tra gli indù il primo uomo si chiamava Ad–ima, la moglie era Heva. Essi si stabilirono su un’isola, che si dice essere Ceylon; lasciarono l’isola e raggiunsero la terra ferma, quando, a causa d’un sommovimento terrestre di grande importanza, la loro comunicazione con la terra madre fu tagliata per sempre. (Vedi "Bible in India").

Qui sembra di vedere un ricordo della distruzione di Atlantide.

Bryant dice: "Ad e Ada significano il primo. "I Persiani chiamavano il primo uomo "Ad–amah". "Adone" era uno dei nomi del Dio Supremo dei Fenici, da esso è derivato il nome del dio greco "Ad–one". L’Arv–ad della Genesi era l’Ar–Ad dei Cusciti, ora conosciuto come Ru–Ad. Si tratta di una serie di città collegate su dodici miglia di lunghezza, lungo la costa, piene di rovine massicce e gigantesche.

Sir William Jones fornisce la tradizione dei Persiani, sin dalle epoche più antiche. Egli dice: "Moshan ci assicura che, a giudizio dei persiani più informati, il primo monarca dell’Iran e di tutta la terra fu Mashab–Ad, che ricevette dal Creatore, e promulgò tra gli uomini, un libro sacro, scritto in un linguaggio celeste, a cui l’autore musulmano dà il titolo arabo di ‘Desatir,’ o ‘Regolamenti’.

Mashab–Ad era, a giudizio degli antichi persiani, la persona soprevvissuta alla fine dell’ultimo grande ciclo, e di conseguenza il padre del mondo attuale.

Lui e sua moglie erano sopravvissuti al ciclo precedente, furono benedetti con una prole numerosa, piantarono giardini, inventarono ornamenti, forgiarono armi, insegnarono agli uomini a prendere il vello di pecora per farne capi d’abbigliamento; costruirono città, palazzi, borghi fortificati, e intrapresero le arti e il commercio".

Abbiamo già visto che le divinità primordiali di questo popolo sono identiche ali dèi della mitologia greca, ed erano in origine i re di Atlantide. Ma sembra che queste antiche divinità raggruppate fossero note come "gli Aditya”, e in questo nome "Ad–itya" troviamo una forte somiglianza con il semitico "Aditi" e un altro ricordo di Atlantide, o Adlantis.

In considerazione di tutti questi fatti, non si può dubitare che le leggende dei "figli di Ad", "gli Adites" e "gli Aditya," facciano tutte riferimento ad Atlantide.

George Smith, nel racconto caldeo della creazione (p. 78), decifrato dalle tavolette babilonesi, mostra che vi era una razza originale di uomini, all’inizio della storia caldea, una razza oscura, chiamata Zalmat–qaqadi, o Ad–mi, o Ad–ami, ed erano la razza "che era caduta", e si distinguevano dai "Sarku, o la razza della luce".

La "caduta" si riferisce probabilmente alla loro distruzione da un diluvio, in conseguenza del degrado morale e dell’indignazione degli dèi. Il nome di Adamo appare chiaramente in queste leggende, ma come il nome di una razza, di una etnia o genalogia ben specifica, non di un uomo.

La Genesi (cap. V, 2) dice chiaramente che Dio ha creato l’uomo maschio e femmina, e "gli ha dato il nome di Adam. "Vale a dire, quella gente si chiamava Ad–ami, la gente di "Ad", o Atlantide.
"L’autore del Libro della Genesi", dice Schœbel, "parlando di uomini che erano stati inghiottiti dal diluvio, li chiama sempre ‘Haadam’, ‘umanità Adamita’".

La razza di Caino visse e si moltiplicò lontano dalla terra di Seth, in altre parole, lontano dal paese distrutto dal diluvio. Giuseppe Flavio, che ci dà la primitiva tradizione degli ebrei, dice (cap. II, p. 42) che "Caino viaggiò per molti paesi", prima di arrivare nella terra di Nod.

La Bibbia non dice che la razza di Caino perì nel diluvio. "Caino si allontanò dalla presenza del Signore”, non chiamò il suo nome, le persone che furono distrutte erano i "figli di Geova". Tutto questo indica che colonie di grandi dimensioni erano state inviate dalla madrepatria, prima che affondasse nel mare.

Al di là dell’oceano si trova che il popolo del Guatemala rivendica la propria discendenza da una dea chiamata At–tit, o nonna, che visse per quattrocento anni, e per prima insegnò il culto del vero Dio, che poi fu dimenticato. (Bancroft, "Native Races", vol. III, p. 75). Mentre la famosa pietra messicana del calendario mostra che il sole era comunemente chiamato Tonatiuh, ma quando ci si riferisce ad esso come il dio del Diluvio esso è chiamato Atl–tona–ti–uh, o At–onatiuh. (Valentini, "Mexican Calendar Stone", art. Maya Archaeology, p. 15).

Si trovano così i figli di Ad (i figli di Adamo) alla base di tutte le genealogie aristocratiche più antiche di uomini, cioè gli Ebrei, gli Arabi, i Caldei, gli Indù, i Persiani, gli Egizi, gli Etiopi, i Messicani e i Centroamericani; testimonianza che tutte queste razze facessero riferimento per le loro origini ad un vago ricordo di Ad–lantis, origine dell’aplogruppo in oggetto, il cui punto di ripartenza è da ricercarsi nel Caucaso.

Con l'unica particolarità che chi appartiene ai Nephilim, ai figli di Adamo, di livello più alto, avendo preservato una 'certa' linea di sangue (o stirpe) e non avendo "imbastardito" il loro sangue con continui incroci con i Sapiens oggi, così come decine di migliaia di anni fa, sono ancora coloro che nella sostanza controllano il mondo appartenendo alla sopraccitata stirpe del graal.

E’ la Bibbia stessa in Genesi al Capitolo 10 dopo aver enucleato la ricca e complessa genealogia adamitica fino ai figli di Noè, conosciuta come Tavola delle Nazioni, a concludere dicendo

Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro generazioni, nei loro popoli. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio.

Ovvero, le famiglie dei figli di Noè vengono a rappresentare l’origine delle stirpi nobiliari che si troveranno a governare le nazioni, popoli e terre, dopo il Diluvio Universale, discendendo dall’Ararat, passando per Gobekli Tepe attraverso i popoli mesopotamici, fino alla stirpe di Abramo, che è soltanto una dei tanti rami ‘aristocratici’ discendenti di Noè, di quel Noè descritto con fenotipo particolare che lo riconduce immediatamente al cro-magnon rappresentante dell’aristocrazia atlantidea. Stirpe di Abramo che verrà selezionata da Yahweh, uno dei Nephilim escluso dall’assegnazione di popoli e terre riconosciuta e dalla conseguente promozione al ruolo di Elohim.

Lo storico ebreo-romano del I secolo Flavio Giuseppe, nel suo Antichità giudaiche Libro 1, Capitolo 6, fu tra i primi a tentare di assegnare etnie note ad alcuni dei nomi elencati in Genesi 10 collegando i nomi che vi vengono citati con le popolazioni e le etnie dell’area mesopotamica-caucasica.

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Se fossimo in grado di continuare il lavoro di Giuseppe Flavio facendo seguire a quei nomi le discendenze nel corso dei secoli successivi, attraverso la storia di popoli e imperi anche più vicini a noi come Etruschi o Romani, riusciremmo a comprendere meglio le dinamiche di potere sottese alla caduta dell’Impero Romano, alla nascita della Chiesa Romana e al ruolo di popoli come Celti, Goti, Longobardi le cui famiglie reali rappresentano anch’esse discendenze di quell’antico ceppo (e lo studio degli aplogruppi lo dimostrerebbe).

Ripartendo infatti dalla teoria Kurgan sostenuta da Marija Gimbutas possiamo ora identificare questo popolo, o meglio la stirpe reale che lo governava, come discendente da Iafet, uno dei figli Nephilim del Nephilim Noè e pertanto portatore di un particolare retaggio genetico proprio della stirpe aristocratica posta al vertice della piramide sociale dei Kurgan.

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Il modello sociale imposto vede come elementi dominanti la forza fisica e l'autorità maschile relegando la figura della donna (e della sua spiritualità) a un livello di schiavitù e di concubinaggio forzato. L'ordine anarchico venne represso, fu introdotto il concetto di proprietà (che poi sfocerà nella monetizzazione, nel mercato) soppiantando un efficace sistema economico basato sul dono.

Da questa logica oppressiva nacque quella che la storiografia ufficiale, riconosce come la "nostra" civiltà, le prime monarchie, i primi regni... omettendo tutto ciò che di buono vi era prima in una arcadica società così come venne progettata per l'uomo da Enki, dopo il diluvio, con il processo di Rinascita, grazie alla quale ebbero origine le prime società umane, tra cui i Sumeri, appunto poi soppiantate dall'arrivo degli Indoeuropei.

E' solo dopo il loro arrivo infatti che la linea del tempo inizia a registrare gli accadimenti storici che studiamo sui libri di testo, relegando alla figura di semplici miti ciò che precedeva la storia. Una storia prima della storia, volutamente cancellata dalla storia.

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Se come abbiamo detto ad Harran la tribù di Abramo (che ancora non è nazione di Israele, in quanto sarà Giacobbe a ricevere questo incarico da Dio), si divide in tre sottotribù:

- Una prima tribù, volge a sud, verso la palestina, e la Bibbia seguirà le vicende di questa, poiché da essa nascerà la nazione di Israele, prediletta dal Signore (ovvero Yahweh)

- Una seconda tribù si dirigerà a nord, risalendo il Danubio e occupando perciò la parte nord dell’Europa fino all’Irlanda dove verranno ricordati come i Tuatha de Dana.

- Una terza prenderà la via del mare dando origine a tutta una serie di popoli che saranno noti per le loro abilità guerriere tanto da venire utilizzati come soldati mercenari e guardie del corpo del faraone (Shardana) in Egitto.

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osservando come questi, muovendosi per le terre d’Europa, si integrano e si mischiano con le precedenti genti indo-europee giunte da est definite nelle ricerche della Gimbutas come Kurgan allora possiamo comprendere come il retaggio genotipico e fenotipico collegato alla stirpe del Graal si sia diffuso in tutto il continente diventando sostanzialmente il fil rouge delle stirpi aristocratiche ed elitarie nella storia, anche ini popoli minori come il popolo dei Dauni i quali potevano essere imparentati proprio con gli Shardana (Notare la presenza della sillaba DAN, derivante dalla tribù di DAN) e nell’intero corpo dei popoli del mare del Mediterraneo, i cosiddetti popoli pelasgici.

All’interno di questo complesso insieme di rami del grande albero genealogico del Graal le cui radici affondano nella genealogia Anunnaka, il tronco nei patriarchi antidiluviani e nella gente adamitica (cainiti e sethiani) conosciuti con nomi diversi tra i popoli che ricordano la civiltà antidiluviana di cui essi rappresentavano l’elite come sovrani mitologici e semidei, e i rami nelle dinastie nobiliari aristocratiche che dai popoli antichi arrivano fino ai giorni nostri vi è un ramo particolare che collega, Abramo, Davide, Gesù e l’aristocrazia europea passando per Visigoti e Ostrogoti e altre delle popolazioni che sostituirono il predominio di Roma in Europa.

Emblematico a tale riguardo è il caso dei I Gonzaga hanno legato indissolubilmente il loro nome, la loro storia e la loro fortuna alla città di cui divennero Signori da quel 16 Agosto 1328, giorno in cui il capostipite della dinastia, Luigi, con la sua astuzia e con la sua ferocia eliminò Passerino Bonaccolsi e prese possesso di Mantova.

Mantova che da quasi duemila anni custodisce fra le sue mura la più preziosa reliquia di tutta la Cristianità: il Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo, il Sangue del Re dei Re, il “Sang Real”, portato a Mantova, dalla Palestina, da Longino, il soldato romano che trafisse con la propria lancia il costato di Cristo. A seguito delle persecuzioni dei Romani lo stesso nascose nell’orto dell’ospedale per i pellegrini (ove attualmente sorge la Basilica di S. Andrea) il Sangue di Cristo, prima di essere ucciso per decapitazione il 2 dicembre del 37 d.C. Passarono diversi secoli prima che nel 804, S. Andrea, apparso in sogno ad un fedele, indicasse ove era nascosta la Reliquia; il Papa Leone III saputo della scoperta si recò a Mantova con l’Imperatore Carlo Magno ove accertò la veridicità del ritrovamento tanto che l’Imperatore riportò con sé a Parigi una particella del Preziosissimo Sangue per collocarla nella Cappella Reale.

Successivamente nel 923 o 924 le reliquie furono di nuovo nascoste temendo l’invasione degli Ungari e solo nel 1048, S. Andrea riapparve in sogno al mendicante tedesco Adalberto indicandogli dove ritrovare la Reliquia che era stata nascosta nell’orto di S. Andrea (nel luogo in cui era posto l’ospedale dei pellegrini, dedicato poi a S. Maddalena, era nel frattempo sorto un oratorio).

Signori di Mantova in quel periodo erano Bonifacio di Canossa e la moglie Beatrice di Lorena, genitori di colei che sarà chiamata la vice-regina d’Italia Matilde di Canossa, i quali parteciparono al ritrovamento. Da quel momento e fino al 1848 il Preziossimo Sangue rimarrà ininterrottamente custodito fra le mura della chiesa di S. Andrea a Mantova.

E i Gonzaga? Essi probabilmente ritenevano di essere la “stirpe” destinata, per nobiltà, purezza, discendenza a custodire per diritto divino il “Sang Real”.

Tale riconoscimento viene a mio parere “consacrato” di fronte a tutte le famiglie nobili d’Europa quando l’Imperatore Sigismondo di Lussemburgo, legato ai Cavalieri Teutonici e Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Dragone (si dice l’ordine cavalleresco più antico al mondo), di ritorno da Roma dove era andato per farsi cingere della corona imperiale si ferma a Mantova il 22 settembre 1433 ad investire del titolo di Marchese dell’Impero Gianfrancesco Gonzaga e per dare ai Gonzaga un nuovo stemma araldico molto interessante, come lo descrivono le cronache di allora “…li diede uno scudo con l’arma delle quattro aquile in campo bianco, distinto da una croce rossa (n.d.a.Croce rossa patente)…”.

Ora, se le aquile inquartate nello stemma stanno a significare la sottomissione dei Gonzaga all’Impero , neppure il maggior esperto di araldica gonzaghesca da me interpellato ha saputo rispondere alla domanda sul significato della croce rossa patente. Tutti sanno che la croce rossa patente in campo bianco era l’emblema con il quale si riconoscevano i Templari, pertanto ritengo che l’inserimento di tale segno nello stemma araldico stesse ad indicare “a coloro che sapevano” che i Gonzaga erano legati con i discendenti dell’Ordine Templare: i cavalieri del Priorato di Sion!

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A rafforzamento di tale tesi bisogna dire che circa cento anni dopo, nel 1527, diventa Gran Maestro del Priorato di Sion (secondo quanto scritto nei “dossier segreti” custoditi nella Biblioteca Nazionale di Parigi) Ferrante Gonzaga, personaggio di primo piano nella storia italiana del Cinquecento, figlio di Isabella d’Este, la Signora del Rinascimento, che sarà Vicerè di Sicilia e poi Governatore di Milano per conto dell’Imperatore Carlo V e capitano delle sue truppe. Egli sarà anche il primo italiano ad essere insignito dell’onorificienza del Toson d’Oro.

Successivamente un altro Gonzaga diventerà Gran Maestro dell’Ordine del Priorato di Sion: Luigi di Gonzaga.

Vorrei soffermarmi anche in questo caso sull’importanza dello stemma araldico di questa famiglia che era costituito, stranamente, dall’insieme degli stemmi araldici delle famiglie che si erano imparentate con i Nevers ed i Gonzaga (i Cleves, i La Marck, gli Artois e poi ancora Brabante, Borgogna, Rethel, Albret-Orval, Alençon, Boemia, Aragona, Bar, Sassonia, fior fiore della nobiltà europea) ed in cui erano inquartati i tre stemmi araldici che indicavano una discendenza imperiale-divina: l’Aquila di Bisanzio, la Croce di Costantinopoli e la Croce di Gerusalemme.

Se prendiamo atto che l’araldica in quell’epoca era un “scienza esatta” e che niente veniva inserito negli stemmi senza un preciso significato, occulto o palese, possiamo capire l’importanza di quanto sopra descritto e ad ulteriore conferma di quanto detto, vorrei citare la conclusione tratta da F. Cadet de Gassicourt e dal Barone Du Roure de Pauline nel loro libro “L’ermetismo nell’arte araldica” (Ed. Arkeios): “…che, anche per tutte le armi la cui origine ci è attualmente sconosciuta, un’idea abbia per forza dovuto presiedere alla loro scelta…Partendo dunque dal principio che nel Medio Evo molti personaggi, non dei minori, fossero affiliati a sette occulte - Templari, Rosacroce, antichi massoni, ecc.- abbiamo supposto, non senza verosimiglianza, che la maggior parte dei membri di quelle società segrete abbiano nel loro blasone dei simboli che permettessero di farsi riconoscere fra di loro, senza fare scoprire ai profani ciò che doveva restare nascosto…”

I Gonzaga, inoltre, si dichiaravano discendenti dalla stirpe merovingia. A riprova di ciò alcuni anni fa fu battuto ad un asta un gigantesco albero genealogico dei Gonzaga che iniziava indicando come capostipite addirittura Genebaldo, antenato di Meroveo fondatore della dinastia merovingia, appartenente alla stirpe dei Franchi Sicambri, Primo duca dei Franchi Occidentali, morto nel 356 o nel 358.E’ chiaro che il discendere dalla stirpe merovingia era importantissimo per i Gonzaga, poiché se i Merovingi discendevano direttamente dalla stirpe di Gesù Cristo ( come è anche teorizzato nel libro di Baigent, Leigh e Lincoln: “Il Santo Graal”) allora anche nelle vene dei Gonzaga scorreva il “Sang Real”,quindi si sentivano legittimati a custodire il “Preziosissimo Sangue” .

Numerosi altri sono gli elementi di collegamento fra i Gonzaga ed il Santo Graal,basti pensare all’attrazione che essi avevano per il primo grande romanzo della cultura occidentale, quello riguardante Re Artù ed i Cavalieri della Tavola Rotonda, ove erano presenti tre temi: La Dama, il Re ed il Graal, tanto da custodire nel loro palazzo un’importante biblioteca di codici cavallereschi e di manoscritti narranti le gesta di Lancillotto, Parsifal ed i Cavalieri della Tavola Rotonda. Oppure basti osservare visitando palazzo Gonzaga a Mantova la sala detta “del Pisanello”, così chiamata dal nome dell’autore che dipinse gli affreschi e le sinopie che coprono le pareti di questo magnifico ambiente (che sembra fosse destinato in passato a sala delle riunioni dei cavalieri più importanti del ducato oppure di qualche ordine cavalleresco sconosciuto) rappresentanti alcune scene del torneo di Louverzep tratte dal romanzo “Queste du Graal”.

L’articolo di Marcuzio Isauro “Et in Arcadia ego”, apparso sul n. 2 di questa Rivista ed in particolare il paragrafo riguardante “I Conti di Collalto”, hanno evidenziato incredibili coincidenze fra la storia dei Collalto stessi e quella dei Gonzaga, a partire dal rapporto con Sigismondo di Lussemburgo, il Toson d’Oro, i Merovingi, oltre al fatto che le famiglie strinsero anche legami di parentela nel corso dei secoli poichè Scipione I Collalto sposò Eleonora Gonzaga e una Collalto, Silvia, si unì in matrimonio con Federico Gonzaga. Ma è soprattutto quel senso di appartenenza a quelle che io chiamo “le famiglie del Graal”, la cosa che più le unisce.

Ritengo infatti che siano esistite ed esistano tuttora in Europa, famiglie di antichissima nobiltà, legate fra di loro, oltre che da vincoli di parentela, anche da un legame fortissimo dovuto al fatto di ritenere di essere discendenti della “Stirpe Divina”, la Stirpe del “Sang Real”.

Ricostruendo l’albero genealogico di questa stirpe attraverso i secoli, sono certo, troveremo molte risposte ai quesiti che spesso rimangono senza risposta.

Cita:
http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO_ID=10144


Ultima modifica di Bastion il 09/01/2015, 10:27, modificato 1 volta in totale.

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DOPO DECENNI DI RICERCHE È STATO TROVATO IL CORRIDOIO D’ACCESSO ALLA GRANDE PIRAMIDE D’EGITTO

Erano anni che si cercava il Corridoio rialzato di accesso alla Grande Piramide di Cheope.
Nonostante l’utilizzo dei più sofisticati strumenti tecnologici, le numerose missioni archeologiche non erano riuscite ad individuare l’antica strada processionale.

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Ora, inaspettatamente, il passaggio è stato finalmente localizzato da un residente locale che vive nei pressi della Piana di Giza, il quale, nel corso di uno scavo illegale praticato sotto la sua casa, ha scoperto un tunnel che porta alla Piramide di Cheope, la più grande delle tre strutture di Giza.

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Come riporta il notiziario arabo Ahram.org, l’uomo aveva scavato sotto la sua casa per circa 10 metri. Una volta comunicata la scoperta, il ministero del Turismo e delle Antichità ha allertato la polizia, la quale ha prontamente disposto un cordone di sicurezza attorno all’abitazione.

L’archeologo Kamal Wahid è stato messo dal ministero a capo di una commissione di indagine per valutare la portata dell’incredibile scoperta. Nella relazione finale della commissione si conferma che il corridoio conduce alla Grande Piramide, la più antica delle tre piramidi di Giza.

Si ritiene che in antichità il complesso consistesse in un tempio situato vicino al fiume Nilo, collegato da una lunga strada rialzata che portava direttamente alla Piramide di Cheope.

Lo storico greco Erodoto, che aveva visitato la Grande Piramide nel 5° secolo a.C., ha descritto il corridoio rialzato lungo un chilometro, anche se questo dato è contestato dagli egittologi moderni. L’ex ministro per le Antichità, Zahi Hawass, ha stimato che la lunghezza totale della strada rialzata arrivasse a circa 825 metri.

La strada rialzata che conduce alla seconda piramide, quella di Chefren, è sopravvissuta meglio al trascorrere del tempo, mentre quella che conduce alla piramide di Saqqara è la meglio conservata, rendendo bene l’idea di come dovessero apparire una volta.

“Si trattava di un passaggio coperto, lungo circa 720 metri, le cui superfici interne erano decorate con rilievi di alta qualità”, scrive The Egyptian sites. “L’interno veniva illuminato da una fessura nel tetto del corridoio che correva lungo tutta la sua lunghezza. Il tema della decorazione era il passaggio dal mondo dei vivi verso il mondo dei morti”

Ad ogni modo, sono state rilasciate pochissime informazioni sulla nuova scoperta. Tuttavia, la speranza è che le indagini commissionate dal Ministero delle Antichità possano fornire una nuova comprensione del grande complesso piramidale di Giza, uno dei siti più enigmatici della storia dell’uomo.

Cita:
http://www.ilnavigatorecurioso.it/2015/01/08/dopo-decenni-di-ricerche-e-stato-trovato-il-corridoio-daccesso-alla-grande-piramide-degitto/


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L’ENIGMA DELLE SFERE PRECOLOMBIANE DEL COSTA RICA

Ecco uno dei misteri più sconcertanti dell'America Precolombiana: una collezione di oltre trecento petrosfere che si trovano in Costa Rica, nell'area del delta del Diquís e sull'Isla del Caño. Localmente sono note come Las Bolas. Chi le ha realizzate, quando e, soprattutto, perché?

Uno dei misteri più difficili da decifrare è stato scoperto in Costa Rica, sull’Isla del Caño.

Nel 1930, la United Fruit Company era intenta a piantare numerosi alberi di banane nella regione, quando gli operai trovarono una serie di enigmatiche sfere di pietra perfette, tutte di dimensioni diverse che potevano arrivare a pesare fino a 16 tonnellate con un diametro di due metri.

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Le petrosfere erano realizzate in granodiorite solida, una roccia ignea intrusiva della famiglia del granito, molto dura da lavorare. Le misteriose sfere risultavano tagliate, modellate e poi lucidate con molta cura.

Nel corso degli anni, la collezione di sfere ha raggiunto la ragguardevole cifra di 300 unità. A livello locale, sono conosciute semplicemente come Las Bolas (le Palle) e oggi decorano alcuni edifici pubblici del Costa Rica, come l’Asamblea Legislativa, ospedali e scuole.

Alcune di esse sono conservate nei musei nazionali. In alcuni casi, è possibile trovarle come decorazione dei giardini di uomini ricchi e potenti, a voler sottolineare il proprio status symbol.

Sulla loro autenticità non ci sono ormai più dubbi, tanto che l’UNESCO, nel giugno del 2014, le ha inserite nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ma chi le ha realizzate e perché?

Rese celebri dalla sequenza iniziale del film “I predatori dell’arca perduta”, nella quale appaiono, “las bolas” rappresentano un vero mistero per gli studiosi che da anni cercano di capire la loro origine. Le più antiche potrebbero risalire intorno al 600 d. C. e tra le teorie più disparate c’è chi le associa alla scomparsa di Atlantide.

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“Non sappiamo perché furono costruite e chi le fece non lasciò nessun documento scritto. Abbiamo solo dati archeologi che permettono di ricostruire il contesto, la cultura e le persone che le crearono si estinsero poco dopo la conquista spagnola”, spiega l’antropologo americano John Hoopes, dell’università del Kansas, incaricato dall’UNESCO allo studio della loro conservazione e del loro valore.

L’unico metodo disponibile per la datazione delle pietre sferiche è la stratigrafia, ma la maggior parte di esse non si trova più nella loro posizione originaria. Dunque, le sfere sono comunemente attribuite ai Diquis, un cultura pre-colombiana indigena del Costa Rica che fiorì dal 700 al 1530 d.C.

Si ritiene che la pietra per realizzare le sfere sia stata estratta da una cava posizionata sulla catena montuosa di Talamanca, a più di 80 km di distanza dalla loro posizione finale. Sfere incomplete non sono mai state trovate.

Nel 1940, Samuel K. Lothrop ha studiato le sfere di granodiorite. Nelle sue conclusioni, suggerì che le pietre erano state posizionate in allineamenti astronomicamente significativi. Purtroppo, ad oggi non c’è modo di verificare se la teoria di Lothrop è corretta.

Oltre alle teorie scientifiche, sembra doveroso riportare anche i miti che si raccontano su queste enigmatiche sfere rocciose. Alcune leggende locali affermano che gli abitanti nativi erano in possesso di una tecnica in grado di ammorbidire la roccia, consentendogli di plasmarla e modellarla a loro piacimento.

Una leggenda simile si racconta anche sui costruttori di Sacsayhuamán e di Cuzco. La leggenda afferma che gli antichi fossero in possesso di un particolare liquido ottenuto dalle piante, capace di rendere la pietra morbida e facile da modellare.

Nella cosmologia Bribri, condivisa dalla cultura Cabecares e da altri gruppo ancestrali americani, le sfere di pietra vengono indicate come le “palle di cannone di Tara”. Tara, o Tlatchque, era venerato come dio del tuono, il quale utilizzava un cannone gigante per sparare i suoi colpi verso Serkes, divinità dei venti e degli uragani, al fine di scacciarlo via dai suoi possedimenti.

Altri ancora ritengono che le sfere di roccia del Costa Rica siano i resti dell’antica cultura atlantidea che una volta fioriva sul tutto il pianeta. Le rocce non sarebbero state fabbricate dai nativi americani, ma semplicemente ricevute in eredità e custodite a ricordo dell’Età dell’Oro.

Chiaramente, come sempre avviene per queste “anomalie” archeologiche, si tratta di ritrovamenti che mal si adattano alla visione tradizionale e lineare della storia dell’umanità, come nel caso del Muro di Bimini, le Piramidi sommerse del Giappone e le strutture megalitiche che ogni occupano angolo del nostro pianeta.

Il grande dono di questi ritrovamenti enigmatici è la domanda: ancora possiamo chiederci, grazie a questi misteri irrisolti, chi siamo, da dove veniamo e, soprattutto, dove stiamo andando.

Cita:
http://www.ilnavigatorecurioso.it/2014/12/27/lenigma-delle-sfere-precolombiane-del-costa-rica/


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