Time zone: Europe/Rome




Apri un nuovo argomento Rispondi all’argomento  [ 236 messaggi ]  Vai alla pagina Precedente  1, 2, 3, 4, 5 ... 16  Prossimo
Autore Messaggio

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 12:58 
LA TORRE DI BABELE

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9623

La Torre di Babele, il linguaggio universale, il primo tentativo fallito di instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale, ma diverso da quello che siamo abituati a pensare.

Per introdurre il tema oggetto del presente scritto, prendo a prestito quanto sostenuto nell’opera di Biglino
Fonte: http://www.bibbia-alieni.it/?tag=torre-di-babele

La “torre di Babele” e “Sodoma e Gomorra” secondo le tavolette sumeriche
Nelle tavole sumeriche vengono raccontati anche altri eventi che saranno ricopiati per la costruzione della Bibbia, come nel caso della torre di Babele, che troviamo nella tavola K.3657 della biografia di Marduk, sgradito al dio Enlil per la sua pretesa regale.
In questa tavola si parla dell’esilio di Marduk e del suo ritorno nelle terre di Canaan, grazie all’aiuto del figlio Nabu, al fine di raggruppare i suoi seguaci per dirigersi in Mesopotamia e costruire una grande torre a gradoni, o “Esagila” (Casa del grande dio).
Questo provocò la reazione del dio Enlil che lo prese come un affronto, in quanto quelle terre erano sotto il suo dominio e di quello del figlio Ninurta. Enlil dopo aver chiesto invano aiuto al padre Anu e alla madre di Marduk, Damkina, decise per un intervento militare, che riprendiamo dal testo sopra citato:
“durante la notte il signore del cielo [Enlil] scese sulla terra, ma gli uomini contro di lui si scagliarono. Egli rase allora al suolo la città, e il suo comando fu che fossero dispersi e le loro menti confuse.”
L’intervento fu decisivo, in quanto se Marduk e suo figlio fossero riusciti a costruire lo Ziggurat, o torre di Babele, il cui vero significato è “Porta degli dèi” (BAB.ILU), essi avrebbero aperto un varco di accesso al dominio delle terre mesopotamiche sotto il controllo della fazione enlilita, con vari templi dedicati al dio Enlil, Ninurta, Ishkur, Inanna e Utu.
Il plagio biblico è anche in questo caso evidentissimo; infatti nella Bibbia leggiamo in Genesi:

[1] Tutta la Terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
[2] Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
[3] Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento.
[4] Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la Terra».
[5] Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo.
[6] Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.
[7] Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
[8 ] Il Signore li disperse di là su tutta la Terra ed essi cessarono di costruire la città.
[9] Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la Terra e di là il Signore li disperse su tutta la Terra (Genesi 11: 1-9).

Gli elementi in comune con le tavole sumeriche sono:

1. la costruzione di una città con una torre;
2. l’appello di Yahweh ad altri dèi;
3. la distruzione della torre;
4. la dispersione del popolo in varie terre;
5. la confusione dalle menti di Enlil e delle lingue di Yahweh.


Noi del Progetto Atlanticus abbiamo approfondito il tema trovando estremamente interessante leggere alcuni elementi dell’esegesi cristiana e di quella ebraica per capire perché gli Enliliti fossero contrari alla “realizzazione” della Torre, tanto da volerla distruggere.
Gli ebrei collegano la costruzione della Torre alla conoscenza di alcuni segreti, precedentemente posseduti esclusivamente da dio, che alcuni uomini dell'epoca utilizzarono tramite la stregoneria, cosa non ammessa, per governare gli angeli che dovevano unicamente sottostare alla Volontà divina. Quegli uomini che commisero questa trasgressione vollero poi attaccarsi al potere delle stelle e delle costellazioni per dirigerlo verso il Mondo Inferiore ed utilizzarlo a proprio piacimento senza alcuna adesione all'Onnipotenza divina.
Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_di_Babele
Un Midrash, nel testo di Bereshit Rabbah, racconta che gli uomini colpevoli del peccato di sfida nei confronti di Dio con la Torre di Babele vennero trasformati in scimmie, metafora, secondo il Progetto Atlanticus, di un ritorno allo stato ‘animale’ dell’uomo di cui alle sue origini, prima di essere “ibridato” con l’aspetto divino.
Penso sia superfluo poi ricordare che l'ideatore e l'architetto della torre di Babele più accreditato sia Nimrod. Quello stesso Nimrod pronipote di Noè, descritto come un gigante, un uomo potente, che proposte agli uomini l’adorazione del Fuoco, trasmettendo – in qualche modo – agli uomini l’arte della cottura; insomma, un precursore dell’alchimia, se non addirittura uno dei primi ‘insegnanti’ dell’Arte e per questo così importante nel mondo esoterico-massonico tanto da essere considerato essere il primo massone.
Nella simbologia cristiana, inoltre pare significativo che, durante la Pentecoste, gli apostoli grazie al dono dello Spirito Santo, tornino ad essere comprensibili da popoli parlanti lingue diverse, vincendo così la spaccatura originata a Babele descrivendo un Gesù Cristo che si pone all’antitesi dell’azione di Yahweh decine di migliaia di anni prima. La Torre di Babele viene infatti costruita subito dopo il Diluvio Universale, in un tempo in cui gli uomini parlavano tutti la stessa lingua, essendosi appena terminata quella magnifica esperienza socio-economico-politica (ma non solo) rappresentata dal modello sociale enkilita di Atlantide.
Osserviamo ancora una volta pertanto la figura di Gesù Cristo come colui che viene a terminare l’opera di Enki e il suo sogno di una società umana perfetta e in perfetta armonia con il proprio spirito e la natura di Gaia-Terra, in contrapposizione con il Yahweh enlilita che al contrario interviene temendo i rischi di una società umana organizzata.
Ma il patto era stato sottoscritto anche da Enlil, patto di concessione a scadenza dell’insieme di sovranità del pianeta all’uomo dopo il diluvio. (parte di sovranità oggi cedute dall’uomo ad altre forze… ma questa è un’altra storia).
Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli con lui dicendo: «Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi, con i vostri discendenti dopo di voi e con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli, bestiame e tutti gli animali della terra con voi; da tutti quelli che sono usciti dall'arca, a tutti gli animali della terra. Io stabilisco il mio patto con voi; nessun essere vivente sarà più sterminato dalle acque del diluvio e non ci sarà più diluvio per distruggere la terra».
http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=12280
http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=12199
Patto che prevedeva l’intervento degli enkiliti per consegnare nuovamente una piccolissima porzione di quelle antiche tecnologie e conoscenze proprie del periodo atlantideo affinchè l’umanità potesse riavviare la propria società senza il rischio di estinguersi.
Nasce la civiltà umana ‘moderna’, così come descritto nell’articolo “Le origini dell’uomo moderno” nel quale tra le altre cose si sostiene la tesi di Kramer che vede i Sumeri come antenati del popolo ebreo,
http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=12199
dando pertanto spiegazione alle fortissime analogie tra la Bibbia e i testi sumeri come appunto “Enmerkar e il signore di Aratta”. Enmerkar è un re leggendario che la lista reale sumerica colloca tra i mitici sovrani della I dinastia di Uruk. Lista ripresa da quel Beroso contemporaneo di Alessandro Magno; Beroso - che sosteneva di poter consultare tavolette che riportavano osservazioni astronomiche di cinquecentomila anni addietro.
Ma gli enkiliti, tra cui ovviamente Nimrod, in quanto nipote di Noè, esagerarono, trasmettendo anche una serie di conoscenze (che oggi chiamiamo alchemiche, esoteriche) che non erano previste nel patto originale e che permisero la costruzione della Torre di Babele e di ciò che essa rappresentava, ovvero una nuova e ricostituita Atlantide, un Nuovo Ordine Mondiale, guidato però dalla ‘luce’ di una conoscenza universale che Enki avrebbe voluto condividere con tutta l’umanità e tutti gli elementi di questa e pertanto ‘positivo’.
Solo molto dopo il corrotto carattere dell’uomo farà sì che un ristrettissimo gruppo di persone utilizzerà queste stesse conoscenze per realizzare il dominio totale sul resto dei loro simili: il NWO ‘negativo’ che siamo purtroppo abituati a conoscere.
Ma per Enlil questo era un rischio troppo grande. L’umanità sarebbe stata lasciata da sola da lì a qualche migliaio di anni e, come sostenuto nel libro “Genesi di un enigma”, gli enliliti temevano che gli uomini non sarebbero mai stati in grado di autogestirsi in modo armonioso con la natura e lo spirito, ancor meno se in possesso di determinate conoscenze/tecnologie.
Quindi decide di intervenire, riducendo le concessioni fatte da Enki, distruggendo la Torre e confondendo le menti, ovvero facendo perdere la conoscenza di quel linguaggio universale ricordato in Genesi con la dicitura “Tutta la Terra aveva una sola lingua e le stesse parole”. La decisione di Enlil sancita nel patto fu che l’uomo doveva partire da zero, dall’agricoltura e da società primitive e non già in possesso di tecnologie e conoscenze così avanzate diffuse universalmente attraverso l’uso di un linguaggio altrettanto universale.
E quale è il linguaggio universale per eccellenza? La matematica.
Diversi aspetti della cabala ebraica sono legati ai numeri. Il nome Qabbalah in ebraico significa dottrina ricevuta, tradizione. Ad ogni nome veniva associato un numero ed ad ogni numero un significato metafisico. Si dice che nel mondo ci sono solo 36 cabalisti e che, tramite la Cabala, essi possano operare dei prodigi. Infatti, qualsiasi nome, con il suo suono, può produrre delle vibrazioni nel nostro spirito tali da provocare eventi soprannaturali. Addirittura, chi conosce il vero nome di Dio, pronunciandolo, può provocare prodigi e miracoli. La Cabala associa ad ogni nome un valore numerico e tale valore numerico ha una valenza ed una vibrazione metafisica.
Se vogliamo cercare una vera origine della Cabala, noi la troviamo all'esterno dell'Ebraismo, in Pitagora di Samo (588-500 a.C.) e la sua scuola numerologica di Crotone.
Matematica che è strettamente collegata al concetto di ‘sezione aurea’, così tanto caro agli architetti e scultori del periodo classico, ma anche agli artisti rinascimentali come Leonardo da Vinci
http://www.ufoforum.it/topic.asp?whichp ... _ID=231265
Ma soprattutto tanto cara alle prime logge di costruttori e scalpellini coinvolti nella costruzione delle cattedrali gotiche.
http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=12273
Matematica le cui applicazioni sfociano in una società tecnologicamente avanzata nell’industria informatica, il che ci porta con il pensiero a computer internet e a concetti come villaggio globale.
E’ allora possibile che il riferimento biblico a una unica lingua e a un unico popolo fosse in qualche modo legato anche alla possibilità che, prima dell’intervento di Enlil di distruzione della Torre di Babele, Noè e la sua gente, sbarcata dall’Arca, avesse tecnologie simili? D’altronde se pensiamo al fatto che costoro provenissero direttamente dall’avanzata civiltà madre antidiluviana mi sembra impensabile che nessuno di loro si fosse portato dietro l’equivalente del nostro MAC … voi non vi portereste dietro il vostro portatile se vi dicessero che il mondo sta per finire?!
Enlil, temendo da sempre che il sapere alchemico-esoterico potesse venire utilizzato in modo malvagio dagli esseri umani, troppo legati all’aspetto animale del loro essere, cerca di limitare i danni, togliendo il supporto del linguaggio universale, Ia matematica e le sue applicazioni alchemiche ‘scientifiche’ (p.es. architettura) e ‘magiche’ (cabala)
Ovviamente non vi è riuscito del tutto, poiché taluni iniziati hanno mantenuto il segreto concesso da Enki. Come poi questo segreto venne utilizzato, a volte per il progresso dell’uomo, a volte per il dominio dello stesso, è scritto nella nostra storia, la stessa storia che sto cercando di analizzare e descrivere nelle pagine del Progetto Atlanticus.
Di certo vi è un fatto… ci sono oggi alcuni organismi che nella loro simbologia si rifanno all’epopea di Nimrod e al mito della Torre di Babele.
Facendo riferimento alla possibilità di utilizzare i segreti esoterici per il progresso o per il dominio sul mondo, lascio a voi il commento su quali scopi queste persone possano avere.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:01 
IL SEGRETO DEI DRUIDI

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9624

Antichi blocchi di pietra misteriosi si ergono come antichi testimoni di un tempo perduto in diverse regioni d’Europa (e non solo d’Europa): sono i dolmen, i menhir e tutti gli altri siti megalitici di cui Stonehenge rappresenta certamente l’esempio più conosciuto.
Le zone in cui si possono trovare strutture megalitiche sono principalmente la Gran Bretagna, l'Irlanda, la Francia, la Spagna, la Danimarca, la Germania settentrionale, una parte della Svezia, una parte dell'Italia (soprattutto Puglia e Sardegna), la Corsica e Malta. Si possono trovare testimonianze della cultura megalitica anche in alcune zone dell'Africa occidentale (tra cui l'Egitto), della Palestina, della Fenicia, della Tracia, del Caucaso e della Crimea.
Ciò può essere spiegato in modo molto soddisfacente, a mio avviso, ipotizzando che questa cultura disseminata sull’intero mappamondo provenisse da una civiltà madre, antecedente a quelle storiche tradizionali e influente su gran parte delle terre emerse a quel tempo.
Ciò che unifica i monumenti megalitici è la loro straordinaria connessione astronomica. Prendiamo ad esempio i due casi più famosi: la già citata Carnac, in Francia, e Stonehenge. Gli allineamenti di Carnac più importanti (datati circa al 5000 a.C.) si trovano principalmente in tre località: Le Ménec, Kermario e Kerlescan. Nel villaggio di Le Ménec c'è il più bell'insieme di allineamenti. Ci sono un gruppo di 70 menhir (dal bretone, "pietra lunga") riuniti in una cinta e un allineamento principale in dodici file con 1099 menhir. Questi allineamenti erano stati allineati al solstizio d'estate e d'inverno creando un vero calendario a cielo aperto. A Kermario ci sono circa 1029 menhir disposti in dieci file. Infine a Kerlescan sono presenti 594 pietrefitte su 13 righe circondate da un cromlech (che significa, dal gallese, "pietre in circolo"). Meno importanti sono i megaliti di Le petit Ménec.

Immagine

Stonehenge, situato nella piana di Salisbury, in Inghilterra, fu costruito tra il III e il II millennio a.C. Questo grande monumento, secondo la storiografia ufficiale fu edificato in tre fasi. Nella prima fase ( 2750 a.C. circa) furono costruiti il terrapieno, il fossato e furono scavati 56 piccoli pozzi in cui venivano inseriti dei pali. Dopo pochi secoli, durante la seconda fase, avvenne il posizionamento delle 82 "pietre blu"(pesanti in media 4 tonnellate l'una), le quali provenivano dai monti Prescelly, che si trovano a 300 Km di distanza. Nell'ultima fase (1900 a.C. circa) vengono collocati i 30 monoliti e i cinque famosi triliti.
Come tutti sanno, anche Stonehenge ha una grande valenza astronomica. Ad esempio è molto importante l'allineamento che riguarda il solstizio d'estate. La cultura megalitica si estende per quasi quattromila anni, ma chi furono i suoi padri? E come poterono movimentare blocchi di pietra di tali dimensioni? Di sicuro non furono i Celti, che iniziarono a migrare nel 2000 a.C. circa dall'Europa centrale. Tuttavia essi ne furono gli eredi ed è grazie a loro che oggi possiamo sapere qualcosa di più della cultura della civiltà megalitica.
Probabilmente i Celti assorbirono la cultura dei popoli già presenti sul territorio e la fecero propria. A mio avviso, la civiltà megalitica è una cultura che discende (non so se addirittura direttamente) dalla civiltà atlantidea.
Con la distruzione di Atlantide migliaia di profughi iniziarono a giungere nelle regioni dell'Europa caratterizzate da siti megalitici portando le proprie conoscenze (soprattutto in campo astronomico e tecnologico) alle popolazioni locali che vivevano in uno stato primitivo.
E’ possibile che il sapere astronomico conferito dagli atlantidei si manifestò prima attraverso monumenti stellari in legno (come probabilmente fu la prima Stonhenge) che ovviamente non ci sono pervenuti. Poi con la civiltà megalitica, che possedeva le tecniche per trasportare massi pesantissimi anche da località molto lontane, si iniziarono a costruire monumenti stabili e duraturi perché fatti in pietra. Con l'arrivo dei Celti, la cultura megalitica venne assorbita da questi ultimi, i quali a loro volta l'hanno poi trasmessa in minima parte ai romani e alla cristianità. Attraverso la civiltà megalitica possiamo così avere una piccola testimonianza delle conoscenze astronomiche e religiose che i fuggiaschi atlantidei hanno recato alle popolazioni che incontravano nel loro percorso. Le poche notizie sulla religione e le credenze dei Celti (e quindi in linea generale della civiltà megalitica e atlantidea) le possiamo ottenere nel modo più sicuro e interessante da un famosissimo libro dell'antichità, scritto proprio da colui che determinò in maniera definitiva il crollo della civiltà celtica più importante in Europa: Caio Giulio Cesare. Nel suo "De bello gallico" ci dà un interessante ritratto dei druidi, i quali possedevano le conoscenze più importanti in merito alla religione ed alle antiche conoscenze, sicuramente custodi di occulti saperi esoterici, forse alchemici.
A supporto di quanto sopra esposto è interessante osservare come una volta l’Inghilterra fosse unita all’Europa. Solo dopo la fine della glaciazione di Wurm, con il disgelo delle calotte polari e l’innalzamento del livello del mare la struttura del continente è cambiata. Le prove di ciò giacciono sul fondo del Mar del Nord. è quanto emerge dallo studio coordinato dal Dr Richard Bates, Geofisico del dipartimento di Scienze della Terra del St Andrews University. Sul fondo del Mar del Nord si troverebbe infatti una porzione di terra sommersa, la Doggerland che nell’antichità si estendeva dalla Scozia alla Danimarca e collegava la Gran Bretagna all’Europa.

Immagine
Doggerland

Grazie alle immersioni dei sub stanno riaffiorando le prove di quella che sembra essere più di una semplice ipotesi, fino a ricostruire la flora e la fauna del territorio abitato da antiche popolazioni. Attraverso gli scheletri di mammuth e renne o l’esame di polline si delinea un paesaggio ricco di colline e laghi. Poi è accaduto qualcosa. Gli studiosi pensano che la sommersione della Doggerland sia stato l’effetto di una serie di eventi molto drammatici, come l’innalzamento del mare che sarebbe sfociato in uno tsumani di dimensioni catastrofiche alla fine del periodo glaciale di Wurm, vero spartiacque della storia umana.
Questo ci porta alla memoria un precedente studio del Progetto Atlanticus relativo alle possibili origini dei siti misteriosi di Gobekli Tepe, Kisiltepe, retaggi di una civiltà perduta, cancellata dall’inondazione repentina della depressione del Mar Nero, avvenuta anch’essa a causa dell’innalzamento del livello del mare, pubblicato nell’articolo intitolato “Un Impero prima del diluvio”. Da lì le popolazioni migrarono, cariche del loro bagaglio di conoscenze, nelle terre facenti parte del loro dominio, contribuendo alla straordinaria “Rinascita” del genere umano dopo il cataclisma, attraverso la nascita delle prime società umane: le società gilaniche.
Così come accadde nell’area geografica mesopotamica, dal cui percorso storico giunse la straordinaria civiltà sumera (almeno quella originale), probabilmente la medesima cosa accadde in Nord Europa, giungendo infine alla cultura celtica, esempio di “Rinascita” alla stessa stregua dei Sumeri in mesopotamia e delle prime civiltà mesoamericane al di là dell’Atlantico.
E, come in medio-oriente, così anche in Nord-Europa vennero selezionati dai nostri antichi dei alcuni individui, a cui venne assegnato il compito di istruire le nuove primordiali comunità umane costituitesi sulle ceneri del mondo dell’età dell’oro: i druidi.
La parola druido denota l'appartenente alla classe dei sacerdoti della religione dei Celti, attraverso buona parte dell'Europa centrale e nelle isole britanniche. I druidi costituivano l'elemento unificante e i depositari della cultura del popolo celtico, peraltro così disgregato e discorde sul piano politico.
Le pratiche druidiche erano parte della cultura di tutte quelle popolazioni chiamate Keltoi e Galatai dai greci e Celtae e Galli dai romani.
Il Druidismo o Celtismo è una religione neopagana nata come una ripresa dell'antica religione celtica. Il Druidismo è una religione che promuove pace, preservazione e armonia della e con la natura. Per il Druidismo inoltre, l'essere umano non è superiore al resto del mondo e degli esseri viventi, ma fa parte di esso.
Molti studiosi affermano che i Druidi provenissero da Atlantide, prima che essa scomparse, altri sostengono che i Druidi erano il risultato di una fusione con i celti. La cosa più interessante nella loro storia è che le loro pratiche hanno notevoli somiglianze con quelle degli Indiani d'America. Riscontriamo pertanto nuovamente una forte correlazione con popolazioni coinvolte nell’idea di “Rinascita” di una civiltà umana in armonia con la natura secondo i modelli delle società anarchico-gilaniche delle origini e del sogno enkilita.
I primi scritti sui Druidi provengono dall'epoca romana, da Giulio Cesare, attorno al 52 a.c. A quel tempo i Druidi erano presenti nella Gallia, nella Valle Padana, in Inghilterra e in Irlanda. Anche se è chiaro che la loro esistenza è ancora più remota, purtroppo non è rimasta traccia alcuna sulla loro nascita. E' molto difficile oggi ricostruire l'ordine dottrinale, mistico, magico e l'insieme di conoscenze scientifiche e tradizioni possedute dagli antichi Druidi. Essi, infatti, non ci hanno trasmesso nulla di codificato, e la quasi totalità della loro dottrina è andata perduta con la morte dell'ultimo di essi. Tuttavia, attraverso un'analisi di alcune fonti, manoscritti di età cristiana e folklore nordeuropeo, si è riusciti, negli ultimi due secoli, a dipingere un quadro generale estremamente interessante.
L'impero romano, non capendo la civiltà celtica, dedita all'armonia con la natura, volle assogettare gli stessi ai loro usi e costumi, siccome i territori dei Celti erano molto boscosi, fu proprio nei boschi che i Romani conobbero le batoste più pesanti, e non a caso durante le guerre di conquista in Gallia e in Padania, per prima cosa distrussero le foreste, spianarono i centri fortificati e costruirono al loro posto le caratteristiche città-accampamento militare a pianta quadrata, contribuendo a distruggere la tradizione direttamente proveniente da Atlantide.
Ma ciò che turbava di più i Romani erano alcuni personaggi della società celtica, per loro davvero incomprensibili: proprio i druidi, le figure centrali della religione celtica. Secondo Plinio il Vecchio, il loro nome deriva dal culto che riservavano alle querce. Avevano poteri molto grandi: conoscevano i moti degli astri e prevedevano i fenomeni atmosferici; decidevano l'esito delle controversie pubbliche e private e stabilivano pene e risarcimenti. Erano anche i responsabili dell'educazione dei giovani, ai quali insegnavano l'astronomia e l'uso della memoria. Grazie alla conoscenza delle erbe, erano anche formidabili guaritori. Erano gli unici a saper usare la scrittura e l'alfabeto, che i Celti consideravano sacro e utilizzavano solo in casi eccezionali.
Tutto ciò faceva dei druidi il cardine della società celtica, e i portavoce del volere enkilita quali maestri della “Rinascita”: ecco perché i Romani, a partire da Cesare in Gallia, si accanirono per prima cosa contro di loro per sottomettere le popolazioni.
Gli imperatori non furono teneri nemmeno con i druidi britannici, ultimi simboli (dopo il genocidio ai danni dei Celti padani e dei Galli) di una cultura consideravano barbara e pericolosa. Tiberio li mise fuori legge e Claudio cercò di sopprimerne la "casta", ma fu Nerone, solito alle imprese megalomani, a volerli annientare completamente. Il pretesto fu fornito da una rivolta scoppiata in Britannia nel 60. Per riportare la situazione alla normalità, nel 61 Nerone incaricò il governatore Svetonio Paolino di procedere contro i ribelli, arroccati sull'isola di Mona (odierna Anglesey).
Narra lo storico Tacito: "Sulla spiaggia era radunata la schiera dei nemici, percorsa da donne coperte di vesti come le Furie e che, sparse le chiome, agitavano le fiaccole. Intorno stavano i druidi che, levate le mani al cielo, lanciavano preghiere e maledizioni e con il loro aspetto colpivano i soldati al punto che essi, come paralizzati, si esponevano alle ferite, quasi avessero le membra legate". Per non fare brutta figura, i legionari, incitati dai loro capi, "si gettarono contro di loro, li abbatterono e li travolsero con le loro stesse fiamme". Dopo lo sterminio dei druidi, "fu imposto ai vinti un presidio e furono abbattuti i boschi sacri alle loro superstizioni selvagge".
Il massacro continuò poi in tutta la Britannia. La conseguenza fu l'annientamento del druidismo in Britannia e la sua relegazione alla sola Irlanda e alla Scozia. Fortunatamente la loro tradizione non andò perduta, grazie al fatto che nella chiesa Irlandese vennero ammessi i Bardi. Nella chiesa affluirono clero e aristocratici, a seguito di ciò la chiesa popolare scomparve, mettendo in pericolo l'esistenza del Druidismo e della Wicca.
Ma la storia dei druidi non termina con questo genocidio. Facciamo un salto temporale di diversi secoli e arriviamo fin quasi ai giorni nostri. Forse pochi di voi sanno che uno dei più famosi e rispettati statisti del 1900 venne iniziato al culto druidico. Stiamo parlando di Winston Churchill.
Churchill nasce nel 1874 e suo padre, Randolph Henry Spencer era stato un massone e questo può aver fornito al giovane Winston la possibilità di entrare in contatto con il mondo della massoneria. Ci sono ipotesi discordanti sull’anno in cui effettivamente Winston sia stato iniziato al grado di apprendista; quella più accreditata fa riferimento all’anno 1901 a Studholme Lodge a Londra.
Oltre al mondo massonico Churchill entrò in contatto con il mondo druidico inglese: una foto del libro di Stuart Piggot “The Druids” lo ritrae in gioventù affiancato da un certo numero di uomini, alcuni dei quali in evidenti costumi druidici. Secondo l’iscrizione questa fotografia mostra l’inizio del percorso druidico di Winston Churchill nel Lodge Albion, antico ordine dei Druidi, nel mese di Agosto 1908 a Blenheim, nella sua casa di famiglia.
Contemporaneamente a questi eventi, oltre il canale della Manica, sorgevano in Germania una serie di società ispirate alla teosofia di Madame Helena Blavatsky, come la società Thule o la società Vril, che nei decenni successivi saranno di grande ispirazione per la nascita di quello che diventerà il partito nazista.
Tutto ciò ci consente di poter leggere gli eventi che porteranno alla seconda guerra mondiale e alla tenace resistenza da parte di Churchill ai progetti nazisti non solo sotto il piano storico-politico, ma anche e soprattutto da un punto di vista mistico-esoterico, dove le forze e la posta in gioco vanno al di là del sapere comune.
Perché, — e questo è il punto che il dibattito non rileva, — il premier inglese percepiva nel nazismo non un semitotalitarismo come quello comunista, ma una componente 'occulta' con fini non negoziabili, 'la costruzione di uno spazio eurasiatico che consentisse ai popoli ariani di ritrovare la loro antica saggezza e potenza'.
Il Führer avrebbe voluto associare a questo progetto l'Inghilterra, 'sorella ariana'.

Immagine
L’iniziazione all’ordine druidico di Winston
Churchill nella foto di Piggot

Churchill lo riteneva pura follia, dettata da una cultura occulta la cui presenza egli avvertiva grazie ai suoi saperi esoterici e temeva anche in settori influenti (aristocratici, intellettuali) della società inglese. Riteneva di salvare l'occidente da un pericolo 'demoniaco' e sperava anche di salvare l'Impero con l'aiuto degli Stati Uniti.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:03 
IL MESSAGGIO DI ORIONE

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9625

La costellazione di Orione, insieme di stelle dall’inconfondibile disegno, sembra aver affascinato da sempre l’uomo: Sumeri, Egizi e Cinesi attribuivano ad essa un significato particolare. In cielo Orione è raffigurato che affronta la carica del Toro sbuffante della costellazione confinante, nonostante il mito di Orione non faccia nessun riferimento a un tale combattimento. In ogni caso, la costellazione nacque con i Sumeri, che videro in essa il loro grande eroe Gilgamesh che combatteva contro il Toro del Cielo. Il nome sumero di Orione era URU AN-NA, che significa luce del cielo. Il Toro era GUD AN-NA, toro del cielo.
Gilgamesh era l'equivalente sumero di Eracle, il che ci porta a un altro rompicapo. Essendo il più grande eroe della mitologia greca, Eracle merita una costellazione della brillantezza di questa, ma in realtà gli è assegnata una zona di cielo molto più scura. è possibile, allora, che Orione in realtà altro non sia che Eracle sotto mentite spoglie? Potrebbe essere, se si pensa che una delle fatiche di Eracle fu quella di catturare il toro di Creta e che in cielo è raffigurato un combattimento tra Orione e il Toro.

Immagine
n questa illustrazione, tratta da Uranographia di Johann Bode, Orione solleva il bastone e lo scudo per difendersi dalla carica del Toro sbuffante. La sua spalla destra è segnata dalla stella lucida Betelgeuse, e il suo piede sinistro da Rigel. Tre stelle in fila formano la sua cintura.

Come descritto nel mito Eracle, dopo aver catturato il Toro e averlo cavalcato attraversando le acque che separavano Creta dal continente, raggiunse la Città dei Ciclopi [Atlantide? ndr] e a loro consegnò l’animale.
Ecco la traduzione del mito secondo Alice A.Bailey, nata Alice LaTrobe Bateman (Manchester, 16 giugno 1880 – New York,15 dicembre 1949), saggista, esoterista e studiosa di teosofia britannica. La Bailey affermò che la maggior parte delle sue opere le erano state dettate telepaticamente da un «Maestro di Sapienza», chiamato anche «il Tibetano» e in seguito identificato con Djwhal Khul ritenuto un maestro anche della Blavatskij.

“Da solo Ercole cercò il toro, da solo lo inseguì fino alla sua tana, da solo lo catturò e lo montò. Intorno a lui stavano le sette Sorelle [le Pleiadi? ndr] che lo spingevano a procedere e, nella luce splendente, egli cavalcò il toro attraverso l’acqua scintillante, dall’isola di Creta fino alla terra dove dimoravano i tre Ciclopi [Atlantide? ndr].
Questi tre grandi figli di Dio attendevano il suo ritorno, seguendo il suo progredire attraverso le onde. Ercole cavalcò il toro come se fosse un cavallo e, accompagnato dal canto delle Sorelle, si avvicinò alla terra.

Ercole si avvicinava, incitando sul Sentiero il toro sacro, proiettando la luce sul sentiero che va da Creta al Tempio del Signore, nella città degli uomini dall’occhio singolo. Sulla terraferma, al limitare dell’acqua, stavano tre ciclopi che afferrarono il toro, così togliendolo ad Ercole.”

Il ciclope è una figura della mitologia greca; è il discendente di un'antica razza di giganti [Anunnaki? Ndr], caratterizzati dalla presenza di un solo occhio, anche se ciò contrasta con le prime descrizioni ove l’unico occhio è il solo tenuto aperto dei tre presenti sul loro volto.

Immagine

Il "terzo occhio", simbolo di Conoscenza nel significato più profondo del termine, è nelle filosofie orientali il presupposto dell'"intuito" e della "chiaroveggenza". Esso è situato nel centro della fronte leggermente sopra le sopracciglia. E' collegato al sesto chakra e alla ghiandola pituitaria o ipofisi, anche se è comune credere che la ghiandola pineale o epifisi sia la ghiandola del terzo occhio. Attualmente possiamo dire che la pineale è una ghiandola in letargo, dovuto al suo inutilizzo negli ultimi millenni da parte dell'uomo.
Tramite di esso è possibile rivivere in pieno una propria vita passata, ma anche vedere quella di altri. E' possibile sapere e vedere che cosa fanno, pensano e dicono le altre persone, restando però nella più completa discrezione. E' possibile fare un "volo astrale". Con il terzo occhio è inoltre possibile praticare la magia nera, come malocchio, fatture, malefici, stregoneria, ecc., e la magia bianca, come sciamanesimo, guarigioni miracolose sia fisiche che astrali, esorcismi, ecc. Il suo uso non sempre però necessita di un essere pienamente consapevole, a volte il soggetto opera usando l'intuizione unita alla grande pratica acquisita nel tempo. Una coscienza involuta usa la veggenza per operare la magia nera, altresì, una coscienza evoluta la usa per operare quella bianca.
Anche nel Vangelo vi è un accenno al terzo occhio.

"La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio. Se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà luminoso. Ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo (astrale) sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande e nera sarà la tenebra!" (Matteo 6,22-23)

L’importanza del terzo occhio e lo studio dei suoi significati esoterici profondi assume importanza rilevante negli studi teosofici di Helena Blavatsky (1831-1891), fondatrice della “Società Teosofica” a New York nel 1875. La sua opera massima, La Dottrina Segreta, venne pubblicata nel 1888 ed ebbe un forte impatto in tutto il mondo. La sua influenza su Adolf Hitler e i nazisti, che viene praticamente trascurata dagli storici, alterò completamente il corso del 20 ° secolo. Notare la svastica sul logo della sua organizzazione:

Immagine

Ignorando il concetto biblico che “Dio creò l’uomo in sei giorni”, la Blavatsky affermò l’antichità, il primato, e l’universalità della cosiddetta dottrina della “caduta dell’uomo e la sua discesa nella materia”, che costituisce la radice della dottrina di gran parte del pensiero orientale (Induismo, Buddismo), della filosofia greca e dei moderni circoli esoterici occidentali.
Essa insegna che sotto la carne gli uomini e le donne sono degli “dei” o “anime eterne” cadute nel “mondo materiale” dalla nostra più alta “casa spirituale” alla quale l’anima dovrà poi fare ritorno. Durante la sua discesa, anima ha dovuto indossare una “veste” cioè il corpo fisico, in questo modo non è più riuscita a riconoscere la sua natura eterna e spirituale.

“Non hai un’anima. Tu sei un’anima. Hai un corpo. “
-C.S. Lewis
“L’uomo è un dio nel corpo di un animale secondo la filosofia antica …”
-Dr. Alvin Boyd Kuhn

Secondo la Blavatsky, la caduta dell’anima è una conoscenza andata salvata dal cataclisma che distrusse l’antica e potente civilità di Atlantide. Come sappiamo il filosofo greco Platone citò per primo Atlantide nel IV secolo a.C., riferendosi ad essa come ad un’isola ormai sommersa che un tempo fioriva nell’oceano Atlantico.
Platone sostenne che gli Atlantidei possedevano una altissima religione spirituale, che permetteva loro di “vedere” la loro divina ed eterna “anima” all’interno del corpo fisico. Secondo lui, vedendo la propria ‘”anima interna” gli abitanti di Atlantide ebbero la possibilità di sfruttare dei poteri superiori, finchè lentamente la loro parte umana prese il sopravvento su quella divina.
Parte divina certamente riconducibile alla simbologia del ‘Terzo occhio’ induista che ritroviamo nei Ciclopi del mito di Ercole così come descritto precedentemente.
La Blavatsky vide, nei miti del diluvio, leggende parallele su una catastrofe globale che costrinsero l’uomo e la civilità a ricominciare da capo, un pallido ricordo dell’affondamento di Atlantide. Da questa catastrofe si generò una digressione totale, non solo culturale, che implicò una vera e propria involuzione della razza atlantidea stessa. La capacità Atlantidea di “mantenere la visione” della loro “anima interna” andò perduta. E’ rimasta solo l’”idea” di anima eterna che si è mantenuta fino ai giorni nostri. Nel corso dei millenni, la razza atlantidea si estinse; la Blavatsky sostenne che essa fu rimpiazzata da quella ariana.

“I Greci, che sono ariani, attribuiscono le loro origini alle persone che si salvarono dal diluvio, così come fecero altre razze di origine ariana … qui troviamo un’altra prova del rapporto tra Ariani e il popolo di Atlantide .. i Greci, una razza ariana, nelle loro tradizioni mitologiche, mostrano la più stretta relazione con Atlantide … Abbiamo visto che il re di Atlantide, la cui tomba può essere vista a Creta, fu trasformato nel dio greco Zeus. “
-Ignatius Donnelly, Atlantis: The Antediluvian World, 1882

Gli Atlantidei erano più alti di noi, ma persero la loro imponente statura non appena la loro spiritualità cominciò a vacillare. La seconda e più significativa mutazione impedì alla nuova razza ariana di “vedere” lucidamente l’”anima interiore.” Questo lasciò i suoi moderni discendenti, incapaci di vedere e riconoscere la propria divinità interiore. La Blavatsky riteneva che gli Atlantidei possedessero questa capacità un tempo, grazie all’esistenza di un enigmatico organo luminoso, all’interno del cervello, chiamato “occhio ciclopico” o “Terzo Occhio”.
Sulla fronte, al centro vi sarebbe una strana ma affascinante appendice. Come i nostri due occhi vedono all’esterno e al mondo materiale, questo unico occhio vede all’interno, alle questioni spirituali, all’anima. Quando gli abitanti di Atlantide involvettero in Ariani, il Terzo Occhio si atrofizzò.
La Blavatsky scrisse:

“… Il “terzo occhio”, una volta, era un organo fisiologico che, in seguito, a causa della progressiva scomparsa della spiritualità e dell’aumento del materialismo si atrofizzò”.
- Helena Blavatsky, La Dottrina Segreta, 1888

Anche se atrofizzato, la Blavatsky insisteva nel dire che come i nostri antenati di Atlantide, noi uomini moderni, potevano ancora accedere a questo organo; alcuni scienziati all’inizio del 19 ° e del 20 ° secolo lo identificarono nella ghiandola pineale, descritta nel seguente modo:

“Una piccola … appendice conica presente nel cervello di tutti i vertebrati craniati che in alcuni rettili ha la struttura essenziale di un occhio … è ritenuta un terzo occhio rudimentale, un organo endocrino, o la sede dell’anima …”
- Webster’s Ninth New Collegiate Dictionary
Il filosofo francese René Descartes (1596-1650) chiamò la ghiandola pineale la “sede dell’anima”, “Occhio singolo” e “Terzo Occhio”.

Torniamo a questo punto alla costellazione di Orione e alla sua “battaglia” celeste contro il Toro questo punto è interessante rilevare come Orione sia molto utile per trovare altre stelle. Estendendo la linea della Cintura verso sudovest, si può trovare Sirio (#945; Canis Majoris); verso nordest, Aldebaran (#945; Tauri), appunto la stella più luminosa della costellazione del Toro.

Immagine

Su quest’ultima, su Aldebaran, concentriamo per un attimo la nostra attenzione. Sappiamo che Aldebaran viene nominata nelle esperienze di channelling delle donne membro della società Vril, quest’ultima allineata proprio al pensiero teosofico della Blavatsky. La loro guida era la medium della Thule Gesellschaft, Maria Orsitsch (Orsic) di Zagabria, che aveva ricevuto messaggi e disegni dagli Alieni Ariani di Alpha Tauri nel sistema binario di Aldebaran, distante dalla Terra 65 anni-luce.
Questi Alieni avrebbero visitato l'Antica Agade, portandovi la civiltà che avrebbe poi prodotto l'Impero Accadico, il primo immenso impero della Storia, guidato da Sargon I, detto il signore delle quattro parti del mondo. Il termine Vril, infatti, deriverebbe dal termine accadico "VRI-IL" (Simili a Dei).
Nel Dicembre del 1919 una ristretta cerchia di persone della Vril Gesellschaft si riunirono in una foresteria a Ramsau, nei dintorni di Berchtesgaden. Tra loro vi erano 2 medium: Maria Orsic, croata, che aveva incontrato Haushofer a Vienna nel 1917 insieme al Barone Rudolf Von Sebottendorf, ed un certo Sigrun.
Essi ricevettero per via telepatica un messaggio in un codice segreto usato dai Tempari, che essi peraltro ignoravano. Dopo la decodifica si comprese che si trattava di indicazioni per costruire una "macchina volante" od una "macchina del tempo". Tale messaggio giungeva proprio dalla Stella Aldebaran.
Curiosamente, il contatto delle medium della Vril non sarebbe stato stato l'ultimo contatto medianico con gli Aldebarani. Il medium Richard Miller afferma di aver ricevuto il 12 marzo 1958 un messaggio telepatico da Kla-La di Aldebaran, il quale avrebbe portato i saluti dalla Luce della sua dimensione.
Se non esistono prove certe dei contatti avuti dalle medium della Vril e dei nazisti con questi fantomatici ariani di Aldebaran altrettanto esistono prove oggettive della devozione delle antiche civiltà nei confronti della costellazione di Orione e, indirettamente, della sua battaglia ‘celeste’ contro il Toro Divino.
Le piramidi di Giza, in accordo con le ricerche di Hancock e Bauval, gli henge di Thornbourugh, tumuli circolari del periodo neolitico scoperti in Inghilterra, il sito archeologico di Tenochtitlan e diversi altri luoghi ricordano infatti l’allineamento con le stelle di Orione.

Immagine

Assumendo come valida la teoria della retrodatazione delle piramidi e di molti altri siti megalitici misteriosi a un tempo precedente la fine della glaciazione di Wurm, ovvero antidiluviano, la decisione del popolo che abitava il pianeta durante la cosiddetta età dell’Oro di costruire i propri monumenti o edifici in modo che ricordassero la costellazione di Orione era, secondo le conclusioni raggiunte dal Progetto Atlanticus, il modo migliore per celebrare la vittoria di un antico Dio (Orione = Enki) contro la popolazione di Aldebaran rappresentata appunto dal Toro Celeste.
Non sappiamo purtroppo se si trattò di una vittoria “militare”, “politica” o “culturale”.
In ogni caso, di qualsiasi tipo di vittoria si trattò, significa che ancora oggi, ogni volta che guardiamo, pieni di interrogativi, la maestosità delle grandi piramidi, stiamo celebrando la grandezza di Enki, al quale i complessi megalitici allineati alla costellazione di Orione fanno onore, in guerra contro il popolo di Aldebaran, per motivi a noi sconosciuti.
Se questo avveniva è ragionevole pertanto pensare accadesse in un tempo precedente al “Diluvio Universale”. In un secondo momento, nel tardo neolitico (ca. 6000 7000 anni fa) l’esito della “guerra” viene totalmente ribaltato. Storicamente, ciò si ricollega alla soppressione delle società gilaniche, queste nate secondo il Progetto Atlanticus direttamente su ispirazione dei resti dell’antica civiltà atlantidea fondata da Enki e dai suoi seguaci, da parte delle società indo-europee (ariane) di matrice patriarcale in tarda epoca neolitica, comunque dopo il Diluvio Universale, ovvero la fine della glaciazione di Wurm.
Notevole in tal senso è la ricerca di Marija Gimbutas (Vilnius, 23 gennaio 1921 – Los Angeles, 2 febbraio 1994) è stata un'archeologa e linguista lituana. Studiò le culture del neolitico e dell'età del bronzo della “Europa Antica”, un'espressione da lei introdotta, i cui lavori pubblicati tra il 1946 e il 1971 introdussero nuovi punti di vista nell'ambito della linguistica e dell'interpretazione della mitologia con particolare riferimento alla cultura indo-europea e alla cultura Kurgan.
Questi ultimi principali artefici di ciò che nel libro “Genesi di un Enigma” viene definito come “Riconquista”, concetto in contrapposizione con la “Rinascita” di matrice Enkilita.

Immagine
Le origini del popolo Kurgan… notare ancora una volta
la vicinanza alla regione del Mar Nero

Ciò offre la possibilità di interpretare sotto una diversa chiave di lettura sia la storia passata sia, soprattutto, la nostra storia recente approfondendo come quanto sopra descritto abbia influenzato le correnti esoteriche occulte di quei movimenti che hanno determinato la storia conosciuta dell’umanità e di coloro che ancora lo fanno.
Un dubbio onestamente ancora ci rimane… Quelle entità con cui entrarono in contatto le medium della VRIL avevano realmente l’obiettivo di portare il nazismo al potere con le nefaste conseguenze che conosciamo? O furono in realtà ingannati, così come le stesse medium, dalla successiva strumentalizzazione del messaggio esoterico ricevuto, da parte dei gerarchi nazisti?
La domanda nasce dal fatto che la presunta e involontaria ‘visita’ fatta agli Ariani da parte dell’ammiraglio Byrd che tutti gli appassionati di misteri certamente conoscono non lasciava presumere malvagità o intenti crudeli nei confronti dell’umanità da parte degli abitanti dell’ipotetico mondo di Agarthi i cui punti di accesso rimangono ancora ignoti.
Che a un livello a noi insondabile Orione e il Toro, Enki e gli Ariani, siano giunti infine a una pace che ancora non è stata recepita al livello materiale in cui viviamo noi esseri umani? Forse solo il tempo ci aiuterà a capirlo.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:06 
IL LAPIS EXILLIS: ALLA RICERCA DEL GRAAL

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9627

Non è facile parlare di un mito tanto discusso e sviscerato nei suoi possibili significati come quello del Graal. Su di esso sono già state impiegate fin troppe parole, e forse, più cerchiamo di spiegarlo, più rischiamo di allontanarci dal suo vero significato. Ma il fascino di questa leggenda, che ha infiammato i cuori di non pochi scrittori e ispirato saghe e simbolismi di varie e contrastanti culture, pare che abbia il potere di rimanere inalterato nel tempo.

Il Graal è comunemente accostato al contenitore che raccolse e conservò il sangue di Cristo, ma in realtà si tratta di un mito molto più antico. L’accostamento con il simbolismo cristiano è nato nel medioevo, quando il mito conobbe momenti di grande gloria e i racconti sul Graal fiorirono e sbocciarono come dal nulla. Nel periodo che va dalla fine del XII secolo alla metà del XIII comparve in tutta Europa un vasto corpus di testi che proponevano il Graal in tutte le sue possibili varianti. Tra queste, l’interpretazione dei monaci cristiani ebbe il sopravvento sull’anima celtica della leggenda, e l’errore storico fu perpetrato e ratificato dalla cultura ufficiale.

L’origine del termine “Graal” si fa risalire al termine latino Gradalis, che vuol dire scudella lata et aliquantun profunda, cioè una scodella o un vaso: questi oggetti nella mitologia classica simboleggiavano il potere benefico delle forze superiori… basta pensare alla Cornucopia dei Greci e dei Romani. Ma cos’è fisicamente il Graal? Il primo a nominarlo fu Chretien de Troyes nella sua opera “Perceval le Gallois ou le Compte du Graal” nel 1190: viene visto come una coppa, ma non ci sono riferimenti di un suo legame con Gesù.

Solamente nel 1202 Robert de Baron nella sua opera Joseph d’Arimathie legherà in maniera indissolubile il Graal con il calice dell’Ultima Cena, nel quale in seguito Giuseppe d’Arimatea raccolse il di Gesù crocifisso.
Verso il XIII secolo, sua concezione muta radicalmente: il Graal viene addirittura associato ad un libro che scrisse Gesù stesso e che poteva essere letto solamente da qualcuno eletto da Dio. Questo perché le verità scritte se narrate agli uomini potevano sconvolgere i quattro elementi e scatenare un terribile potere!

Intorno al 1210 si assiste ad una nuova rivisitazione del Graal: il tedesco Wolfram Von Eschenbach nella sua opera Parzifal lo descrive come una pietra purissima, chiamata lapis exillis: il suo potere era tale che “se un uomo continuasse a guardarla per duecento anni, il suo aspetto non cambierebbe: forse solo i suoi capelli diverrebbero grigi”. Leggendo questo incredibile potere si è pensato che il termine lapis exillis derivasse dal latino lapis ex coelis, cioè “pietra caduta dal cielo”.

Se si tratta di una pietra caduta dal cielo, assai simile dunque alla pietra nera custodita nella Ka'Ba alla Mecca, le caratteristiche del Graal cambiano decisamente. Come la pietra di Fal, il Graal diviene non strumento di immortalità ma mezzo per trasmutare la materia vile in materia divina: il ferro in oro, o meglio, sviscerando il significato esoterico dell’atto della trasmutazione, l'anima umana in essenza divina. La coppa-pietra assume così un ruolo cristico-gnostico, è essa stessa Gesù: anzi, è lo strumento che manca a Satana per conquistare il mondo e il suo possesso è in grado di decidere le sorti del mondo e dell'universo.

I romanzi successivi del ciclo del Graal, come il Lancelot di Rober de Boron o il Peredur e il Perlesvaus, accentuano questo aspetto. Si torna al concetto di oggetto magico, in grado di stabilire le sorti del mondo, ed è questo il significato che nel Romanticismo diede alla coppa dell'eucarestia il musicista Richard Wagner nell'opera Parsifal che tanta influenza ebbe sui Nazisti il secolo dopo. E in effetti, la musica wagneriana portò alle forsennate ricerche del Graal in stile Indiana Jones da parte delle SS di Himmler comprensive di resoconti sognati fatti al "povero" Adolf Hitler rimasto orfano della sua arma definitiva per la conquista della Terra.

Ma forse la chiave di volta del Graal è proprio l'interpretazione ultima dei Nazisti; non è il riferimento alla coppa dell'Ultima Cena, ma a qualcosa di più antico e veramente esplosivo in grado di cambiare le sorti di una guerra. Il costante e continuo riferimento delle cattedrali gotiche che mettono il relazione la coppa ai cavalieri Templari fa pensare al Graal a qualcosa di legato al tempio di Salomone a Gerusalemme: l'Arca dell'Alleanza, che non dimentichiamo era in grado di distruggere intere città o di folgorare chi la toccava senza protezioni! E' questo il vero aspetto del Graal, un oggetto tecnologico che secondo alcuni studiosi eterodossi era custodito ai tempi dei Faraoni nella Grande Piramide di Giza e che Mosé rubò al momento della fuga degli Ebrei dall'Egitto?

Forse abbiamo tutti ragione, nel senso che il Graal è contemporaneamente sia strumento che simbolo; strumento tecnologico di una civiltà perduta donata agli uomini affinché ne facciano buon uso, ovvero per percorrere il cammino della Conoscenza, il processo alchemico-esoterico che porta al corpo di luce, massima consapevolezza della propria essenza divina us cui il messaggio cristiano originale voleva condurre gli uomini; conoscenza che il Graal stesso simboleggia.

In realtà il mito che segnò così profondamente la cultura dell’Europa medievale era di chiare origini pagane. Quando Chretien de Troyes, intorno al 1181, introdusse il Graal nel suo “Perceval”, nessuno aveva mai sentito ancora nominare questo strano oggetto, e di certo, nel suo romanzo, Chretien non fornisce alcun elemento per poter accostare il Graal all’esoterismo cristiano.

Si sa che Chretien de Troyes basava i suoi romanzi sul background folklorizzato di leggende mantenutesi nelle aree celtiche fino ad allora sopravvissute, come l’antica Armorica (l’attuale Bretagna), la Cornovaglia, il Galles.

Il “Perceval” è una sorta di iniziazione cavalleresca incentrata sul mistero del Graal; ma nonostante il romanzo ruoti attorno al Graal, il significato di quest’ultimo rimane oscuro, e l’autore non fornisce alcun elemento per farsene anche solo una remota idea.

Immagine
L’apparizione del Graal alla Tavola Rotonda in un dipinto medievale. Il dipinto evidenzia la forma della tavola forata al centro, secondo l’antico simbolismo della ruota forata dei Celti

Il Graal fa la sua comparsa in una strana processione, nel bel mezzo di un banchetto regale: i valletti del Re portano una lancia bianca, un candeliere d'oro fino, un piatto d’argento e infine il regalo più prezioso, il Graal. “Quando il Graal fu portato nella stanza, da esso si diffuse un tale chiarore che le candele persero la loro luce come le stelle quando si leva il sole o la luna.”

Da questi scarni e oscuri accenni al misterioso oggetto chiamato Graal scaturirà una ricca letteratura che segnerà profondamente la cultura medievale. Il romanzo di Chretien, pur se incompiuto, ebbe uno straordinario successo, ed ebbe il merito (o il demerito?) di creare una moda. Tra i testi più famosi: il “Parzival” di Wolfram von Eschenbach, il “Peredur”, un racconto gallese della raccolta dei Mabinogion, e il “Roman de l’Estoire du Graal” di Robert de Boron.

Nel XIII secolo il mito era ormai famoso, e la “cerca del Graal” era definitivamente identificata come la missione spirituale dei Cavalieri della Tavola Rotonda: una via mistica, costellata di prove iniziatiche, che aveva come obiettivo la conquista dell’ambito oggetto, fonte di conoscenza e benessere spirituale. Una leggenda simbolica di cui molte scuole spirituali si attribuirono la paternità, sfruttando a proprio uso e consumo l’obiettivo finale.

L’opera di cristianizzazione in atto in Europa convertì la leggenda secondo criteri cristici, e così il Graal divenne il contenitore che raccolse il sangue di Cristo, e la cerca del Graal fu tradotta nel misticismo cristiano.

Cercare di addentrarsi nel significato del Graal secondo le leggende celtiche, e nel mondo celtico in generale, tuttavia non è facile né a portata di tutti. Le fonti e le testimonianze originali giungono da quegli autori che rappresentano la cultura che ha cancellato i Celti dalla storia, ovvero i romani e i monaci medievali; facile immaginare come tali fonti risentano dell’influenza della storia narrata dai vincitori.

Immagine
La Tavola Rotonda dove è rappresentato il ritratto di Re Artù in un grande dipinto su legno conservato nel castello normanno di Winchester

Ma il patrimonio dell’umanità non è costituito solo dai monumenti architettonici del passato: esiste un grande patrimonio tramandato dalla memoria storica dell’umanità, costituito dai miti e dalle leggende di tutti i popoli della terra, che ostinatamente accompagna la storia dell’uomo, pronto per essere interpretato e ricomposto come un enorme puzzle, e geloso custode di millenari miti e di ancestrali insegnamenti.

E’ proprio da tale patrimonio che possiamo attingere per eludere la censura della storia, per provare a farci un’idea dell’insegnamento conservato nel Graal. Ed è proprio così che di fatto inizia un percorso, quel percorso che anticamente venne definito come la “Cerca del Graal”: un sentiero individuale, personale, alla ricerca del Graal ma anche alla scoperta di se stessi.

Che cosa spinse Chretien de Troyes ad introdurre il Graal nei suoi racconti? E da quali fonti attingeva per le sue ispirazioni? E ancora: che cosa rappresentano quei quattro elementi che ricorrono nella processione del Graal?

Per quest'ultimo quesito, dall'antica tradizione irlandese arriva uno spunto che ci viene in aiuto riproponendoci quattro elementi sotto forma di altrettanti "doni" che venivano fatti agli ancestrali Re d'Irlanda, gli Ard-Rì, provenienti dai mitici Tuatha De Danann: la lancia, la spada, la coppa e la pietra. Un'usanza che ancora oggi viene in parte conservata nel Regno Unito: la "Stone of Scone", la pietra su cui vengono incoronati i reali d'Inghilterra, è appunto uno di questi quattro doni e, secondo la leggenda, viene tramandata da tempi immemorabili. Quattro doni che ovviamente avevano un significato altamente simbolico, e che forse ci possono aiutare per iniziare ad addentrarci nel segreto del Graal.

Secondo l’esoterismo del Graal, questi quattro elementi costituiscono altrettante esperienze formative che hanno lo scopo di forgiare spiritualmente l'iniziato nelle sue conquiste metafisiche. Una sorta di cammino mistico che necessita di strumenti, come i sopracitati quattro "doni", per poter essere realizzato nella maniera idonea.

Se Chretien introdusse e sottolineò questi quattro capisaldi della via mistica del Graal, non lo fece certo per caso: in un momento in cui la conversione cristiana era dilagante, egli sentì l'impulso di dare una provocazione introducendo elementi pagani raccolti da tradizioni precedenti. Forse non riuscì nel suo intento, vista l'interpretazione che ne fu data in seguito, ma di sicuro lasciò una traccia indelebile che pose l'accento su un mito universale che mal si prestava ad essere strumentalizzato, e che di sicuro fa riflettere gente di ogni tempo e luogo.

Immagine
Il Calderone di Gundestrup conservato nel Museo Nazionale Danese di Copenhagen, una coppa di argento massiccio con un diametro di 69 cm.
Il Calderone è stato ritrovato nel II secolo a.C. nello Jutland, ma proviene dal Mar Nero. E’ composto da 13 placche che rappresentano altrettante etnie, lontane tra di loro migliaia di chilometri. Il Calderone ha evidenziato contatti culturali che si estendevano per almeno 6000 chilometri e rappresenta la celebrazione dell’unione di culture diverse


Nelle leggende celtiche appare evidente come il Graal sia un oggetto immateriale, esperienza e insieme cammino iniziatico, una via mistica alla ricerca della conoscenza. Tutte le leggende celtiche, di qualsiasi paese, risentono fortemente del simbolismo del Graal; si può dire che in questo mito ci sia il senso stesso della spiritualità del mondo celtico. Ma ciò che colpisce nel corpus delle leggende celtiche legate al Graal è la somiglianza con altri miti, lontani tra di loro nello spazio e nel tempo.

Se proviamo a tracciare una scheda dei punti salienti della leggenda, potremo confrontarla con altri miti storici per penetrarne il significato. I punti salienti sono:
. il Graal è un oggetto immateriale, talvolta raffigurato come una coppa, talvolta come una pietra preziosa;
. il Graal è stato donato agli uomini da una stirpe divina in un’epoca primordiale;
. il Graal proviene da un altro mondo e compare periodicamente nella storia dell’uomo;
. il Graal è dispensatore di benessere e di conoscenza;
. il Graal rappresenta una porta verso un piano di realtà normalmente inaccessibile all’uomo.

In molte leggende dei popoli della terra possiamo trovare gli stessi elementi: il Graal, sotto forma di coppa o di pietra (per la maggior parte dei casi uno smeraldo o una pietra verde), emerge da un mondo parallelo al nostro e dispensa conoscenza e benessere a chi ne entra in possesso.

Possiamo citare la coppa donata dai mitici Tuatha De Danann della mitologia irlandese agli Ard-Rì, i primi re d’Irlanda; oppure la cornucopia della mitologia greca, ovvero il corno proveniente dalla capra di Zeus, con proprietà simili ai calderoni della mitologia celtica; oppure la coppa della mitologia nordica ricavata dal cranio del gigante Ymir, vista la sede dove ha avuto luogo la nascita dell’Uomo Primordiale. Ma anche la pietra verde raffigurante una divinità precolombiana, la dea dell’acqua Chalchihuitli; o la divinità peruviana Pachacaman, raffigurata come “luminosa e verde”, o ancora lo smeraldo con cui il sacerdote Quetzalcoatl otteneva la propria potenza dalle stelle.

Immagine
Statua preistorica del popolo Yoruba dell’Africa del Nord, raffigurante una figura femminile che tiene in mano la Coppa della Conoscenza

Frammenti di un puzzle che ci fa intuire qualcosa che trapela al di là dell’apparente puerilità di leggende giunte a noi frammentate e oscure. Pezzetti di una storia che ci parla di un’era in cui l’umanità conobbe antichi splendori e lascia trapelare una realtà posta al di là dell’ovvietà.
Presso gli aborigeni australiani questa dimensione viene chiamata “alcheringa”, tradotta con il termine di “dreamtime”, il Tempo del Sogno.

Il dreamtime è una dimensione parallela che trae le sue origini da un’esperienza vissuta dall’umanità dei primordi, manenuta viva, in modo segretissimo, dalla tradizione sciamanica delle società iniziatiche degli aborigeni. Una condizione di eterno presente, tra visibile e invisibile, che si proietta tra passato e futuro, in continuum esperienziale a cui si può accedere solo con la chiave adatta.

Una credenza analoga la troviamo presso gli indiani Hopi, che periodicamente si recano nei posti sacri per incontrarsi spiritualmente con i loro antenati totemici, i mitici Katchina, molto simili per significato e funzione ai Tuatha De Danann della tradizione celtica. E proprio il mito dei Tuatha De Danann ci offre la chiave di volta per capire qualcosa di più del significato del Graal.

La leggenda racconta del mitico incontro tra esseri divini provenienti dalle terre “a nord del mondo”, i Tuatha De Danann, e gli Ard-Rì, i primi re d’Irlanda. Questi mitici esseri regalarono agli Ard-Rì il Graal. Da questo incontro, secondo la leggenda, nacque la tradizione druidica che diede vita a tutta la cultura celtica e costituì il collante essenziale per popoli diversi e lontani fra loro.

Una pietra esile, fragile, magari un computer ante-litteram che contiene nozioni di altri mondi, un oggetto difficile da comprendere per menti semplici come quelle dei servi della gleba medievali ma che oggi anche per i comuni cittadini potrebbe assumere un senso compiuto. E chissà, forse potrebbe anche essere un oggetto piccolo, come la scatola che Berengere Saunière, parroco di Rennes-le-Château, consegnò ad Antoni Gaudì nel 1896 affinché fosse murata nella cripta della Sagrada Familia di Barcellona.

Immagine
La Sagrada Famiglia

Nella cripta della Sagrada Familia di Barcellona sarebbe nascosta una scatola consegnata da Berengere Saunière, parroco di Rennes-le-Château, ad Antoni Gaudì nel 1896. Il parroco francese era divenuto estremamente ricco dopo aver trovato, durante i lavori di ristrutturazione della sua chiesetta sui Pirenei, documenti e pergamene estremamente antichi che nascondevano un segreto inconfessabile. In pochi anni il prete divenne amico di nobili e uomini della massoneria e strinse un profondo legame con la cantante lirica Emma Calvé, appassionata di esoterismo e legata a molti circoli culturali.

La Calvé era anche amica di Gaudì, architetto visionario che in quegli anni stava cambiando il volto a Barcellona: e così Saunière decise di affidare all'architetto catalano un importante oggetto, custodito in un involucro delle dimensioni di una scatola di scarpe, che egli aveva rinvenuto nella cripta segreta della sua chiesa.

Gaudí sperimentò una via autonoma nel terreno della spiritualità, situata, c'è da dire, nell'ambito della ortodossia cattolica, ma con una pratica che andava aldilà del cattolicesimo. Infatti nelle costruzioni gaudiniane abbondano segni e simboli che sono patrimonio di determinate società segrete. Tutti i biografi di Gaudí coincidono nel segnalare che, nella giovinezza, l'architetto si sentì attratto dalle idee sociali avanzate da Fourier e Ruskin, e che mantenne rapporti con i movimenti sociali più avanzati dell'epoca.

La sua amicizia con socialisti utopici e anarchici, che avevano rapporti con gli ambienti massonici, evidente nei suoi primi lavori, ci spinge a pensare che forse fu in questi ambienti dove Gaudí venne a contatto con una loggia. Si conosce persino la sua appartenenza a curiose associazioni di escursionismo dell'epoca (la cui finalità andava oltre le semplici gite e i picnic campestri). Alcuni dei suoi biografi adducono che Gaudí fu massone e che alcune delle sue opere come '"La Sagrada Familia" e il "Parque Güell" hanno molteplici simboli della massoneria.

Immagine
Gaudì

Di che si trattava? Documenti segreti della dinastia dei Merovingi, che a Rennes-le-Château avevano un'importante sede? Qualcosa proveniente dalla presunta tomba di Gesù? Oppure il misterioso oggetto che custodivano i Catari durante la Crociata contro gli Albigesi e che quattro fedeli portarono via durante l'ultima battaglia dalla fortezza di Montsegur, calandosi per centinaia di metri negli strapiombi intorno alla montagna?
L'intera area era stata poi secoli dopo ultimo rifugio dei Catari, la setta gnostica completamente annicchilita alle forze cristiane che per estirparla indissero perfino una crociata, quella celebre "degli Albigesi".

Cosa trovò Sauniere? Un segreto così importante che fu convocato d'urgenza a Parigi, dal cardinale di Francia, per discuterne. Dopo numerosi conciliaboli con il Vaticano, gli fu ordinato di chiudere e sigillare il tutto. Ma evidentemente qualcosa non riposizionò al suo posto, poiché Sauniere divenne ricchissimo e su consiglio della cantante lirica Emma Calvé, donò appunto l'oggetto misterioso a Gaudì.

Cosa poteva essere quell'oggetto? Certo era qualcosa di piccolo, non superiore in dimensioni a una scatola di scarpe, probabilmente…
Escludendo che fosse qualcosa di visigotico, magari qualche ornamento d'oro depredato dai barbari nelle loro razzie, occorre pensare ai Catari e alla crociata che subirono. Certo, politicamente in quella guerra c'era la questione del controllo del meridione della Francia da parte di stirpi rivali: da una parte le eretiche Provenza e Linguadoca, libertarie e tolleranti verso religione e cultura e di impostazione filo-catara, e dall'altra il nord assolutista e filo-cattolico.

La crociata si risolse a favore dei secondi, ma fu di una brutalità inaudita, si videro episodi inumani e i roghi degli adepti dell'eresia catara illuminavano a decine le notti. Si andò avanti così per trent'anni, anche se le persecuzioni non finirono certo con la tregua delle armi: le comunità catare dovettero rifugiarsi sulle vette più alte, come la celebre fortezza di Montsegur, a poca distanza da Rennes-le-Château, per resistere strenuamente alle forze crociate. In pochi ricordano che l'Inquisizione fu "inventata" in questa circostanza…

Per quale motivo la Chiesa di Roma aveva così tanta paura di questa setta ereticale che era diffusa, sì, ma che comunque era alquanto circoscritta alle zone più meridionali della Francia? La guerra distrusse la maggioranza delle roccheforti catare ma servì ad ottenere l'effetto opposto, spargendo sia nell'Italia settentrionale che in Catalogna e Aragona i profughi catari, che ebbero modo di fondersi con la popolazione e di diffondere segretamente il loro credo in quelle terre.

Questo accadde nel XIII Secolo: vale la pena dire come a questa crociata non parteciparono né i Templari né i cavalieri Ospitalieri, l'odierno Ordine di Malta; e anche che in soccorso ai Catari giunse l'aiuto (eccezionale nei termini) del re di Aragona Pietro II detto Il Cattolico. Il re, che fu scomunicato nonostanza la devozione dimostrata negli anni antecedenti, fu purtroppo ucciso nella battaglia di Muret del 1213.

Che dire di questo genocidio? E' bene ricordare come per i Catari Gesù non morì sulla croce e che non fosse figlio di Dio: ma un uomo illuminato, un re-sacerdote assimilabile a Melkisedek di Ur che scambiò con il profeta Abramo la Coppa della Conoscenza, ricavata dalla gemma che cadde a Lucifero durante la battaglia degli angeli decaduti. Per i Catari questa coppa era associabile al Santo Graal e passò di mano in mano a Giacobbe (quello della Porta Coeli), a Mosé, a Davide, a Salomone fino agli Esseni Genazeriti che lo passarono alla reincarnazione del Melkisedek originario: Gesù il re del mondo. Gesù che non morì sulla croce ma salvatosi dalla crocifissione grazie all'aiuto del fratello Giacomo, raggiunse la moglie-sacerdotessa Maddalena in Francia dove diede vita alla stirpe dei Merovingi.

Dopo lo spodestamento di questi ultimi ad opera di Carlo Martello, carolingio, i discendenti di Gesù migrarono al sud della Francia dove vivevano ancora a quel tempo…

Graal significherebbe, secondo questa tesi, "sangue reale": infatti solitamente la parola non è mai scritta senza l'epiteto "Santo", "Santo Graal": in latino medievale, San Graal oppure Sang Raal, "Sangue Reale". Il sangue dei re è quello di Re David di Israele, la stirpe davidica, la vera discendente dal primo uomo Adamo.

Le prove a sostegno di questa tesi sono tante e sorprendenti, a cominciare dal mai chiarito episodio delle nozze di Cana citato nei Vangeli. Se Gesù non è morto sulla croce, se si è sposato e ha generato figli, si comprende come il segreto del Santo Graal divenga il più esplosivo e potente strumento per disintegrare il mondo come lo intendiamo oggi.

Come si vede, una storia sufficiente a far bruciare sul rogo anche Dan Brown e il suo Codice da Vinci che ne narra le vicende, figuriamoci dei poveri contadini provenzali del 1200! Fatto sta che secondo queste tesi catare, il Graal inteso come coppa o gemma si è salvato nei secoli ed è stato nascosto da qualche parte proprio da quattro catari che calandosi come freeclimber dalle rocce a picco di Montsegur durante l'assedio crociato, riuscirono a sottrarsi al massacro degli uomini capitanati dal vile Simone di Monfort.

Ma dove era finito quell'oggetto? Ed era davvero la coppa-gemma di Melkisedek? La questione si complica alquanto "grazie" alla fantasia del trovatore Wolfram von Eschenbach, autore di uno splendido romanzo medievale sulla "qûete du Graal": il "Parzifal" è un'opera bella e misteriosa ambientata in un castello del Graal che sta sui Pirenei e che si chiama appunto "Montsalvesche", difeso da cavalieri che si chiamano "Templeisen" e che custodisce precisamente la reliquia, che non è la coppa del calice dell'Ultima Cena di Gesù (e in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue uscito dal costato dello stesso trafitto dalla lancia del centurione Longino), bensì una pietra, denominata "Lapis Exilis" (tradotto di volta in volta come "pietra esile" o "pietra del cielo").

Una pietra del cielo, come celeste era la gemma luciferina. Fatto sta che in tedesco Montsalvaesche vuol dire Monte Salvato, Monte Sagrato, Monte Serrato…

Seicento anni dopo, col rifiorire delle passioni romantico-esoteriche nell'800 tornò in auge il tema del Graal e della sua ricerca. Da qui nacquero gruppi occultistici anche inquietanti che diedero origine, tra gli altri al Nazismo; da qui il grande compositore tedesco Richard Wagner trovò ispirazione per creare un'opera splendida (per quanto tacciata di nazismo). Il "Parsifal" wagneriano riprendeva la storia duecentesca di Wolfram von Eschenbach e ambientava la ricerca del Santo Graal appunto nella Catalogna pirenaica… Anche se Montserrat non è a ridosso dei Pirenei, distante neppure è. E dunque quale posto era migliore di questo per custodirvi la reliquia delle reliquie?

Alla vicenda si interessò anni dopo uno schizoide fanatico di occultismo che però tanto lavoro a noi studiosi del mistero ha regalato: Heinrich Himmler, il capo delle Schutzstaffels, le famigerate SS dell'esercito hitleriano. Himmler per anni legò il suo nome alla ricerca di oggetti che confermassero le origini ariane (e dunque atlantideo-aghartiane) del popolo tedesco e come un vero pazzo girò il mondo, dal Tibet allo Yucatan, alla ricerca di reperti in grado di dimostrare questa superiorità.

Era ovvio che si interessasse (anche solo "per darvi un'occhiata") al Montsalvaesche wagneriano: perfino le leggende catalane dicevano che il Santo Graal era nascosto qui, sorvegliato dalla Moreneta.

Il Graal compare in tutte le saghe e le leggende celtiche, dove molto spesso le battaglie e le imprese cavalleresche sono simbolismi di un viaggio iniziatico, e dove la vita e la morte assumono lo stesso valore. Le prove, spesso sovrumane, a cui è sottoposto il cavaliere alla conquista del “suo” Graal, sono facilmente interpretabili come prove iniziatiche per raggiungere quello stato trascendente che è meta di ogni iniziato.

Man mano che ci si addentra nel percorso alla scoperta di questo mito ci si accorge che si ha a che fare con un simbolo universale, infinitamente più antico e più vasto del corpus di leggende medievali che lo hanno reso famoso.

Immagine
Una coppa preistorica ritrovata a Nazca, in Perù. Il simbolo della coppa è presente negli oggetti rituali dei ritrovamenti pre-colombiani

Paragonandone il significato con altre tradizioni, confrontandolo con simboli di altre culture, constatiamo che non si può restringere il Graal nella visione di un mito dell'Europa medievale, ma lo si deve collocare in un'accezione più ampia, sia storica che geografica; solo così si può cercare di avvicinarsi al suo reale significato. Occorre andare indietro nel tempo e, se i dati storici iniziano a sfumare nella leggenda, rivolgersi a quelle tradizioni mitiche apparentemente spazzate via dalla storia, ma che hanno lasciato profonde tracce nelle credenze popolari che in definitiva costituiscono la memoria storica dell'umanità.

Solo così potremo forse darci delle risposte su un mito apparentemente oscuro e misterioso, ed estrapolarlo da un contesto folkloristico fine a se stesso.

Quando ci si addentra nel mito del Graal, alla ricerca del suo vero significato, non è difficile trovarsi in una dimensione al di là del visibile. Inizia un percorso personale fatto di magia e mistero, e i confini tra conoscibile e inconoscibile diventano sempre più flebili. Il Graal è un mito senza tempo, un oggetto immateriale che ogni tanto sembra ricomparire dalle pieghe della storia per ricordarci il mistero della nostra esistenza.

Forse il Graal rappresenta l’esperienza evolutiva che è in ognuno di noi; forse è una profezia in attesa del suo inevitabile compimento.

Forse è la comune intuizione del Graal che ha guidato i Cavalieri di ogni tempo alla ricerca di un mondo migliore, in un percorso interiore verso il mistero più fitto; così come è stato per bardi e poeti di ieri e di oggi, attori inconsapevoli di un copione già scritto, tutti viandanti alla ricerca del Graal, la chiave per accedere a quella Conoscenza, la coppa da cui dissetarsi di quella “Eredità degli Antichi Dei” già presente in ciascuno di noi.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:09 
[wbf]LA VERA NATURA DEL MAGICO SHAMIR
A PROPOSITO DI UN'ANTICHISSIMA TECNOLOGIA PER LA LAVORAZIONE DELLA PIETRA SENZA L'USO DI STRUMENTI METALLICI

Di Lia Mangolini
Fonte: http://itis.volta.alessandria.it/episteme/ep6/ep6-mangol.htm

Storia e leggenda

"Il quinto mese, il sette del mese, corrispondente al diciannovesimo anno di Nabuchadnèsar, re di Babilonia, giunse a Gerusalemme Nabuzardàn, comandante della guardia, subalterno del re di Babilonia" (2 Re 25, 8). La prima volta che casualmente mi imbattei nello Shamìr, si trattava solo di un fuggevole accenno contenuto in un articolo che parlava della Massoneria, e diceva pressappoco quel che segue.

Durante la seconda conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (che la Bibbia chiama "caldei") nel 587 a.C. - con susseguente saccheggio dell'intera città, messa a ferro e fuoco, e deportazione dei suoi abitanti - dal Tempio di Salomone fu portato via tutto quanto c'era ancora di prezioso. Ma quasi ogni arredo e oggetto in oro e in argento era già stato sottratto dieci anni addietro durante il primo episodio di questo genere, quello portato a termine nel 597 a.C. dallo stesso Nabuchadnèsar, o Nabucodonosor (1). La spoliazione compiuta dai caldei - benché definitiva e, questa volta, completa - fu quindi, per forza di cose, più modesta quanto a valore venale, ma non per importanza. Oltre all'asportazione di tutti gli oggetti mobili, furono demoliti e portati via tutti gli accessori in bronzo del Tempio, compresa la grande vasca per la purificazione dei sacerdoti (2) e le due colonne, poste all'esterno ai lati dell'ingresso: modello comune a tutti gli impianti templari di questo periodo e di questo àmbito geografico. Le due colonne, delle quali la Bibbia riporta minuziose descrizioni (3), e alle quali Salomone aveva dato i nomi di "Jachin", quella di destra, e "Boaz", quella di sinistra (cioè, forse, "Stabilità" e "Forza"), erano cave. Fin qui, per quanto attiene la testimonianza "storica" dell'Antico Testamento. La leggenda riportata dalla tradizione midràshica (4), tuttavia, fornisce ulteriori dettagli. Insieme alle colonne fu asportato il loro contenuto: nella loro cavità, infatti, veniva conservato l'intero archivio storico del popolo d'Israele, assieme ai documenti che riportavano la summa di tutto il sapere e tutti i segreti scientifici. Pare poi che in seguito, per vie misteriose, quei documenti siano entrati in possesso della Massoneria, che li deterrebbe tuttora. Fra essi, era custodito il segreto di "qualcosa" che nessuno più sa cosa sia: il "magico Shamìr" (5).

Il mio secondo incontro - anch'esso fortuito - con lo Shamìr avvenne leggendo un altro midràsh e fu molto più illuminante; ma non a sufficienza. Il racconto riporta che, per la costruzione del Tempio (6), Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro (7), il metallo di cui son fatte le armi che portano morte.

L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr"(8). Dio stesso l'aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote.

Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.

Ma la storia racconta poi di come Salomone (in modo a dire il vero non troppo onorevole) riuscì a procurarselo. Il dèmone Asmodeo (che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti) fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico (o gallo cedrone, o gallina di brughiera, o aquila di mare, a seconda delle versioni), che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile. In quell'occasione, re Salomone riuscì con l'inganno a sottrarre il magico "tarlo" al gallo selvatico, che se lo era fatto prestare da Rahav per un caso di forza maggiore: il re infatti, proprio per costringere il pennuto a questo espediente estremo, aveva fatta porre sopra il suo nido una piccola cupola di vetro, separandolo così dai suoi piccoli. Volò verso occidente l'uccello disperato, in cerca di Rahav; quando tornò portava nel becco lo Shamìr, con il quale in pochi istanti riuscì a perforare o a disintegrare il vetro, lasciando poi cadere lo Shamìr, che Salomone lestamente raccolse. A lui che stupito chiedeva cosa mai fosse quella misteriosa e portentosa sostanza e da dove venisse, il gallo selvatico rispose che la si poteva trovare lontano, sulle Montagne dei Dormienti, e là lo condusse, dove il re ne fece scorta sufficiente a completare tutte le opere del Tempio che non potevano essere eseguite usando strumenti metallici. Particolare pietoso, si dice anche che il gallo selvatico, per la vergogna di aver perso lo Shamìr, si sia suicidato. Vedremo fra poco quante e quanto strette analogie (luoghi, personaggi, miracolose caratteristiche e modalità degli avvenimenti) questa leggenda mostri con le altre sparse in tutto il mondo. Il racconto dà inoltre una interessante precisazione: lo Shamìr - che, almeno in alcune versioni, a fine lavori venne restituito al suo custode - venne da Salomone riposto e in seguito conservato (era quello l'unico modo di trattarlo correttamente) in un cestino pieno di crusca d'orzo.

Ma che cos'era dunque lo Shamìr?

Particolari tecnici

Quella sopra riportata è solo una delle molte narrazioni relative allo Shamìr: segno che - malgrado l'incertezza dell'identificazione - a suo tempo era "qualcosa" di ben noto e diffuso. Infatti ho trovato più tardi numerosi altri dettagli. Provengono da almeno una quindicina di midrashìm diversi (alcuni dei quali molto antichi) ma sostanzialmente concordi sui punti principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i particolari che ne emergono sono i seguenti.

Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione.
E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti.
Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale (e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd" - N.d.A.) poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi (dalla letteratura rabbinica). Il fatto più straordinario fu che l'attrito (o l'azione) che segnò le gemme non produsse nessun residuo.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro (dal Talmud e dalla letteratura midràshica).
Lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare. Esso va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo.
Lo Shamìr rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l'aquila (o un altro volatile) a prenderlo. Era il più meraviglioso possesso del re.
Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr scomparve. (9)
Chiaramente, la leggenda su re Salomone e il gallo selvatico ha soprattutto le caratteristiche di un racconto immaginario. Contiene tuttavia un paio di indicazioni concrete, e inoltre alcune informazioni che potrebbero consentire un collegamento - lo vedremo più avanti - con miti consimili appartenenti ad altri àmbiti culturali, sia geograficamente vicini che inverosimilmente lontani. L'intero collage di citazioni midràshiche di Louis Ginzberg presenta da parte sua alcuni dati fantastici (la creazione dello Shamìr al crepuscolo del sesto giorno, insieme ad altre "creature soprannaturali"; il fatto che Salomone mandò l'"aquila" a prenderlo in paradiso), ma soprattutto vi dominano connotazioni e dettagli estremamente realistici, tali da suggerire fortemente l'impressione che la descrizione dello Shamìr che vi compare fosse frutto di osservazioni di prima mano, più che di pura fantasia. Un articolo di Phillip Clapham poi, citandone un altro pubblicato da Velikovsky sulla rivista "Kronos" (VI: 1) (torneremo più avanti su entrambi), aggiunge il particolare, tratto probabilmente da qualche altro midràsh, che anche le due Tavole della Legge, scritte da Mosè sotto dettatura divina, erano state incise usando lo Shamìr. Nel semileggendario "Testamento di Salomone" (del III° secolo d.C.) si narra inoltre che, durante la costruzione del Tempio, gli operai addetti ai lavori soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza: ogni giorno più pallidi, con profonde occhiaie, deperivano, non riuscivano più a lavorare, e ogni notte erano visitati da vampiri e dèmoni che li affamavano rubando loro il cibo (il che, a parer mio, significa che rimettevano anche l'anima). Quando incominciarono a morire, il re salì sul monte Moria e pregò Dio, il quale gli mandò in dono - tramite l'arcangelo Michele - il famoso anello d'oro, con incisi la stella e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza (in quell'anello fu più tardi incastonato lo Shamìr, che era una specie di rutilante "pietra verde", un "portentoso gioiello che irradiava luce"). Vampiri e dèmoni furono messi, al posto degli operai, a tagliar pietre giorno e notte. Questo è, più o meno, tutto quello che si sa sul "magico Shamìr". Complessivamente, dai brani citati si possono trarre le seguenti informazioni "tecniche":
1) lo Shamìr poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le pietre più dure - un midràsh dice "anche il legno duro come pietra" - diamante compreso (che, in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro; la sua azione non lasciava residui (10);

2) il suo aspetto era quello di un "qualcosa" delle dimensioni di un granello d'orzo, forse di colore verde;

3) non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro?

4) solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso prodotta;

5) non danneggiava la lana né la crusca, e - con qualche problema - si poteva manipolarlo a mani nude (11);

6) non inibiva la crescita delle piante;

7) con l'andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) "scomparve", o meglio "divenne inattivo" (12).

Appare piuttosto evidente che la descrizione di questo "qualcosa" fosse dovuta, in origine, all'esperienza diretta di chi con questo "qualcosa" aveva avuto a che fare, e che l'aveva usato. Ed appare ugualmente evidente - poiché all'epoca della stesura di questi testi, di cosa fosse di preciso lo Shamìr si era ormai persa la memoria - che le straordinarie caratteristiche di questo "oggetto misterioso" non sono riferibili ad alcuna delle più comuni interpretazioni che ne vengono date.

Il dizionario ebraico-italiano, alla voce "SHAMIR", elenca infatti diverse, mirabilmente eclettiche definizioni: 1) diamante (?) (sic); 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro. E questo è tutto.

L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di "niàr shamìr" che in ebraico moderno a tutt'oggi, correntemente, indica la comune "carta vetrata", cioè qualcosa che consuma e corrode.

Qui ci troviamo evidentemente nel campo delle ipotesi. Dirò di più, siamo al livello degli indovinelli da bambini: minerale, animale o vegetale?

Ora, è chiaro che siamo costretti a considerare attendibili i dati forniti. D'altronde, non abbiamo alternative. Quindi, sulla base degli elementi descrittivi a nostra disposizione, e alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, cercherò per prima cosa di escludere le interpretazioni "impossibili", e quindi (anche mettendo in atto i collegamenti cui prima accennavo) di identificare tentativamente il favoloso Shamìr. Ma che cos'era insomma?

Sette spiegazioni e mezza

MINERALE

E' doveroso oltreché pertinente, in questa sede, riportare le origini del termine e le sue successive modificazioni. "Shamìr" viene, pare, dall'antica parola indoeuropea "smer", che indica una "polvere minerale per levigare o segare"; e non si può negare che in effetti la funzione del "nostro" Shamìr sia quella, né che nei due vocaboli sia presente la medesima radice "SMR". In greco quel materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino "smericulum", in francese e in inglese moderni rispettivamente "émeri" ed "emery", in italiano infine "smeriglio".

In ebraico, come abbiamo visto, sono stati invece conservati sia il senso che, insieme, la forma della parola. Tutte queste versioni hanno sostanzialmente lo stesso significato: "smeriglio", per l'appunto. Solo che questa interpretazione non mi procura una particolare soddisfazione, poiché con quel termine si definiva (e si definisce tuttora) un notissimo abrasivo proveniente dall'isola di Naxos nelle Cicladi (che tuttora lo esporta), e ricavato polverizzando una locale varietà granulare compatta di corindone. Da nessuna parte sta scritto che fosse un dono divino gestito da un uccello, circondato da un alone di leggenda, né che avesse abitudini esplosive, o che facesse ammalare la gente, o che avesse l'aspetto di un granello d'orzo, o che si inattivasse dopo un certo tempo. Tutto ciò che questo materiale inerte sa fare è unicamente levigare e lucidare, più o meno come la normale pomice o la polvere di quarzo (c'è una bella differenza con quanto si legge a proposito dello Shamìr!). E a me questo non basta. Per cui, ritenendo valida soltanto - e soltanto in parte - l'affinità dell'uso, sarò costretta ad accantonare questa ipotesi. C'è una sola notazione interessante e curiosa da fare: "smeriglio" viene chiamata anche una specie di uccello predatore molto piccola appartenente alla famiglia dei Falconidi, ed è pure un altro nome con cui viene indicato lo sparviere. Ma vediamo ora cosa dice il dizionario.

"DIAMANTE" (?):

E' il dizionario stesso che, con quel punto interrogativo, manifesta nei riguardi di questa interpretazione la sua perplessità. Infatti (per quanto il termine "Shamìr" compaia diverse volte nei Libri di alcuni Profeti (13) a indicare qualcosa di più duro della roccia e del ferro), è chiaro che, accogliendo tale definizione, ciò che viene considerato, pure qui, è soltanto il possibile effetto, il risultato dell'azione svolta sul materiale lavorato. Anche questo punto di vista, in più, lascia aperti altri problemi, poiché un'incisione eseguita con una punta di diamante produce limatura o polvere, contrariamente a quanto veniva detto dello Shamìr (anzi era proprio questo, per gli autori dei midrashìm, uno dei suoi aspetti più straordinari). L'ipotesi, oltre tutto, diviene ancora più fragile se si considera che in teoria con quel "diamante" dovrebbero essere state tagliate in misura e rifinite le enormi pietre (14) messe in opera nella costruzione del Tempio. In ogni caso, l'impiego per quell'uso del diamante (pietra pure allora assai rara e preziosa, tanto da far parte forse del pettorale del Sommo Sacerdote) sarebbe stato insostenibilmente dispendioso. E, a parte questo, dove avrebbe potuto Salomone procurarsene i quantitativi necessari, visto che non risulta che in Israele né in Egitto o in altri paesi vicini esistano giacimenti diamantiferi? D'altronde, nemmeno tale lettura tiene in alcun conto le altre numerose indicazioni contrarie: né le dimensioni indicate, né il carattere "esplosivo" dello Shamìr, e neppure l'affermazione che col tempo esso divenisse "inattivo". Insomma, a parte l'effettiva "capacità" del diamante di tagliare qualunque pietra, non c'è nessun elemento che concordi. Cosa che, credo, ci autorizza a escludere questa identificazione.

E, poiché stiamo indagando sulla possibile natura minerale dello Shamìr, è in questa sede che devo inserire una ipotesi molto più originale ed interessante di quella dello smeriglio o del diamante, ma che gli antichi esegeti e autori di midrashìm non potevano certo prendere in considerazione, anzi non potevano neppure immaginare.

SOSTANZA RADIOATTIVA:

Sempre a partire dalla stessa (e unica) fonte di Ginzberg, altri ricercatori giungono a conclusioni completamente nuove e diverse che, sostanzialmente, vedono nello Shamìr una qualche - non ben precisata - forma di energia. Un articolo di David Salkeld (15) richiama ed approfondisce quello già citato di Velikovsky (16), il quale a lungo si occupò pure di questi problemi e le cui teorie "eretiche" sollevarono grande scalpore verso gli anni '50. Diversamente dagli esegeti biblici, sostenitori di più tradizionali interpretazioni (a giustificazione dei quali, comunque, è appena il caso di ricordare che non erano di certo scienziati dell'era nucleare), Velikovsky aveva invece preso in esame alcune altre caratteristiche dello Shamìr, da questi solitamente trascurate - immagino, per mancanza di spiegazioni sensate -: "colore verde" (forse), simile a quello di alcuni sali di elementi pesanti; corrosività nei confronti di tutti i minerali e metalli tranne il piombo; "inattivazione" nello spazio di 400 anni o meno. Era perciò giunto a identificare - per quanto non esplicitamente - lo Shamìr con qualche tipo di sostanza radioattiva. Poteva forse trattarsi del radium, o di un suo sale, o di qualche altro isotopo della serie dell'uranio, dell'attinio o del torio: purché avesse una "vita energetica" compatibile con la durata documentata dell'attività dello Shamìr (valutata in circa 900 anni, cioè dall'epoca dell'esodo a quella della distruzione del Primo Tempio; ammesso naturalmente, come ho rilevato alla nota 12, che si trattasse sempre dello stesso Shamìr). Se non è vera, è ben pensata, come diceva un mio vecchio maestro. Perché fin qui il discorso torna, o parrebbe tornare. Ma vedremo più avanti perché invece non sia così.

Salkeld cerca di avvalorare questa tesi con diverse argomentazioni.

E' un dato di fatto che oggi in natura i minerali radioattivi - per quanto forse più abbondanti in passato - sono rarissimi sulla superficie terrestre (3-4 grammi di radium dispersi in 2000 tonnellate di pechblenda), e possiamo supporre che, 3500 anni fa, chi non ne conoscesse le potenzialità ben difficilmente avrebbe investito il suo tempo e le sue energie per procurarseli con l'estrazione mineraria. E c'è inoltre il problema che, anche in questo caso, né in Israele né nei paesi limitrofi sono noti giacimenti di tali minerali. Tuttavia, poteva anche darsi che la miracolosa e inidentificata sostanza fosse stata trovata "concentrata" in superficie, cioè - per così dire - già pronta all'uso, e che, riconosciutene la natura "speciale" e le peculiari proprietà (ma come?), fosse stata conservata e quindi utilizzata nei modi già visti.

Per la supposta esistenza di questo elemento, Salkeld dà due possibili spiegazioni:

1) Precipitato con un bolide meteoritico. A sostegno di questa supposizione, vengono citati diversi elementi.

La presenza, nel racconto su re Salomone e il gallo selvatico, sia dell'Angelo del Mare che di un uccello: "segno" che lo Shamìr veniva dal cielo.
Una "pestilenza" verificatasi sotto il regno di Davide, durata tre giorni e che uccise 70.000 persone, portata a Gerusalemme da un "Angelo sterminatore che stava fra cielo e terra con la spada sguainata" (17): si trattava forse di "morte nucleare" da contaminazione radioattiva? Ma quale "peste", nucleare o biologica che sia, agisce solo per tre giorni?
Il "fatto" che, dopo quell'avvenimento, il re Davide - con grande costernazione di tutta la corte - divenne stranamente debole e impotente (ma aveva anche settant'anni!), e che pure Salomone più tardi fu ben poco prolifico. Secondo quanto Salkeld ipotizza, questi potrebbero essere indizi dei nefasti effetti delle radiazioni, prodotti dallo Shamìr sulla persona di chi, venutone in possesso, se lo fosse portato sempre addosso come un talismano celeste: l'uno e poi l'altro re, appunto.
Ora, a favore della tesi meteoritica, bisogna ammettere che è pur vero che molte leggende in tutto il mondo parlano di "pietre magiche" dai presunti straordinari poteri, di solito cadute dal cielo. E' parimenti vero che molti santuari e luoghi di culto divennero oggetto di particolare venerazione proprio per la presenza di un meteorite che, nell'anima popolare, avrebbe rappresentato il segno concreto di una particolare benevolenza divina verso quel sito: la Kaaba della Mecca e il Tempio di Diana ad Efeso, per non citarne che un paio. (Per converso, una credenza assai diffusa, e che si è in parte conservata anche fino ai giorni nostri, vuole che la caduta di pietre dal cielo e/o il passaggio ravvicinato di comete siano inesorabilmente portatori di guai, e strettamente connessi con pestilenze, carestie, guerre e catastrofi in genere.) Tuttavia, come lo stesso Salkeld riconosce, in nessun meteorite recuperato sono mai stati segnalati inconsueti valori di radioattività né, per altro, nessuno di essi è mai stato trovato dotato di particolari "poteri" (18).
I midrashìm affermano che lo Shamìr fu creato il sesto giorno: ciò, secondo Salkeld, sembra suggerire (oltre al fatto che forse era noto già in un lontano passato) che, in ogni caso, la sua origine sarebbe da collocarsi al tempo dei catastrofici sconvolgimenti della Creazione. La sua seconda apparizione - questa volta, "pubblica" -, nelle mani di Mosè, risalirebbe ai tempi dell'esodo: pure questo un evento collegato, secondo Velikovsky, ad altri disastri cosmici. E per concludere, anche la performance dello Shamìr che, come sopra detto, si sarebbe verificata durante il regno di Davide, avrebbe un'origine meteoritica. Comunque dopo la sua creazione, essa pure ovviamente "celeste", sia nell'uno che nell'altro caso (dell'uso che Salomone ne fece però non si parla) la presenza dello Shamìr sarebbe in relazione con la caduta di qualche bolide molto anomalo e strano. Ancora più strano, però, appare il fatto che questo tipo di detriti cosmici veramente "speciali" sarebbe caduto soltanto in quelle rare occasioni - sempre sul territorio di Israele - e poi mai più.

In alternativa, Salkeld propone una seconda, non meno immaginosa ipotesi.

2) Creato da scariche elettriche.

Sostiene Velikovsky che nel lontano passato elementi radioattivi, come quelli che oggi otteniamo artificialmente in laboratorio, potrebbero essersi formati "naturalmente" sulla superficie terrestre (a partire da altri elementi), nel corso di eventi eccezionali quali tremende scariche elettriche prodotte da un bombardamento cometario o meteoritico. Salkeld, cautamente, concorda, rammentando una delle geniali (e sconvolgenti per la scienza "ufficiale") previsioni azzeccate di Velikovsky: il quale era convinto che sulla Luna sarebbero stati trovati alti livelli di radioattività, e ne attribuiva la causa alle scariche elettriche interplanetarie di 2700 e 3500 anni fa, verificatesi nel corso delle presunte catastrofi cosmiche da lui teorizzate. Infatti l'esplorazione lunare gli ha dato ragione: che nel cratere Aristarco siano presenti emissioni di radon-222 di almeno quattro volte più alte della media lunare, è appunto per gli accademici un mistero senza spiegazione. Sfortunatamente, né Salkeld né - si pensa - nessun altro è attualmente in grado di calcolare di quale potenza, per "formare" sostanze radioattive da altre, inerti, dovrebbero essere le mostruose scariche elettriche intercorse, in ipotesi, fra la terra ed un altro corpo celeste, nel corso di un "incontro ravvicinato". Dipende, mi sembra, dalla differenza di potenziale fra i due oggetti. E nemmeno siamo al presente in grado di dire se quel fenomeno - non tanto le scariche, quanto le loro conseguenze - si sia effettivamente potuto verificare. Né, tanto meno, quando. O in concomitanza con cosa. Visto che di un simile evento non esiste alcuna memoria storica - e neppure, quanto a questo, leggendaria -, né testimonianza geologica o scientifica d'altro tipo, dovremo accontentarci di supporre che quanto affermato "potrebbe" - chissà quando - essere successo. Ma le prove sono un'altra cosa. Salkeld peraltro non insiste né sull'una né sull'altra teoria, consapevole del fatto che - se mai radioattività c'è stata - al giorno d'oggi non sarebbe ormai più rilevabile: in tutti i casi il normale decadimento avrebbe già da tempo reso qualunque materiale ("caduto" o "formatosi" in un passato così abissalmente lontano) nulla più che un innocuo pezzo di pietra (19).

Si limita a sottolineare, spezzando un'ultima lancia a favore dell'ipotesi nucleare in genere, che - come sembra accertato - in molti siti megalitici in Inghilterra (per la precisione, al centro di preistorici cerchi di "pietre erette") si registrano tuttora significative letture di radioattività - di origine ignota -, ovviamente residua rispetto ai valori presumibili all'epoca della costruzione. Indubbiamente erano luoghi sacri e speciali. Ma - e con Salkeld abbiamo finito - viene naturale chiedersi se questa "sacralità" fosse positiva o negativa. In altre parole (per quanto non sia chiaro come, all'epoca, fosse possibile misurare le radiazioni), se quei cerchi venissero eretti come strutture "off limits", segnali della pericolosità di un luogo cui non conveniva avvicinarsi, o per il motivo opposto (20), facendo salvo in tutti i casi il loro significato magico-astronomico.

Comunque, a puro titolo di curiosità, sarebbe interessante sapere cosa mai possa racchiudere - o racchiudesse - il sottosuolo del sito in cui fu eretto il Tempio: minerali radioattivi? metano? che altro?

A questo proposito è indispensabile un'osservazione.

Salomone era un pozzo di scienza, lo sanno tutti; era di una sapienza e di una saggezza strabilianti; da mezzo mondo tutti i più potenti re della terra venivano a Gerusalemme per consultarlo, per avere lumi. Se lo Shamìr era veramente radioattivo, e quindi gravemente deleterio per la salute, non è pensabile che, conoscendo tali proprietà negative o effetti collaterali indesiderati, fosse così incosciente da portarselo sempre addosso (meglio sorvolare sul fatto che obbligava i suoi dipendenti a maneggiarlo quotidianamente).

A quanto pare, invece, il "magico Shamìr" era qualcosa che si poteva - con molta precauzione, e probabilmente riportandone danni non indifferenti - manipolare ed utilizzare almeno per un certo tempo.

E allora non era radioattivo.

Infine, non concordano con questa sua presunta natura nemmeno altre affermazioni relative allo Shamìr, affermazioni in grado di invalidare anche altre tentate identificazioni: che non danneggiasse i materiali organici (la lana, la crusca), che non inibisse la crescita delle piante, che avesse la dimensione di "un granello di orzo".

Alla luce di quanto sopra esposto, mi sembra perciò inevitabile escludere anche l'identificazione "nucleare": con un certo disappunto, devo dire, poiché sembrava molto promettente, ed era sicuramente affascinante. D'altronde, i giochi sono aperti. Solo qualche tempo fa, un eminente studioso mi ha espresso molto seriamente la sua convinzione che il misterioso Shamìr altro non fosse che una specie di laser primitivo, in cui la luce coerente sarebbe stata prodotta (ma da quale fonte, non lo ha detto) facendola passare per un forellino, ottenuto dallo stampo (se di una certa dimensione) di un capello di un adulto, oppure da quello del capello di un bambino (se serviva un foro ancora più piccolo#65533;) (21).

E ora, possiamo tornare alle interpretazioni "tradizionali".

ANIMALE

"VERME":

Per la verità il midràsh che ne parla, nella raccolta di Ginzberg, dice che "la salamandra e lo Shamìr sono i più mirabili tra i rettili"; ma diversi altri racconti, e anche il dizionario, lo definiscono senza incertezze come "verme". Non mi è chiaro il motivo della forte propensione che un buon numero di autorevoli rabbini ed esegeti biblici ha manifestato - e forse manifesta tuttora - ad accogliere questa versione. In ogni caso, trasformare in "rettile" il "verme", o in alternativa il "tarlo" (o altro insetto), sembra proprio l'interpretazione di una interpretazione.

(Il termine "insetto", fra l'altro, deriverebbe dall'erronea traduzione del latino "insectator", cioè "tagliatore"). A me pare invece che tale significato possa essere utile solo ad indicare - come nel caso del diamante e dello smeriglio - l'azione meccanica ed un effetto consimile che tali animali potrebbero avere prodotto, ma di sicuro non sugli stessi materiali. A voler essere generosi, tuttavia, è comprensibile anche questa identificazione, alla luce del fatto che quando questi testi vennero messi per iscritto, nessuno già più sapeva per certo in che cosa consistesse né come operasse lo Shamìr. Ho letto anche una cavillosa (ed anche un po' pretenziosa) ipotesi, secondo la quale il "verme" potrebbe essere assimilabile ad un "serpente", animale mitico di cui le tradizioni religiose e cosmiche traboccano, ma onestamente non mi sembra che possa essere presa in considerazione. E poi, che razza di verme era? Uno che dopo quattrocento anni "diventava inattivo"? Non mi stupisce. Era "esplosivo"? Era come un grano d'orzo? Non impediva la crescita delle piante? Lo si poteva manipolare? A difesa di questa teoria (che, peraltro, si basa principalmente sul fatto che si dovesse trattare comunque di un essere vivente), si può dire solamente che, per tradizione, tutta la storia letteraria dell'antico Vicino Oriente - compresa ovviamente quella ebraica - manifesta un forte interesse per il ruolo, spesso simbolico, svolto da molti animali nella vita degli uomini, soprattutto in senso didattico, moralistico e sapienziale. In fin dei conti, né Esopo, né Fedro, né La Fontaine hanno inventato niente di nuovo. Così, nessuno dei lettori cui erano destinate queste favole e queste leggende si sarebbe stupito di trovare perfino le creature più umili - come potrebbe essere appunto il verme - che parlano con Dio, interagiscono con gli esseri umani, svolgono compiti vari.

Nel caso in esame, si diceva che quel singolare animaletto sarebbe strisciato dentro o sul pezzo da lavorare riuscendo a intaccarlo o a fenderlo con un taglio perfetto. Si diceva pure che un suo semplice tocco potesse scindere la pietra, che si apriva "come le pagine di un libro". Certo che il supporre che il "verme" avrebbe volonterosamente tagliato le pietre del Santuario (per compiacere Salomone, naturalmente) denota una grande fiducia nella pazienza e nell'abilità di chi lo doveva addestrare: come riuscivano a convincerlo o a costringerlo a collaborare? Per non parlare dei tempi di lavorazione. E non voglio nemmeno pensare a come dovesse sentirsi il gallo selvatico, mentre volava trasportandolo nel becco.

Insomma, oltre all'ovvia constatazione che il verme è "capace" di scavare (mele, di solito), non abbiamo nessun altro elemento che concordi. A riscattare, almeno in parte, la dignità del povero verme, c'è però una notazione bizzarra e anche un po' inquietante: si diceva che il suo sguardo facesse morire, così come quello di Medusa faceva impietrire. Ma, a parte il fatto che mi sembra piuttosto problematico riuscire a capire se il verme ti sta fissando o meno, francamente non so che cosa pensarne.

E' stato anche proposto che non propriamente di un "verme" si trattasse, ma di sue ipotetiche e particolari secrezioni corrosive. E questo potrebbe anche avere un senso, volendo sorvolare sulla proclamata natura di "essere vivente" dello Shamìr oltre che sull'indubbia difficoltà di procurarsi - forse strizzando gli sventurati anellidi - adeguati quantitativi di quella prodigiosa sostanza, a condizione però di mettere su un allevamento. Chi prende in considerazione una soluzione del genere non dovrebbe tuttavia dimenticare che il re Salomone (al quale l'anello fatato consentiva di parlare con tutti gli animali del buon Dio, con i quali aveva un ottimo rapporto) mai e poi mai avrebbe fatto una cosa simile. E' vero che già con il povero gallo selvatico non si era comportato troppo bene, ma strizzare i vermi, insomma...

Anche con il verme, comunque, abbiamo chiuso.

VEGETALE

"FINOCCHIO":

Per quanto riguarda questa modesta pianta mangereccia, non saprei davvero che proprietà possa avere nel campo che ci interessa, e mi spiace dover ammettere che non mi viene in mente niente. Ma, pur riconoscendo di non aver fatto approfondite ricerche sull'argomento, oserei dire che - probabilmente - il fatto che porti lo stesso nome sia sostanzialmente una coincidenza, e che l'umile finocchio non abbia proprio niente da spartire con il "magico Shamìr". Quindi, con rincrescimento, manderò anche il finocchio dove sono finite tutte le altre proposte.

Così, per risolvere il mistero di cosa potesse essere lo Shamìr, una volta eliminate tutte le interpretazioni a parer mio impossibili, esaurite tutte le altre eventuali identificazioni connesse ai regni minerale, animale e vegetale, non ci resta ormai più che il "paliuro". Ma chi, o per meglio dire "cosa" era costui?

"PALIURO" (Paliurus) - botanica:

Va sotto questo nome una pianta della famiglia delle Ramnacee, che ne comprende sei specie, cinque delle quali però (presenti in Cina e Giappone) non si trovano nei nostri climi. Quello che a noi interessa, poiché cresce in Africa e nell'Europa mediterranea, è il Paliurus spina-Christi, detto anche Paliurus aculeatus Lamarck, o più popolarmente "marruca", che è il nostro biancospino.

Viene descritto come un arbusto (ma può raggiungere anche i sei metri di altezza) molto ramoso e spinoso dal legno duro e resistente, con foglie alterne ovate, dotate di due stipole spinose disuguali. Porta fiori piccoli raccolti in cime, e frutti (drupe) con margine alato largo fino a tre centimetri. Il nome "spina di Cristo" deriva dalla credenza che dei suoi rami fosse fatta la "corona" con la quale Gesù fu proclamato "re dei Giudei". E' citato da Teocrito, Strabone, Euripide e Teofrasto, il quale nel IV° libro dell'"Historia plantarum" ne dà una descrizione un po' diversa; ma in sostanza, almeno apparentemente, è una pianta che non ha proprio niente di misterioso né tanto meno di portentoso. Sembrerebbe, purtroppo, che siamo arrivati a un punto morto. Ma, attenzione! Perché il profeta Isaia (a differenza di Geremia, Ezechiele e Zaccaria - citati alla nota 13 - i quali quando si riferiscono allo Shamìr intendono sempre qualcosa di "più duro del diamante"), tutte le volte che nomina quello stesso Shamìr, ne parla come di "spini e pruni" o di "rovi e pruni"? E' chiaro che per Isaia non si trattava di un minerale né tanto meno di un animale, ma di una pungentissima pianta, che di sicuro non era il finocchio, ma che - forse - poteva essere più o meno propriamente indicata con il nome - tradotto - di Paliurus. E allora - poiché non ci sono alternative - continuiamo su questa strada, per quanto cosparsa ed irta appunto di spine e triboli, e tentiamo di scoprire se ci sono altri elementi che stiano ad indicare che lo Shamìr fosse davvero un rappresentante (per ora in incognito) del regno vegetale. La nostra ricerca ci porterà, questa volta, fuori dai confini d'Israele, in luoghi anche molto lontani, impensati. Avrete parecchie sorprese.

Lo Shamìr e i suoi parenti

Oltre agli animali fantastici, dei quali le antiche tradizioni abbondano, tutti i miti parlano spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, purtroppo di difficile identificazione perché citate con nomi diversi e descritte in modo ambiguo. Il motivo è semplice: a differenza dagli animali favolosi, che compaiono sulla scena autonomamente, dotati come sono di esistenza e volontà proprie, le piante "prodigiose" si possono cercare, raccogliere ed utilizzare per gli scopi ai quali si crede siano adatte, e chiunque lo può fare. Tutta l'antica farmacopea è basata su questo. Ma è ovvio che, se l'"iniziato" intende conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali "filtri" o "pozioni" (d'amore, di morte, di forza o d'immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Troviamo quindi una quantità di vegetali capaci di prestazioni eccezionali in ogni campo, ma sfortunatamente non riconoscibili, o per via di informazioni scarse e/o fuorvianti, o perché realmente ormai estinti e introvabili. Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che "ha spine come il rovo, come la rosa", trovata da Gilgamesh in fondo all'Abzu (ma in seguito perduta), e che avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l'altrettanto enigmatica "pianta del parto" o "della nascita", che avrebbe consentito ad Etana (secondo la "Lista reale Sumerica", tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per cogliere la quale - primo essere umano nella storia - quel sovrano volò fino in cielo sulle ali dell'aquila. Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose (22). E vedremo poi che con impressionante frequenza ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch'esso di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell'Iraq e nell'Iran occidentale, le tradizioni dell'antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la vita e rende invulnerabili. Nei miti iraniani quell'elisir viene chiamato col termine avestico di "haoma" ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia delle Gnetacee, l'Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000 anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?). L'"haoma", che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene custodito, in questa versione, dall'uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli.

Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l'Ambrosia o Amrita, nettare inebriante o "soma" (in sanscrito; corrisponde all'"haoma") importantissimo nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei "asura" e li rende immortali. Pure in questo caso, il "soma" è tratto da una pianta - generalmente identificata con una liana rampicante della famiglia delle Asclepiadacee - che cresce su di un albero, vicino al Monte Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E' probabile che alla base di questo mito ci sia una antica origine comune con l'"albero della vita" della Genesi, che avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi.

Come si vede, l'àmbito geografico di diffusione di questa leggenda (o meglio corpus di leggende, che vede protagonista di un qualche "portento" un pennuto cui è affidata la custodia di una pianta prodigiosa) è assai vasto, spaziando dalle rive del Mediterraneo (attraverso l'Asia Minore, l'Anatolia e la Mesopotamia, fino alla valle dell'Indo) a quelle dell'Oceano Indiano. E non solo, poiché la ritroviamo perfino nelle lontane Americhe. Quanto poi alla sua antichità, si perde nella notte dei tempi.

Ma ciò di cui più in particolare volevo parlarvi sono i "parenti" dello Shamìr, anch'essi sparpagliati un po' in ogni dove; e non solo nel Vecchio Mondo, giungendo fino al Giappone, bensì - inaspettatamente - pure nel Nuovo, in Perù, Guatemala, Messico, Bolivia, per non citare che gli esempi che ho potuto vedere con i miei occhi. E ora la cosa si fa ben più interessante, e dobbiamo dire che siamo molto fortunati, perché infatti abbiamo il vantaggio di poter disporre non solo dei documenti scritti che riportano favole e leggende, ma di antichissimi manufatti realizzati con tecniche riconducibili soltanto alle affermate proprietà dello Shamìr. Tutti li conoscete.

Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica, inumana.

Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone, poiché metalli adatti non ce n'erano. Ma andiamo con ordine.

Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu "esposto" dal padre ed allevato - guarda caso - dal "nobile avvoltoio" Simurgh, il quale in questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino anestesista. Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua sposa "splendevano" per la presenza di un'"essenza divina", chiamata "farr" o "khvarnah" ("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell'investitura celeste, un re non poteva regnare. Sull'altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un "murale" che rappresenta l'eruzione - avvenuta nel 6200 a.C. - su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all'improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l'ossidiana, che nella "scala delle durezze" di Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell'epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime. Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano "camini delle fate", poiché le credono opera degli "angeli caduti" e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri. Scavati come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del "Paese fra i due fiumi", seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d'uso ma più che altro di opere d'arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l'impiego.

Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni - figure e scritte - delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto (23): iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?

E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato"; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l'elenco delle gemme del pettorale di Aronne cita, è vero, anche il "diamante", ma la cosa è fortemente improbabile per vari motivi: benché ritenuta anch'essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l'avrebbe fatto per un lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca soddisfazione all'occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato. E comunque, stiamo parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l'oggetto da lavorare era di grandi o magari grandissime dimensioni.

L'ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati) (24). Abbiamo, però, un piccolo problema.

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, al tempo di cui si parla non solamente non esisteva ancora niente di paragonabile a "un ottimo acciaio", ma il ferro stesso (per quanto riguarda attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell'epoca disponibili, per quel che troviamo scritto e per quanto l'archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame, argento, oro, piombo, stagno, o - nella migliore delle ipotesi - rame martellato e leghe di bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste. Ergo, a questo interrogativo tecnico non c'è risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote, dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all'epoca di Sargon il Grande di Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi.

Ma qui la datazione d'inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato. Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio nell'antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. "Civiltà della pietra", la chiamano anche infatti.

Dai siti di "Naqada" dell'oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 3500-3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo in quest'ultimo sito) di stupendo vasellame - integro o in pezzi - di svariatissimo disegno, e innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico. Non solo i più trattabili alabastro, ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce (25). Ora, secondo voi, gli egiziani amavano soffrire e rendersi la vita difficile? Non avrebbero potuto scegliersi, per fare le loro opere d'arte, qualche altro sasso meno ostico? O forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare - per loro, allora - quanto sembrano a noi oggi? In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra, un sistema diciamo così di pretrattamento che si avvaleva di un principio corrosivo, chimico, più che della forza bruta o dell'insistenza? (a me, per la verità, il discorso che "ma avevano tanto tempo a disposizione" è sempre sembrato una grossa sciocchezza). La cosa, date le loro profonde e vastissime conoscenze in ogni campo dell'alchimia, non dovrebbe stupire e non è nemmeno impossibile, come cercherò di dimostrarvi.

La tradizione, in effetti, afferma che i "sapienti" egiziani avevano messa a punto (a meno che non l'avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale "mistura vegetale" in grado di disgregare superficialmente qualunque - sia pur durissima - roccia o pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di "solvente", si sarebbe ricompattata rendendo all'oggetto l'aspetto e la consistenza originari.

Ad appoggiare questa tesi potrebbe esserci più di una prova. Guardate, ad esempio, la precisione di ogni amorevole dettaglio delle sculture a tutto tondo in granito o in basalto, e ditemi se non sembra anche a voi che quei minuziosi particolari siano stati modellati con la stecca piuttosto che scavati a colpi di scalpello. Lo stesso si può dire per la tecnica con la quale nei rilievi di Saqqara il fondo è stato mantenuto perfettamente piano (il che, lasciatelo dire a me, è una delle cose più difficili da fare), dove l'asportazione di tutto il materiale superfluo pare ottenuta livellando o spianando una sostanza cedevole anziché scheggiando con la sgorbia la dura pietra. Parlo però in prevalenza delle opere più antiche, e comunque di quelle più accurate, e presumibilmente più costose. Infatti io penso che più tardi quell'arte andò perduta, o perché l'applicazione di quel metodo era divenuta eccessivamente onerosa, o per la cessata disponibilità di quella materia prima, o per un qualche altro motivo. Tanto è vero che - come si può vedere - mentre agli inizi i simboli geroglifici aggettavano sui pannelli, in seguito verranno più semplicemente scavati nel loro spessore. E che molti dei rilievi successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi (26). Ma c'è dell'altro.

Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i blocchi che la compongono non sono legati con malta. E' stato trovato però, fra un corso e l'altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali. Era forse quel misterioso "solvente" che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante? Possiamo escluderlo?

Se fosse vero ciò che vi suggerisco, si potrebbe anche fare l'interessante osservazione che, in tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che - con l'aiuto della reazione chimica - avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi semplicemente appoggiati l'uno sull'altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici - il cui peso arriva forse a 200 tonnellate - della struttura interna, per la quale rimando agli studi di Pincherle) (27). Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si pensi l'estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo saputo dare spiegazioni davvero esaurienti.

Certo che quell'arte - come anche quella di movimentare e sovrapporre massi di peso ed ingombro immani -andò perduta, o venne comunque abbandonata quella tecnica. E come si spiegherebbe se no il fatto che, dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi piramidi in pietra, tutto quel che di "piramidale" ci rimane delle epoche più tarde sono soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di argilla. Ma torniamo a noi, perché vorrei parlarvi ancora un momento di un solo ultimo esempio di ciò che, a parer mio, può essere stato realizzato unicamente con "qualcosa" che sembra essere fratello gemello del mio Shamìr. Abbiamo già parlato (nota 25) del cosiddetto "sarcofago" posto nella cosiddetta "camera del re" nel cuore della Grande Piramide (cosiddetta "di Cheope", o Khufu) sulla piana di Giza, perciò del suo aspetto sapete già ogni cosa. Il problema che a me interessa però è solamente quello della realizzazione tecnica di questo oggetto. Per la precisione, della realizzazione del suo interno, poiché di quel sarcofago, o vasca, o cassa che sia (e può aver contenuto, per quel che ne sappiamo, qualunque cosa: oggetti o spoglie mortali), ciò che è più incomprensibile è il come sia stato svuotato. A meno di non accogliere l'ipotesi di Flinders Petrie, il quale in questo caso suggerisce l'utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani (manuali, s'intende), per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una velocità assolutamente impossibile da raggiungere con i mezzi (noti) dell'epoca, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate. Lascio a voi giudicare.

Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che "carote" della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del "sarcofago"), che sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn (28): all'indagine microscopica questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano - o sega tubolare - che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per ogni giro. Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale energia? Dunn è convinto che la risposta si trovi nell'uso di sconosciuti (e perduti) strumenti a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza: ma non vorrei prender posizione a questo proposito, poiché non ho difficoltà ad ammettere la mia ignoranza su tali argomenti.

Quello che invece mi ha colpito di più è un dettaglio degli esami condotti da Dunn, dal quale risulta che l'antico trapano a mano tagliò il quarzo che costituisce il granito più velocemente del feldspato, più tenero, che ne è un'altra componente. E vedrete fra poco che, ai fini dell'individuazione di questo "gemello" dello Shamìr, questo è il particolare più importante. Da tutto quanto sopra detto risulta chiara la convinzione sia di Flinders Petrie che di Dunn che siano stati usati particolari macchinari, ma di ciò non ci sono prove. Io penso invece che non di velocità e pressione si trattasse, né di ultrasuoni: il trapano avanzava veloce perché la pietra non opponeva resistenza; e mi pare più che evidente, in ogni caso, che quel tipo di lavorazioni in generale venisse effettuato trattando la pietra secondo le modalità della plastica anziché secondo quelle della scultura propriamente detta. Ci troviamo di fronte, a quanto pare, a un bell'esempio di applicazione del "rasoio di Occam": ma io credo che la soluzione più semplice - e quindi la più probabile - sia proprio quella che vi propongo.

Ma non pensiate - già ve lo avevo anticipato - che quel particolare procedimento fosse prerogativa ed esclusivo monopolio delle culture del Vecchio Mondo quale noi lo conosciamo. Tutt'altro. Dallo Yucatan a Tula, dall'Ecuador al Titicaca, molte culture precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell'argilla. Piuttosto che di oggetti di dimensioni contenute - ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi, aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette "pietre di Ica", fanno parte dello stesso mistero - si tratta qui però prevalentemente (sto parlando, nella fattispecie, degli impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con blocchi di granito che - a mio avviso - sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque altro metodo. E non voglio qui entrare nel merito di come diavolo facessero ad estrarre, trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune centinaia di tonnellate (problema posto ugualmente dalle consimili strutture egizie, siriane ed altre), limitandomi ad arrendermi di fronte all'evidenza che - in qualche modo - ci riuscivano: l'ipotesi meno sballata che mi viene in mente è forse proprio quella, già citata, dell'uso - anche qui - di frequenze ultrasoniche, ma l'argomento esula sia dal tema che stiamo trattando che, come ho detto in precedenza, dalle mie competenze. Per cui lascerò che se ne occupi qualcuno più autorevole di me.

Ma sovrapporre e incastrare a secco l'uno con l'altro quei massi incredibili è altrettanto arduo da comprendere. La mente si smarrisce nell'osservare i macigni ciclopici, con un numero terrificante di angoli (fino a quaranta) della più varia apertura, che compongono le stupende, perfette mur


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:12 
LO SHAMIR E GLI SCALPELLI DI LUCE DIVINA

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9651

Chiunque abbia una certa dimestichezza con la paleoarcheologia di certo conoscerà diversi siti archeologici risalenti, secondo la storiografia ufficiale, a un tempo in cui l’uomo iniziava a scoprire i segreti della metallurgia, della lavorazione del rame e successivamente del bronzo. Addirittura alcuni di questi siti risalgono a una preistorica età della pietra.
Il luogo e il tempo dell'invenzione del bronzo sono controversi. è possibile che la metallurgia del bronzo fosse stata inventata indipendentemente nella cultura Majkop del Caucaso settentrionale, risalente alla metà del IV millennio a.C., il che farebbe di loro i fabbricanti del bronzo più antico mai conosciuto, ma altri datano gli stessi reperti della cultura Majkop alla metà del III millennio a.C.
Tuttavia, questa cultura aveva soltanto il bronzo d'arsenico, una lega che si trova già allo stato naturale. Il bronzo di stagno, che si sviluppò più tardi, richiede tecniche più sofisticate di produzione: lo stagno deve essere estratto dalla miniera, principalmente come cassiterite, minerale dello stagno e fuso separatamente, aggiunto dunque poi al rame liquefatto per formare la lega del bronzo.
In Mesopotamia l'età del bronzo inizia verso il 2900 a.C., nel tardo periodo di Uruk, abbracciando l'antico periodo dinastico di Sumer, l'Impero accadico, i periodi antico babilonese e antico assiro e il periodo dell'egemonia cassita. Ma è il subcontinente indiano a possedere il primato rispetto all’area mesopotamica della produzione e dell’utilizzo di utensili di lega di bronzo già a partire dal 3300 a.C., data che segna ufficialmente l’inizio dell’età del bronzo nel vicino oriente, con la nascita della civiltà della valle dell'Indo. Gli abitanti dell'antica valle dell'Indo, gli harappa, svilupparono nuove tecniche nella metallurgia producendo rame, bronzo, piombo e stagno.

Immagine
Esempi di utensili dell’età del bronzo

Ciò comporta che, per la storiografia ufficiale, la costruzione delle imponenti opere architettoniche megalitiche e la precisa lavorazione con cui spesso le pietre utilizzate venivano incise o modellate, avvenne con utensili e strumenti fabbricati in rame o al massimo in bronzo; la scoperta della lavorazione del ferro avverrà infatti soltanto a partire dal 1200 a.C., per lo meno nelle aree di nostro maggior interesse (mesopotamia, egitto e valle dell’Indo). In mesoamerica, con la sola eccezione dell’impero Inca, non si andrà oltre il neolitico.
Ecco pertanto i primi grandi interrogativi che gli antichi siti megalitici pongono agli storici: in che modo gli antichi hanno trasportato blocchi di pietra pesanti decine se non centinaia di tonnellate come, ad esempio, a Stonehenge? In che modo sono state estratte dalle cave di origine e poi lavorate, e in alcuni casi perfettamente levigate, preparate per la “posa”, come per esempio a Baalbek? In che maniera sono state praticate le incisioni che possiamo osservare nelle rovine di Puma Punku, così come all’interno delle piramidi e dei templi egizi? Davvero tutto ciò è stato possibile con fragili e deboli utensili di rame o, nella migliore delle ipotesi, in bronzo?
Emblematico è il citato esempio di Puma Punku, località vicina a Tihuanaco, sito nelle vallate boliviane prospicienti il lago Titicaca.

Immagine
Dettagli della lavorazione praticata sulle pietre di Puma Punku

Le lastre di Puma punku sono fatte di granito e di diorite. Le cave di granito e diorite più vicine a Puma punku si trovano a circa 60 Km di distanza dalla città. Il che presuppone una sbozzatura nella cava e il successivo trasporto fino alla città per 20 Km nel deserto boliviano. Inoltre alcune pietre presentano delle incisioni o delle perforazioni della roccia di altissima precisione, perfettamente rettilinee e sottili (6 millimetri), oltre che parallele. Pare improbabile che siano stati fatti con strumenti di pietra o di bronzo, ma in qualche modo devono averlo fatto. Alcune delle rocce di Puma punku sono lavorate in modo tale da formare una serie di blocchi ad incastro, che presumibilmente avrebbero composto un muro.
La diorite è una roccia estremamente dura, ma questo sembra non aver rappresentato un problema nella sua lavorazione da parte delle popolazioni di 5000 anni fa. Esempi di lavorazione della diorite sono stati ritrovati in giro per il mondo. Come gli Egizi, che utilizzavano sfere di diorite per lavorare il granito, o per realizzare vasi ed intarsi di notevole qualità.
Ciò che colpisce l’osservatore è la massima perizia seguita dagli artefici di queste incisioni, accompagnata da una precisione millimetrica e dalla presenza di simmetrie geometriche, dal nostro punto di vista troppo complicate da realizzare attraverso il semplice utilizzo di utensili di bronzo.

Immagine
Esempi di incisioni geroglifiche egizie

Di teorie sulla costruzione delle piramidi ne sono state enunciate moltissime, dalla tradizionale e comunemente accettata “rampa” sulla quale centinaia, migliaia di lavoratori spingevano i pesanti blocchi su rulli o binari di legno, alla più controversa ipotesi di un particolare vegetale o sostanza in grado di plasmare la roccia, fino alla più incredibile possibilità di un coinvolgimento diretto da parte degli extraterrestri. Le stesse ipotesi valgono per le costruzioni ‘impossibili’ di tutto il mondo. Forse nessuna di queste è in grado da sola di dare una risposta definitiva al nostro quesito.
Mario Collepardi, riprendendo la teoria di J.Davidovits descritta in “The Pyramids: an enigma solved”, Hippocrene Books, New York, 1989, ci introduce alla seguente ipotesi che parte dal presupposto che fosse praticamente impossibile ritagliare, da cave rocciose, blocchi di pietra che in alcuni casi raggiungono un peso di oltre 2 tonnellate, con gli strumenti in pietra e rame disponibili in quell’epoca agli Egiziani. Secondo la teoria più comunemente accettata, infatti, si ritiene che grossi blocchi di calcare siano stati prima intagliati in forme prismatiche quasi perfette, quindi sollevati sempre più in alto con il procedere della costruzione, ed infine montati l’uno accanto all’altro per la loro sistemazione definitiva che dava forma alle Piramidi.
Secondo Davidovits, né una tecnica di lavorazione così precisa e geometricamente perfetta delle pietre, e neppure i mezzi di movimentazione e sollevazione di blocchi così grandi, erano disponibili agli Egiziani all’epoca della costruzione delle Piramidi. Davidovits avanza quindi una ipotesi alternativa per spiegare come gli antichi Egiziani abbiano potuto costruire opere così imponenti dotate di una precisa collocazione dei blocchi lapidei.
Vale subito la pena di precisare che la ipotesi di Davidovits si basa sulla disponibilità di particolari materie prime presenti nei luoghi vicini alle Piramidi, ma non disponibili in altri siti e quindi non utilizzabili al di fuori delle aree dove si trovano le Piramidi. Una materia prima fondamentale, distante non più di un chilometro dalle Piramidi, era costituita da un calcare marnoso, un minerale contenente carbonato di calcio (CaCO3) e argilla (H2O•SiO2•Al2O3) mineralogicamente ed intimamente tra loro frammisti. Questo calcare argilloso veniva mescolato con acqua e conservato in appositi canali scavati vicino al Nilo fino ad ottenere una sorte di fango nel quale il calcare era disaggregato dall’argilla.
Una seconda materia prima, assolutamente indispensabile per la trasformazione del fango contenente calcare e argilla in blocchi di pietra artificiale, era costituito dalla soda caustica (NaOH). Questo composto, del quale ovviamente gli Egiziani non conoscevano la composizione chimica, non è disponibile in natura. Tuttavia gli Egiziani,secondo Davidovits, avevano empiricamente scoperto che il composto, che oggi è noto come soda caustica, poteva essere ottenuto mescolando il minerale Natron (Na2CO3), disponibile in natura nelle aree prossime alla costruzione delle Piramidi, con acqua e con calce (CaO), a sua volta ottenuta riscaldando pietra calcarea. Come abbiano potuto riscaldare la miscela in modo efficiente rimane un mistero.
Le piramidi sono solo un esempio della straordinaria abbondanza, in tempi remoti, di manufatti realizzati nei più duri minerali esistenti, come ad esempio il basalto, che è uno tra i più antichi materiali lavorati dall'uomo. In Mesopotamia, in Egitto, in Asia Minore, tra il rovinoso sfasciume dei cumuli di blocchi calcarei in avanzato stato di dissolvimento e decomposizione, consumati dai millenni, statue, basamenti, pilastri e architravi in basalto emergono integri, come fossero stati fatti ieri. Superfici levigate, spigoli netti sui quali le intemperie di quaranta o cinquanta secoli praticamente non hanno prodotto neanche un graffio. E allora, quanto tempo ci sarebbe voluto a un operaio per renderli perfetti quali sono? E con quali utensili li avrebbe tagliati, rifiniti, levigati, incisi? Ma lo stesso discorso del basalto vale di sicuro anche per il granito o per il porfido e per tutte le altre rocce vulcaniche. Quanti anni avrebbe dovuto aspettare re Narmer per avere la sua coppa di porfido, se gliela avessero dovuto scavare a mano con una scheggia di granito?
Abbiamo esempi di incisioni, figure, scritte, delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7 sulla scala di Mohs che misura il grado di durezza degli elementi), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto, iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?

Immagine
La scala di Mohs

E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera?
Vasi, coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti presso il sito di Naqada in Egitto, risalenti al lontanissimo periodo predi nastico oltre 5000 anni fa, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile sembrano essere stati lavorati al tornio, cosa assolutamente anacronistica.
Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido, materiale di grande durezza, con cui oggi viene fabbricata tra le altre cose la pavimentazione stradale. E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce.
E’ paradossale che, gli antichi egizi (e come loro le altre grandi civiltà antiche) scegliessero tra le opportunità a disposizione i materiali più complicati da lavorare per il gusto di rendersi la vita difficile quando avrebbero potuto optare, per fare le loro opere d'arte, di qualche altro elemento meno ostico. Forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare, perlomeno di quanto sembrino a noi oggi. In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra e, considerando l’opportunità di accesso a conoscenze alchemiche testimoniate dagli antichi papiri e testi quali “Il libro dei morti”, la cosa non ci stupirebbe più di tanto.
Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato".
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica. Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Apparentemente senza attrezzi metallici, poiché metalli adatti e sufficientemente resistenti non ce n'erano. Gli strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto il livello indispensabile per saperla tagliare e in realtà non l’avrebbe raggiunto per molto molto tempo ancora.

Immagine
Esempi di costruzioni e lavorazioni “impossibili”: da sinistra Sacsayhuaman, Gobekli Tepe

D’altronde l’opzione diamante è accreditata anche per il sarcofago della “Camera del Re” della grande piramide di Cheope. A prescindere dal fatto se abbia davvero o meno contenuto le spoglie mortali del faraone suddetto, ciò che ci interessa è come possa essere stato svuotato il blocco di granito che la compone. Flinders Petrie, suggerisce l'utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una così elevata velocità impossibile da raggiungere manualmente, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate.
Anche la conclusione di Pincherle sull’utilizzo di scalpelli di un buon acciaio fatica a convincerci del tutto come unica soluzione e risposta all’interrogativo su come le grandi civiltà ai primordi della nostra storia siano state in grado di costruire monumenti e opere architettoniche di quella portata e di quella fattura.

Immagine
Il presunto sarcofago di Cheope

Ciò convalida ulteriormente il presupposto di Davidovits, ovvero che non fosse possibile effettuare le lavorazioni sopra descritte con il livello tecnologico raggiunto a quel tempo; presupposto che è anche quello di molte delle ipotesi approfondite dalla paleoarcheologia controcorrente. Ma seppur non in possesso delle tecnologie necessarie, queste epocali opere rimangono lì, ancora piene dei loro misteri e domande senza risposta. Se esse sono lì, qualcuno deve pur averle costruite… ma come, e quando?
Torniamo allora all’ipotesi del “punteruolo consacrato” in quanto abbiamo diverse testimonianze di un simile “oggetto” o tecnologia nella nostra misteriosa storia. In nostro aiuto arriva la dettagliata ricerca di Lia Mangolini su una antichissima tecnologia per la lavorazione della pietra senza l’uso di strumenti metallici.
Questa tecnologia è rappresentata dal misterioso oggetto presente nella tradizione ebraica chiamato “Shamir”. Questo misterioso e potente oggetto viene citato in numerosi midrash tra i quali quello riportato nella ricerca della Mangolini e che ci aiuta a introdurci nello studio di questo strumento.
I midrash sono definiti come narrazioni popolari che ampliano e arricchiscono di tradizione orale e di leggenda gli scarni testi dell'Antico Testamento. Spesso i midrashìm trattano le identiche storie ed i medesimi personaggi, fornendo talvolta su di essi indicazioni essenziali, ma non sono stati inclusi nella Sacra Scrittura per motivi dottrinari. Ne esistono a centinaia, di diverse epoche, soggetti e provenienze, raccolti in moltissime antologie.
Nel nostro caso il midrash che parla dello Shamir riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale facente parte del Tempio doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, il metallo di cui son fatte le armi che portano morte, evitando così di contaminare la sacralità del luogo.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr". Dio stesso, secondo la tradizione, l'aveva consegnato a Mosè sul Sinai, il quale se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Indizi sull’esistenza dello Shamir provengono da almeno una quindicina di midrashìm diversi, alcuni dei quali molto antichi, segno di un qualcosa di ben noto. Tutti sostanzialmente concordi sui punti principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i particolari che ne emergono sono i seguenti.
Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione. E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti. Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd". Poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi come la stessa letteratura rabbinica spiega. Il fatto più straordinario fu che l'attrito o l'azione che segnò le gemme non produsse nessun residuo.
Sembra proprio la descrizione di un processo industriale moderno a guida laser.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro così come possiamo leggere nel Talmud e nell’ambito della letteratura midràshica. Inoltre, sempre dalle stesse fonti, sappiamo che lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare, forse a causa dell’emissione di gas o di calore derivante da una possibile radioattività dell’elemento. Radioattività che giustificherebbe i malanni di Re Salomone e di Re Davide dopo l’utilizzo dello Shamir e della elevata mortalità di coloro che lo maneggiava per più tempo senza probabilmente le dovute precauzioni. Esso, una volta finito di essere usato va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo. Istruzioni troppo dettagliate per essere esclusivamente attribuite a un oggetto mistico solo frutto della fantasia dei redattori dei midrash.
Altre incredibili applicazioni dello Shamir sono descritti nel racconto di come Salomone riuscì a impossessarsi dello strumento in oggetto. Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile.
Come non collegare a questa descrizione le Migliaia di buche delle dimensioni di un uomo scavate nella nuda roccia vicino a Valle Pisco, Perù, su una pianura chiamata Cajamarquilla. Questi strani buchi (pare 6900), si estendono per circa 1450 mt in una banda larga approssimativamente 20 mt di terreno montuoso e irregolare e sono stati qui da così tanto tempo che le persone non hanno idea di chi li ha fatti e perché.

Immagine
Valle Pisco, Perù

Gli archeologi hanno immaginato che siano stati scavati per immagazzinare il grano ,ma una obiezione si presenta a questa ipotesi: perché i costruttori avrebbero sprecato anni di duro lavoro per fare depositi così piccoli, quando avrebbero potuto costruire meno camere, ma più grandi? Forse sono stati utilizzati come tombe per una sola persona a sviluppo verticale? Ma non ci sono ossa, artefatti, , iscrizioni, gioielli … nemmeno un dente o una frazione di capello è stato trovato nei buchi. Inoltre non hanno coperchi per sigillare come dovrebbe avere una tomba e non c’è storia sacra o anche mito che sono stati tramandati fino ad oggi per etichettarli come tali.
In alcune sezioni ci sono buchi fatti con perfetta precisione, alcuni allineamenti funzionano in curva ad arco, in alcune linee sono senza ordine alcuno. Variano nella profondità, da circa 6-7 metri a quelli che sembrano solo accennati. A tutt’oggi, nessuno ha idea del perché sono qui, chi li fece e che cosa avessero significato.
A meno che non fosse il tentativo di forestazione, suggerito dal midrash ebraico, utilizzando il “magico Shamir”, il che porta la presenza del potente oggetto, e dei suoi divini possessori, al di là dell’Oceano Atlantico. Questo avvalora l’incredibile ipotesi che gli Egizi o comunque qualcuno prima di loro, sia riuscito a raggiungere il Sudamerica, dando origine alle prime civiltà mesoamericane. Gli studiosi hanno stabilito che il giorno uno del calendario olmeco era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C., data della nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina al pari dell’anno zero del calendario cristiano. Ma il 3113 a.C. indica per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci africani dall'Egitto per mano di suo fratello Ra, verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre. Una storia che ricorda in qualche modo l’esilio di Enki verso l’Abzu ordinato da suo fratello Enlil.
D’altronde possibili prove di un retaggio comune, e quindi di un passaggio di proprietà dello Shamir tra le sponde dell’oceano ci vengono fornite da un misterioso sito archeologico trovato in Perù. Trattasi dell'antica città di Caral.

Immagine
La città di Caral

Tornando da questa parte dell’Oceano Atlantico abbiamo un altro esempio di possibile applicazione pratica dello Shamir: le tavole della legge incise dal “Dito di Dio” nella pietra, sul monte Sinai – altro esempio somigliante a una moderna lavorazione a guida laser. Uno dei primi a citare lo shamir associandolo a una tecnologia laser fu il matematico ed etnologo russo Matest Agrest Mendelevitch. Agrest deve essere ricordato per essere stato tra i primi scienziati a divulgare la tanto discussa teoria degli antichi astronauti. Insomma, almeno un decennio prima che identiche ipotesi fossero poi riprese, sviluppate e, purtroppo, a volte anche strumentalizzate.

Immagine

Nel 1995 pubblicò il volume “L’antico miracoloso meccanismo Shamir”, in cui identificava lo Shamir come uno strumento utilizzato per il taglio e l’incisione di pietre durissime. In questo suo volume Agrest ricorda come lo Shamir viene descritto nel Talmud, uno dei testi sacri dell’Ebraismo, come “…un ‘verme tagliente’ usato per scolpire i nomi dei Shevatim sulle pietre del Choshen” e nello Zohar, altro libro sacro degli Ebrei, importante per la tradizione cabalistica, come un “tarlo metallico divisore”.
Nella Bibbia, Geremia 17/1, è descritto come un diamante: “Il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, con una punta di diamante è inciso sulla tavola del loro cuore e sugli angoli dei loro altari…”; lo stilo era la penna usata all’epoca per incidere sulle tavolette di cera: poteva essere una specie di raggio laser ricavato appunto da un diamante?
Questo “verme di diamante”, adoperato per tagliare e forare, era considerato di natura divina e per questo motivo raramente affidato agli esseri umani. Agrest precisò che poteva essere stato descritto come un insetto a causa dell’errata traduzione della parola latina “insectator” (tagliatore), quindi scambiato per un “tarlo” perché praticava dei fori.
Tutto questo avvalora l’ipotesi che Mosè, guidando il popolo ebreo fuori dall’Egitto, abbia effettivamente sottratto agli egiziani una serie di conoscenze e di strumenti tecnologicamente avanzati, probabilmente da questi ereditati a loro volta da una civiltà ancora precedente ma paradossalmente più evoluta, antecedente anche ai Sumeri – sto parlando di Atlantide, o meglio dell’Atlantide così come descritta e immaginata dal Progetto Atlanticus.
Insieme di conoscenze e strumenti tecnologicamente avanzati in grado di entrare nei racconti e nei miti antichi come oggetti divini, confluendo forse nel significato del termine Shamir nella traduzione dall’ebraico, i cui significati sono: diamante, verme leggendario che tagliava le pietre, finocchio, paliuro. L’unica indicazione aggiuntiva viene dal termine "niàr shamìr" che in ebraico moderno indica la comune "carta vetrata", sempre riferendosi pertanto a qualcosa che consuma e corrode.
Ecco che allora nei molteplici significati che il termine Shamir racchiude possiamo individuare una parte della tecnologia che permise alle antiche civiltà l’edificazione di costruzioni megalitiche, la lavorazione e la messa in opera di blocchi di granito, porfido, basalto e altri materiali duri, l’incisione precisa e dettagliata di figure e scritte apparentemente impossibile.
Il verme leggendario che tagliava le pietre potrebbe essere il metaforico risultato dell’interpretazione che l’uomo antico poteva dare a un applicazione laser, sfruttando la concentrazione di luce che avrebbe potuto realizzarsi in quella pietra di colore verde della dimensione di un grano di frumento o d'orzo descritta nei midrash ebraici. Laser utilizzato per produrre le incisioni dei geroglifici e della scrittura su pietra così come le lavorazioni dei blocchi già visti a Puma Punku. Ad un uomo di 5-6000 anni fa certamente una tecnologia paragonabile al laser e dintorni sarebbe apparsa di origine divina; poiché non erano degli stupidi, avranno anche capito la potenziale letalità di un ipotetico strumento del genere e quindi è altamente plausibile che venisse coperto di segreto ed affidato solamente a gente degna, protetto quindi come uno dei segreti pratici della massoneria operativa di quei tempi.
L’associazione del termine “Shamir” al termine “diamante” potrebbe invece racchiudere un insieme di utensili che sfruttavano la durezza del diamante per realizzare tagli o attività più pesanti: seghe circolari, trapani a punta di diamante, persino martelli pneumatici idealizzati dall’uomo comune come “scalpelli divini” in grado di tagliare, frantumare, levigare anche le pietre più dure.
Tale esempio di applicazione viene suggerito anche in un capitolo del libro “Scoperte archeologiche non auorizzate” di Marco Pizzuti. In questo capitoletto si dice, tra le altre cose, che ad Abusir sono ancora presenti giacimenti di durissima diorite e graniti con tracce chiarissime di carotaggi che di certo non avrebbero potuto essere effettuati con scalpelli di rame. Nel libro viene sostenuto che questi fori presentano un tipo di scanalatura perfetto quanto quello delle moderne trivelle a punta di diamante. Si dice inoltre che secondo il testo dell'Agada lo shamir era in grado di frantumare qualsiasi materiale.

Immagine
Esempi di odierni utensili di diamante: punte, seghe circolari

Shamir significa anche finocchio, accostandosi pertanto al mondo vegetale e quindi all’ipotesi, mai del tutto scartata, di un impasto vegetale o di un acido di origine vegetale, in grado di plasmare la roccia, renderla malleabile e quindi più facilmente lavorabile.
Sembra sempre più evidente che lo Shamìr fosse un ritrovato tecnologico-scientifico di forte interesse. Non il più importante (il primato spetta con ogni probabilità all’Arca dell’Alleanza), ma notevole abbastanza perché il primo midràsh citato lo nomini specificamente, a parte. E comunque di grande valore pratico, per lo meno nell'àmbito delle attività artigianali e artistiche della lavorazione delle pietre da ornamento, di quelle da costruzione e di quelle impiegate per la statuaria, i bassorilievi, le decorazioni et similia e cioè nei settori istituzionalmente addetti alla realizzazione esclusiva di opere e manufatti "sacri", destinati a mostrare il fasto e la magnificenza di divinità e di regnanti. Tutto ciò che lo riguardava era un "segreto di Stato".
Faceva infatti parte anche lo Shamìr, di sicuro, di quel limitato e perciò inestimabile patrimonio di riservatissime, enigmatiche conoscenze scientifiche e culturali (astronomiche, mediche, chimiche, arte dello scrivere e quant'altro) che erano proprietà privata di tutte le Supreme Autorità. Quelle cognizioni che, rappresentate da un qualche "magico" oggetto, da un'arma "fatata", da un "potente" talismano o da una "mistica" sostanza, costituivano il "segno" tangibile della "rivelazione" di Dio concessa solo a chi ne fosse "degno"; della benedizione del cielo; del riconoscimento divino del diritto di un sovrano a regnare. Solamente pochissimi eletti - per celeste privilegio - potevano accedervi. I Sovrani consacrati. Gli Unti del Signore. Ma insieme a loro anche i Sacerdoti. Gli Iniziati. I Maghi. Gli Stregoni.
Ovvero tutti coloro che, dopo il Diluvio Universale, al termine dell’Età dell’Oro caratterizzata dalla civilità atlantidea, furono selezionati dai sopravvissuti al cataclisma per riavviare la società umana consegnando loro quelle conoscenze e quegli strumenti necessari per farlo – ciò che il Progetto Atlanticus definisce come eredità degli dei. Una eredità di cui certamente lo shamir fa parte.
Certo, durante l’età dell’oro, qualsiasi processo industriale o edile prevedeva l’utilizzo di tali applicazioni essendo il risultato del livello tecnologico raggiunto da quella mirabile civiltà. Successivamente al diluvio solo pochissime e limitate persone entrarono in possesso di questi strumenti utilizzati esclusivamente per utilizzi legati all’ambito sacro o bellico, comunque come estrema ratio, per sancire il potere e il dominio di chi li possedeva nei confronti degli altri. Basti pensare alla campagna militare di Giosuè in palestina al ritorno degli ebrei dall’Egitto.
Proviamo allora a immaginare un antico cantiere in cui i costruttori potevano utilizzare simili ritrovati tecnologici: seghe circolari in diamanti, composti in grado di ammorbidire la pietra più dura, tecnologia laser e, perché no, onde sonore per movimentare gli elementi più pesanti, così come narrato nelle leggende tibetane. Ovviamente una simile visione poteva essere interpretata dagli uomini dell’età del bronzo esclusivamente come espressione di un potere divino oppure, come ipotizzato dal Progetto Atlanticus, come “ricordo” dell’espressione della potenza divina. Trattandosi infatti di oggetti mitologici di estrema rarità, tanto che Salomone dovette letteralmente rubare l’unico esemplare per potere permettere l’edificazione del tempio, è difficile sostenere che con così pochi utensili a disposizione si sia potuto provvedere all’edificazione di così tante opere.
A meno che tutte queste non siano state originariamente costruite durante l’età dell’oro, prima della fine della glaciazione di Wurm, quando questo tipo di tecnologia e sapere era comune agli ingegneri, architetti e costruttori. Costruzioni di più di 12000 anni fa, riutilizzate e parzialmente ristrutturate dagli uomini dell’età del bronzo, i quali ricordarono come le stesse furono edificate “dagli dei” con taluni strumenti i cui pochi elementi rimasti, facenti parte dell’”eredità degli dei” furono consegnati a uomini degni: sovrani, sacerdoti, maghi, scriba…
Ripercorrendo i possessori dello shamir possiamo pertanto tracciare il cammino che l’eredità degli dei ha seguito attraverso i millenni. Ci proveremo in un nostro prossimo articolo.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:14 
I BLOCCHI DI PUMA PUNKU

Articolo di Paolo Brega
Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO_ID=9683

“I costruttori di queste grandi fondamenta e fortificazioni ci sono ignoti, né sappiamo quanto tempo è trascorso dall’epoca loro, dal momento che oggi scorgiamo solo mura di raffinata fattura, erette secoli e secoli fa. Talune di queste pietre sono consumate e in rovina, e ve ne sono altre talmente imponenti che viene da chiedersi come poté la mano dell’uomo trasportarle fino a dove oggi si trovano. Oserei dire che si tratta delle antichità più vetuste di tutto il Perù … Ho chiesto ai nativi se risalissero al tempo degli Incas, ma gli indigeni, ridendo della domanda, mi hanno ripetuto ciò che ho già detto: vennero costruite prima del regno degli Incas; ma non sapevano indicare o ipotizzare chi o perché le avesse erette”
Questa frase, riferita alle rovine di Tiwanaku, è stata scritta dal cronista spagnolo Pedro Cieza de Leon, nel 1549. Egli si era infatti posto come obiettivo quello di ricostruire la storia degli Inca dalle origini ai suoi giorni e diede corpo a questo redigendo la “Crónica del Perú, que trata del Señorio de los incas Yupanquis y de sus grandes hechos y gobernación.”. 
Per redigere questa opera il Cieza si preoccupò di interrogare gli anziani saggi degli inca ancora sopravvissuti e ne elencò scrupolosamente i nomi e le famiglie di origine, consentendo anche agli storici attuali una attendibile indagine critica ripresa poi da W.Wetphal nella sua opera “Gli Inca” edita da Bertelsmann nel 1985. Fu anche da queste interviste che ebbe origine il pensiero che apre l’articolo.

Immagine
Pedro Cieza de Leon

Secondo una delle interpretazioni più diffuse, Tiwanaku significherebbe letteralmente “la città di Dio”. Quando gli Incas guidati dal leggendario imperatore Pachacutec giunsero a Tiwanaku per la prima volta, “si sentirono invadere dallo stupore“,: “costruzioni simili non ne avevano mai viste“.come riferiscono i manoscritti di Cobo e Barnabé (rispettivamente datati 1599 e 1657) successivamente antologizzati nella opera “Historia del Nuevo Mundo”
Non deve dunque destare meraviglia che già a partire dall’epoca Inca le leggende più incredibili e le storie più strane prendessero a circolare sull’identità dei misteriosi costruttori di Tiwanaku. Secondo una nota leggenda Inca, a Tiwanaku, dove il mondo era stato creato, il creatore del mondo Tikki Viracocha inviò i suoi due figli, Manco Capac e Mama Occlo affinché fondassero un nuovo impero.
Una storia questa che richiama un certo sincretismo tra i personaggi citati nella leggenda Inca con i miti sumeri degli Anunnaki. Ecco che Viracocha può diventare Anu e i suoi due figli, Manco Capac e Mama Occlo, rispettivamente Enki ed Enlil. Non guardiamo ai nomi che purtroppo poi col tempo e con le tramandazioni orali dei miti nei secoli tendono a sovrapporsi e confondersi l’uno con l’altro. Viracocha può essere qui Anu e in un’altra leggenda ricordare la figura di Enki, portatore di conoscenza e benevolo nei confronti dell’umanità. Guardiamo piuttosto alle figure e alla descrizione dei ruoli. Abbiamo anche nel caso degli Inca la figura di un dio e dei suoi due figli caratterizzati da una funzione colonizzatrice. Addirittura secondo ulteriori leggende il dio Viracocha era apparso presso il sacro lago Titicaca e da li avrebbe rifondato la Terra dopo il diluvio. E in questa immagine subito balena alla mente il ruolo di Enki e dei sopravvissuti dell’età dell’oro nello svolgimento della “Rinascita” così come previsto nelle teorie sostenute nell’ambito del Progetto Atlanticus.

Immagine
Il dio Viracocha raffigurato sulla porta del sole a Tihuanaco

Tutti sulle Ande sapevano di Tiwanaku, e pellegrini Inca (e non solo Inca) giungevano ad ammirare i grandi templi e gli immensi edifici di pietra, affrontando viaggi che potevano durare anche anni. Eppure, all’epoca degli Inca solo rovine restavano del grande centro cerimoniale. La fine di Tiwanaku resta infatti uno dei molti enigmi irrisolti dell’archeologia precolombiana.
L’intera città sembra essere stata sconvolta da un cataclisma di indescrivibile potenza, che squarciò i palazzi e ridusse i grandi templi, le strade e le piazze ad un unico immenso cimitero, seppellendo tutto sotto una coltre di fango spessa in alcuni punti anche 21 metri. Le distruzioni maggiori Tiwanaku dovette tuttavia subirle dopo la conquista. Divenuta ormai una sterminata cava di pietre. Intorno alla metà dell’800 le spoliazioni procedevano ad un ritmo tale che una linea ferroviaria dovette essere appositamente costruita per collegare Tiwanaku a La Paz. Ancora oggi risulta perciò difficile riconoscere molti dei luoghi tanto accuratamente ritratti e disegnati dai viaggiatori europei del tempo.
Fu Arthur Posnansky il primo a intraprendere scavi scientifici nella zona, tratteggiando dunque per la prima volta un quadro più chiaro dell’antica civiltà dei suoi costruttori e descrivendo la possibilità che l’area di Tiwanaku a 3844 metri s.l.d.m. sarebbe stata costruita circa 15.000 anni prima di Cristo. Questo dato non concorda con l’archeologia ufficiale, che in base al metodo del carbonio 14 ha datato alcuni oggetti ritrovati nei pressi della città al 200 d.C. 
Ma è altresì vero che una città, come qualsiasi altro monumento in pietra è molto difficile da datare, e non sempre ci si più basare sul metodo del carbonio 14. 
Inoltre, assumendo vera l’ipotesi della archeologia ufficiale, ci troveremmo dinanzi a una città di più di 40-50.000 abitanti in una regione che offre scarse risorse di cibo e ci possiamo accorgere subito confrontando l’ambiente circostante la città di Tiwanaku con l’immagine di ciò che doveva essere lo sfarzo e la magnificenza del sito archeologico durante il suo massimo splendore. Chi edificherebbe la propria capitale in mezzo al deserto? Chi costruirebbe una enorme città dove i suoi abitanti avrebbero difficoltà a trovare le risorse sufficienti al suo sostentamento? 
A queste stesse conclusioni era giunto già Squier nel 1877:

“Non è questa una regione che possa offrire nutrimento o sostentamento per una gran massa di persone, e certamente non è un’area dove ci si potrebbe aspettare di trovare una capitale. Tiwanaku forse fu un luogo sacro o un santuario, la cui posizione venne fissata casualmente, in base a un auspicio o ad un sogno. Mi è difficile credere che fosse la sede di un qualche potere centrale.”

A meno che, ai tempi della edificazione, l’ambiente circostante non fosse diverso, più adatto alla costruzione di una città di tali dimensioni e importanza nella zona. In tal caso dobbiamo per forza di cose tornare a un tempo precedente alla fine della glaciazione di Wurm. In tal caso i miti e le leggende Inca diventano più verosimili rispetto alle teorie dei nostri archeologi.

Immagine
Arthur Posnansky

Soprattutto perché l’area archeologica di Tiwanaku è composta da più siti tutti egualmente misteriosi e affascinanti: La Porta del Sole, la Porta della Luna, il Palazzo, il monolito El Frate, la piramide di Acapana e qualche kilometro più a sud-ovest l’enigmatico sito di Puma Punku, sul quale concentriamo la nostra attenzione.

Immagine
Immagine tratta da “Le mappe di Atlanticus – l’età dell’oro” http://goo.gl/maps/8FzOy

Ancor più di Tiwanaku, Puma Punku è in grado di suscitare nel visitatore profondi interrogativi su chi abbia popolato questa regione e su chi e come abbia edificato le incredibili opere presenti sull’altipiano a pochi chilometri dal lago Titicaca, anch’esso carico di misteri. Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare questo luogo è rimasto imbarazzato dinanzi alla peculiare lavorazione e forma dei blocchi di pietra disseminati nell’area. Ancora una volta le leggende locali ci indicano alcuni dicono essere Tiwanaku un tempio, costruito in un antico passato dagli uomini del posto per commemorare l’arrivo degli dei del cielo nella vicina Puma Punku. 
Impossibili lavorazioni, pietre perfettamente levigate, fori che solo chiamando in causa il leggendario Shamir di Re Salomone sarebbe stato possibile realizzare, (leggasi a tal proposito il precedente articolo appunto dedicato allo Shamir).

Immagine
Esempi di lavorazione praticati sulle pietre di Puma Punku

Il tempio principale del Puma Punku, affacciato su di una vasca cerimoniale o piazza sprofondata, perfettamente levigata, è una delle costruzioni in pietra più grandi del nuovo mondo, in cui a blocchi di pietra di 440 tonnellate ne seguono altri più piccoli, di 200, 100, e via via fino a quelli di 80 e 40 tonnellate.
Il Puma Punku colpisce per la dimensione dei blocchi, ma colpisce anche per la raffinatezza della decorazione scultorea. Ovunque giacciono sparsi al suolo parti di quelli che furono portali, finestre, nicchie o semplici blocchi di pietra. In nessun luogo del nuovo mondo, e probabilmente neppure del vecchio, si trova traccia di una lavorazione della pietra tanto precisa e raffinata. Come in un gigantesco gioco a incastri, ogni blocco era progettato per incastrarsi perfettamente con quelli adiacenti tramite un complesso sistema di indentature, incavi e morsetti metallici. Dai pochi frammenti rimasti, sembra che anche il tetto di questi straordinari edifici fosse costituito di enormi lastre di pietra.
Il rebus di Puma Punku sta tutto nella precisione millimetrica dei suoi blocchi di pietra, specialmente quelli a forma di H. Sono tutti della stessa grandezza come fossero stati prodotti in serie con una sorta di stampo, hanno linee perfette, scanalature levigate, fori di estrema precisione e, come gli altri blocchi, sembrano fatti per essere assemblati a incastro, al fine di creare megalitiche muraglie e insolite costruzioni. 
Molti ingegneri sono rimasti stupiti e ammirati da cotanta perfezione millimetrica, che sarebbe difficile da ottenere anche al giorno d’oggi con i moderni mezzi in nostro possesso. Questi enormi blocchi sono infatti composti di diorite, una pietra vulcanica dura quasi come il diamante, come potevano quegli uomini antichi tagliarli e scolpirli con tale precisione.

Immagine
I blocchi H

Una teoria, forse non del tutto azzardata, ipotizza l’esistenza ai tempi dell’età dell’oro antidiluviana di un canale fluviale che collegasse il lago Titicaca all’oceano Pacifico. Alcuni ritengono che i colossali resti ritrovati a non molta distanza dal Puma Punku rappresentino la possibilità dell’esistenza di un grande porto, anch’esso costituito di filari su filari di enormi lastre monolitiche. 
Teoria che consente quantomeno una spiegazione di come movimentare tali blocchi dalle cave di andesite poste a più di 60 km di distanza. Le cave di andesite, l'equivalente vulcanico della diorite, si trovano a 10 miglia di distanza. Stupisce parecchio come abbiano potuto trasportare pietre del peso di anche 130 tonnellate per quella distanza. Una delle cave si trova presso la penisola di Copacabana, sul lago Titicaca, distante circa 90 km da percorrere sul lago, più altri 10 km per raggiungere Tiwanaku.
La teoria del trasporto fluviale è stata sperimentata da Paul Harmon, un archeologo sperimentale che lavora a Tiwanaku, è quella del trasporto delle pietre sulle tradizionali zattere di canna. per trasportare una pietra di nove tonnellate, è stata necessaria una zattera larga 5 metri, lunga 14 a alta 2, composta da più di 3000 fasci di totora, la canna locale.
Se poi consideriamo che chi fu in grado di lavorare la pietra a quel modo probabilmente possedeva tecnologia in grado di sostituire preistoriche zattere con chiatte moderne possiamo pensare a un immagine di Puma Punku che nulla ha a che invidiare con i più moderni porti industriali. 
Puma Punku potrebbe essere quindi una sorta di “fabbrica” di moduli prefabbricati in diorite, sbozzati dalle cave presenti a 60 km di distanza (il che presuppone comunque la necessità di movimentare tonnellate di materiale), costruiti in serie con tecnologie sconosciute: alcune pietre presentano delle incisioni o delle perforazioni della roccia di altissima precisione, perfettamente rettilinee e sottili nell’ordine di pochi millimetri, oltre che parallele. Pare improbabile che siano stati fatti con strumenti di pietra.
Moduli prefabbricati che come enormi “LEGO” antidiluviani, furono progettati per essere estremamente funzionali per i progetti architettonici di quell’antica civiltà madre perduta dell’età dell’Oro? Certo immaginare un grande porto industriale sull’altipiano andino più di 15000 anni fa sembra essere una ipotesi azzardata. Altrettanto azzardate sono le sperimentazioni effettuate da alcuni ricercatori sulle applicazioni pratiche di questi blocchi H? I risultati sono sconcertanti.
E’ stato infatti osservato che le nicchie dei blocchi a forma di H presentano un incastro ‘a coda di rondine’. Tale tipo di incastro rispetto ad altri modelli di giunzione presenta il doppio vantaggio di massimizzare la superficie di contatto dei giunti e di avere denti trapezoidali, più difficile a separarsi, rendendo estremamente resistente l’intera struttura scaricando il peso o la pressione non solo sul singolo blocco, ma su tutti in caso di eventuale crollo. la stessa disposizione dei blocchi fa presagire che nel sito si erigesse un edificio posizionato con un sistema modulare simile a quelli moderni.

Immagine
Blocco H visto dall’alto con evidenza della struttura della nicchia a “coda di rondine” 

Un muro megalitico costruito sfruttando questa fattispecie di incastri risultava pertanto essere estremamente resistente sia in caso di attacchi nemici che in caso di eventi naturali.
Ma la versatilità dell’incastro a coda di rondine dei blocchi H si manifesta anche nella possibilità prevista da altri studiosi che queste nicchie fossero gli alloggiamenti di enormi cardini per altrettanto enormi porte, come ipotizzato da Cristopher Dunn. Sull’idea di Dunn noi del Progetto Atlanticus abbiamo immaginato, nella nostra follia onirica, che i blocchi H potessero fungere da alloggiamento per i cardini delle porte d’accesso al “porto industriale” così come descritto nei paragrafi precedenti.

Immagine
Esempio di cardine incastrato nel blocco H *

Ipotesi ancora più affascinante è quella suggerita dal ricercatore Paul Francis, realizzatore di modelli del Lucas Francis Studio, il quale, sempre partendo da modelli in scala dei blocchi H è stato in grado di realizzare una sorta di binario.

Immagine
Rampa di lancio costruita con modelli di blocchi H *

Binario che nella sua interpretazione poteva servire allo scopo di rampa di lancio di apparecchi volanti. Apparecchi volanti che peraltro esistono nell’archeologia precolombiana proprio come se questi oggetti fossero stati fonte di ispirazione per l’artigianato locale.

Immagine
Esempi di artigianato precolombiano

Ovviamente qui ci addentriamo nell’ambito della teoria degli antichi astronauti, ma a prescindere che si tratti di extraterrestri, atlantidei, civiltà perdute o esseri umani tali e quali noi, quanto trovato a Puma Punku rappresenta un enigma indecifrabile.
Indecifrabile a meno che non si prenda in seria considerazione la descrizione che la tradizione ebraica fa dello Shamir, il punteruolo sacro degli dei, lo scalpello di luce divina, che un midrash, descrivendo come Re Salomone ne fosse venuto in possesso recita:
“Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo.”
Se proviamo ad associare sincreticamente quelle lontane montagne mai esplorate dall’uomo con le Ande e Rahav, il principe del mare con Viracocha/Enki, ecco che il mito della tradizione ebraica chiude il cerchio della leggenda Inca con la quale abbiamo aperto l’articolo in oggetto.

* Immagini tratte dall'ottava puntata della quarta stagione di “Enigmi Alieni”, dedicata a Puma Punku


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:17 
LA SCONFITTA DELLA RINASCITA ENKILITA

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9694

All’interno del nostro blog abbiamo affrontato l’effetto delle migrazioni dei popoli indoeuropei nell’Europa gilanica secondo le teorie di Marija Gimbutas a partire da 7000 fino a 4000 anni fa con particolare attenzione alla cultura Kurgan e l’impatto di questo evento sui piani di “Rinascita” previsti dagli Enkiliti; Enkiliti; che rappresentano il Player B della nostra ‘scacchiera’ sulla quale si gioca da migliaia di anni una complicata partita.
Di fatto l’arrivo dei Kurgan sostituisce a una società fondata sul dono, sulla spiritualità e sulla cooperazione tra individui pari appartenenti alla comunità, una società invece fondata sul possesso, sull’autorità e sul dominio da parte del forte sul debole.
Oserei dire che con le migrazioni indoeuropee di 7000 anni fa il modello sociale Enkilita viene pertanto soppiantato dal modello sociale “Rettiliano”, riconducibile invece al Player C.

http://progettoatlanticus.blogspot.it/2 ... ni-di.html

Immagine
Le migrazioni dei Kurgan

Come dimostra la cartina geografica, popolazioni indoeuropee, patriarcali e guerriere, provenienti dall'area caucasica e siberica, si introdussero in Europa, estinguendo o assoggettando con le armi e la violenza le società gilaniche (vedi link http://italianimbecilli.blogspot.com/20 ... .html) cancellando di fatto l'eredità lasciata loro dagli insegnamenti enkiliti, durante il processo di Rinascita.
Le prime comunità umane, libere e pacifiche, fondate su una auto-organizzazione basata su cooperazione e solidarietà, che per migliaia di anni avevano prosperato in Europa e in Mesopotamia, vengono pertanto soppiantate dalle ondate delle popolazioni indoeuropee tra cui appunto i Kurgan.
Il modello sociale imposto vede come elementi dominanti la forza fisica e l'autorità maschile relegando la figura della donna (e della sua spiritualità) a un livello di schiavitù e di concubinaggio forzato. L'ordine anarchico venne represso, fu introdotto il concetto di proprietà (che poi sfocerà nella monetizzazione, nel mercato) soppiantando un efficace sistema economico basato sul dono.
Da questa logica oppressiva nacque quella che la storiografia ufficiale, riconosce come la "nostra" civiltà, le prime monarchie, i primi regni... omettendo tutto ciò che di buono vi era prima in una arcadica società così come venne progettata per l'uomo da Enki, dopo il diluvio, con il processo di Rinascita, grazie alla quale ebbero origine le prime società umane, tra cui i Sumeri, appunto poi soppiantate dall'arrivo degli Indoeuropei.

Immagine
I popoli coinvolti nella “Riconquista”

E' solo dopo il loro arrivo infatti che la linea del tempo inizia a registrare gli accadimenti storici che studiamo sui libri di testo, relegando alla figura di semplici miti ciò che precedeva la storia. Una storia prima della storia, volutamente cancellata dalla storia.
E' dalle ricerce di Marija Gimbutas che possiamo conoscere le misteriosi origini del popolo indoeuropeo. Dagli studi della Gimbutas emerge un quadro abbastanza semplice e lineare della comparsa degli Indoeuropei sulla scena della storia: migrando dalle loro regioni d'origine (Urheimat collocata fra gli Urali e il Danubio), le popolazioni indoeuropee si sarebbero sovrapposte un po' ovunque (dall'Europa occidentale all'India) alle popolazioni neolitiche preindoeuropee, come élites guerriere tecnicamente più avanzate (detentrici della metallurgia del rame e del bronzo), imponendo in gran parte alle popolazioni sottomesse la loro struttura sociale e la loro religione.

Immagine
I movimenti migratori dei popoli Indoeuropei

L'ipotesi più diffusa sulla tipologia di popolazione era quella di un popolo di guerrieri nomadi che, migrando dalle sue sedi originarie a causa della scarsità di risorse, avrebbe travolto le civiltà preesistenti, portando tuttavia delle innovazioni tecnologiche come la metallurgia del bronzo, poi del ferro, l'uso del carro da guerra e del cavallo.
Soprattutto fra gli indoeuropeisti di scuola tedesca, tra cui Gustaf Kossinna, lo studio sull'origine degli indoeuropei veniva mischiato con lo studio sull'origine Germani, che si presentavano come guerrieri patriarcali rozzi e feroci, primitivi e nomadi, in opposizione all'avanzata civiltà mediterranea antica greco-latina.
Andando assai più indietro nel tempo, nelle tradizioni fra storia e leggenda che circondano l'origine dell'età antica mediterranea, agli studiosi si offriva il modello dell'invasione dorica che, intorno al 1100 a.C. avrebbe spazzato via la civiltà micenea preesistente, anch'essa indoeuropea (e non meno guerriera, visto che aveva sopraffatto la civiltà asiatica dei Troiani).
Quanto al ramo indiano dell'indoeuropeo, o indo-germanico, era fin troppo facile ravvisare, nei Veda come nei più tardi poemi epici Mahabahrata e Ramayana, il sovrapporsi, a genti preindoeuropee, di una società guerriera, non dissimile da quella descritta nei poemi omerici.
Gli Indoeuropei erano quindi una popolazione nomade primitiva, guerriera, patriarcale, venuta dal nord che si sovrappose in una o più fasi, alle popolazioni preindoeuropee, soggiogandole e dominandole come élite guerriera, che poi impose la propria lingua alle genti sottomesse, secondo un modello che Andrew Colin Renfrew ed altri studiosi definiscono "mutamento linguistico per sovrapposizione di un'élite".
E' proprio l'arrivo degli indo-europei a 'rovinare' i piani di Enki e della Rinascita in quanto, sostituendo i loro paradigmi sociali a quelli tipici della Rinascita danno il via alla storia umana, alle sue violenze, alla prevaricazione del forte contro il debole, all'introduzione della proprietà privata e a tutte le conseguenze che ciò porterà nel corso dei millenni a venire.
Culture mai entrate in contatto con gli indo-europei (e penso ai nativi americani) sono rimaste invece più legate ai vecchi paradigmi della Rinascita enkilita e ai modelli delle arcadiche società gilaniche.
Ma l’azione degli antagonisti, avversari, alla visione Enkilita della gestione della razza umana non si ferma qui. Una più forte invasione avviene a partire da 4000 anni fa, proprio al termine delle migrazioni del ceppo culturale Kurgan. Trattasi delle migrazioni di quelli che verranno conosciuti nella storia come i “Popoli del Mare”. Migrazioni che partiranno dalla culla del Player A; il popolo eletto degli Enliliti: i Sumeri, o meglio gli Ebrei loro diretti eredi, così come possiamo dedurre dalle ricerche di Arno Poebel prima e dell’importante sumerologo Kramer, i quali riscontrano significative correlazioni tra Sumeri e Ebrei.
Dalla Bibbia sappiamo a un certo punto che “…Abramo uscì dalla città di UR dei Caldei…” per raggiungere la terra promessa, la terra di Canaan, su indicazione diretta di Dio/Yahweh/Enlil. Possiamo collocare temporalmente nel XVIII sec. a.C. la partenza della tribù di Abramo verso Canaan, ovvero 3800 anni fa, esattamante alla fine dell’azione Kurgan nel continente europeo.
Ma da ciò che narra la Bibbia possiamo osservare come il tragitto di Abramo compia una sosta nella città di Harran. Ed è in realtà proprio ad Harran che Abramo riceve da Dio la “missione” di scendere verso la terra promessa.

Immagine
Il percorso di Abramo

Al lettore interesserà sapere che il luogo in cui Yahweh scelse Abramo per questa audace missione è lo stesso luogo dove Marduk fece la sua comparsa dopo un'assenza di mille anni e fu più tardi il luogo in cui una serie di eventi incredibili cominciarono a susseguirsi. Questi furono avvenimenti di portata profetica, che influenzarono sia le questioni umane sia quelle divine.
Gli eventi chiave, raccolte per i posteri da testimoni oculari, cominciarono e finirono con l'adempimento delle profezie bibliche riguardanti l'Egitto, l'Assiria e Babilonia; e includevano la partenza di un dio dal suo tempio e dalla sua città, la sua ascesa ai cieli, e il suo ritorno dai cieli mezzo secolo più tardi.
E, per una ragione forse più metafisica che geografica o geopolitica, molti degli eventi cruciali degli ultimi millenni del conto cominciato quando gli déi, riuniti in consiglio, decisero di assegnare all'Umanità la civiltà, ebbero luogo ad Harran o nei suoi pressi. I dettagli di una tavoletta che facevano parte di una corrispondenza reale di Assurbanipal, il figlio successore di Assaraddon, si evince l'intenzione che Asarrandon meditava di attaccare l'Egitto, dirigendosi a nord invece che a ovest alla ricerca del tempio in legno di cedro di Harran. Lì vide il dio Sin appoggiato a un bastone, con in testa due corone. Il dio Nasku gli stava difronte. Il padre di sua maestà il mio re entrò nel tempio.
Il dio gli pose una corona sulla testa, e disse: "Viaggerai verso le nazioni, e ne sarai il conquistatore!" Egli partì e conquistò l'Egitto. Scopriamo inoltre che nella lista degli Dèi sumeri, Nasku era un membro dell'entourage di Sin.
Ma torniamo ad Abramo e alla sua tribù: dopo l’investitura da parte di Yahweh, Abramo e il suo popolo eletto, scende verso l’attuale palestina e la occupa. Se, come ipotizzato nelle teorie del Progetto Atlanticus, Yahweh fu davvero un Enlilita significa che l’occupazione della terra di canaan da parte degli ebrei di Abramo fu una ponderata decisione politico-strategica del principe ereditario Anunnako forse volta a boicottare i piani del fratello Enki, oppure a definire il proprio potere nella regione.
Il lettore potrebbe chiedersi a questo punto: “Ma non stavamo parlando di Europa? Cosa centra tutto questo con le migrazioni degli indo-europei e dei Kurgan?”. Centra, perché la Bibbia dimentica di dire che ad Harran la tribù di Abramo (che ancora non è nazione di Israele, in quanto sarà Giacobbe a ricevere questo incarico da Dio), si divide in tre sottotribù.
Una prima tribù, volge a sud, verso la palestina, e la Bibbia seguirà le vicende di questa, poiché da essa nascerà la nazione di Israele, prediletta dal Signore (ovvero Enlil)
Una seconda tribù si dirigerà a nord, risalendo il Danubio e occupando perciò la parte nord dell’Europa fino all’Irlanda dove verranno ricordati come i Tuatha de Dana.
Una terza prenderà la via del mare dando origine a tutta una serie di popoli che saranno noti per le loro abilità guerriere tanto da venire utilizzati come soldati mercenari e guardie del corpo del faraone (Shardana) in quell’Egitto, sempre fortemente collegato alla storia del popolo ebraico, tanto che durante il regno del faraone Akhenaton esisteva una vera e propria ambasciata dei “Popoli del Mare” in terra d’Egitto, il che rafforza l’affascinante ipotesi che il faraone ‘eretico’ e Mosè fossero la stessa persona, considerando l’origine comune di “Popoli del Mare” e Ebrei. Ricordate quanto accaduto nella città di Harran?

Immagine
I percorsi seguiti dalle tribù di Dan, dopo la separazione
di Harra, 4-3000 anni fa

Il suffisso DAN è comune nelle vicende di quelli che diventeranno i “popoli del mare”. Il nome Sher-Dan (SRDN) significa principi di Dan, e Tuatha de Dana sta a significare più o meno “quelli della tribù di DAN”.
è una coincidenza strana che essi portassero il nome del figlio di Giacobbe che amava l’arte della guerra. Secondo i mirabili studi di Leonardo Melis, possiamo solo ipotizzare che i Shardana, come gli Ebrei (Ossia quelle tribù che poi formarono il popolo ebraico), arrivarono in Egitto intorno al 1700 a.C. con l’invasione degli Hiksos, quindi c’era sicuramente un legame fra i due gruppi
Certo che per la loro abitudine di lasciare tracce del loro passaggio dappertutto, come il serpente, oggi possiamo almeno sapere dove si stabilirono. Sappiamo dagli Egizi che nell’ultima tremenda invasione verificatasi mezzo secolo dopo questi avvenimenti, intorno al 1200 a.C., insieme a Shardana (Sardi?), Thursha (Etruschi?), Shakalasa (Siculi?), Liku (Liguri?), Libu (Libici? Cartagine?) stavolta ci sono altri popoli che vengono dall’estremo nord dell’Europa. i Greci li chiamavano anche Iperborei e dicevano adorassero il dio Apollo, cui dedicavano templi e altari megalitici, a volte di forma circolare, come Sthonenge, ma anche come Circuitus in Sardegna presso Laconi, in una località chiamata stranamente Stunnu, un vocabolo dal suono incredibilmente simile al più famoso sito megalitico inglese.
Il nome di questi nuovi alleati: Saksar (Sassoni?) e Danen (Tuatha de Dana), o Danuna. Vedremo che non si tratta dell’unico richiamo al nome di Dan che noi troveremo nelle terre del Nord. Alcuni esempi: Danmark=Traccia di Dan, Tuatha de Dana=Gente di Dan o Tribù di Dan. Questi ultimi erano gli antenati degli Irlandesi e adoravano la Grande Madre, la Dea Danu. La stessa Irlanda è piena di toponimi Dun (Es. Duncan, leggi Dancan), ma anche Dan stesso (Danny boy)...
Sappiamo anche che Mosé affidò a Ooliab di Dan (insieme a Jezalel di Juda) la costruzione dell’Arca, che poi sarà custodita dagli stessi Daniti, prima a Dan, poi a Silo, infine presso il Tempio di Salomone.
In conclusione possiamo osservare il percorso degli Enliliti rappresentati dal popolo di Abramo che si divide ad Harram e che, muovendosi per le terre d’Europa, si integra e si mischia con le precedenti genti indo-europee giunte da est definite nelle ricerche della Gimbutas come Kurgan. A volte l’integrazione è pacifica, a volte violenta. Kurgan prima, tribù dei Dana poi, il risultato finale va comunque nuovamente a discapito dei piani di Rinascita Enkilita, con quella commistione di ruoli dei Player A (Enliliti) e Player C (“Rettiliani” – volutamente tra virgolette) che caratterizzerà la storia d’Europa fino ai giorni nostri.
Qualcuno potrebbe obiettare a questa affascinante ipotesi chiedendo dove siano le prove. Ovviamente prove certe non ne abbiamo, ma altrettanto esistono numerosi indizi che inducono una ragionevole concretezza alla teoria fin qui esposta rendendo la stessa meritevole di approfondite ricerche a riguardo.
La prima su tutte le citazioni presenti nei testi sacri e nella mitologia dei popoli coinvolti, oltre che a diversi riferimenti storici, soprattutto nella storiografia egizia. Un ulteriore indizio sta nelle forti similitudini della foggia delle armi e delle vesti dei guerrieri etruschi, celti, ittiti, hyksos e via discorrendo.

Immagine
Spade etrusche a confronto con spada celtica
si noti la particolare foggia dell’impugnatura

Oltre alle evidenti analogie nel vestiario e nelle armi utilizzate dai guerrieri di Dan, siano essi etruschi, celti, irlandesi, ittiti o sardi, riscontriamo incredibili analogie anche nell’utilizzo di particolari simboli: la spirale e il fiore della vita, noto anche come rosa celtica. Troviamo esempi di questo simbolo nelle lapidi etrusche, in Galizia, in Transilvania, in Irlanda e, di nuovo, nelle iscrizioni egizie del tempio di Abydos e persino nel Tempio di Salomone e sul Monte Sinai… addirittura nel palazzo di Assurbanipal.

Immagine

Immagine
Rosa celtica in Egitto e in Israele

Ma è ancora Lorenzo Melis a fornirci il più incredibile indizio: il calendario nuragico. Ecco come il ricercatore sardo descrive la scoperta.
La straordinaria scoperta di questo antico calendario di 4000 anni è stata fatta in contemporanea con un altro studioso, che già aveva decodificato l’”Abaco” degli Inca e il loro sistema di calcolo. Chiameremo convenzionalmente il nostro calendario “Nuragico”, anche se vedremo che fu usato parallelamente da altri popoli aventi la stessa origine del popolo che allora abitava la Sardinia. Fra tutti i Celti, col cui calendario abbiamo trovato incredibili somiglianze. Soprattutto col calendario festivo annuale. ARRODAS DE TEMPUS l’appellativo usato da Nicola De Pasquale, questo il nome dello studioso col quale siamo in contatto da alcuni mesi.
Nelle immagini che seguono vediamo una “Pintadera” sviluppata da De pasquale… a seguire la “Pietra di Nurdole”, in cui abbiamo ravvisato il calendario delle feste agricole e pastorali rapportate alla Luna e al Sole. Quest’ultimo schema o “ruota” corrisponde, come del resto corrispondono le festività, al calendario dei Celti raffigurato in basso a destra con segnate le feste. Le feste lunari, più importanti, formano la “croce” e quelle solari formano la “X”.

Immagine

Vediamo a seguire uno schema di queste feste.

LUNARI:

BELTANE (1° Maggio) = S. EPHIS (in Sardinia le feste hanno preso nomi di santi Cristiani)
LUGHNASAD (Agosto) = ARDIA e le varie feste equestri, candelieri… intitolate all’Assunta
SAMAIN (2 Novembre = SAS ANIMAS (il culto dei Morti. Le usanze sono identiche in sardinia )
INBOLCH (genn. Febbraio) = FESTE DEI FUOCHI (oggi intitolate a S. Antonio)
SOLARI: Solstizi ed Equinozi. In Sardinia hanno preso nomi Cristiani, ma le celebrazioni sono rimaste intatte.
21 Marzo: A Pasqua il rito del sacrificio del primo nato e l’offerta del germoglio di grano (Nenneri) dedicato una volta a Baku-Dioniso.
21 Giugno (LAMPADAS). Oggi S. Giovanni. Una volta dedicata all’iniziazione dei giovani. Accompagnati dal “Santuauanne”, il Padrino, i giovani si cimentavano nel salto del fuoco.
21 Settembre (Capodanni). Inizio dell’anno agricolo con “Sos akkordos”. Si stipulavano i contratti per la gestione di un campo o di un gregge.
21 Dicembre (Paskixedha)… Le celebrazioni antiche non figurano più, soppiantate da una celebrazione tropo importante per il Nuovo Culto: Natale. I sardi lo considerano una “Piccola Pasqua”, quindi una “Piccola Rinascita”.

Effettivamente il sole comincia nuovamente ad allungare le giornate.
Esistono quindi forti indizi di un retaggio comune di una origine “enlilitica” della cultura europea dominante. Una origine che partendo dai Sumeri, passando per Ebrei e la tribù di Dan, intesa come parte della più grande “famiglia” di Abramo, si mischia con i Kurgan indo-europei già presenti nel continente da millenni, andando a creare una nuova ‘visione del mondo’ a metà tra l’interpretazione Enlilita e quella Rettiliana.
Il rimpianto è che tutto questo ha tolto agli onori della storia l’esperienza Enkilita delle società gilaniche che caratterizzarono la storia d’Europa dalla fine della glaciazione di Wurm fino a 7000 anni fa, quando i Kurgan si affacciarono al di qua del Danubio. 5000 anni sono troppi per essere cancellati con l’ipotesi di società primitive incapaci di organizzarsi in società civili. L’avvento dei Kurgan prima e dei Dan dopo ha cancellato questa parte di storia.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:20 
I RE MAGI

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9879

Natale, tempo di doni, alberi addobbati e, per la tradizione cristiana, di presepi, ricchi di pastori e pecorelle venuti alla grotta di Betlemme per celebrare la nascita di Gesù Bambino posto nella mangiatoia tra il bue e l’asinello in perfetta sintonia con la tradizione iconografica cristiana.
Nel mio presepe di quando ero bambino gli ultimi personaggi a festeggiare la venuta del Salvatore erano i Re Magi: con i mantelli colorati, i turbanti, le lussuose vesti intessute d’oro, i doni preziosi e i cammelli, venivano posti sempre più vicino alla capanna, un po' alla volta ogni giorno, fino a giungere, giusto in tempo per l’Epifania, a consegnare i doni a Gesù.

Immagine
"Adorazione dei Magi" di Andrea Mantegna
Trittico degli Uffizi, Galleria degli Uffizi, Firenze

Ma nonostante nell’immaginario collettivo la figura dei Magi sia così conosciuta tra i Vangeli canonici è solo Matteo a parlarne. E lo fa in modo frammentario non offrendo informazioni relativamente all’origine e all’identità di questi personaggi “…venuti da Oriente… seguendo il suo astro…” (Mt 2,1-12)
Per svolgere la nostra indagine sull’identità dei Re Magi partiremo proprio da questa affermazione sul luogo della loro origine che trova conferma nel “Vangelo dell’infanzia Armeno”, un testo apocrifo non accettato dalla dottrina cattolica. In questo testo vi è però la descrizione più dettagliata dei Magi tra tutti i testi della tradizione ed è la fonte per la quale possiamo conoscere i nomi dei Magi, nomi di cui non c’è traccia nel Vangelo di Matteo”.
“Quando l’angelo aveva portato la buona novella a Maria era il 15 di Nis#257;n, cioè il 6 aprile, un mercoledì, alla terza ora. Subito un angelo del signore si recò nel paese dei persiani, per avvertire i re Magi che andassero ad adorare il neonato. E costoro, guidati da una stella per nove mesi, giunsero a destinazione nel momento in cui la vergine diveniva madre…
… In quel momento il regno dei persiani dominava per la sua potenza e le sue conquiste su tutti i re che esistevano nei paesi d’oriente, e quelli che erano i re magi erano tre fratelli: il primo Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi. Essendosi uniti insieme per ordine di Dio, arrivarono nel momento in cui la vergine diveniva madre…”
Sappiamo quindi che i Magi venivano dalla Persia, una regione che nel primo secolo a.C. si estendeva dal Caucaso fino all’India, comprendendo le valli mesopotamiche e l’attuale Iran.

Immagine

La religione dominante nell’Impero Persiano era lo Zoroastrismo. Lo Zoroastrismo (definito anche Zoroastrianesimo o Mazdaismo) è una religione e filosofia basata sugli insegnamenti del profeta Zoroastro o Zarathustra, nato in Azerbaigian, ed è stata in passato la religione più diffusa nel mondo. Fu fondata prima del sesto secolo a.C. nell'antica Persia (attuale Iran).
Questa fede è chiamata dai fedeli zarathushti din (religione zoroastriana) dal nome del suo fondatore Zarathustra (derivato dal tardo medio-persiano, o lingua pahlavi, Zardukhsht anche Zardusht; anche dalla lingua f#257;rsì: Zardosht). I fedeli sono chiamati "zoroastriani" (lingua f#257;rsì: zartoshti, zardoshti; lingua gujarati: jarthushti).
Lo Zoroastrismo è indicato tradizionalmente anche con il termine Mazdayasna da#275;n#257; (medio-persiano d#275;n #299; M#257;zd#275;sn, religione degli adoratori di Mazd#257;) e loro stessi come mazdayasna (adoratori di Mazd#257;, medio-persiano m#257;zd#275;sn), indicandosi quindi come seguaci del dio creatore denominato Ahura Mazd#257; ("Saggio signore" o "Signore che crea con il pensiero"). Da qui la sua denominazione corrente di Mazdaismo o Mazdeismo ritenuta come l'unica corretta da alcuni iranisti.
Nodo centrale della religione è la costante lotta tra bene e male. Agli inizi della creazione, il Dio Supremo ("Ahura Mazda") che significa dal sanscrito "Grande Divinità", è caratterizzato da luce infinita, onniscienza e bontà; esso crea lo Spenta Mainyu ovvero lo "spirito benefico", opposto ad Angra Mainyu (o Ahriman) uno spirito malvagio delle tenebre, violenza e morte.
Il conflitto cosmico risultante interessa l'intero universo, inclusa l'umanità, alla quale è richiesto di scegliere quali delle due vie seguire. La via del bene e della giustizia (Aša) porterà alla felicità (Ušta), mentre la via del male apporterà infelicità, inimicizia e guerra.
Lo Zoroastrismo è stato per secoli la religione dominante in quasi tutta l'Asia centrale, dal Pakistan all'Arabia Saudita, fino alla rapida affermazione della religione islamica nel VII secolo.
Lo Zoroastrismo, nel tempo diffusosi soprattutto tra i popoli iranici d'Europa (Sciti e Sarmati, per esempio) e d'Asia, fu la religione favorita dalle due grandi dinastie dell'antica Persia, gli Achemenidi ed i Sasanidi. Comunque, poiché non sono sopravvissute fonti scritte persiane contemporanee di quel periodo, è difficile descrivere la natura dell'antico zoroastrismo in dettaglio.
La descrizione di Erodoto della religione persiana include alcune caratteristiche proprie dello zoroastrismo, come l'esposizione dei morti. I re achemenidi riconobbero la loro devozione ad Ahura Mazda nelle iscrizioni; comunque essi furono anche partecipi dei rituali religiosi locali a Babilonia e in Egitto, ed aiutarono gli Ebrei a ritornare nella loro terra natia, ricostruendo i loro templi, fatti che sembrano escludere che ci fosse stata da parte loro una imposizione dell'ortodossia religiosa sui sudditi.
Alcuni fra i concetti maggiori zoroastriani, assunti dalla tradizione vedica, ricordano da vicino i principi Enkiliti sanciti durante la Rinascita post-diluviana, con la quale il dio-Anunnako Enki, desiderava replicare l’età dell’oro precedente al Diluvio, come già descritto in precedenti pubblicazioni del Progetto Atlanticus.
La filosofia zoroastriana è riassunta da uno dei principali motti della religione: "Buoni pensieri, buone parole, buone opere".
Parità sessuale. Uomini e donne hanno uguali diritti all'interno della società.
Attenzione per l'ambiente. La natura svolge un ruolo centrale nella pratica dello zoroastrismo. Le più importanti feste annuali zoroastriane riguardano celebrazioni della natura: il nuovo anno nel primo giorno di primavera, la festa dell'acqua in estate, la festa d'autunno alla fine della stagione, la festa del fuoco in mezzo all'inverno.
Lavoro e carità. Pigrizia e lentezza sono malviste. La carità è vista come opera buona.
Condanna dell'oppressione tra esseri umani, della crudeltà verso gli animali e del sacrificio degli animali. Punti nodali della religione sono l'eguaglianza di tutti gli esseri senza distinzione di razza o credo religioso e rispetto totale verso ogni cosa.
Liturgia. Nello zoroastrismo l'energia del creatore è rappresentata dal fuoco. I devoti del culto solitamente pregano alla presenza di qualche forma di fuoco (o davanti a fonti di luce). Il fuoco comunque non è oggetto di venerazione, ma è utilizzato semplicemente come simbolo e punto centrale del culto zoroastriano.
Il legame al mondo Anunnako, o comunque Sumero può essere ravvisabile in uno dei principali simboli dello zoroastrismo che ricorda molto da vicino il cerchio alato del simbolismo sumero-babilonese.

Immagine

E’ interessante sapere a questo punto che Magi è la traslitterazione del termine greco magos (#956;#945;#947;#959;#962;, plurale #956;#945;#947;#959;#953;), che si tratta di un titolo riferito specificamente ai sacerdoti dello Zoroastrismo tipici dell'Impero persiano. Lo stesso Ludolfo di Sassonia nel suo Vita Christi, già nel 1300 affermava:
"I tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell'astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi”
In Erodoto la parola magoi era associata a personaggi dell'aristocrazia della Media ed, in particolare, ai sacerdoti astronomi della religione zoroastriana, che erano anche ritenuti capaci di uccidere i demoni e ridurli in schiavitù. Poiché il passo di Matteo implica che fossero dediti all'osservazione delle stelle, la maggioranza dei commentatori ne conclude che il significato inteso fosse quello di "sacerdoti di Zoroastro", e che l'aggiunta "dall'Oriente" ne indicasse naturalmente l'origine persiana. Addirittura, la traduzione dei Vangeli di Wycliffe parla direttamente di "astrologi", non di "saggi".
Gli antichi magi erano persiani, e poiché i territori ad oriente della Palestina biblica coincidevano con l'impero persiano, ci sono pochi dubbi sull'origine etnica e sulla religione di appartenenza dei personaggi descritti nel vangelo di Matteo.
Siamo pertanto in presenza non di Re, quanto di uomini saggi, esperti delle antiche arti scientifiche, comprendenti precetti alchemici e astronomici, probabilmente retaggio di conoscenze ancora più arcaiche, forse di un tempo perduto, a cui la stessa vicenda di Gesù Cristo sembra essere collegata.
Tra le scienze conosciute dai Magi vi era certamente l’astronomia. La tradizione infatti ricorda che fu proprio il loro interesse per i fenomeni ‘celesti’ a guidarli verso la Grotta di Betlemme. Ma siccome nessuna cometa transitò nel cielo nel tempo in cui si narra vide la luce Gesù Cristo, cosa attirò l’attenzione di questi esperti scienziati di 2000 anni fa?
Secondo calcoli moderni, infatti, la cometa di Halley, la più brillante fra quelle che hanno un periodo di rivoluzione breve, apparve nell’87 e nel 12 a. C., per tornare solo nel 66 d. C., quindi fuori dall’arco di tempo utile.
Intorno all’Anno Uno passò invece la cometa di Encke, ma non era visibile a occhio nudo. E infatti nessuno la notò. Si è pensato anche a una possibile cometa irregolare, ma ricerche nei testi laici antichi non hanno portato a trovare citazioni dell’astro.
L’inutile “caccia al tesoro” dura da secoli, anche perché la materia prima abbonda: infatti la comparsa di comete fu diligentemente annotata sin da tempi remoti sia in Cina che in Occidente. Limitando il campo alla letteratura latina, gli autori che trattarono l’argomento furono almeno quattro: Tacito, Svetonio, Plinio il Vecchio e Flavio Giuseppe.
Un’altra ipotesi venne formulata dall’astronomo polacco Keplero che nel 1604 osservò l’esplosione di una supernova, ma anche questa ipotesi dovette essere scartata: il fenomeno osservato dai Magi dura molti mesi mentre una supernova è in condizioni di massima luminosità solo poche settimane. Keplero cercò quindi soluzioni alternative intuendo una possibilità nuova e molto accattivante.
Lui stesso osservò una spettacolare congiunzione tra Giove e Saturno avvenuta nella costellazione dei Pesci alcuni giorni prima del Natale del 1603 e facendo dei conti a ritroso si rese conto che un simile fenomeno era avvenuto anche nel 7 a.C. e poteva benissimo avere avuto un grande significato simbolico per i Magi.
Negli anni ‘70 l’astronomo inglese dell’università di Sheffield, David Hughes, ha ricostruto l’evento con estrema ed anglosassone precisione. I Magi avrebbero previsto in anticipo le tre date del massimo avvicinamento di Giove e Saturno, cioè il 27 maggio, il 6 ottobre e il 1 dicembre del 7 a.c. Essi avrebbero interpretato la visibilità dei pianeti all’opposizione, cioè a partire dalla sera, come la data di nascita del Messia.
Questo evento si verificava intorno alla metà di settembre: così essi avrebbero intrapreso il viaggio durante l’estate ed avrebbero raggiunto Gerusalemme nel mese di novembre. Una volta giunti nella città furono interrogati da Erode, incuriosito dal loro viaggio. I Magi avrebbero rilevato oltre alla probabile data di nascita di Gesù anche il fatto che i due pianeti erano prospetticamente vicini in cielo già dalla primavera precedente.
Fu per questa notizia che Erode decise, per mettersi al sicuro riguardo alla venuta di un nuovo re che lo avrebbe detronizzato, di mettere a morte tutti i bambini di Betlemme al di sotto dei due anni. Secondo alcuni documenti recuperati in Cina, una “stella temporanea” apparve nel cielo intorno agli anni della nascita di Gesù, tra il 4 e il 5 prima dell’Era Volgare.
Forse non sapremo mai se ciò che raccontano le Sacre Scritture sia realmente autentico, o il frutto di numerose stratificazioni culturali che hanno trovato la loro sintesi nei Vangeli. è indubbio, però, che un evento nella volta celeste sconvolse in quegli anni la vita di numerose persone.
L’ipotesi meno accreditata è ovviamente quella ufologica, che peraltro può essere suggerita dagli stessi testi apocrifi, visto e considerato che nel Vangelo dell’infanzia Arabo Siriano, la stessa stella che li guidò da Oriente e Betlemme, li conduce nuovamente a casa, dopo essersi mutata in un angelo. Indi per cui difficilmente stiamo parlando di un semplice seppur straordinario evento celeste.
La stella di Natale che condusse i tre magi dall’Oriente verso la Palestina, non viene ad essere altro che un UFO e non un elemento astronomico o sovrannaturale. Infatti, l’oggetto è rimasto in cielo per mesi e mesi, spostandosi da un luogo all’altro per guidare separatamente i tre magi nel loro viaggio. Inoltre la “stella” viaggiava mantenendosi sempre bassa sull’orizzonte ed emettendo luce solo verso i magi, altrimenti sarebbe stata notata dagli astronomi del tempo.
L’oggetto luminoso, che aveva la forma dello scudo di Davide, volava poco sopra le teste dei magi e si fermò sopra il luogo della natività. In pratica la stella cometa era un aeromobile discoidale luminoso (una delle forme più comuni degli UFO) che infatti a seconda delle occasioni spariva, si fermava e poi riprendeva il cammino.
E’ altresì interessante notare che quando i magi andarono a Gerusalemme , dove furono interrogati da Erode il Grande, la “stella” sparì per poi ricomparire quando i magi abbandonarono Gerusalemme, e guidarli così dove era nato Gesù. Nei testi apocrifi si apprende il motivo per cui i magi decisero di inseguire la “stella”: i magi furono contattati ed istruiti sulla loro missione dagli occupanti di quella che viene descritta come una astronave luminosa.
Significativo a tal proposito il passo del Vangelo dell’Infanzia armeno nel quale si dice:
“Melkon aveva con sé mirra, aloe, mussolina, porpora, pezze di lino e i libri scritti e sigillati dalle mani di Dio.
Il secondo, il re degli indi, Balthasar, aveva come doni in onore del bambino del nardo prezioso, della mirra, della cannella, del cinnamomo e dell’incenso e altri profumi. Il terzo re, il re degli arabi, Gaspar, aveva oro, argento, pietre preziose, zaffiri di gran valore e perle fini. Quando tutti furono giunti nella città di Gerusalemme l’astro che li precedeva celò momentaneamente la sua luce.
Essi perciò si fermarono e posero le tende. Le numerose truppe di cavalieri si dissero l’un l’altro: - E adesso che facciamo? In quale direzione dobbiamo camminare? Noi lo ignoriamo, perché una stella ci ha preceduti fino ad oggi, ma ecco che è scomparsa e ci ha lasciati nelle difficoltà. »
Dove peraltro si afferma che i doni consegnati a Gesù non furono solamente i canonici oro, incenso e mirra, ma tutta una serie di altri oggetti preziosi, tra cui non meglio precisati libri scritti e sigillati dalle mani di Dio.
Forse libri in cui vi era contenuta tutta la saggezza di un tempo perduto. Quella saggezza di cui avremmo bisogno noi oggi e che non fu permesso nemmeno a Gesù Cristo di rivelare.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:21 
LA MOGLIE DI YAHWHE

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9935

Tre miliardi di persone guardano al loro Dio trascendente, creatore dell’Universo, onnipotente e metafisico ricercando in esso quei precetti di una spiritualità destinata alla salvezza della loro anima e del loro spirito, adeguandosi ai dogmi e agli insegnamenti delle grandi religioni monoteistiche mondiali. Questi sono cristiani, musulmani ed ebrei e il loro Dio è Yahweh.

Ciò che questi tre miliardi di individui non sanno è che il loro dio trascendente e metafisico… aveva dei genitori… e sposò sua madre. Qualcosa questo che non coincide con l’idea di un dio appartenente alla sfera spirituale metafisica.

Vediamo nell’articolo alcune tesi a confronto e alcune delle prove che hanno permesso a importanti ricercatori indipendenti e archeologi di giungere a conclusioni, che da sole, hanno il potenziale di demolire le certezze su cui si fonda il lato spirituale del “Grande Inganno” del Sistema ordito ai danni dell’Umanità

Immagine

Yahweh è una divinità antica e potente, l'origine di tutto, oltre che il fulcro delle tre grandi religioni abramitiche. Chiamatelo pure Yahweh, Dio o Allah, ma è con il primo nome che era noto secoli e secoli prima che il Cristianesimo e l' Islam diventassero ciò che sono ora.

Grazie al mirabile lavoro di ricerca di Alessio e Alessandro De Angelis si dimostra attraverso la paleografia e l'etimologia come Yahweh, il dio della bibbia, non sia nient’altro che una evoluzione degli antichi dei sumeri Enki ed Enlil. Una ricerca che porterà all'aberrante conclusione che il Dio delle grandi religioni monoteistiche avesse un padre e una madre; madre che poi prenderà come sposa. Riportiamo in sintesi le ricerche esposte dal prof. De Angelis e descritte nel libro “Oltre la mente di Dio”.

Nei testi sumeri di circa 6000 anni fa si parla del dio EN.LIL, che aveva l’epiteto di ILU.KUR.GAL, ovvero “Signore della grande montagna”; egli aveva tre figli, uno dei quali si chiamava ISH.KUR o “Signore della montagna”, difatti il glifo KUR in sumero significa “montagna” mentre ISH è un gioco di parole che deriva dall’unire l’accadico ISHA (signore) con la desinenza cananea ISH (montagna), glifo che viene tradotto in accadico con SHADDU, e che si evolverà in ebraico in El Shaddai, dove El vuol dire “Signore”, mentre Shaddai significa “montagna”.

Questo è l’epiteto con cui Dio si presenterà per la prima nell’Antico Testamento, quando in Genesi 17: 1,2 disse ad Abramo: «Io sono El Shaddai, cammina alla mia presenza e sii perfetto».

Ishkur prenderà il nome di Hadad in accadico, mentre per i cananei diventerà Baal Hadad. Gli Assiri cercarono di concretizzare il primo tentativo di monoteismo sul dio semitico Baal, tuttavia resosi conto che questo dio non era idoneo ad assurgere a tale funzione a causa della sua tradizione secolare, nonché dell’importanza che la sua figura ricopriva nel Pantheon cananeo, capirono che sarebbe stato arduo far traslitterare su di esso le caratteristiche di altre maggiori divinità.

Immagine
Per l'immagine a dimensione maggiore:
http://img90.imageshack.us/img90/645/2copiai.jpg


Il tentativo riuscì invece in terra egiziana, grazie al ruolo del faraone Akenaton che i De Angelis identificano proprio con il Mosè biblico ridisegnando in un colpo solo uno dei principali capitoli della storia ebraica e non solo ebraica.

Ma mentre il lavoro dei De Angelis è più orientato a rappresentare le divinità come semplici invenzioni del potere costruite ad arte per coercizzare l’umanità attraverso il terrore, il peccato, la colpa e giustificare il potere di quei sovrani e di quelle caste sacerdotali che 6000 anni fa si sostituirono alle “anarchiche” società gilaniche e al culto della dea madre grazie alla forza militare, il Progetto Atlanticus tende invece a identificare in queste divinità i sovrani superstiti di un lontano tempo antidiluviano e i miti le loro vicende, forse in taluni casi romanzate e certamente mitizzate dagli uomini delle prime civiltà post-diluviane.

Non invenzioni concepite dalla mente umana, ma esseri in carne ed ossa ricordati nella Bibbia con il nome di Elohim e nei miti sumeri con il nome di Anunnaki.

Su una cosa sia il Progetto Atlanticus che Alessio e Alessandro De Angelis concordano è che Yahweh di certo non è quel dio trascendente che miliardi di persone credono di adorare attraverso i culti disegnati ad arte da parte dei ministri delle più grandi religioni monoteistiche. La sua trascendenza è infatti direttamente confutata dai suoi comportamenti descritti nella Bibbia sicuramente più materiali che spirituali.

Egli era solito rimarcare la pretesa che il suo popolo non avesse altri signorotti all’infuori di lui. Questo lo faceva sempre. Poi passa ad affermare che i suoi soldati accampati non devono rubare, non devono uccidere i propri commilitoni, non devono desiderare la moglie del camerata della tenda a fianco e non devono commettere atti impuri. Yahwèh non voleva caos e pretendeva un esercito ben disciplinato, che non si azzuffasse per il furto d’oggetti del bottino di guerra o a causa dei bollenti spiriti dei soldati celibi.

Quanto agli atti impuri, Yahwèh dice chiaramente che siccome di tanto in tanto avrebbe passato in rassegna le truppe, non voleva mettere i piedi sugli escrementi dei soldati e per questo dice che nell’equipaggiamento di ogni combattente non deve mancare un piolo di legno, con cui scavare una buca lontano dall’accampamento per seppellirli.

Che Yahwèh visitasse regolarmente gli accampamenti degli israeliti durante le guerre di Giosuè e si premurasse di trovare pulito il terreno è un altro esempio del fatto che il Dio del Vecchio Testamento era dotato di corporeità e simile a noi umani. L’averlo reso eterno, invisibile e onnipotente è stata una scelta obbligata per coloro che ci videro un business, nonché lo strumento per detenere il potere sulle folle.

La schizzinosità dell’Elohìm della Bibbia circa il terreno privo di sporcizia, fa il paio con la sua richiesta che i sacerdoti fossero esenti da malformazioni. E ne fa un elenco preciso. Non potevano entrare a far parte dei Leviti i gobbi, i ciechi, gli scabbiosi, i deformi di mano o piede e i nani. I lebbrosi, infine, dovevano essere tenuti lontanissimi dall’accampamento e questa era una misura profilattica valida anche per la popolazione civile. Un contagio di lebbra avrebbe reso inservibile le truppe che il “Dio degli eserciti” stava arruolando sotto il comando di Mosè prima, e di Giosuè poi.

Nel corso dei millenni, Yahweh ha oscurato un'altra divinità che nei tempi antichi veniva messa alla pari del Creatore: Asherah, una divinità femminile della fertilità che godeva delle stesse attenzioni da parte dei suoi adoratori.

Francesca Stavrakopoulou, ricercatrice del dipartimento di Teologia e Religione all'università di Exeter, ha indagato la connessione tra Yahweh e Asherah, cercando di svelare i motivi per cui la divinità femminile sia scomparsa quasi completamente dalla narrazione biblica.

"Forse lo conoscete come Yahweh, Allah o Dio. Ma su un solo punto concordano ebrei, musulmani e cristiani, i popoli delle tre grandi religioni abramitiche: c'è un solo Dio" dice Stavrakopoulou. "E' una figura solitaria, unica, creatore universale, non un Dio tra tanti...o forse è quello che ci piace credere. Dopo anni di ricerca specializzata nella storia e nella religione di Israele, sono giunta alla conclusione, che alcuni potrebbero giudicare scomoda, che Dio avesse una moglie".

Stavrakopoulou basa la sua teoria su testi antichi, amuleti e statuette scoperte prevalentemente nella città costiera di Ugarit, elementi che mostrerebbero che il culto di Asherah sia stato parecchio diffuso tra le popolazioni israelite del tempo.

La teoria di una divinità femminile adorata parallelamente a Yahweh non è nuova: già nel 1967 Raphael Patai, orientalista e antropologo propose l'idea di un "doppio culto" di Yahweh e Asherah. Patai, ricercatore di fama internazionale che lavorò per le Nazioni Unite come direttore di progetti di ricerca antropologica in Siria, Libano e Giordania, Asherah sarebbe stata la "regina dei cieli", come viene chiamata nel Libro di Geremia.

L'ipotesi che Dio potesse avere una moglie fu avanzata in passato da Patai e da altri ricercatori sulla base di un'iscrizione risalente all' VIII° secolo a.C., e di riferimenti all'interno della Bibbia stessa. "L'iscrizione era una richiesta di benedizione" dice Stavrakopoulou. "L'iscrizione chiede una benedizione da 'Yahweh e Asherah'. Era la prova che presentava Yahweh e Asherah come una coppia divina.

Immagine

E' stato datato all’VIII sec. a.C questo frammento ceramico recante sopra la rappresentazione di tre figure e un’iscrizione di richiesta di benedizione. Negli anni sessanta, durante uno scavo in una località remota del Sinai, denominata Kuntillet ‘Ajrud, è stata ritrovata una parete di anfora rotta che, con ogni probabilità, fu riutilizzata da un mercante o da un semplice viaggiatore come “foglio” su cui scrivere una richiesta di protezione,durante il suo tragitto, alle divinità.

Questo frammento, fortunatamente fotografato e documentato e di cui si è riuscito a realizzare una copia, è stranamente scomparso! Cosa c’era di tanto sconvolgente su questo manufatto riutilizzato?

Immagine

Una richiesta di protezione durante il viaggio rivolta a Yahweh (il Dio della Bibbia) e alla sua paredra Asherah e due delle tre figure erano queste due divinità.

Qui si apre un mondo di discussioni, e ognuno potrebbe utilizzare tale frammento o copia a suffragare le proprie convinzioni, unica nota stonata è: come mai tale frammento e scomparso e l’archeologo di Tel Aviv è visto come un “simpatico vecchietto dalle idee un po’ balzane ”.

La sparizione, da, ovviamente, adito a dei sospetti. Inoltre solo ora è stata ritrovata una manciata di altre iscrizioni, e tutte ci aiutano a rafforzare l'idea che il Dio della Bibbia avesse una moglie e che quindi le idee dell’archeologo di Tel Aviv non fossero così ‘balzane’.

La stessa Bibbia sembrerebbe confermare il culto di Ashera nel Libro dei Re, in cui si cita una statua di Asherah nel Tempio di Yahweh a Gerusalemme. A questa statua venivano offerti oggetti di tessuto prodotti dal personale femminile del Tempio. Il testo usa anche il termine "asherah" in due sensi, per riferirsi ad un oggetto religioso, o per definire il nome della divinità. "Molte traduzioni in inglese preferiscono tradurre 'Asherah' con 'Albero Consacrato'" dice Wright. "Questo sembra essere parzialmente dovuto ad un desiderio moderno, ispirato chiaramente dalla narrativa biblica, di nascondere Asherah dietro ad un velo ancora una volta".

Immagine

"Asherah non è stata completamente cancellata dalla Bibbia dai suoi editori maschili" dice J. Edward Wright, presidente del The Arizona Center for Judaic Studies e del The Albright Institute for Archaeological Research. "Alcune sue tracce rimangono, e basandosi su queste tracce, sulle prove archeologiche e sui riferimenti a questa dea nei testi provenienti dai territori confinanti con Israele e il Regno di Giuda, possiamo ricostruire il suo ruolo nelle religioni del Levante meridionale".

Asherah non è una divinità che appartiene alle sole religioni abramitiche: nota anche come Ishtar e Astarte, era una divinità potente e celebrata in molte culture, dai Fenici ai Babilonesi, e le cui origini risalirebbero a ben oltre un millennio prima di Cristo. Le sue tracce si possono trovare in testi ugaritici risalenti a un periodo precedente al 1200 a.C., testi che la definiscono con il suo nome completo "Colei che cammina sul mare". Ricorda qualcosa, non vi pare?

"I riferimenti alla dea Asherah nel Vecchio Testamento sono rari, e sono stati pesantemente modificati dagli antichi autori che hanno messo raccolto i testi sacri" aggiunge Aaron Brody, direttore del Bade Museum e professore associato alla Pacific School of Religion.

Brody è convinto del fatto che gli antichi israeliti fossero politeisti, "con solo una piccola minoranza che venerava solo Yahweh prima degli eventi storici del 586 a.C.". Anno in cui venne distrutto il Tempio di Gerusalemme, cosa che secondo Brody "portò ad una visione più universale del monoteismo: un solo dio non solo per il Regno di Giuda, ma anche per le altre nazioni d'Israele". Nella rivisitazione del pantheon ugaritico cananeo lo stesso Brody riconosce la figura di Asherah, la moglie di El, come particolarmente affascinante. Una figura che i redattori e i traduttori dell’Antico Testamento hanno lentamente fatto scomparire nonostante le numerose statuine della dèa ritrovate e risalenti al Regno di Israele e a quello di Giuda a testimonianza, proprio, della popolarità di Asherah tra gli israeliti con il loro presunto monoteismo.

El (#1488;#1500;, #1488;#1500;#1492;#1497;#1501;) è uno dei tanti nomi di Dio nell’Antico Testamento. Gli autori si riferiscono a lui sia con El che con Yahweh (#1497;#1492;#1493;#1492;, oppure #1488;#1491;#1504;#1497;). Pur di non citare Asherah (#1488;#1513;#1512;#1492;) nelle traduzioni, ovvero per nascondere la moglie della maggiore divinità israelita del nascente monoteismo, i traduttori si sono arrampicati sugli specchi.

Nella Bibbia ci sono circa 40 citazione del sostantivo Asherah (‘SHRH, #1488;#1513;#1512;#1492;). Ma sono state mascherate.

In breve, l’invenzione del monotesimo ebraico dalle divinità cananee ha portato con sé anche Asherah: la consorte di El. La moglie di Yahweh. La sposa del Dio di ebrei e cristiani. Forse l’unica persona in grado di frenare la sete di dominio del figlio (nonché marito).

Immagine

Una sete di dominio che trae origine dal rifiuto da parte del Gran Consiglio degli Anunnaki, presieduto dal padre Enlil e dallo zio Enki, di assegnare all’Elohim Yahweh terra e popolo alcuno a differenza degli altri suoi ‘colleghi’. Fu così che Yahweh decise di prendersi tutto con la forza prendendo una tribù qualsiasi della città di Ur, quella di Abramo.

Dalla Bibbia sappiamo a un certo punto che “…Abramo uscì dalla città di UR dei Caldei…” per raggiungere la terra promessa, la terra di Canaan, su indicazione diretta di Dio/Yahweh. Possiamo collocare temporalmente nel XVIII sec. a.C. la partenza della tribù di Abramo verso Canaan, ovvero 3800 anni fa, esattamente alla fine dell’azione Kurgan nel continente europeo a dissoluzione delle società gilaniche preistoriche di matrice Enkilita.

Ma da ciò che narra la Bibbia possiamo osservare come il tragitto di Abramo compia una sosta nella città di Harran. Ed è in realtà proprio ad Harran che Abramo riceve da Dio la “missione” di scendere verso la terra promessa.

Al lettore interesserà sapere che il luogo in cui Yahweh scelse Abramo per questa audace missione è lo stesso luogo dove Marduk fece la sua comparsa dopo un'assenza di mille anni e fu più tardi il luogo in cui una serie di eventi incredibili cominciarono a susseguirsi. Questi furono avvenimenti di portata profetica, che influenzarono sia le questioni umane sia quelle divine.

Gli eventi chiave, raccolte per i posteri da testimoni oculari, cominciarono e finirono con l'adempimento delle profezie bibliche riguardanti l'Egitto, l'Assiria e Babilonia; e includevano la partenza di un dio dal suo tempio e dalla sua città, la sua ascesa ai cieli, e il suo ritorno dai cieli mezzo secolo più tardi.
E, per una ragione forse più metafisica che geografica o geopolitica, molti degli eventi cruciali degli ultimi millenni del conto cominciato quando gli déi, riuniti in consiglio, decisero di assegnare all'Umanità la civiltà, ebbero luogo ad Harran o nei suoi pressi. I dettagli di una tavoletta che facevano parte di una corrispondenza reale di Assurbanipal, il figlio successore di Assaraddon, si evince l'intenzione che Asarrandon meditava di attaccare l'Egitto, dirigendosi a nord invece che a ovest alla ricerca del tempio in legno di cedro di Harran. Lì vide il dio Sin appoggiato a un bastone, con in testa due corone. Il dio Nasku gli stava difronte. Il padre di sua maestà il mio re entrò nel tempio.

Il dio gli pose una corona sulla testa, e disse: "Viaggerai verso le nazioni, e ne sarai il conquistatore!" Egli partì e conquistò l'Egitto. Scopriamo inoltre che nella lista degli Dèi sumeri, Nasku era un membro dell'entourage di Sin.

Era questa la procedura di assegnazione di una nazione e di un popolo all’Elohim, un’esperienza negata al nostro Yahweh. Ed è qui che mi piace immaginare la moglie di Yahweh nel tentativo disperato e inano di calmare l’ira del figlio/marito e di distoglierlo dalla decisione di conquista e dominio sull’uomo in disprezzo alle decisioni del Gran Consiglio.

Qualcosa che gli gnostici avevano già forse intuito.

Abbiamo detto più sopra come Asherah nel libro di Geremia venisse definita “Regina dei cieli” esattamente come si presentò l’entità riconosciuta universalmente come la Madonna di Fatima. Bene, a partire da questa premessa, siamo certi che l'entità apparsa fosse davvero la madre di Gesù Cristo?

Ella ha parlato di un figlio, adirato nei confronti degli uomini per i loro comportamenti... sembrerebbe essere Enlil, oppure Enki, deluso dal mancato raggiungimento del suo progetto di sviluppo della civiltà umana, iniziato subito dopo il Diluvio.

La Madonna di Fatima potrebbe allora essere stata Ishtar? Inanna? O addiritura Nammu, che nei miti sumeri si rivolge al figlio Enki dicendo:

«… O figlio mio, svegliati dal mio letto, dal mio sonno, fai ciò che è saggio, modella i servi per gli Dei, affinché possano produrne il loro pane…»

O ancora potrebbe essere la nostra Asherah, moglie e madre di Yahweh, un Elohim adirato da migliaia di anni per un torto subito decine di migliaia di anni fa, subito dopo il Diluvio. Un errore di valutazione da parte di Enki ed Enlil che costò la vita a più di 35 milioni di persone, uomini, donne, bambini uccise durante le guerre di Yahweh. Tante sono le vittime dei genocidi perpetrati direttamente dal “dio” adorato da tre miliardi di persone.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:23 
ANTICHE ROTTE COMMERCIALI

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9945

Questa avventura inizia alla corte di Salomone, sovrano del regno di Israele intorno al 950 a.C., figlio e successore di Re Davide. Sotto il suo comando il regno si estendeva dal fiume Eufrate fino all’Egitto ed inoltre aveva due alleati molto importanti: il re Hiram, a capo dei Fenici, i grandi navigatori dell’antichità, e la regina di Saba, che dominava un regno esteso nell’attuale Yemen ed Etiopia la cui capitale era Aksum, che gli forniva oro, incenso, profumi e spezie.
Il suo regno viene considerato dagli ebrei come un'età ideale, simile a quella del periodo augusteo a Roma. La sua saggezza, descritta nella Bibbia, è considerata proverbiale. Durante la sua reggenza venne costruito il Tempio di Salomone, che divenne leggendario per le sue molteplici valenze simboliche.

Immagine
Il regno di Davide ereditato dal figlio Salomone

L’omonimia del Re fenicio Hiram con l’architetto proveniente dalla città di Tiro selezionato da Re Salomone per l’edificazione del Tempio ci lascia pensare che in realtà i due potessero essere la stessa persona.
La Bibbia ci presenta Hiram Abiff come il massimo artista del suo tempo. Famoso nella propria città natale, appunto Tiro, per la magnificenza delle sue opere, onorato ed ammirato dal sovrano per le straordinarie capacità dimostrate nelle arti, fu da questi inviato al potente Re Salomone per la costruzione del grande Tempio, la Casa del Signore. Nessuno meglio di Hiram sapeva lavorare i metalli, egli padroneggiava i segreti dell’Arte, fine intagliatore di pietre e legno aveva accumulato grande esperienza nel governare operai e maestranze.
Sulle conoscenze di navigazione dei Fenici, estremamente avanzate per l’epoca, parleremo in seguito e torneranno utili per indagare sulla ubicazione dei giacimenti auriferi che consentirono al Regno di Israele di diventare una delle più ricche nazioni del tempo durante il regno di Re Salomone, grazie allo stretto rapporto che questi intrattenne con la sua seconda potente alleata: la Regina di Saba.
La Regina di Saba regnava su un territorio che si estendeva a cavallo tra Africa e penisola arabica, più circostanziabile in Etiopia e Yemen dove recenti ritrovamenti archeologi hanno riportato alla luce quelli che sembrano essere i resti dei palazzi del fastoso regno della consorte di Re Salomone dove forse si cela uno dei manufatti più preziosi e misteriosi della storia ebraica: l’Arca dell’Alleanza.
Gli arabi la conoscevano come la regina Bilquis, gli etiopi la chiamavano Macheda, per gli ebrei e i cristiani è la regina di Saba. La regina venne a conoscenza della fama di Salomone e si recò a Gerusalemme per conoscerne la saggezza. Arrivò con un gran seguito e con cammelli carichi di spezie. La storia della regina di Saba probabilmente ha origini giudee, ma esiste anche una versione persiana, la troviamo anche nel Corano difatti gli arabi affermano che credesse nella grandezza di Halla.
Dalla visita a Gerusalemme, avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C. vi è menzione nel Talmud ebraico, nella Bibbia - Antico Testamento, nel Corano ed ovviamente nel Kebra Nagast, Gloria dei re che è il libro fondamentale per la storia dell'impero degli altopiani, elaborato in Etiopia nel XIV secolo, ed uno dei testi sacri del movimento Rastafariano.
Il mito della Regina di Saba si mescola con la leggenda della città perduta di Ubar. Conosciuta anche come “Iram delle Colonne”, Aran o Ubar, si trovava nella Penisola Arabica ed era una città mercantile edificata nel deserto del Rub’ al Khali, il più grande deserto di sabbia del mondo.
La tradizione narra che la città sopravvisse dal 3000 a.C. fino al I secolo d.C., arricchendosi anno dopo anno grazie a un florido commercio; successivamente se ne persero completamente le tracce, forse perché, come ricorda il Corano, subì la stessa punizione della tribù dei Banu ‘Ad, una stirpe araba vissuta durante il periodo pre-islamico che osò sfidare Allah innalzando alti edifici in pietra e che per questo venne punita prima con un tremenda siccità, poi da una violenta pioggia seguita da un fortissimo vento che distrusse tutti i loro edifici; una storia peraltro simile sotto certi aspetti alla condanna divina conseguente al tentativo della costruzione della Torre di Babele così come narrato nella Bibbia.
Le rovine della Città delle Mille Colonne si troverebbero ancora sotto le sabbie del deserto, dimenticate anche dal tempo. Questa storia rimase una delle tante tradizioni orali raccontate intorno al fuoco, almeno fino a quando non giunse in Occidente in seguito alla traduzione del famoso “Le mille e una notte”. Durante il II secolo d.C., Claudio Tolomeo, astronomo e geografo greco, disegnò la mappa di una misteriosa regione che, a suo dire, era abitata da un altrettanto enigmatico popolo, gli Ubariti, ovvero gli antichi abitanti di Ubar.
In tempi più recenti il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto ai più come Lawrence d’Arabia, mostrò spesso un notevole interesse per questa città, che lui stesso definiva come l’Atlantide delle Sabbie.
Ed effettivamente da sotto le sabbie del deserto yemenita a volte compaiono resti di civiltà perdute. Quando il vento sposta le dune, talvolta appaiono ai beduini momentanei scorci di mura e fondazioni sepolte, subito nuovamente coperti dal tempo e da altra sabbia. Le voci che parlavano dell’esistenza di un gran muro hanno portato gli archeologi a scoprire un enorme complesso, che si è rivelato il più segreto e misterioso sito del Medio Oriente. Un gran muro in pietra alto circa 20 metri, con 5 metri di spessore, forma un ovale che protegge un ampio cortile che deve ancora essere scavato. Sul muro c’è una miriade di simboli che non si sa (ancora) come tradurre. Il sito archeologico si trova in Mareb, Yemen, in quella che è conosciuta come la "zona vuota". Si tratta di un territorio asciutto e desolato, con dune di sabbia e chilometri di deserto.

Immagine
Sito archeologico nel Mareb e i simboli ritrovati sul muro
I resti del Palazzo della Regina di Saba?

Simboli simili compaiono su uno tra i più misteriosi ma meno conosciuti reperti dell’archeologia israeliana che consiste in un semplice coccio di terracotta. Un archeologo israeliano sostiene che le cinque righe presenti su questo coccio potrebbero rappresentare il più antico esempio di scrittura ebraica mai scoperto. Il frammento è stato trovato da un adolescente, che scavava come volontario, circa 20 km a sud–ovest nel sito di Khirbet Qeiyafa, che domina la valle di Elah, dove la Bibbia dice che l’ebreo Davide, padre di Salomone, combatté contro il gigante filisteo Golia. Esso contiene segni ritenuti di un antico alfabeto, chiamato proto–cananeo o Prima Lingua.

Immagine
Il coccio di terracotta

Esperti della Hebrew University hanno detto che è stato scritto 3000 anni fa – circa 1000 anni prima dei rotoli di Qumran. L’epoca corrisponde grosso modo al momento del primo tempio, dominato dalle figure bibliche di Davide e Salomone, e pre–daterebbe lo stesso alfabeto, usato anche dalla Regina di Saba (presumibilmente sposata a Salomone), in quello che ora si chiama Yemen. Gli scritti trovati nello Yemen in questo stesso alfabeto e le loro traduzioni in ebraico antico indicavano il nascondiglio dell’Arca di Mosé in un sito vicino a Mareb (Ma'rib, nell’antico regno di Saba).
L’uso di questa lingua, all’inizio della storia dell’ebraico, spiegherebbe il motivo per cui la stessa era utilizzata anche nell’antico regno di Saba. Nella leggenda, e nel Santo Corano, si ipotizza che la regina di Saba fosse stata invitata a visitare il re Salomone, che si fossero sposati e avessero avuto un figlio, Menelik. Ulteriori ricerche condotte da Gary Vey e John McGovern hanno portato alla recente scoperta del presunto palazzo della regina, nel Mareb, Yemen, con iscrizioni nello stesso alfabeto, che descrivono il trasferimento della famosa Arca dell’Alleanza a quel sito da parte del figlio di Salomone, in seguito alla distruzione di Gerusalemme. Entrambi Vey e McGovern credono che sino ad oggi l’Arca sia rimasta nello Yemen.
I risultati del lavoro di traduzione di Vey hanno rivelato una prosa che descriveva la "cassa di El" e parlava di un "figlio" e di un "padre". Vey successivamente apprese che questo era un riferimento all’Arca, a Salomone e al figlio di Saba, Menelik, e per il "padre" – a Salomone stesso.
Egli legge l’iscrizione come segue:

"... perché il figlio era consapevole della natura che era in lui ... ma la felicità del figlio fu avvelenata dalla notizia che suo padre stava morendo, la rabbia crebbe, ma al figlio fu rivelata da suo padre la collocazione della grande cassa di EL. E l’azione di grazia del bel Signore rese felice il figlio, che giurò di proteggere la cassa di EL, e di essere associato con lo spirito del Signore.”

Il sito purtroppo si è trasformato in un pericoloso avamposto d’estremisti dal settembre 2001 e nessun ulteriore intervento è stato possibile.
La Bibbia lascia intendere che il Regno della Regina di Saba fosse oltre modo ricco di oro visto che faceva confluire ogni anno nelle Casse di Re Salomone ben 666 talenti d’oro equivalenti a poco meno di 20 tonnellate.
Due archeologi italiani, Alfredo e Angelo Castiglioni, avrebbero localizzato le miniere di re Salomone dalle quali proveniva l'oro regalatogli dalla regina di Saba. L'importante scoperta è in Etiopia ma è stata resa nota oggi, a Rovereto, durante l'ultima giornata della XXI Rassegna internazionale del Cinema Archeologico. Secondo i due archeologi non vi è ancora la certezza, ma tutti gli indizi sembrano portare in questa direzione.

"Abbiamo compiuto cinque missioni, tra il 2004 e il 2008, per cercare le antiche zone di estrazione - hanno raccontato i due studiosi - Le prime tre, nel Beni Shangul (Etiopia sud occidentale), fruttarono la scoperta di enormi zone aurifere, sfruttate nell’antichità; ancora oggi vi si lavora con gli stessi metodi e utensili di allora, e alcune profonde gallerie sono tutt'ora chiamate dalla gente locale 'le antiche miniere di re Salomone'".

Ma un’altra ipotesi, ancora più affascinante, vede l’origine di tutto quell’oro in una regione distante migliaia di kilometri dall’Etiopia e dallo Yemen, addirittura al di là dell’Oceano Atlantico coinvolgendo i Fenici e le conoscenze da questi ottenute dall’eredità di uno dei popoli più misteriosi della storia e della regione medio-orientale: i Sumeri.
Sappiamo già come l’opera più importante del re Salomone fu la costruzione del Tempio di Gerusalemme, dove era depositata l’Arca dell’Alleanza, contenenti le tavole della Legge, che secondo la tradizione erano state consegnate direttamente da Jehova a Mosè.
Per costruire il Tempio di Gerusalemme, Salomone aveva bisogno di una quantità spropositata d’oro e argento abbiamo visto in gran parte ottenuti grazie all’alleanza con la Regina di Saba. Secondo il Libro dei Re nella Bibbia, la provenienza dei preziosi metalli era da ricercarsi nel leggendario paese di Ofir. Le flotte mercantili comandate da esperti navigatori Fenici partivano dal Mar Rosso o dai porti fenici del Mediterraneo e tornavano indietro dopo tre anni di navigazione, ricolme d’oro, argento, pietre preziose e profumi.
Molti storici hanno tentato di ubicare questo mitico paese in Africa o in India, ma la tesi che vogliamo approfondire oggi è quella di Benito Arias Montano che colloca il mitico Regno di Ofir al di là dell’Oceano Atlantico e più precisamente in Perù, anche se fino ad oggi non vi sono state prove esaustive sulla sua ubicazione.
A conferma di questa ardita teoria viene in nostro soccorso la ricerca portata avanti dal ricercatore indipendente Yuri Leveratto. Yuri Leveratto è un ricercatore indipendente con al suo attivo diverse spedizioni in Sudamerica e diverse pubblicazioni tra cui “Cronache indigene del Nuovo Mondo”. Con questo libro, che è una ricompilazione di settanta suoi articoli, l’autore ha voluto fornire una ampia visione dell’affascinante storia dei popoli autoctoni del Nuovo Mondo, dai primordi fino ai giorni nostri. Il suo lavoro è stato fondamentale per noi per approfondire i collegamenti esistenti tra il mondo medio-orientale e quello sud-americano migliaia di anni fa.
Uno dei primi sostenitori della teoria della presenza antica dei Fenici in Brasile fu il professore di storia austriaco Ludwig Schwennhagen (XX secolo), che nel suo libro “Storia antica del Brasile”, citava gli studi di Umfredo IV di Toron (XII secolo), che a sua volta aveva descritto i viaggi di navi fenicie fino all’estuario del Rio delle Amazzoni.
Come sappiamo, sono varie le evidenze archeologiche e documentali su una possibile antica presenza dei Fenici (o Cartaginesi), in Brasile: la pietra di Paraiba, i pittogrammi della Pedra de Gavea e i petroglifi della Pedra do Ingà, oltre al misterioso documento 512.
Vi è, però un’altra evidenza archeologica che suggerisce una possibilità sulla probabile coincidenza della terra di Ofir con l’Alto Perù: l’esistenza di un antico e lunghissimo cammino, detto in portoghese “Caminho do Peabirú”, che dalle attuali coste dello Stato di San Paolo e Santa Catarina (Brasile), conduce, dopo circa 3000 chilometri, proprio fino a Potosì, e prosegue fino a Tiahuanaco e Cusco.
Già da vari anni alcuni archeologi e ricercatori indipendenti brasiliani stanno studiando un antico cammino, conosciuto con il nome di “Peabirù” che nella lingua Tupi Guaranì, significa “cammino d’andata e ritorno”. Secondo l’interpretazione di Yuri Leveratto, siccome in lingua Guaranì “pe” significa “sentiero” e Birú era l’antico nome con il quale veniva identificato il Perú, non è un azzardo considerare il nome “Peabirú” come “cammino al Perú”.
Questo è un sentiero, largo circa 1,4 metri, che origina dalla zona di San Vicente nell’attuale Stato di San Paolo e dalla costa di Santa Catarina, in particolare dalla baia conosciuta con il nome di Cananea, durante l’era delle scoperte geografiche. I due tronchi si uniscono presso l’attuale Stato del Paraná, per procedere fino all’attuale frontiera con la Bolivia, presso la città di Corumbá. Quindi, dopo aver attraversato le praterie del Chaco, il cammino si dirige a Potosí.

Immagine

In realtà il sentiero prosegue, dividendosi in due rami: uno va verso Oruro, Tiahuanaco e poi Cusco, mentre un altro ramo si dirige verso l’Oceano Pacifico, nell’attuale Cile settentrionale. In pratica il cammino del Peabirú si interconnetteva con i sentieri incaici dell’impero che a loro volta univano Samaipata, la fortezza inca ubicata più a Sud (attuale Bolivia), con il Cusco e con altri siti “misteriosi” delle culture andine.
L’esistenza dell’antico cammino del Peabirù è importantissima, perché prova che era possibile raggiungere nell’antichità il Cerro Rico di Potosì che ricordiamo essere la montagna più ricca d’argento del mondo, dalle coste del Brasile, con un viaggio di circa 2 mesi.
L’interrogativo che ci appassiona è chi furono gli ideatori e i costruttori di questi percorsi?
I membri dell’etnia Guaraní attribuiscono la costruzione del cammino al loro leggendario semi-dio Sumé, che fu un civilizzatore e colonizzatore vissuto prima del diluvio, il quale insegnò ai Guaraní l’agricoltura, l’artigianato e impose loro i fondamenti del diritto in modo del tutto simile a quanto narrato dai popoli andini relativamente al dio Viracocha.
Come non riscontrare in tutto ciò la forte analogia con il processo di “Rinascita” perpetuato dal dio Anunnaki Enki, che secondo quanto affermato nelle ricerche del Progetto Atlanticus coinvolse in primis l’area medio-orientale fin dalla fine della glaciazione di Wurm circa dodicimila anni fa sugli altopiani iranici e caucasici partendo proprio dalle pendici del monte Ararat su cui si arenò Noè e la sua “Arca” e dove giustappunto sorgono le città di Gobekli Tepe e Kisiltepe?

Immagine

Se le due cose sono collegate allora forse il cammino del Peabirù potrebbe essere considerato come uno dei tanti resti di una civiltà antidiluviana riutilizzato in seguito dai depositari di determinate conoscenze, diciamo esoteriche, tramandate dagli antichi dei civilizzatori (Enki, Viracocha, Sumè, etc.etc.) ai popoli loro prediletti: Sumeri, Fenici, Egizi, Ebrei.
Questo rafforza l’ipotesi, sostenuta peraltro dal noto e compianto archeologo boliviano Freddy Arce, che il cammino del Peabirú potrebbe essere stato usato successivamente, seppur in tempi remotissimi dai popoli del Medio Oriente, come per esempio i Sumeri (da cui deriverebbe la parola Sumè), ed in seguito dai Fenici e Cartaginesi, per inoltrarsi all’interno del continente e raggiungere così la miniera d’argento più grande del pianeta forti appunto di quelle conoscenze di cui al paragrafo precedente.
Sappiamo inoltre che i reperti che richiamano alle culture Medio-Orientali sono diversi in Sud America, come il Monolite di Pokotia e il Fuente Magna, il grande vaso cerimoniale di pietra trovato presso il lago Titicaca, all’interno del quale vi sono iscrizioni in lingua sumera.

Immagine
La Fuente Magna e il Monolite di Pokotia
prove di presenza Sumera in Sudamerica

Secondo la versione ufficiale il vaso fu scoperto in Bolivia nel 1960, da un contadino, in un terreno privato che si dice sia appartenuto alla famiglia Manjon, situato a Chua, circa 80 chilometri da La Paz, nelle vicinanze del lago Titicaca. Nella parte esterna il vaso riporta alcuni bassorilievi zoomorfi (di origine Tihuanacoide), mentre nell’interno, oltre a una figura zoomorfa o antropomorfa (a seconda dell’interpretazione), vi sono incisi due tipi di differenti scritture, un alfabeto antico, proto-sumerico, e il quellca, idioma dell’antica Pukara, civiltà antesignana di Tiwanaku.
Un ulteriore elemento di prova ci viene fornito dal cosiddetto “Manoscritto 512” un documento inedito risalente al 1753, ma ritrovato solo nel 1839, conservato nella Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro nel quale viene descritta la rocambolesca avventura di un gruppo di esploratori portoghesi alla ricerca delle leggendarie miniere di Muribeca, durante la qual ricerca scoprirono le rovine di una grande città perduta, la cui architettura ricordava lontanamente lo stile greco-romano e dove furono ritrovate delle iscrizioni che furono ricopiate dagli esploratori nel documento.

Immagine

Secondo altri ricercatori l’alfabeto utilizzato nelle iscrizioni del “manoscritto 512” potrebbe essere il punico, il fenicio antico o l’aramaico antico.
Non deve fare meraviglia che i libri di storia non menzionino questo documento. Se la notizia di una grande città antica di origine pre-greca fosse stata divulgata, i termini del trattato di Madrid avrebbero potuto essere rivisti in quanto sarebbe stata provata la colonizzazione e permanenza di un popolo del Mediterraneo o del Medio-Oriente in Brasile nei secoli o millenni passati e sarebbe caduto pertanto lo ius possidentis del Portogallo sulle terre brasiliane.
Se a questi reperti aggiungiamo il petroglifo di Ingà di chiara origine pre-fenicia, il tesoro della Cueva di Los Tayos alla cui ricerca partecipò nientemeno che l’astronauta recentemente scomparso Neil Armstrong, possiamo affermare con ragionevole certezza che l’esistenza del Nuovo Mondo era perfettamente conosciuta ai Fenici e ai Cartaginesi che già circumnavigarono l’Africa nel I millennio prima di Cristo e che le loro conoscenze derivavano proprio dai Sumeri.
E’ noto che i Sumeri navigavano sulle loro imbarcazioni attraverso i canali del Tigri e dell’Eufrate allo scopo di commerciare. E’ invece poco conosciuta la navigazione marittima dei Sumeri, che avevano come base l’attuale isola di Bahrein, dove recenti scavi hanno dimostrato l’esistenza di un porto commerciale che era in attività nel terzo millennio prima di Cristo. Nei testi Sumeri l’odierno Bahrein era identificato come Dilmoun, e da quel punto le flotte sumere partivano per la foce dell’Indo da dove rimontavano il grande fiume, giungendo a Mohenjo-Daro, per intercambiare tessuti, oro, incenso e rame. Le imbarcazioni sumere erano lance che potevano dislocare fino a 36 tonnellate.
Secondo Bernardo Biados i Sumeri circumnavigarono l’Africa già nel terzo millennio prima di Cristo, ma, arrivati presso le isole di Capo Verde, si trovarono sbarrato il passaggio dai venti contrari che soffiano incesantemente verso sud-ovest. Si trovarono pertanto obbligati a fare rotta verso ovest, cercando venti favorevoli. Fu così che giunsero occasionalmente in Brasile presso le coste dell’attuale Piauì o Maranhao. Da quei punti esplorarono il continente risalendo gli affluenti del Rio delle Amazzoni, in particolare il Madeira e il Beni o percorrendo il già citato "Cammino del Peabirú".
In questo modo arrivarono all’altopiano andino, che probabilmente nel 3000 a.C. non aveva un clima così freddo. Si mischiarono così alle genti Pukara che a loro volta provenivano dall’Amazzonia (espansione Arawak), e ai popoli Colla (i cui discendenti parlano oggi la lingua aymara). La cultura Sumera influenzò le genti dell’altopiano, non solo dal punto di vista religioso, ma anche lessicale. Molti linguisti infatti hanno trovato molte similitudini tra il proto-sumerico e l’aymara.
Una storia che si mescola con la leggenda di Akakor, perduto regno antidiluviano fiorente sulle rive del bacino del Rio delle Amazzoni, salito agli onori della cronaca grazie al preziosissimo contributo del colonnello Percy Fawcett, esperto coloniale e cartografo della Società Cartografica Britannica. Appassionato esploratore e cultore delle civiltà del passato, raccoglie dagli Indios delle varie tribù, tradizioni orali e leggende stupefacenti. Lo studio accurato che il colonnello ha fatto di tutto il materiale raccolto, lo porta alla conclusione che tutti i miti testimoniano l’origine divina di tutti quei popoli.
Viene in possesso, inoltre, d’indicazioni e strani racconti su enormi abbandonate e misteriose città, che lo portano a viaggiare in lungo e in largo della giungla del Sud America, sino quando, a Rio, ebbe modo di consultare il Manoscritto dei Bandeirantes, conservato nel Museo locale dell’Indio; ispirato dal documento decide di intraprendere una spedizione nel Mato Grosso alla ricerca della fantastica città perduta. Tenta più volte senza successo, sino a quando Fawcett e' sicuro di avere in mano le indicazioni decisive e l’orientamento esatto per la rivoluzionaria scoperta. Parte con pochi uomini fidati, ma la sua marcia viene seguita sino alla metà del percorso da lui previsto, poi scompare nella foresta vergine e di lui non si sa più nulla. Era il 1925.

Immagine

Il regno di Akakor fu forse una delle nazioni antidiluviane di cui serbiamo il ricordo di Atlantide, artefice di tutte le incredibili strutture megalitiche del continente sudamericano come Tiahunaco, Machu Picchu, Cuzco, la Città di Caral, etc.etc. così come la rete viaria sfruttata dall’impero inca migliaia di anni dopo di cui il Peabirù o cammino del Perù né rappresenta un segmento? Noi onestamente pensiamo di sì.
Così come pensiamo che il retaggio di queste civiltà antidiluviane sia giunto attraverso i sumeri ai popoli medio-orientali, Egizi, Fenici, Etiopi-Yemeniti (Saba) ed Ebrei compresi i quali sfruttarono queste loro conoscenze per scopi commerciali.
Ma il nostro Salomone, da dove questa nostra avventura ha avuto inizio, non ottenne soltanto oro e argento dallo sfruttamento commerciale di queste antiche rotte.
In un nostro precedente articolo abbiamo affrontato il tema dello Shamir, potente oggetto, presumibilmente tecnologicamente avanzato, che compare in numerosi midrash ebraici tra i quali uno che fa riferimento proprio al Re del nostro articolo.
il midrash che parla dello Shamir riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale facente parte del Tempio doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, il metallo di cui son fatte le armi che portano morte, evitando così di contaminare la sacralità del luogo.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr". Dio stesso, secondo la tradizione, l'aveva consegnato a Mosè sul Sinai, il quale se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro così come possiamo leggere nel Talmud e nell’ambito della letteratura midràshica. Forse la tecnologia dello Shamir è la stessa che venne usata in epoca antidiluviana per lavorare e tagliare altre pietre… gli enigmatici blocchi H di Puma Punku.
Inoltre, sempre dalle stesse fonti, sappiamo che lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare, forse a causa dell’emissione di gas o di calore derivante da una possibile radioattività dell’elemento. Radioattività che giustificherebbe i malanni di Re Salomone e di Re Davide dopo l’utilizzo dello Shamir e della elevata mortalità di coloro che lo maneggiava per più tempo senza probabilmente le dovute precauzioni.
Altre incredibili applicazioni dello Shamir sono descritti nel racconto di come Salomone riuscì a impossessarsi dello strumento in oggetto. Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile.
Come non collegare a questa descrizione le migliaia di buche delle dimensioni di un uomo scavate nella nuda roccia vicino a Valle Pisco, Perù, su una pianura chiamata Cajamarquilla. Questi strani buchi (pare 6900), si estendono per circa 1450 mt in una banda larga approssimativamente 20 mt di terreno montuoso e irregolare e sono stati qui da così tanto tempo che le persone non hanno idea di chi li ha fatti e perché.

Immagine
Valle Pisco, Perù

Questo avvalora l’incredibile ipotesi che gli Egizi o comunque qualcuno prima di loro, sia riuscito a raggiungere il Sudamerica, dando origine alle prime civiltà mesoamericane. Gli studiosi hanno stabilito che il giorno uno del calendario olmeco era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C., data della nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina al pari dell’anno zero del calendario cristiano. Ma il 3113 a.C. indica per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci africani dall'Egitto per mano di suo fratello Ra, verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre.
Presenza di egiziani in Sudamerica che giustificherebbero le forti similitudini a livello architettonico e culturale tra le civiltà pre-colombiane, Maya in primis, e l’antico egitto di cui le piramidi ne rappresentano l’esempio più eclatante. Qualcosa di più di una semplice teoria secondo alcuni approfonditi studi che desideriamo condividere con i lettori.
Esiste infatti una serie di geroglifici risalenti ad epoche diverse che si riferiscono a un paese non meglio identificato e denominato come Punt dove alcuni faraoni inviarono delle spedizioni; la prima di cui si abbia notizia è quella ordinata dal faraone Sahura della V dinastia. Il Punt doveva essere una terra ricca di risorse e di materiali preziosi visto che le iscrizioni parlano di navi cariche di oro, argento, spezie e ogni sorta di ricchezza tra cui anche animali e piante rare come i leopardi e, presumibilmente, anche cocaina e tabacco, delle cui piante sono state rinvenute tracce nelle tombe di alcuni faraoni.
L’ultima a inviare spedizioni nel Punt fu la regina Hatshepsut alla cui morte Tutmosi III cancellò, come era consuetudine, ogni traccia del passato del precedente sovrano, e con esse i riferimenti al Punt e alla sua ubicazione.
La cosa interessante di questa ricerca è che, per volere del faraone, i lavoratori inviati nel Punt dovevano essere “… del paese dei Tebani…”, ovvero provenienti dalle culture nubiane dell’attuale Sudan dominate dall’Egitto caratterizzate da una popolazione con caratteristiche somatiche negroidi. Questi schiavi nubiani sarebbero poi stati lasciati in Sudamerica per alleggerire le imbarcazioni egizie di ritorno in Egitto dando origine alla cultura olmeca il che giustificherebbe il ritrovamento di monumentali teste olmeche dalle fattezze tipicamente negroidi, forse scolpite in onore dei primi rappresentanti della civiltà olmeca.

Immagine
Teste olmeche

Un percorso logico che sostanzialmente ripercorre le rotte di schiavi durante il periodo coloniale di epoche storiche molto più vicine temporalmente a noi.
Gli Olmechi ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo e nell’evoluzione degli aspetti culturali e religiosi delle civiltà mesoamericane precolombiane, Maya in primo luogo, alle quali trasmisero le loro conoscenze ereditate dal dominio egizio in terra nubiana, strutture piramidali comprese.
E’ inoltre testimoniata dai primi esploratori spagnoli e portoghesi durante la conquista coloniale del Sudamerica nel XVI secolo la presenza di tribù indigene composte da individui di pelle nera all’interno della foresta, probabilmente discendenti regrediti allo stato preistorico dei primi schiavi egizi, fondatori della cultura Olmeca.
L’ultima prova a supporto di questa teoria che voglio citare, consapevole dell’esistenza di molte altre non affrontate in questa sede è rappresentata dai tre calendari Olmechi, il più noto è quello definito di Conto Lungo che prevede il via da un Enigmatico Giorno Uno (il nostro equivalente di avanti e dopo Cristo, evento straordinario per i cristiani segnato dalla nascita di Gesù di Nazareth.) Gli studiosi hanno stabilito che il Giorno Uno era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C. quale data di nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina.
Ma il 3113 a.C. "stranamente" segna per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci (africani) dall'Egitto per mano di suo fratello Ra (inizio del regno dei faraoni), verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre: solo una straordinaria coincidenza?
Proprio quel Thoth, depositario dei segreti di una civiltà madre pre-esistente a quelle storicamente conosciute e direttamente collegata ai miti inerenti la civiltà di Atlantide quale super potenza globale tecnologicamente avanzata, secondo il Progetto Atlanticus di derivazione Anunnaka.
E volete conoscere la sorte del manufatto più prezioso dell'America Latina, ovvero un elefantino che attribuisce i veri natali alle civiltà americane? Misteriosamente sparito, insieme ai calendari originali Olmechi incisi su tre colonne a Veracruz.
La conclusione di questo lungo percorso che ci ha portato ad affrontare diverse tematiche spesso affrontate dalla storiografia ufficiale come non collegate fra di loro è sempre la stessa. Ovvero che la storia così come la conosciamo probabilmente è da riscrivere.
Così come, alla luce di queste scoperte, andrebbe rivista la storia di un navigatore genovese (?) che per buscar el levante por el ponente si ritrovò in terre sconosciute secondo la storia… ma questo sarà oggetto di un altro articolo del Progetto Atlanticus.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:25 
IL POPOLO DEGLI ADITI

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... LO_ID=9953

Il grande deserto del Rub al-Khali, il Quarto vuoto, uno dei più terribili deserti del mondo. A un giorno di fuoristrada si giunge alla città morta di Barrakesh, una rocca alta una trentina di metri sul piatto assoluto del deserto circostante. Era la capitale religiosa del regno di Main. Da Barrakesh, attraverso il bacino di Wuadi al Jawf, arriviamo a Marib, nel regno della regina di Saba.
Qui a Marib le leggende si sprecano e l'ambiente che la circonda, le giustificano.
I resti di un antichissimo ed enigmatico palazzo, di cui rimangono otto colonne sporgenti dalla sabbia, è attribuito alla regina di Saba, Bilqis, da sempre celebrata per la proverbiale bellezza che sedusse il re Salomone avendo poi da quel rapporto un figlio che divenne il primo re di Etiopia.

Immagine

Di questo storico incontro ne parlano i testi ebraici, cristiani ed islamici. Poco distante, chiude un secco wadi, la diga di Marib costruita nell'VIII secolo a.c. e che probabilmente cadde in disuso solo nel VI secolo d.c. causando la fine della civiltà sabea.
Vagabondando nei dintorni incontriamo i resti più vari, da una muraglia ellittica lunga 300 metri, alta 10 e larga 4, a pezzi di pilastri, a lastre coperte di iscrizioni nel tipico alfabeto dei sabei.
Tutto fa pensare che qui ci sarebbe da scavare ancora una ricchezza archeologica immensa, ma la situazione politica della regione rende il progetto inattuabile, per la continua guerriglia in atto ormai da più di trent'anni.
Noi proveremo a scavare tra le dune di questo deserto per estrarre una verità sconcertante.
Cinquecento chilometri ad est, in pieno deserto del Rub al-Khali, si apre una profonda voragine costituita dal wadi di Hadramawt; dal color ocra si passa al verde intenso degli orti e dei palmeti, dalla solitudine assoluta alla vita festosa di caratteristici paesini costruiti con mattoni di fango crudo, dipinti di calce bianca.
Questo luogo ricco di acqua e riparato dai forti venti che periodicamente spazzano il deserto, ha visto nascere in tempi antichissimi una favolosa civiltà stanziale. Si racconta che i primi abitanti, gli Aditi, fossero una razza di giganti che non aveva rivali in fatto di ricchezza.
Invece di essere grati a Dio per la loro fortuna, vivevano in dissolutezza e adoravano dei profani come viene descritto nella sura coranica dedicata al profeta Hud. La punizione divina arrivò con tempeste di sabbia che spazzarono via tutto e formiche grandi come cani che fecero a pezzi i giganti.
Una storia già sentita molte volte nel corso delle nostre ricerche, culturalmente declinata a seconda del popolo che ne ha elaborato facendo proprio il mito.
Nel Corano, H#363;d è il profeta della tribù degli #703;#256;d, nipote di Noè (Nuh in Arabo). La loro città sarebbe stata Iram, una misteriosa città scomparsa nell’antichità che il romanziere dell’occulto H.P.Lovecraft descrive così:
“… una città antichissima, abbandonata, "remota nel deserto d'Arabia", "le basse mura quasi sepolte dalle sabbie di età infinite", senza nome perché "nessuna leggenda è così antica da risalire fino ad essa per darle un nome, o per ricordare che fu mai viva un giorno… Era già vecchia quando Babele l'antica sorgeva; e non si sa quanto a lungo ha dormito nel cuore del colle ove i nostri picconi insistenti frugando le zolle, i suoi blocchi di pietra portarono a luce primeva. V'erano grandi locali e ciclopiche mura e lastre spaccate e statue scolpite di esseri ignoti vissuti in ere perdute, di molto più antichi del mondo ove l'uomo dimora”
e la cui storia, nell’immaginifico universo lovecraftiano, si intreccia con quella dell’autore del Necronomicon Abdul Al-Alhazred il quale non segue la religione islamica, ma adora strani dèi dai nomi inquietanti, come Yog e Cthulhu.
Demonologo e poeta pazzo, Al-Alhazred nasce a Sanaa, in Yemen al tempo dei califfi omayyadi, all'incirca nell'VIII secolo della nostra era. Egli esplora le rovine di Babilonia e i cunicoli nascosti di Menfi. Vive per dieci anni isolato nel deserto di Rub' al-Khali circondato da spiriti malvagi (jinn). Durante queste peregrinazioni Alhazred afferma d'aver visitato Irem (Iram dh#257;t al-#703;Im#257;d, la città "dalle Mille Colonne") e di aver scoperto fra le rovine di un villaggio innominabile le prove dell'esistenza di una razza pre-umana, di cui apprende i segreti e le cronache.
Conosciuta anche come “Iram delle Colonne”, Aran o Ubar, si trovava nella Penisola Arabica ed era una città mercantile edificata nel deserto del Rub’ al Khali, il più grande deserto di sabbia del mondo.

Immagine

La tradizione narra che la città sopravvisse dal 3000 a.C. fino al I secolo d.C., arricchendosi anno dopo anno grazie a un florido commercio; successivamente se ne persero completamente le tracce, forse perché, come ricorda il Corano, subì la stessa punizione della tribù dei Banu ‘Ad, una stirpe araba vissuta durante il periodo pre islamico che osò sfidare Allah innalzando alti edifici in pietra e che per questo venne punita prima con un tremenda siccità, poi da una violenta pioggia seguita da un fortissimo vento che distrusse tutti i loro edifici.
Le rovine della Città delle Mille Colonne si troverebbero ancora sotto le sabbie del deserto, dimenticate anche dal tempo. Questa storia rimase una delle tante tradizioni orali raccontate intorno al fuoco, almeno fino a quando non giunse in Occidente in seguito alla traduzione del famoso “Le mille e una notte”.
Durante il II secolo d.C., Claudio Tolomeo, astronomo e geografo greco, disegnò la mappa di una misteriosa regione che, a suo dire, era abitata da un altrettanto enigmatico popolo, gli Ubariti, ovvero gli antichi abitanti di Ubar. In tempi più recenti il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto ai più come Lawrence d’Arabia, mostrò spesso un notevole interesse per questa città, che lui stesso definiva come l’Atlantide delle Sabbie.
Forse spinto anche da questo interessamento, un gruppo di ricercatori si affidò nel 1980 ai satelliti della NASA nel tentativo di ritrovare la Città delle Mille Colonne; una possibile collocazione venne individuata nella provincia di Dhofar, in Oman. La spedizione includeva anche l'avventuriero Ranulph Fiennes, l'archeologo Juris Zarins, il regista Nicholas Clapp e l'avvocato George Hedges ed è descritta nel libro “Ubar, l’Atlantide nel Deserto” di Nicholas Clapp.
L’esplorazione si concentrò su un antico pozzo chiamato Ash Shisa, nelle immediate vicinanze, infatti, venne alla luce un sito costruito molto più anticamente; nessuna prova di una certa importanza venne comunque rinvenuta. A questo tentativo seguirono altre quattro campagne di scavo, ma anche in questo caso l’ubicazione di Iram delle Colonne rimase avvolta nel mistero.
Ma torniamo al profeta H#363;d e alla sua storia.
Hud è da alcuni storici delle religioni individuato nel Patriarca biblico Heber, discendente di Sem. è anche il titolo della Sura XI del Corano. In quanto nipotè di Noè Hud è sicuramente antecedente ad Abramo.
Nella Sura a lui dedicata, All#257;h promette tremendi castighi a chi mette in dubbio la Sua parola e a quanti reclamano prove circa la verità di quanto da Lui rivelato nel Corano. Il testo sacro islamico afferma che M#363;s#257;, N#363;#7717; (Noé), H#363;d, #7778;#257;li#7717; Ibr#257;h#299;m, L#363;#7789;, Shu#703;ayb e lo stesso Maometto sono stati rifiutati dalle genti cui essi erano stati inviati per le ragioni più diverse, ma che Dio punirà tutte queste genti ribelli, sterminandole, se esse non si pentiranno, anche per impartire un esemplare ammonimento per le comunità che, sciaguratamente per loro, volessero imitarle.
Gli #703;#256;d rifiutarono di sottomettersi alle ingiunzioni di H#363;d. Furono perciò sottoposti a una dura siccità. Q#257;#702;il, il loro capo, si decise allora a celebrare un sacrificio a Dio per il ritorno della pioggia, ma era ormai troppo tardi, visto che Dio aveva deciso di punire gli #703;#256;d per la loro incredulità. Q#257;#702;il, che era non credente, condusse le vittime sulla cima di una montagna per sacrificarle egli stesso.

« Girando allora il suo volto verso il cielo, disse: “O Dio del cielo, io ti chiedo la pioggia per il mio popolo: sii il nostro protettore”. Nello stesso istante apparvero tre nuvole; la prima era rossa, la seconda nera e la terza bianca. Da queste nuvole uscì una voce che diceva: “Quale vuoi che si diriga verso il tuo popolo?” Q#257;#702;il si disse tra sé e sé: “Se questa nuvola rossa si dirigesse verso il mio popolo, non ne scaturirebbe pioggia, del pari la nuvola bianca, restasse anche tutto un giorno, non ne uscirebbe pioggia. è la nuvola nera che assicura la pioggia”. Allora Q#257;#702;il disse ad alta voce: “Chiedo che questa nuvola nera vada verso il mio popolo” » - #7788;abar#299;, Dalla creazione a David in op. cit., 116. Storia del profeta H#363;d.

La nuvola si fermò sopra la testa degli Aditi, e il vento sterile che essa conteneva ne uscì, come è detto nel passaggio del Corano citato da #7788;abar#299;:

« E anche fra gli #703;#256;d fu un Segno, allorché mandammo contro di loro il vento devastatore » - Corano, LI:41

Questi Aditi erano probabilmente gli abitanti di Atlantide o Ad–lantis. "Sono impersonati da un monarca a cui tutto viene attribuito, e che si dice sia vissuto per diversi secoli". (Lenormant e Chevallier, "Ancient History of the East", vol. II, p. 295).
Ad proveniva dal nord–est. "Sposò un migliaio di mogli, ebbe quattromila figli e visse milleduecento anni. I suoi discendenti si moltiplicarono notevolmente. Dopo la sua morte i suoi figli Shadid e Shedad regnarono in successione sugli Aditi. Al tempo di quest’ultimo, il popolo di Ad era composto da un migliaio di tribù, ognuna composta di diverse migliaia di uomini. Grandi conquiste sono attribuite a Shedad, e si dice che gli fossero sottomessi, tutta l’Arabia e l’Iraq. La migrazione dei Cananei, il loro insediamento in Siria, e l’invasione dei Pastori in Egitto sono attribuiti, secondo molti scrittori arabi, a una spedizione di Shedad". (Ibid., p. 296).
Shedad costruì un palazzo ornato di colonne superbe, e circondato da un magnifico giardino. Si chiamava Irem. "Era un paradiso che Shedad aveva costruito a imitazione del paradiso celeste, delle cui delizie che aveva sentito parlare". ("Ancient History of the East", p. 296).
In altre parole, un’antica, potente razza conquistatrice, che praticava il culto del sole, invase l’Arabia agli albori della storia, erano i figli di Adlantide: il loro re cercò di creare un palazzo e un giardino dell’Eden come quelli di Atlantide.
Gli Aditi sono ricordati dagli Arabi come una razza grande e civile. "Essi sono rappresentati come uomini di statura gigantesca, la loro forza era pari alle loro dimensioni, e spostavano facilmente enormi blocchi di pietra". (Ibid.) Erano architetti e costruttori. "Innalzarono molti monumenti al loro potere, e quindi, fra gli arabi, nacque l’usanza di chiamare le grandi rovine "costruzioni degli Aditi". Ancora oggi gli arabi dicono "vecchio come Ad". Nel Corano si fa allusione agli edifici costruiti su "alti luoghi per usi vani", espressioni che dimostrano che si ritiene che la loro "idolatria fosse stata contaminata con il Sabeismo o culto delle stelle". (Ibid.)
"In queste leggende," dice Lenormant, "troviamo tracce di una nazione ricca, che erigeva grandi costruzioni, con una civiltà avanzata, analoga a quella della Caldea, che professava una religione simile a quella babilonese, una nazione, in breve, nella quale il progresso materiale si congiungeva ad una grande depravazione morale e a riti osceni. Questi fatti devono essere veri e strettamente storici, perché si ritrovano dappertutto tra gli Etiopi, come tra i Cananei, i loro fratelli per l’origine comune".
In tutte queste cose vediamo rassomiglianze con gli Atlantidei.
Il grande Impero Etiope o Cuscita, che nei primi secoli prevalse, come dice Rawlinson, "dal Caucaso all’Oceano Indiano, dalle sponde del Mediterraneo sino alla foce del Gange", era l’impero di Dioniso, l’impero di "Ad", una nuova nazione atlantidea da aggiungere sulla nostra mappa dell’età dell’oro.
El Edrisi chiama la lingua parlata ancora oggi da parte degli arabi di Mahrah, in Arabia Orientale, "la lingua del popolo di Ad," e il Dr. J.H. Carter, nel Bombay Journal di luglio 1847, dice: "E’ il linguaggio più morbido e dolce che abbia mai sentito". Sarebbe interessante confrontare questa lingua primitiva con le lingue del Centro America.
Il dio Thoth degli Egiziani, che proveniva da un paese straniero e che inventò le lettere, era chiamato At–hothes.
In sanscrito Adim significa in primo luogo. Tra gli indù il primo uomo si chiamava Ad–ima, la moglie era Heva. Essi si stabilirono su un’isola, che si dice essere Ceylon; lasciarono l’isola e raggiunsero la terra ferma, quando, a causa d’un sommovimento terrestre di grande importanza, la loro comunicazione con la terra madre fu tagliata per sempre.
Ritroviamo così i figli di Ad alla base di tutte le razze più antiche di uomini, cioè gli Ebrei, gli Arabi, i Caldei, gli Indù, i Persiani, gli Egizi, gli Etiopi, i Messicani e i Centroamericani; testimonianza che tutte queste razze facessero riferimento per le loro origini ad un vago ricordo di Ad–lantis.
E forse fu proprio a questi, prima che agli ebrei, che Yahweh/Allah volse la sua attenzione in luogo della scelta del suo popolo prediletto per i suoi piani di conquista secoli prima della chiamata di Abramo.
Dalla Bibbia sappiamo a un certo punto che “…Abramo uscì dalla città di UR dei Caldei…” (Keltoi?) per raggiungere la terra promessa, la terra di Canaan, su indicazione diretta di Dio/Yahweh/Enlil. Possiamo collocare temporalmente nel XVIII sec. a.C. la partenza della tribù di Abramo verso Canaan, ovvero 3800 anni fa, esattamante alla fine dell’azione Kurgan nel continente europeo.
Questo avvenne perché dopo il Diluvio nazioni e popoli superstiti dell’antica età dell’oro atlantidea salvatisi grazie all’intercessione di Enki vennero spartiti tra gli Elohim per promuovere la cosiddetta Rinascita Enkilita ovvero il sogno del fratello “buono” di ricostituire l’età dell’oro antidiluviana ricominciando con una umanità riformattata.
Ma Yahweh, probabilmente imparentato con Enlil come si evince dalle ricerche dei De Angelis schematizzate nella seguente tabella venne escluso da questa spartizione.

Immagine

A un Elohim fu assegnato l’Egitto, a un altro la valle dell’indo, a un terzo la zona europea dove sorsero le prime società gilaniche, ad altri le nazioni mesopotamiche e ad altri ancora le regioni del continente nord e sudamericano e così via. A Yahweh non fu assegnato nulla… se lo prese da solo.
Ma al contrario di quanto abbiamo sempre pensato non fu la stirpe di Abramo dei Caldei di Ur la sua prima scelta. La Sura XI del Corano illustra un’altra storia, la storia di Hud, precedente ad Abramo, in visita presso i superstiti del potente popolo “gigante” degli Aditi i quali rifiutarono l’offerta di Yahweh.
Un offerta, quella di Yahweh, che non poteva essere rifiutata e che costò loro la vita.
Il popolo degli Aditi venne così cancellato, facendo entrare nel mito la città di Iram delle mille colonne, Ubar e l’intera storia del popolo Adita dalle cui ceneri sorse nei successivi secoli il potente regno della Regina di Saba, alleata questa volta del Regno di Israele, il popolo prescelto da Yahweh… come seconda scelta!


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:27 
CENTRALI ENERGETICHE DELL'ANTICHITA'

Cita:
"Farai un'arca di legno d'acacia; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, la sua larghezza di un cubito e mezzo e la sua altezza di un cubito e mezzo. La rivestirai d'oro puro sia dentro che fuori; le farai al di sopra una ghirlanda d'oro, che giri intorno. Fonderai per essa quattro anelli d'oro, che metterai ai suoi quattro piedi: due anelli da un lato e due anelli dall'altro lato. Farai anche delle stanghe di legno di acacia e le rivestirai d'oro. Farai passare le stanghe negli anelli ai lati dell'arca, perché servono a portarla. Farai anche un propiziatorio d'oro puro (un coperchio); la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo e la sua larghezza di un cubito e mezzo. Alle due estremità metterai due cherubini d'oro lavorati al martello. In modo che le loro ali spiegate in alto coprano il propiziatorio e la faccia rivolta l'uno verso l'altro e verso il propiziatorio. Lì io mi incontrerò con te; dal propiziatorio, fra i due cherubini parlerò e ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figli d'Israele. (Esodo 25,10)”



L’Arca dell’Alleanza, uno degli oggetti più sacri, più misteriosi e al tempo stesso più ricercato. L'Arca dell'Alleanza era il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai. Su di loro erano incisi i Dieci Comandamenti. L'Arca fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga 110 cm circa di lunghezza per 67 cm di larghezza e profondità.

Immagine

La costruzione dell'Arca ricorda il principio dei condensatori elettrici, due conduttori separati da un isolante.

Costruita con legno di acacia e rivestita d'oro, in modo analogo ad altre casse rivestite d'oro rinvenute in Egitto, veniva posta in una zona secca dove il campo magnetico naturale raggiunge in genere 500 o 600 Volt per metro verticale, in modo da caricarla attraverso la ghirlanda d'oro che la circondava; in pratica l'arca si comportava come un condensatore.

Era comunque un generatore di forze sconosciute, non controllabili, mortali. Tanto che gli israeliti dovevano stare per legge a circa un kilometro di distanza durante la movimentazione da parte di quei pochi eletti che avevano accesso a questo stupefacente manufatto. i leviti.

A chiunque altro era vietato toccarla; quando Davide fece trasportare l'arca a Gerusalemme, durante il viaggio un uomo di nome Uzzà vi si appoggiò per sostenerla, ma cadde morto sul posto

Forze così potenti da aiutare gli israeliti alla conquista della Palestina durante le sanguinose campagne di conquista di Giosuè nelle quali compare la presenza diretta del dio degli ebrei: Yahweh. Una presenza forse non solo simbolica, ma un vero e proprio supporto militare e tecnologico offerto da un soggetto così importante da essere ritenuto il “divo”, il “dux”, termine successivamente storpiato in “dio” e abbinato alla trascendenza e alla spiritualità. Trascendenza e spiritualità che poco centrano con il significato originale della parola che invece rappresenta un modello da seguire, o meglio ancora, il punto di riferimento per il popolo ebraico. Yahweh appunto.

L’Arca dell’Alleanza era pertanto un generatore di energia, o parte di un sistema ancora più complesso di produzione massiva di energia. Energia che poteva essere usata come arma (Gerico), come strumento di telecomunicazione (i dialoghi tra Mosè e Yahweh) e per altre svariati utilizzi.
La prova del suo potere sta nella lettura delle istruzioni per la costruzione del Tabernacolo, la Tenda del Convegno dove veniva custodita l'arca e delle precise regole per accedere al suo interno allo scopo di proteggere le vite umane:

Cita:
"...non entrare in qualunque tempo nel santuario, al di là della cortina, davanti al propiziatorio che è sull'Arca, altrimenti potresti morire, perché io apparirò entro una nube, sul propiziatorio. Vesti la sacra tunica di lino, metti sulla carne i calzoni di lino, cingi i fianchi di una cintura di lino, e copri la tua testa con una tiara di lino... lava prima la tua carne con l'acqua e poi vestiti." (Esodo 26)



La prima volta che l’Arca compare nella Bibbia avviene in Esodo, con Mosè che guida il proprio popolo fuori dall’Egitto portando con sé questo incredibile manufatto. Esodo che secondo la tradizione giudaico-cristiana sarebbe stato scritto da Secondo la tradizione ebraica e molte confessioni religiose cristiane più legate alla lettera del testo biblico, il libro dell'Esodo sarebbe stato scritto da Mosè in persona.

Immagine

Nonostante i pareri discordi tra gli egittologi, l’esodo biblico può forse collocarsi con buona probabilità durante il regno di Ramses II, al più tardi sotto il regno del figlio, Merenptah. Se la presenza degli ebrei, chiamati apiru dagli antichi egizi, è attestata già sotto il regno di Thutmosis III, con l’avvento di Ramses II le notizie si fanno più dettagliate: erano addetti al trasporto delle pietre per un tempio citato nel Papiro 348 di Leida e compaiono anche nel Papiro Harris. Alcuni di essi esercitavano anche la professione di fabbricanti di mattoni, come raccontato in Esodo. A differenza del testo biblico mancano però notizie di loro proteste o ancor più di ribellioni. Nessuna fonte egiziana finora in nostro possesso parla di un esodo o di più uscite dall’Egitto.

Non possiamo dimenticare che la radice del nome Mosè è di origine egiziana, derivando dalla parola egizia moses che significa “figlio, fanciullo”, formula abbreviata che ritroviamo nei nomi di faraoni quali Thut-mosis (“figlio di Thot”), Ramses (Ra-Moses “figlio di Ra”), etc. e non dalla radice ebraica mashah che significa “trarre fuori”, da cui erroneamente mosheh “salvato dalle acque”. Ciò è stato addotto come prova alla tesi freudiana secondo la quale Mosè in realtà sarebbe stato un condottiero egiziano altolocato che solo la leggenda giudaica posteriore avrebbe reso di origine ebraica, mentre la tribù di Levi a cui, secondo la Bibbia, apparteneva, sarebbe stato il suo gruppo di fedeli accompagnatori, formato appunto da scribi e servitori

Un altro famoso autore, il filosofo greco giudaico Filone, contemporaneo di Gesù, e iniziatore della tradizione esegetica di Alessandria, ci ha lasciato un utilissimo resoconto su ciò che Mosè imparò a corte:

Cita:
“Aritmetica, geometria, la scienza del metro, ritmo e armonia, gli furono insegnate dai più colti tra gli egiziani. Essi lo istruirono inoltre nella filosofia tradotta in simboli che si trova nelle cosiddette iscrizioni sacre”. Inoltre apprese dagli abitanti dei paesi vicini “le lettere assire e la scienza caldea dei corpi celesti”. Mosè potè approfondire lo studio dell’astrologia presso la stessa corte. Secondo Schurè, Mosè venne costretto da Ramses all’iniziazione sacerdotale per timore che il giovane aspirasse al trono. L’importante funzione di “scriba sacro del tempio di Osiride” allontanava dal trono ma comprendeva “la simbolica sotto tutte le sue forme, la cosmografia e l’astronomia”. L’istruzione presso il santuario lo avvicinava inoltre all’arca d’oro “che precedeva il pontefice nelle grandi cerimonie” e che racchiudeva “i dieci libri più segreti del tempio, che trattavano di magia e di teurgia”.



Come ha giustamente rilevato G. Hancock, il mistero del nome sacro divino “Jahvè” affonda le proprie origini nella tradizione magica egiziana. Il nome Jahvè deriva dal tetragramma YHWH, trascrizione latina delle iniziali ebraiche della formula basata sul verbo essere “Io sono colui che sono (e che sarò)”, che dovrebbe significare che Dio è il solo veramente esistente. Il nome divino considerato sacro e impronunciabile, viene sostituito durante la lettura dei testi ebraici dal termine Adonai, “Signore”, termine che, per la notevole somiglianza linguistica, alcuni studiosi hanno associato non solo ad “Adonis”, divinità fenicia, ma anche al nome egizio Aton, il dio del culto “monoteistico” del faraone Akhenaton.

Nel 1922, infatti, due linguisti, H. Bauer e P. Leander, dichiararono che Adonai non era una parola semitica, ma un prestito “presemitico” di provenienza ignota. Questa scoperta avallò la supposizione che tra Adonai e Aton vi fosse qualcosa di più che una casuale affinità fonetica. I seguaci di Freud poterono così ipotizzare che il nome di Aton, divinità messa al bando dai sacerdoti di Amon dopo la morte del faraone eretico, fosse entrata nella lingua ebraica sotto mentite spoglie con il significato di “Signore”, ma con riferimento a una divinità, anch’essa unica e assoluta (anche se, come riscontrato per il culto del disco solare egizio, non sempre riconosciuto come un vero monoteismo, anche il monoteismo ebraico si è affermato soltanto a partire dal Deuteronomio).

Cercando di spiegare il nome Jahweh con lingue diverse dall’ebraico, è stata anche ipotizzata un’origine madianita del nome e della divinità, origine che sarebbe derivata dal suocero di Mosè, Ietro, sacerdote di Madian, il luogo dove Mosè si era rifugiato dopo aver commesso l’omicidio di un sorvegliante egiziano e dove avvenne la prima rivelazione del roveto ardente.

L’interessante articolo di Enea Baldi “Le corna di Mosè”, apparso sul numero di Rinascita del 27 marzo 2010, ci induce a riassumere per sommi capi un’altra storia, a nostro avviso estremamente interessante, relativa a quel particolare momento della mitologia ebraica noto come “esodo” che, secondo la versione biblica, farebbe riferimento alla fuga delle popolazioni ebraiche dall’Egitto dei faraoni alla ricerca, sotto la guida di Mosè, della “terra promessa”, ad essi garantita in virtù di un “patto” stipulato con il loro dio.

Si tratta di una storia puramente ipotetica, mancando in parte oggettivi riscontri storicamente documentati, ma comunque decisamente verosimile – ed in ogni caso più verosimile della maggior parte dei racconti biblici ed evangelici, ai quali una quantità enorme di individui presta fede pur in totale assenza di qualsiasi verifica storica, quando non addirittura in aperta contraddizione con la storia stessa.

Per motivi di spazio ci limiteremo ad enunciare i fatti fondamentali, fornendo la bibliografia essenziale per chi fosse interessato ad un più approfondito esame dell’argomento.

Intorno al 1300 a.C. Akhenaton, passato alla storia come “il faraone ribelle”, contrappone un culto monoteista a quello politeista in vigore in tutto l’Egitto, forse continuando l’opera intrapresa da suo padre Amenophis III; fonda una nuova capitale ad Amarna, a circa 200 km a sud del Cairo; il popolo resta però in maggioranza fedele agli antichi dei. Seguaci di Akhenaton e del nuovo ed unico dio Aton saranno una esigua minoranza della popolazione egizia, alcune razze tipicamente africane e la quasi totalità degli hyksos, i discendenti delle tribù semite che intorno al XVII secolo a.C. avevano invaso il nord dell’Egitto dominandolo per due dinastie, prima di essere definitivamente sottomessi.

Dopo circa diciassette anni di governo Akhenaton scompare nel nulla e la restaurazione politeista si accanisce contro di lui con una accurata damnatio memoriae: quasi tutti i segni visibili del suo passaggio – iscrizioni, sculture, documenti – vengono distrutti; la stessa città di Amarna è rasa al suolo.

Secondo recenti ipotesi un’insurrezione della popolazione, guidata dal clero tebano, costrinse il faraone eretico ad abbandonare l’Egitto per stabilirsi in Palestina con tutti i suoi seguaci; a conferma di ciò esiste una lettera nella quale il governatore di Gerusalemme fa esplicito riferimento al divieto di abbandonare le terre dell’esilio.

La identificazione del faraone ribelle ed esiliato col Mosè biblico dell’esodo ebraico appare estremamente logica; sono infatti facilmente rintracciabili le numerose analogie storiche, circostanziali e cronologiche tra i due personaggi.

In ogni caso Mosè, che fosse un fedelissimo di Akenaton o lo stesso faraone “eretico”, era sicuramente un iniziato ai misteri avendo ricevuto dai sacerdoti Egizi avanzate nozioni di chimica e fisica e, di conseguenza, sapeva come realizzare qualsiasi marchingegno; grazie anche a misteriosi strumenti di sconosciuta origine, dei quali si sono perse le tracce, ma che sono stati menzionati in documenti accreditati e venerati come scritture sacre, come per esempio il famoso "Shamir" di cui abbiamo parlato in un nostro precedente articolo.

Per questo motivo, quando questi lasciò il paese portò con sé l’oggetto più prezioso che avesse mai visto, suscitando la rabbia degli antichi egizi che cercarono di riprenderselo, ma senza riuscirci. Il prezioso manufatto era ormai nelle mani degli ebrei.

Già, perché sarebbe sbagliato ipotizzare la comparsa dell’Arca con Mosè, in quanto “arche” esistevano anche in precedenza con le medesime caratteristiche di quella più nota nella tradizione giudaico-cristiana. Sempre che non ci si stia riferendo invece all’unico esemplare di questo strabiliante oggetto passato di mano in mano attraverso i millenni.

c'è una cosa curiosa che riguarda quello che da alcuni è ritenuto il faraone biblico . Nelle raffigurazioni della battaglia di Kadesh ad Abu Simbel si può vedere che l'esercito di Ramesse II aveva all'interno del proprio accampamento una tenda (esattamente come faranno qualche anno dopo gli ebrei di Mosè) da cui partivano le invocazioni per gli dei. Nella tenda sono raffigurati due avvoltoi con le ali che si guardano, che riprende quasi la rafigurazione classica dell arca dell'Alleanza.

Immagine

Così come questa raffigurazione di una “Arca” in stile ‘egiziano’:

Immagine

Per cui Yahweh, fornendo le istruzioni di costruzione dell’Arca, non stava offrendo a Mosè un “brevetto” innovativo, ma la possibilità di riprodurre una copia di quella già in possesso degli Egizi e forse Mosè decise a quel punto di sottrarre direttamente quella egiziana piuttosto che doverne costruire una nuova.

Da dove venne portata via non è dato saperlo, ma una coincidenza può aiutarci a individuare dove gli egizi conservassero e utilizzassero la loro “Arca” di cui abbiamo già citato le sue capacità energetiche e il suo comportamento equivalente a quello di un ‘condensatore’.
Il sarcofago di Cheope (dove in realtà non è mai stato trovato nessun resto del faraone né tracce che la sala centrale della Grande Piramide fosse in verità il suo luogo di riposo eterno) ha giustappunto le idonee misure per contenere l’Arca egiziana che a questo appunto assume realmente la funzione di uno dei principali componenti del sistema di produzione energetico dell’antichità.

Immagine
Il sarcofago di Cheope

Se è vero che l’Arca poteva essere un generatore elettrico, o di un altro tipo di energia sconosciuta, capace di produrre terribili scariche da circa 700 volt allora la Piramide nella quale vi era introdotta diventa di fatto una enorme centrale elettrica ante litteram.

Come funzionerebbe questo sistema? Per capirlo dobbiamo fare riferimento al lavoro di ricerca portato avanti da Mario Pincherle nelle sue opere e alla struttura interna della Grande Piramide e al pilastro Zed ivi contenuto.

Immagine

La cosa interessante è che, sia lo Zed che la vasca del sarcofago sono in granito, un materiale che conduce elettricità, perché nel granito c'è un'alta concentrazione di cristalli di quarzo, che come ben sappiamo hanno proprietà piezoelettriche; infatti tutti gli oggetti elettronici che conosciamo oggi contengono quarzo.

Quindi l'Arca (generatore) in oro, veniva messa al suo posto, nella vasca del sarcofago in granito, che azionandosi conduceva l'energia a tutto lo Zed anch'esso in granito, che amplificava la forza, il tutto aiutata dal Piramidion in oro in cima alla piramide che attraeva ulteriore energia dall'alto, probabilmente direttamente dalla ionosfera esattamente come Tesla avrebbe riscoperto millenni dopo. Il tutto poi protetto dagli enormi blocchi interni ed esterni della piramide, che guarda caso sono in calcare, un materiale isolante.

Cosa avevano capito gli antichi egizi? Cosa aveva capito Nikola Tesla nei primi anni del ‘900?

Avevano capito che la cavità Terra-ionosfera può essere considerata come un grande condensatore elettrico le cui armature sono costituite da due sfere concentriche, la Terra e la ionosfera. La carica di questo condensatore rimane approssimativamente costante nel tempo. La condizione di equilibrio elettrostatico del sistema è garantita dai meccanismi fisici che consentono la continua rigenerazione del campo elettrico. Questi meccanismi sono i responsabili di gran parte del rumore elettromagnetico che si osserva sulla superficie terrestre e che permea l'intera cavità. Per mantenere carico questo condensatore è necessaria una potenza dell'ordine di 400 MW.

Immagine

In condizioni di bel tempo il campo elettrico in prossimità della superficie terrestre ha un valore medio di circa 120 V/m a cui corrisponde una densità superficiale di carica di -1.2 pC/m2. Integrando questo valore su tutta la superficie terrestre si ottiene la carica totale negativa della Terra di 0.5 MC. Una carica uguale e di segno opposto è ovviamente presente sul bordo della ionosfera. Il campo elettrico atmosferico decresce esponenzialmente con la quota, a 10 km il campo si riduce a 5 V/m, a 30 km il campo è di soli 0.3 V/m. Integrando il campo elettrico dalla superficie terrestre fino alla ionosfera si ottiene la differenza di potenziale esistente tra Terra e ionosfera che è di circa 300 kV. Nell'atmosfera fluisce una corrente verticale la cui densità è di circa 2 pA/m2, integrando tale valore della densità di corrente su tutta la superficie terrestre si ha una corrente totale di circa 1350 A che scorre tra la ionosfera e la superficie terrestre. Questa corrente di scarica è dovuta alla presenza di cariche elettriche che rendono l'atmosfera leggermente conduttrice. Alle quote basse la sorgente principale si trova sulla superficie terrestre.

Tesla capì come potere utilizzare questa inesauribile fonte di energia. In vari testi, Tesla spiegò, che la Terra stessa si comporta come un circuito LC risonante, quando è eccitato elettricamente a certe frequenze. A Wardenclyffe operò a frequenze che variano da 1 000 Hz a 100 kHz. Tesla trovò l'intervallo di frequenza tra 30 – 35 kHz, essere molto economico. L'eccitazione di risonanza di terra vicino ad una frequenza fondamentale (approssimativamente 7.5 a 7.9 Hz), suggerirebbe l'utilizzazione di quello che ora è noto come modo di risonanza di Schumann.

La terra intera può essere risonata elettricamente con una singola fonte del secondo tipo, così un sistema basato su una risonanza di terra richiederebbe, al minimo, che venga costruita solamente una struttura generatrice. Alternativamente potrebbero essere costruiti due distanti installazioni di generatori di primo tipo. Tale sistema non sarebbe così dipendente dall'eccitazione del modo di risonanza di terra. In ambo i casi sarebbe utilizzata un'onda di superficie o di terra, simile all'onda di Zenneck. Sarebbero utilizzate correnti di terra artificialmente indotte. Secondo Tesla, la grande area di sezione a croce del pianeta offre un percorso di resistenza basso per il flusso di correnti di terra. Le più grandi perdite sono adatte a verificarsi nei punti dove impianti emettenti / riceventi e dedicate stazioni riceventi sono connesse con la terra.

Questo è il motivo per cui Tesla affermò,

"Vedi, il lavoro sotterraneo è una delle parti più costose della torre. In questo sistema, che io ho inventato, è necessario per la macchina trovare una presa di terra, altrimenti non può scuotere la terra. Deve avere una presa sulla terra, così che l'intero globo possa vibrare e per fare ciò è necessario eseguire una costruzione molto costosa."

Per chiudere il circuito un secondo percorso sarebbe stabilito tra i terminali di alta-tensione elevati dei due impianti di primo tipo attraverso i rarefatti strati atmosferici sopra le cinque miglia. Il collegamento sarebbe fatto da una combinazione dell'induzione elettrostatica e conduzione elettrica attraverso il plasma.

Mentre un numero dei suoi brevetti senza fili, incluso "l'apparato per emettere energia elettrica" Brevetto Americano N. 1,119,732, del 1 dicembre 1914 descrive un sistema che usa lo schema di plasma-conduzione, il suo "Arte di emettere energia elettrica attraverso il mezzo naturale" Brevetto Americano N. 787,412, del 18 aprile 1905 ed alcune delle sue note di disegno di Wardenclyffe da 1901 mostrano che lui aveva anche un piano per indurre elettrostaticamente oscillazioni nel potenziale associate con l'auto-capacità di Terra trasferendo rapidamente grandi quantità di carica elettrica tra la grande capacità degli strati superiori e l'auto-capacità della Terra intera. Noi, ora, sappiamo che la terra è un corpo carico, in seguito a processi -almeno in parte- relativi all'interazione tra il fascio continuo di particelle cariche chiamate vento solare, che fuoriesce dal centro del nostro sistema solare e la magnetosfera della Terra.

E noi sappiamo anche che la stima della capacità di Tesla era corretta: la capacità della Terra è di circa 710 #956;F. "Ma gli strati superiori dell'aria sono conducenti e così, forse, lo è il mezzo nello spazio libero oltre l'atmosfera e possono contenere una carica opposta. Così la capacità dovrebbe essere incomparabilmente più grande."

Noi sappiamo, ora, che uno degli strati superiori dell'atmosfera della Terra, la ionosfera è conducente.

"In ogni caso è della più grande importanza avere un'idea di quanta elettricità la Terra contenga."

Un'altra cosa, di cui noi ora siamo consapevoli è che la Terra possiede una carica negativa esistente in natura riguardo alla regione che conduce dell'atmosfera, che comincia ad un'altezza di circa 50 km. La differenza potenziale tra la terra e questa regione è sull'ordine di 400 000 volt. Vicino alla superficie della terra c'è una campo elettrico diretto decrescente ed onnipresente di circa 100 V/m. Tesla si riferì a questa carica come il niveau elettrico o livello elettrico.

"è difficile dire se noi mai acquisiremo questa conoscenza necessaria, ma c'è da sperare di sì, ed ovvero, per mezzo della risonanza elettrica. Se mai noi possiamo accertare a che periodo la carica della terra, quando disturbata, oscilla rispetto ad un sistema oppostamente elettrificato o circuito noto, noi certamente conosceremo un fatto della più grande importanza, per il benessere dell'umanità. Io propongo di cercare il periodo, per mezzo di un oscillatore elettrico o una fonte di corrente elettrica alternata..."

Un'altra teoria su come la struttura da 200 kW senza fili funzionò richiede che la propagazione era per mezzo di radiazione elettromagnetica nella forma di onde di radio, anche nota come radiazione Hertziana.

Dal resoconto stesso di Tesla, il suo sistema di risonanza di terra funziona con la creazione di vibrazioni potenti nella naturale carica elettrica della Terra. Secondo le sue scritture, la struttura aveva uno scopo duplice. Lui aveva progettato più di quello che fu rivelato inizialmente ad i suoi investitori. La sua stazione non solo poteva trans-ricevere segnali di telecomunicazione, ma anche trasmettere potenza elettrica su scala ridotta. Egli affermò,

"Si intende dare dimostrazioni pratiche di questi principi con un piano illustrato. Appena completato, sarà possibile per un uomo di affari a New York dettare istruzioni e vederle immediatamente apparire in caratteri nel suo ufficio a Londra o altrove. Sarà capace di chiamare dalla sua scrivania e parlare con ogni abbonato telefonico sul globo, senza alcun cambio nell'attrezzatura esistente. Uno strumento poco costoso, non più grande di un orologio, servirà al suo portatore per sentire dovunque, su mare o terra, musica, canzone o discorso di un leader politico, l'indirizzo di un uomo eminente di scienza o il sermone di un ecclesiastico eloquente, trasmesso in un altro luogo comunque distante. Nella stessa maniera ogni ritratto, carattere, disegno o stampa può essere trasferito da un luogo ad un altro. Milioni di tali strumenti possono essere controllati da un sistema di questo genere. Più importante di tutto questo, comunque, sarà la trasmissione di potenza, senza fili, che sarà mostrata su una scala grande abbastanza da essere convincente."

Complessivamente, il sistema sembra simile ad una bobina di Tesla molto grande.

La bobina risuona solo se accoppiata ad un condensatore. Da sola,costituisce solo una reattanza,ossia una resistenza per onde alternate. Ed ecco che torna in auge l’Arca dell’Alleanza!

Per cui lo Zed non è nient’altro che una bobina di Tesla, accoppiata all’Arca dell’Alleanza che fungeva da condensatore, entrambe inserite nella Grande Piramide per produrre energia free sfruttando la differenza di potenziale tra la terra e la ionosfera indotta dall’architettura stessa della piramide, ma soprattutto grazie alla presenza del Pyramidion d’oro sul vertice di quella che l’archeologia tradizionale si ostina a definire come ‘la tomba di un faraone’.

Immagine
Confronto tra la Wardenclyff Tower di Tesla e lo Zed egiziano

Possibile che gli antichi egizi avessero già scoperto tutte queste cose? Possibile che fossero in possesso di tecnologie così avanzate?

O forse è più ragionevole pensare che quanto in loro possesso sia soltanto una minima parte di un più ampio retaggio ottenuto da quelle civiltà antidiluviane tradizionalmente collegate al mito di Atlantide?

Possiamo dunque ipotizzare che l’insieme di scienza, tecnologia, conoscenza esoterica, alchimia e quant’altro posseduta dalle civiltà antidiluviane sopravvisse al cataclisma conosciuto come Diluvio Universale avvenuto circa dodicimila anni fa. Parte di quella tecnologia fu tramandata attraverso gli Elohim biblici, di cui Yahweh fu uno degli esponenti, alle società umane post-diluviane e gelosamente custodite da una ristrettissima cerchia di ‘eletti’ poiché difficilmente riproducibili con gli strumenti e le tecnologie concesse all’umanità ai tempi.

Anzi, forse fu lo stesso Yahweh a contravvenire agli ordini di non interferire con il percorso di evoluzione definito per gli uomini dagli stessi Elohim offrendo al popolo da lui scelto delle tecnologie proibite.

Sono convinto che continuando la ricerca sui collegamenti tra società antidiluviane e post-diluviane saremo in grado di trovare nuove chiavi di lettura per ricostruire il “Mosaico della Verità” di cui abbiamo a mio parere tante tessere a disposizione, ma non ancora così ben chiaro il quadro d’insieme per poterle incastrare nella maniera corretta.

Ci arriveremo…


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:29 
I COMANDAMENTI DEGLI ELOHIM

Ogni individuo, ogni popolo, ogni cultura, ogni nazione, sente la necessità di definire la propria morale e regolamentare la propria società attraverso un corpo di leggi imperative, di usi e costumi e di consuetudini atte a consentire la possibilità della sopravvivenza del singolo e della collettività.

Il primo tentativo in tal senso, o meglio il primo conosciuto storicamente è il Codice di Hammurabi, scoperto dall'archeologo francese Jacques de Morgan nell'inverno 1901-1902 fra le rovine della città di Susa, è una fra le più antiche raccolte di leggi. Si conoscono altre raccolte di leggi promulgate da re sumerici e accadici, ma non sono così ampie ed organiche. Venne stilato durante il regno del re babilonese Hammurabi (o Hammu-Rapi), che regnò dal 1792 al 1750 a.C., secondo la cronologia media. Le disposizioni di legge contenute nel Codice sono precedute da un prologo nel quale il sovrano si presenta come rispettoso della divinitá, distruttore degli empi e portatore di pace e di giustizia. Il codice fa un larghissimo uso della Legge del taglione, ben nota nel mondo giudaico-cristiano per essere anche alla base della legge del profeta biblico Mosè. Per fortuna da quel tempo le società umane hanno avuto il tempo di evolversi superando gli ovvi limiti del codice di Hammurabi.

E’ il senso di tutti i sistemi legislativi e di governo di tutte le nazioni del mondo, compresa la nostra carta costituzionale e l’insieme di leggi che nel corso della storia hanno concorso a realizzare il sistema di diritto nazionale, come in Italia così in tutti gli altri paesi europei e oltre.

Ma prima ancora delle carte costituzionali, delle dichiarazioni di indipendenza e degli altri sommi documenti costitutivi di una nazione esistono delle leggi fondamentali, supreme, intrinseche e proprie dell’essere che valgono come punti di riferimento universali per gli uomini e le donne di quella specifica cultura.

Poche semplici regole di comportamento, tramandate da millenni che ormai fanno parte di noi senza che ce ne rendiamo più nemmeno conto. Norme e usi universali abbiamo detto, ma al tempo stesso specifiche per la cultura che le ha realizzate. Osserveremo di seguito che queste, seppur orientate tutte all’elevazione spirituale dell’Uomo, possono infatti differire anche notevolmente tra di loro in funzione del retaggio culturale da cui sono scaturite. Chi si concentra di più sulle relazioni Uomo-Uomo, chi tra il rapporto Uomo-Natura, chi addirittura Uomo-Anima.

I nativi indiani d’America, prima dello sterminio fisico e culturale, dei migranti dell’ultimo millennio, sono stati forse uno dei popoli più saggi mai evoluti sulla terra, e questo, grazie proprio alla loro comunione con la natura. Questo ha dato loro la saggezza e l’umiltà per scoprire le regole di giusto comportamento senza le quali non possiamo vivere una vita in armoniosa sulla terra.

Immagine

Quindi non leggi imposte dall’esterno, ma da una profonda autoregolamentazione imprescindibile per vivere, di cui ne presentiamo una sintesi:

- La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

- Onora e rispetta tutti i tuoi parenti.

- Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

- Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

- Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

- Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

- Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

- Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

- Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

- Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

In oriente prevale l’influenza delle grandi religioni induista e buddista. Il Bushido (#27494;#22763;#36947; Bushid#333;, letteralmente «la via del guerriero») è un codice di condotta e un modo di vita – simile al concetto europeo di cavalleria e a quello romano del mos maiorum adottato dai samurai, cioè la casta guerriera in Giappone. Sebbene risalga al 660 a.C., questo codice fu citato per la prima volta nel K#333;y#333; Gunkan (1616) e messo organicamente per iscritto, in seguito, da Tsuramoto Tashiro, che raccolse le regole del monaco-samuraiYamamoto Tsunetomo (1659 – 1719) nel noto testo Hagakure.

Ispirato alle dottrine del buddhismo e del confucianesimo adattate alla casta dei guerrieri, il Bushido esigeva il rispetto dei valori di onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore, i quali dovevano essere perseguiti fino alla morte.

Immagine

Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell'onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L'eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

In: Compassione
L'intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. è diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d'aiuto ai propri simili e se l'opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.

Rei: Gentile Cortesia
I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.

Makoto o Shin: Completa Sincerità
Quando un Samurai esprime l'intenzione di compiere un'azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l'intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di "dare la parola" né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell'onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

Chugi: Dovere e Lealtà
Per il Samurai compiere un'azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.

Il Buddhismo o Buddismo è una delle religioni più antiche e più diffuse al mondo. Originato dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama, comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle Quattro nobili verità.

Con il termine Buddismo si indica più in generale l'insieme di tradizioni, sistemi di pensiero, pratiche e tecniche spirituali, individuali e devozionali, nate dalle differenti interpretazioni di queste dottrine, che si sono evolute in modo anche molto eterogeneo e diversificato. Sorto nel VI secolo a.C. come disciplina spirituale assunse nei secoli successivi i caratteri di dottrina filosofica e di religione "ateistica".

All'origine ed a fondamento del Buddhismo troviamo le Quattro nobili verità. Si narra che il Buddha, meditando sotto l'albero della bodhi, le comprese nel momento del proprio risveglio spirituale.

Immagine
A sx Monaco buddhista in meditazione nel Wat Mahathat (Sukhothai,Thailandia). A dx Proselitismo buddhista al tempo del re Athoka (260-218 a.C.), così come descritto dai suoi editti.

Ora vediamo i dieci comandamenti secondo la Sacra Bibbia, la Parola di Dio, secondo i credenti cristiani. Esodo 20:2-17:

1) "Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me.

2) Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

3) Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.

4) Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo.

5) Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà.

6) Non uccidere.

7) Non commettere adulterio.

8) Non rubare.

9) Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

10) Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo"

Quello che non tutti forse conoscono è che i dieci comandamenti traggono ispirazione diretta da una fonte ancora più antica: il Libro dei Morti. Il Libro dei Morti (o più propriamente I capitoli del giorno che viene) era il testo funerario sacro per gli antichi egizi pieno di formule e invocazioni per accedere all'altra vita.

Il Libro dei Morti veniva sempre sepolto insieme al defunto, così da averlo con se, oppure veniva direttamente disegnato all'interno del sarcofago. Una cosa è certa, mai un'anima avrebbe vagato nell'aldilà senza questo importantissimo aiuto!

Il Libro dei Morti è una raccolta di testi funerari di varia natura, che si diffondono a partire dal Nuovo Regno e che gli Egizi chiamavano: "Formule per uscire nel giorno". I diversi capitoli sono introdotti da un titolo e spesso vengono accompagnati da scene. Fondamentalmente il Libro dei Morti è una sorta di manuale da portarsi appresso nel lungo e difficile cammino nell'aldilà fino a giungere al cospetto di Osiride. Infatti, dopo morti, non si giungeva subito al Paradiso o all'Inferno, ma bisognava affrontare una serie di ulteriori prove che, senza questo libro in aiuto, era quasi impossibile superare. Infatti quasi tutti i sarcofagi vennero internamente dipinti con il Libro dei Morti, o, in alternativa, il papiro veniva posizionato accanto alla mummia del defunto. Lo scopo del testo è per l'appunto, il conseguimento di spirito eletto al quale si giunge attraverso un percorso disseminato di pericoli e insidie, che si possono superare solo conoscendo e recitando le formule magiche appropriate.

Al termine del viaggio si giunge alla prova finale, il giudizio davanti al tribunale di Osiride che rappresenta il momento cruciale per conseguire la piena sopravvivenza ed essere accolto in Paradiso, tra gli dèi. Il defunto viene accompagnato per mano da Anubi di fronte a 42 dei che gli chiedono di confessare 42 peccati terreni. Dopo che il defunto confessa di essere totalmente innocente e di non averne mai compiuto neppure uno, il dio con la testa di sciacallo, posiziona il suo cuore sulla bilancia insieme alla piuma di Maat (la verità). Toth, che ha come testa un ibis, dio della scrittura e della conoscenza, segna su di un papiro il risultato (che guarda caso viene rappresentato sempre positivo! Si tendeva così a portar fortuna...), se il cuore è più leggero della piuma, allora l'anima è pura e Horus, con la testa di falco lo condurrà per mano di fronte a Osiride che, accompagnato dalle mogli e sorelle Iside e Nephtis, lo accoglierà nei cielo. Se invece il cuore pesa più della piuma, allora sarà divorato dal mostro Ammut.

Immagine

Il tema della "pesatura delle anime" viene ripresa a volte anche dall'iconografia cristiana e viene chiamata "PSICOSTASI". Al posto di Osiride, Iside e tutti gli altri dei abbiamo la seguente raffigurazione: sulla bilancia si trovano due anime, sottoposte a giudizio al momento del trapasso. Il Bene (rappresentato dall’Arcangelo Michele con la spada sguainata) e il Male (rappresentato dal demonio alato) sorreggono la bilancia e si contendono le anime, il che ci riporta alla tesi del documentario Zeitgeist che la religione cristiana affonda le proprie radici nei culti pagani egizi.

Immagine

Sembra che il Libro dei Morti sia nato in epoche ancora più antiche rispetto al periodo arcaico delle prime dinastie.

Secondo Wallis Budge la fonte primaria del libro non è di origine Egiziana poichè l’opera, anche nella più antica Recensione, contiene insegnamenti e cognizioni talmente elaborate e sottili non ascrivibili agli indigeni dell’epoca ma sono da ascrivere probabilmente ad una precedente civiltà molto evoluta. In questo Libro ho trovato molto interessante la Confessione Negativa, composta di oltre quarantadue "confessioni" di comportamenti, che il defunto doveva affermare davanti al giudice Supremo Osiride ed ad altri 42 Dei minori invocati come "Signori di Verità e Giustizia". Tali dichiarazioni al negativo ricordano i Dieci Comandamenti, ma a mio avviso alcune sono molto più profonde e presuppongono un alto contenuto di civiltà e saggezza che noi non abbiamo ancora raggiunto. Ne elenco alcune e giudicate voi:

Non ho fatto piangere nessuno
Non ho ostacolato la Verità
Non ho terrorizzato nessuno
Non ho commesso iniquità contro gli uomini
Non ho maltrattato i sottoposti
Non ho maltrattato gli animali
Non ho cercato di conoscere ciò che non si deve .
Non ho calunniato
Non ho affamato nessuno
Non mi sono arrabbiato senza giusta causa
Non sono stato ingiusto
Non ho esagerato con le mie parole
Non ho agito con arroganza
Non ho agito con odio

Poi vi sono altre confessioni tipo Non ho ucciso, Non ho bestemmiato, Non ho rubato ecc che sappiamo bene sono ripresi anche dalla religione cristiana con i Dieci Comandamenti. Ricordiamoci che, secondo la tradizione Mosè, era stato educato alla corte dei Faraoni.

Si può notare come per gli antichi Egiziani sia altissimo il senso della Giustizia e fondamentale la conseguente ricerca della Verità per questo invocavano i loro Dei come "Signori di Verità e Giustizia" . Per loro il mondo non era vivibile se non veniva sconfitta l'ingiustizia e ricercata la verità. Nei Testi delle Piramidi è detto: "Dì ciò che è, non dire ciò che non è, l'abominio di Dio è la falsità della parola".

Il più sublime "Comandamento" tra quelli riportati sopra, penso, sia Non ho fatto piangere nessuno! Che equivale più o meno al messaggio cristiano dell’ama il prossimo tuo come te stesso e il “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” che furono dimenticati nella stesura dei dieci comandamenti di matrice ebraica e che Gesù Cristo venne sostanzialmente a integrare diversi secoli dopo.

Possibile che Yahweh, se davvero si trattava del dio trascendente creatore dell’intero creato, si sia dimenticato di alcune leggi universali? Possibile che non si interessasse di questi aspetti? La domanda è ovviamente retorica. Le risposte possono essere trovate nello studio dei cosiddetti vangeli gnostici, ma non è argomento di oggi, almeno non del tutto.

Nel passato, in momenti di crisi delle loro società, eminenti personaggi come Erodoto, Pitagora, Platone, Plutarco, Apuleio ecc hanno cercato un messaggio di verità e certezza nella civiltà e società Egizia che ancora era presente. Oggi, dopo oltre duemila anni, in una società che ha perso ancora di più tutti gli antichi valori, moltitudini di persone, forse anche inconsciamente, si rivolgano, sempre più numerosi, alle antiche civiltà, soprattutto quella egiziana, per trovare delle certezze. Una civiltà che, prima distrutta dalle legioni romane e poi sepolta dalle nuove Religioni, mantiene ancora intatti i sui valori universali che si riassumano in due parole: Verità e Giustizia.

Più ci si addentra nello studio di questa civiltà così perfetta, più ci si rende conto di quanta falsità, voluta, pervada la nostra società. Una cosa ci inquieta e ci resta da capire: come poteva questa civiltà avere, fin dal suo albore, un senso della rettitudine così elevato? Chi aveva dato loro queste certezze?

Per capirlo dobbiamo tornare indietro di diversi secoli, quando dopo il Diluvio gli dei si riunirono in assemblea per decidere le sorti dell’Umanità sopravvissuta al terribile cataclisma. Durante questa assemblea gli dei si spartirono i territori e i popoli sopravvissuti di modo da poter ricostruire nei millenni a venire nazioni prosperose sul piano tecnologico e culturale così come lo erano state quelle antidiluviane.

Una suddivisione territoriale originariamente nata a fin di bene pertanto, propedeutica al trasferimento di quelle conoscenze necessarie a guidare la “Rinascita” dell’Umanità dopo la tremenda catastrofe alla quale era stata sottoposta. Conoscenze riconducibili all’allevamento, all’agricoltura, alla metallurgia, e anche alla definizione di un sistema di norme destinato a regolamentare i rapporti Uomo-Natura-Stato-Anima a seconda dell’idea e della filosofia dell’Elohim di riferimento. Conoscenze che venivano concesse secondo un piano temporale ben preciso che doveva evitare il rischio di conferire tecnologie avanzate a popolazioni non ancora in grado di usarle. Fornireste voi il segreto dell’atomo a sparuti gruppi di allevatori-contadini?

Ecco quindi che l’Egitto fu assegnato a uno o più Elohim con il/i suo/i carattere/i, l’area mesopotamica a un secondo Elohim, il mesoamerica a un terzo ancora, l’oriente al successivo e così via.

Alcuni Elohim erano più importanti di altri e furono assegnate loro quelle popolazioni destinate a diventare le prime grandi società urbanizzate della nostra storia, altri Elohim minori ebbero in dote tribù minori. Alcuni territori e gli umani ivi residenti non vennero assegnate… troppi pochi Elohim a disposizione per tutti.

Divinità che secondo diverse teorie alternative non corrispondono all’idea di esseri trascendenti, onnipotenti, ma esseri in carne ed ossa, molto più simili pertanto agli esseri umani, molto più tangibili che immateriali. Richiamiamo qui le teorie di Mauro Biglino, gli studi di Biagio Russo e le teorie degli Antichi Astronauti di Von Daniken e Tsoukalos.

Ma se questi esseri, che per comodità chiameremo Elohim/Anunnaki seguendo i termini riscontrabili nel testo biblico così come nelle epopee sumere tradotte dal Kramer, erano più “umani” che “divini” allora dovevano avere le stesse peculiarità di noi esseri umani: sentimenti, passioni, idee, psicologia, specifiche per ciascuno di loro.

Nel corso dei nostri studi abbiamo identificato due correnti principali:

- Lato A: seguaci degli Anunnaki di Enlil, i quali temono un essere umano ‘potente’ considerato l’aspetto animale implicito nel concetto di ibridazione iniziale;

- Lato B: seguaci degli Anunnaki di Enki, che invece auspicano un percorso di progresso tecnologico parallelo a un percorso di evoluzione spirituale.

Alle quali correnti si aggiunge un terzo incomodo. Già, poiché durante l’Assemblea degli Anunnaki a un Elohim non fu concesso nulla. Non sappiamo il perché. Forse poiché non ritenuto idoneo dai suoi ‘colleghi’ divini. Il suo nome è Yahweh e, colpito dall’offesa ricevuta, decise in cuor suo di prendersi con la forza ciò che gli fu negato andando a cercare una di quelle popolazioni non sotto la tutela di altri Elohim come ad esempio gli Aditi di Ubar o una tribù di Ur nella quale viveva un tale di nome Abramo.

Anche per essi era necessario realizzare un corpus legislativo idoneo a formare il proprio popolo come una nazione, ma nel caso degli Ebrei di Yahweh per farlo dobbiamo aspettare l’arrivo di Mosè e l’Esodo dalla terra d’Egitto.

Torniamo allora ai dieci comandamenti più famosi, quelli su cui sostanzialmente si fonda l’occidente giudaico-cristiano. Ecco che gli stessi non ci appaiono più come regole universali dettate da un dio unico trascendente, immanente, onnipotente e infallibile. Essi sono il tentativo, parzialmente copiato peraltro dalla raffinata cultura egiziana, di formare un popolo e una nazione, prima della conquista del territorio che Yahweh si scelse unilateralmente contravvenendo a quanto disposto in sede di assemblea dagli altri Elohim: la Palestina… e poi il mondo.

Immagine
Mappa che mostra la diffusione delle religioni abramitiche (color porpora) nei confronti delle Religioni darmiche (in giallo) – quasi 5 miliardi di persone invocano Yahweh come dio unico.


Top
 Profilo  
 

Stellare
Stellare

Avatar utente

Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

Non connesso


Messaggi: 16367
Iscritto il: 01/10/2009, 21:02
Località:
 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 02/12/2014, 13:31 
QUEGLI UOMINI DALLA PELLE BLU

Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/ ... O_ID=10073

Gli uomini dalla pelle blu, ieri come oggi, sono lì, a testimoniare l’esistenza di una storia che non conosciamo[/b]

Immagine

Lunedì 23 Settembre moriva in un ospedale di Washington, per un ictus legato alle complicazioni di un carcinoma prostatico che l’aveva colpito da diversi anni, il californiano (anche se originario dell’Oregon) sessantaduenne Paul Karason, l’uomo che aveva stupito il mondo con la sua insolita pelle blu e la folta barba bianca, caratteristiche che gli erano valse il soprannome di “Grande Puffo”.

La causa della pigmentazione della sua epidermide deriva dal fatto che, così come riportato nell’articolo di un noto quotidiano nazionale italiano, Paul Karason si era sottoposto tempo fa a una cura a base di argento colloidale per curare alcuni problemi dermatologici. Tuttavia, come effetto «collaterale» la sua faccia era diventata completamente blu. La colorazione era infatti dovuta ad un vecchio medicinale ampiamente utilizzato prima della scoperta della penicillina, un preparato a base di argento sotto forma colloidale appunto, che Karasan si era fatto in casa e autosomministrato per oltre dieci anni; voleva curarsi una dermatite da stress insorta dopo la morte del padre.

Immagine
Paul Karason nel video della NBC

Karason ha passato gli ultimi anni della sua vita isolato dal mondo, fino a quando uscì allo scoperto nel 2008. Il suo isolamento finì quando comparì per la prima volta in una video-intervista trasmessa dal canale NBC durante uno speciale del programma “Today” da cui sono tratte le immagini sopra riportate. La partecipazione alla trasmissione gli fruttò la fama mondiale, le interviste e le ospitate televisive, ma fu anche la sua maledizione, perché a causa del colore della sua pelle fu costretto a trasferirsi dall'Oregon alla California, perse la casa e non trovò mai un lavoro fisso.

Seppur molti articoli riportanti la notizia della sua morte tendano a collegare l’utilizzo dell’argento colloidale alla sua morte sarebbe interessante sapere davvero quanto l’uso del medicamento possa aver influito nell’ evoluzione di tale patologia e se altre persone che ne hanno abusato in epoca precedente al suo divieto abbiano subito delle modificazioni neoplastiche a livello prostatico.

L'argento colloidale è stato messo fuorilegge negli Stati Uniti dal 1999 proprio a causa degli effetti indesiderati che scatena dopo l'assunzione per lunghi periodi e in grandi quantità.

Ma è altresì vero che altre correnti di studio dimostrerebbero l’efficacia dell’argento colloidale nella cura di numerose malattie e patologie. Prima dell'avvento degli antibiotici nel 1938 l'argento colloidale era considerato come uno dei fondamentali trattamenti per le infezioni. E' stato provato essere efficace contro più di 650 differenti malattie infettive, a confronto degli antibiotici chimici che forse lo sono contro una mezza dozzina. La seguente è una lista parziale, tratta dal sito Disinformazione.it, di alcuni usi documentati dell'uso dell'argento, particolarmente nella forma colloidale per il trattamento di varie malattie e agenti patogeni.

Acne, artrite, ustioni, avvelenamento del sangue, cancro, candida albicans, colera, congiuntivite, cistite, difterite, diabete, dissenteria, eczema, fibrosi, gastrite, herpes, herpes zoster (fuoco di S.Antonio), impetigine, infiammazione della cistifellea, infezioni da lieviti, infezioni oftalmiche, infezioni dell'orecchio, infezioni alla prostata, infezioni da streptococchi, influenza, problemi intestinali, lebbra, leucorrea, lupus, malaria, meningite, morbo di Lyme (borelliosi), pertosse, piede d'atleta, polmonite, pleurite, reumatismi, riniti, salmonellosi, scarlattina, seborrea, setticemia, tumori della pelle, verruche, sifilide, tubercolosi, tossiemia, tonsillite, tracoma, ulcere.

Il ritorno dell'argento in medicina risale ai primi anni '70. Il dott. Carl Moyer, presidente del Washington Department of Surgery, ricevette un contributo per sviluppare migliori trattamenti per le vittime di ustioni. Il dott. Margraf, biochimico, lavorò con il dott. Moyer e altri chirurghi per trovare un antisettico abbastanza forte ma anche sicuro da usare su ampie parti del corpo. Il risultato dei loro sforzi fu quello di trovare centinaia di nuovi utilizzi medici per l'argento. Quella colloidale è l'unica forma di argento che può essere usata con sicurezza come integratore.

E' assorbito nei tessuti lentamente così da non causare irritazioni, diversamente dal nitrato di argento, che, data la sua azione tossica, reagisce violentemente con i tessuti del corpo. Le particelle colloidali si diffondono gradualmente attraverso il sangue fornendo un'azione terapeutica prolungata nel tempo. Molte forme di batteri, funghi e virus utilizzano un'enzima specifico per il loro metabolismo. L'argento agisce come catalizzatore disabilitando l'enzima. I microrganismi in questo modo soffocano.

Per le forme di vita primitive come i microrganismi, l'argento è tossico come i più potenti disinfettanti chimici. Non c'è alcun organismo nocivo che possa vivere in presenza di anche minuscole tracce di semplice argento metallico. Secondo test di laboratorio, batteri distruttivi, virus e funghi sono eliminati nel giro di pochi minuti di contatto. Il dott. Larry C. Ford del Department of Obstetric and Gynecology, UCLA School of Medicine, USA, in una lettera datata 1 novembre 1988 scrive che le soluzioni di argento hanno proprietà battericida e fungicida per la Candida Albicans e la Candida Globata.

Il dott. E.M. Crooks ha dichiarato che l'argento colloidale elimina organismi patogeni in tre o quattro minuti di contatto. Infatti non c'è microbo conosciuto che non sia ucciso dall'argento colloidale in sei minuti o meno e senza produrre effetti secondari. L'argento colloidale è efficace contro parassiti, infezioni, influenza, e fermentazione. E' senza gusto, senza odore e non tossico.

E' efficace ai pasti come aiuto alla digestione in quanto impedisce la fermentazione dei cibi nell'intestino. Non macchia la pelle, diversamente da alcuni preparati farmaceutici a base di argento che lo fanno in maniera notevole. Il dott. L. Keene (John Hopkins University) ha affermato che dal punto di vista terapeutico, solo i metalli colloidali presentano la necessaria omogeneità, le dimensioni delle particelle, la purezza e la stabilità per un grande risultato terapeutico.

L’argento colloidale è conosciuto da molto tempo in ambito medico alternativo per le sue speciali proprietà. Già dai tempi dei greci e dei romani, le corti reali usavano banchettare con posate d’argento in recipienti dello stesso metallo, tanto che si diceva il sangue nobile blu, derivasse a causa delle minute tracce del puro metallo che assimilavano regolarmente.

Altre applicazioni dell’argento colloidale sono:
- in Canada, Svizzera ed USA i medici utilizzano vari tipi di argento per curare molteplici infezioni;
- negli USA l’argento è usato nella chirurgia delle ossa;
- naturopati e omeopati usano l’Argento colloidale per il 70% degli ustionati gravi;
- nella Medicina Cinese, nell’Ayurveda e nell’omoepatia i terapeuti usano regolarmente l’argento nei loro trattamenti;
- in Svizzera i biochimici stanno studiando la capacità dell’Argento di interrompere la replicazione delle cellule HIV (AIDS) nei vari stadi;
- la NASA utilizza un sistema di purificazione dell’acqua con argento sugli space shuttle, la stessa cosa la fanno i russi;
- le compagnie aeree Air France, Alitalia, British Airways, Canadian Pacific, Japan Air Lines, KLM, Lufthansa, Olympic, Pan Amaro Svedese, SAS e Swissair utilizzano filtri d’acqua in argento per circroscrivere le infezioni batteriche;
- l’argento viene utilizzato spesso nelle piscine al posto del cloro il quale è invece risultato essere un elemento chimico altamente tossico;
- aziende giapponesi usano l’Argento per rimuovere assido cianidrico e nitrico dall’aria.

Ma l’argento non è il solo elemento chimico utilizzato a livello molecolare in ambito medico.

Da tempo l'oro viene usato per fini medici. Ha effetti impareggiabili sul corpo fisico e per il trattamento di alcune malattie. Intorno al 1885 l'oro colloidale era comunemente usato in America come base nella cura della dipsomania (il bisogno incontrollabile di assumere alcol). L'oro colloidale originale è noto per le sue proprietà antiinfiammatorie. Pare che sia efficace per alleviare il dolore e il gonfiore causato da artrite, reumatismi, borsite e tendinite. In passato veniva usato per placare il bisogno di assumere alcol, per disturbi digestivi, problemi circolatori, depressione, obesità e ustioni. Si ritiene che sia molto efficace per ringiovanire le ghiandole, nel prolungare la vita e migliorare le funzioni cerebrali.

Anche se l'oro colloidale originale non esercita la stessa azione germicida e antibatterica dell'argento colloidale originale, può avere l'effetto di bilanciare e armonizzare il corpo, in particolare nei casi di instabilità mentale ed emotiva, come la depressione, S.A.D. (disturbo legato al cambio di stagione), malinconia, dolore, paura, disperazione, angoscia, frustrazione, tendenze suicide... le malattie comunemente chiamate "male di vivere". Da sempre l'oro è noto per il suo effetto sull'attività cardiaca, dato che migliora la circolazione sanguigna.

Ricerche mediche e cliniche hanno dimostrato che l'oro può essere usato per curare artrite, reumatismi e sifilide. è utile nel trattamento di tubercolosi, sclerosi multipla, disfunzioni sessuali, problemi spinali, lupus discoide, incoordinazione ghiandolare e nervosa, asma bronchiale, e in alcune operazioni alle terminazioni nervose. L'oro colloidale ha un effetto diretto sulle cellule, specie quelle cerebrali e nervose, ha proprietà sedative che tuttavia non intaccano la trasmissione degli impulsi nervosi. L'oro viene usato comunemente in medicina, fra l'altro per strumenti chirurgici nel trapianto dei tessuto osseo e negli aghi per agopuntura.

In un articolo medico sui tumori non operabili, il dott. Edward H. Ochsner, consulente chirurgico all'ospedale di Augustana, negli USA, ha scritto che l'oro colloidale può avere un effetto inibitorio sulla crescita dei tumori. Le sue ricerche hanno dimostrato che può contribuire a ridurre le dimensioni dei tumori, alleviare il dolore, migliorare l'appetito e la digestione, e aumentare il peso e la forza fisica. è insapore, non è tossico e viene preparato senza additivi, trasportatori né coloranti, con lo stesso processo con cui produciamo il nostro "argento colloidale originale".

Si dice che le origini dell'oro risalgano ad Atlantide, dove i maestri guaritori ne ammiravano le proprietà terapeutiche. Era usato essenzialmente per sviluppare il chakra del cuore, ma anche per la sua capacità di amplificare il pensiero: la purezza dell'oro conserva i pensieri più elevati rendendoli accessibili per il futuro.

Essendo un buon conduttore di elettricità e di forme di pensiero, era un metallo molto costoso e veniva utilizzato nelle poche procedure chirurgiche praticate in quella società. L'oro veniva usato anche per aprire il terzo occhio (v. tradizioni vediche). La sua resistenza agli acidi e al deterioramento rendeva l'oro un metallo perfetto da usare per impiantare vari talismani direttamente sul corpo fisico. La resistenza dell'oro al calore e a forme di vita estranee consentivano questi impianti nel corpo. Tali impianti sono stati trovati nei resti mummificati di diverse civiltà: cinese, egizia, inca, maya e persino in Europa.

L'oro è ampiamente usato nella medicina antroposofica secondo la quale l'energia vitale è compromessa dall'esposizione ad elementi tossici, sia materiali che emotivi. L'oro colloidale originale è uno dei maggiori rinnovatori della nostra forza vitale, poiché agisce in profondità sul DNA delle cellule creando l'ambiente interno necessario per aiutare il corpo ad invertire le condizioni degenerative. Favorisce inoltre la produzione di una frequenza armonica specifica che ottimizza il funzionamento del DNA e aiuta il corpo a correggere stati degenerativi quali il cancro, l'artrite, ed altri tipi di squilibri autoimmuni. Contribuisce inoltre ad alzare la frequenza generale di risonanza armonica della cellula. Gli elementi naturali dell'acqua energizzata contenuti in questa formula sono noti per il loro ruolo nella produzione di energia nel corpo, poiché consentono di mantenere e stabilizzare le frequenze elettromagnetiche ed i modelli specifici dell'oro colloidale.

Se il caso di Paul Karason ha dimostrato che l’utilizzo di argento colloidale, e più in generale di medicine e cure “non convenzionali”, può portare a una pigmentazione della pelle di colore blu la raffigurazione delle divinità secondo l’iconografia di molte civiltà antiche assume un significato diverso. Forse che questi antichi dei, così come Paul Karason, assumessero sostanze chimiche allo stato molecolare per curarsi o reintegrare la loro energia vitale o per scopi che ancora non abbiamo compreso del tutto?

Immagine
Divinità rappresentate con la carnagione blu

Amon in Egitto fu spesso raffigurato con il viso blu e la carnagione blu, così come anche Shou, Thoth, venivano raffigurati di colore azzurro o blu. Vishna in India, celebrato come il Dio Supremo. In Guatemala, in Messico, Colombia, Perù, Bolivia, leggende tramandate per secoli, parlano di visitatori di colore blu. Il grande dio Sin, di Khafajah, antica città mesopotamica che conobbe il suo splendore con il popolo sumero sotto anche conosciuto come il Dio dalla pelle azzurra e dai capelli di lapislazzuli.

E sono proprio i sumeri a descrivere nelle loro storie risalenti a un passato remoto di Anunnaki che già 450.000 anni fa erano alla ricerca proprio di oro da utilizzare in molteplici applicazioni, forse tra le quali comparivano anche quelle applicazioni molecolari medico-curative.

Enki era il comandante della prima spedizione e dopo 28.000 anni giunse il fratello Enlil, questi prese il comando della spedizione dopo che Enki si trasferì in Africa nei pressi dell'attuale Zimbabwe, per estrarre oro dai vasti giacimenti là presenti nel sottosuolo.

L'oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma ricordate che stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa!

Le singole rovine sono in gran parte costituite da cerchi di pietre. La maggior parte sono stati sepolti sotto la sabbia e sono visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni sono stati esposti, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta.

Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi, come il popolo bantu, che si spostò verso sud e si stabilì in questa terra intorno al sec. XIII. Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata. Poco sforzo fu stato fatto per indagare il sito perché la collocazione storica delle rovine non era per nulla nota.

Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa.

Immagine

Immagine

Immagine

Immagine

Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l'oro. è anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Giardino dell’Eden: Genesi 2:11 - Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c'è l'oro. Il Sud Africa è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. La più grande zona di produzione d’oro del mondo è il Witwatersrand, la stessa regione dove l'antica metropoli si trova. Infatti nelle vicinanze di Johannesburg, una delle città più note del Sud Africa, è anche un luogo chiamato "Egoli", che significa la città d'oro.

Sembra molto probabile che l'antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l'offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d'oro? Non si può mangiare. E' troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili. Non è molto utile per qualsiasi cosa, tranne gli ornamenti e la sua bellezza fisica è pari con altri metalli come il rame o l’argento. Perché mai l'oro divenne così importante per i primi Homo sapiens?

Forse un retaggio di conoscenze perdute antidiluviane ereditate dagli homo sapiens-sapiens delle civiltà storicamente e tradizionalmente conosciute, quelle stesse che raffiguravano i loro “Antichi Dei” con la pelle blu. Quegli stessi “Antichi Dei” che lasciarono in eredità quelle antiche conoscenze a cui appartenevano anche le applicazioni farmaceutiche di alcuni elementi chimici o altro che potrebbero oggi permettere un salto in avanti non indifferente alla scienza medica ma che al tempo stesso rappresentano un grosso pericolo per le multinazionali chimico-farmaceutiche e l’enorme mercato del farmaco basato su brevetti e sui principi attivi di proprietà di una ristretta oligarchia che controlla il mondo.

I nobili da sempre si uniscono tra di loro, tra consanguinei, forse proprio per preservare a livello genetico un ceppo, una radice comune e antica, collegata a quegli “Antichi Dei”, discendenti di un tempo remoto dimenticato dalla storia che vive ancora oggi nei miti di Atlantide e dell’Età dell’oro. Come sostiene Giorgio Pastore nel suo libro “Dei del Cielo, Dei della Terra” pubblicato da Eremon Edizioni nel 2007 a pagine 243 e 244, all’origine della credenza che i nobili e l’aristocrazia di tutti i secoli siano collegati agli atlanti dei c’è la conferma di Manetone e di Erodoto relativamente al fatto che gli Egizi, i quali facevano molta attenzione all’uso dei colori nei loro affreschi dipingevano Amon e Shu con la pelle azzurra e Osiride e Thot con la pelle verde. Questi sarebbero stati abitanti di Atlantide, scampati al disastro che interessò la loro terra così come il resto del mondo. La prima elìte. I primi sovrani del mondo.

A tal proposito non possiamo tralasciare il fatto che ancora oggi esistono popolazioni di indios dalla pelle tendente al blu sugli altopiani delle Ande oppure il fatto che gli antichi abitanti della Scozia usassero dipingersi la pelle di blu oppure ancora che i Tuareg, popolazione berbera nomade del deserto del Sahara sono anche soprannominati "Uomini Blu", con riferimento alla tradizione degli uomini di coprirsi il capo ed il volto con un velo blu (la tagelmust), del cui colore rimangono alcune tracce sulla pelle.

Immagine
Un tuareg

Tradizioni, usi e costumi sorgenti forse in ricordo delle caratteristiche fenotipiche dei loro dei o dell’utilizzo che questi facevano dell’argento e dell’oro colloidale proprio come Paul Karason oggi di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo. Caratteristiche genetiche recessive che forse permangono ancora nel codice genetico del genere homo nascoste tra centinaia e centinaia di combinazioni di caratteristiche genetiche dominanti, ma che in taluni, rarissimi, casi e a determinate condizioni riemergono, fornendo oggi preziosi indizi sul nostro passato che difficilmente vengono colti come tali.

In America vive dal 1800 una famiglia con la pelle blu, sono i Fugate. Il colorito bluastro è frutto di un’anomalia genetica a carattere recessivo, che è diventata “dominante” a seguito dei numerosi matrimoni e unione fra consanguinei. Il gene della methaemoglobinemia, questa la definizione dell’alterazione del DNA che la provoca, era inizialmente presente nel codice genetico di Elizabeth Smith, una ragazza dalla carnagione molto chiara e dai capelli rossi, che incontrando e sposando Martin Fugate, un orfano di origini francesi stabilitosi tra le montagne del Kentucky, aveva dato alla luce 7 figli, quattro dei quali con la pelle blu.

Immagine
La famiglia Fugate in una immagine dell’epoca

La loro condizione, come sottolineano gli studiosi che ne sono venuti a conoscenza nel 1958, è stata ulteriormente accentuata dall’isolamento in cui si trovavano a vivere e quindi dai rapporti sessuali incestuosi. Inoltre, come spiega sul Try City Herald, Ruth Pendegrass, la ricercatrice che si è occupata della famiglia Fugate-Smith, la loro tipicità genetica, detta anche met-H, rendeva il sangue più denso e scuro, provocando anche una riduzione dell’ossigeno nel flusso sanguigno.

Essi, quindi per “potersi vedere come gli altri” e cioè, con una pelle rosea, avevano bisogno di sottoporsi a una serie di trattamenti che modificassero il pigmento naturale dell’epidermide. La dottoressa Pendegrass, infine, ha riportato che, con il passare degli anni, la generazione dei Fugate-Smith ha iniziato a combinarsi con altri individui “esterni” a loro, permettendo al gene met-H di diventare recessivo e “statisticamente insignificante”.

Solitamente il gene che provoca questa malattia è naturalmente recessivo, è capitato però che i Fugate in seguito si imparentassero con un altra famiglia, gli Smith, e in questa famiglia qualcuno possedeva il medesimo gene recessivo. A causa del ristretto numero di appartenenti alla comunità, le due famiglie continuarono a unirsi tra consanguinei e i membri della famiglia continuarono ad avere la caratteristica carnagione blu, fino agli anni’ 60. Gli uomini dalla pelle blu, ieri come oggi, sono lì, a testimoniare l’esistenza di una storia che non conosciamo, ma che abbiamo il diritto di sapere e il dovere di ricercare. Un altro tassello del puzzle a cui cerchiamo di trovare la collocazione idonea nel grande Mosaico della Verità.


Top
 Profilo  
 
Visualizza ultimi messaggi:  Ordina per  
Apri un nuovo argomento Rispondi all’argomento  [ 236 messaggi ]  Vai alla pagina Precedente  1, 2, 3, 4, 5 ... 16  Prossimo

Time zone: Europe/Rome


Non puoi aprire nuovi argomenti
Non puoi rispondere negli argomenti
Non puoi modificare i tuoi messaggi
Non puoi cancellare i tuoi messaggi
Non puoi inviare allegati

Cerca per:
Vai a:  
cron
Oggi è 28/03/2024, 18:06
© 2015 UfoPlanet di Ufoforum.it, © RMcGirr83.org