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Siti megalitici in Italia: i giganti hanno abitato anche la nostra penisola
30 dicembre 2013 | Sei in Archeologia, Misteri, Primo Piano
Sul territorio italiano esistono gigantesche mura megalitiche e strutture poligonali realizzate con enormi blocchi, alcune delle quali risalgono all'età del bronzo. Le leggende tramandano che siano opere realizzate dai ciclopi, gigantesche divinità che abitarono la terra nella notte dei tempi. E' possibile che queste costruzioni siano le vestigia di un'antica stirpe italica di giganti?

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L’Italia era un tempo abitata dai giganti? Chilometri di muri costruiti con enormi blocchi di pietra poligonale ancora sopravvivono in Italia.

Si tratta di rovine molto antiche, straordinariamente uniche nel loro genere, realizzate con una tecnica simile a quella utilizzata dalle popolazioni Inca e Pre-Inca del Perù: enormi pietre sagomate per essere incastrate perfettamente senza malta.

E come in Perù, queste straordinarie opere hanno resistito a secoli di abbandono e al successivo saccheggio per fini costruttivi da parte degli Etruschi e dei Romani.

Purtroppo, sono pochi gli studiosi italiani che si interessano a questo meraviglioso patrimonio culturale e antropologico, tanto che sono in pochi anche a conoscerne l’esistenza. “Di mura megalitiche è ricca l’Italia”, spiega Giulio Magli, docente di archeoastronomia al Politecnico di Milano. “Si tratta di capire perché si costruivano queste mura con questi blocchi enormi utilizzati come fossero semplici mattoni”.

Come spiega il ricercatore italiano, si tratta di monumenti ‘muti’, nel senso che chi li ha costruiti o non aveva ancora la scrittura o non ha scritto di loro. Ora si tratta di capire, attraverso l’archeoastronomia perché li hanno realizzati e se c’erano legami con fenomeni astronomici.

Si sa molto poco sui costruttori preistorici di queste grandi strutture. La maggior parte dei siti si trova nell’Italia centrale, in particolare nel Lazio meridionale. Sono opere che da secoli incuriosiscono studiosi e viaggiatori, e che per il loro aspetto bizzarro e futuristico, la leggenda ne attribuisce la costruzione ad una stirpe estinta di umani giganti chiamati Ciclopi.

Una qualche verità storica riguardo all’esistenza di una popolazione o tribù che rispondesse al nome di “Ciclopi” ci viene data da Tucidide nel libro VI delle sue Storie allorquando si accinge a parlare delle popolazioni barbare esistenti in Sicilia prima della colonizzazione greca. Così scrive:

«Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono: basti quello che è stato detto dai poeti e quello che ciascuno in un modo o nell’altro conosce al riguardo».

Molti altri scrittori e storici classici, tra cui Omero, Esiodo, Plutarco e Diodoro Siculo hanno attribuito la costruzione delle strutture megalitiche italiane (e d’Europa in generale) ai Ciclopi. Costoro erano descritti come molto più alti, forti e intelligenti dell’uomo, tanto da avere la capicità e la forza di spostare enormi massi e costruire opere ‘ciclopiche’. Così scriveva nel 1848 Louisa Caroline Tuthill, nella sua Storia dell’Architettura:

«In tempi remoti, prima della nascita di Roma, l’Italia era abitata da popoli che hanno lasciato monumenti indistruttibili a testimonianza della loro storia. Quelle meravigliose e precoci città d’Italia, che sono state definite ciclopiche, sono fittamente sperse in molte regioni, e spesso appollaiate sulle creste delle montagne come nidi d’aquila, ad una tale altitudine che viene da chiedersi cosa abbia spinto gli uomini ad edificare in luoghi tanto inaccessibili».

Eppure, nonostante la vastità delle rovine ciclopiche presenti sul territorio e le numerose testimonianze letterarie, si ha l’impressione che gli studiosi contemporanei non prendano sul serio queste testimonianze antiche, anzi, si ha l’impressione che per gli archeologi italiani la storia antica della penisola italiana cominci con gli Etruschi, e tutto ciò che c’era prima non è degno di essere studiato. Perchè?

In realtà, non sembra una forzatura affermare che nel secolo scorso in Italia (e in Europa) sembra esserci stato un sottile cover-up su questi siti archeologici, ignorandoli e facendoli cadere nel dimenticatoio. E’ come se l’elite che governa il mondo non volesse che il mistero delle antiche rovine megalitiche venga ampiamente divulgato. Ancora, perchè?

Un indizio del sottile cover-up è il fatto che la maggior parte delle persone, soprattutto gli italiani, non sono affatto a conoscenza dell’esistenza di tali rovine. Molti ci vivono accanto senza capirne l’importanza, né la valenza storica ed esistenziale. E ciò è davvero molto strano considerata il grado di complessità di queste rovine preistoriche.

Un’altra stranezza è che in ambito accademico, anche se vengono menzionati in opere importanti del passato, si afferma che i costruttori di tali opere, i ciclopi, non siano mai esistiti. Più in generale, quando si cerca di parlare con uno studioso di oggi di una possibile stirpe di giganti vissuta in tempo remoto sul nostro pianeta, questi reagisce o con il sarcasmo, smorzando il confronto con una risata, oppure utilizzando la tecnica dello struzzo, e cioè mettere la testa sotto la sabbia per non percepire il pericolo che minaccia le sue granitiche convinzioni.

Certamente, uno studioso di epoca vittoriana non avrebbe riso. A proposito, molti degli studiosi vittoriani erano donne, creature dalla mentalità più aperta e libera.

Strutture ciclopiche italiane

Di seguito proponiamo una serie di strutture megalitiche presenti sul territorio Italiano, almeno quelle di cui siamo venuti a conoscenza fino ad adesso. L’idea potrebbe essere quello di realizzare un database in rete dove raccogliere il materiale scientifico e fotografico che riguarda le strutture ciclopiche italiane.

Se nella vostra zona sono presenti strutture del genere, potete inviare il materiale fotografico e descrittivo all’indirizzo email: navigatorecurioso@gmail.com. Per il momento vi rinviamo all’ottimo portale murapoligonali.it, dove sono state tratte alcune delle immagini mostrate di seguito.


Alatri (Lazio)

E’ un comune della provincia di Frosinone ed è una delle principali città della Ciociaria. È l’antica Aletrium, che fu uno dei centri principali del popolo italico degli Ernici. Nota soprattutto per l’acropoli preromana cinta da mura megalitiche.

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Alba Fucens (Abruzzo)

Alba Fucens è un sito archeologico italico, nata come colonia di diritto latino, che occupava una posizione elevata e ben fortificata (situata a quasi 1.000 m s.l.m.) ai piedi del Monte Velino, a 7 km circa a nord dell’odierna città di Avezzano.

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Amelia (Umbria)

Amelia, anticamente nota con il nome di Ameria, creata da Ameroe, è una città di origini antichissime: fu certamente tra i primi centri italici. Catone, citato da Plinio, afferma che la città fu restaurata 964 anni prima della guerra dei romani contro Perseo, re di Macedonia, e quindi nel 1134 a.C. Testimonianza di tale vetustà sono le monumentali mura poligonali (V-IV secolo a.C.), che cingono gran parte dell’abitato, unitamente a quelle romane e medievali, per circa 2 km.

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Atina (Lazio)

La leggenda attribuisce ad Atina origini antichissime: sarebbe stata fondata da Saturno nella mitica età dell’oro, insieme ad altre 5 città del Lazio che cominciano con la lettera A. Le fonti storiche e letterarie attestano con ragionevole certezza la sua esistenza in età preromana: è noto che in un passo dell’Eneide Virgilio la inserì tra le città che prepararono le armi in soccorso di Turno contro Enea.

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Cosa (Toscana)

Fu una colonia romana nei pressi di Orbetello. Il nome sembra che derivi da quello di una vicina città etrusca, Cusi o Cosia, che doveva sorgere vicino alla spiaggia che oggi si chiama Lido del venerabile nella vicina laguna di Orbetello.

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Norba Latina (Lazio)

Norba latina, fu un’antica città sui monti Lepini, in posizione dominante sulla pianura pontina a sud di Roma, presso l’attuale Norma, in provincia di Latina. La leggenda ci narra che Norba fu fondata da Ercole o dai ciclopi. La dottoressa Stefania Quilici Gigli, che da anni dirige le attività di scavo del parco archeologico, ha fornito uno studio per cercare di ricostruire la storia di Norba. Già dalla fine del IX secolo a.C. la zona circostante alla città di Norba conobbe un cospicuo popolamento, di cui sono testimonianza la necropoli di Caracupa, alcune tombe nell’area attigua all’Abbazia di Valvisciolo e le mura megalitiche sul Monte Carbolino.

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Pietrabbondante (Molise)

Si trova nell’Alto Molise, a 1027 m s.l.m. Il nome derivò al paese dalla gran quantità di pietre e sassi disseminati nel suo territorio.

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San Felice Circeo (Lazio)

Il paese di San Felice Circeo ha una storia antichissima che inizia con gli uomini di Neanderthal. Durante i secoli il Circeo sarà colonia romana, possedimento dei Templari durante il Medioevo, un feudo dei Caetani e infine roccaforte pontificia.


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Segni (Lazio)

E’ un comune italiano della provincia di Roma. I primi insediamenti nel territorio di Segni risalgono all’età del bronzo, ma l’abitato si sviluppò solo in epoca romana, tempo in cui Segni rivestì una posizione strategica sulla valle del fiume Sacco.


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http://www.ilnavigatorecurioso.it/2013/ ... -penisola/


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MessaggioInviato: 25/07/2014, 16:09 
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TREVI NEL LAZIO DALLA “TIRENNIDE” ALLE “CITTA’ COSMICHE”





Nel 1930 l’archeologo (medico omeopata) Evelino Leonardi, su commissione del regime fascista, ebbe il compito di ricostruire la genesi della razza umana partendo dallo studio delle “Mura Ciclopiche o Poligonali“ presenti in tutto il territorio del basso Lazio. Queste mura la cui data di costruzione e’ ancora imprecisata (probabilmente risalenti ad almeno 10.000 anni prima di Cristo) sono ancora oggi un mistero. Il dott. Leonardi che visse nel Circeo per alcuni anni, azzarda nel suo libro “Le origini dell’uomo” del 1937 un interessante ma quanto incredibile teoria suffragata da una dettagliata documentazione storica ed archeologica. Lui infatti teorizzò e dimostrò che nel mar Mediterraneo, in un territorio compreso tra la Toscana, Lazio, Corsica e Sardegna, si sarebbe sviluppata un’ antica ma tanto evoluta civiltà il cui impero era chiamato “Tirrenide”. Tirennide fu considerata da numerosi studiosi la colonia di Atlantide nel Mar Mediterraneo. Leonardi ci spiega, riprendendo gli scritti di Platone, che gli esploratori di Atlantide proveniendo dall’oceano Atlantico, varcarono le colonne d’Ercole sino ad arrivare in Sardegna e poi da lì avanzarono per la Corsica, la Toscana e il Lazio, sino ad insediarsi e colonizzare la parte a sud del Circeo e le attuali isole Pontine. Parte di questo immenso territorio che ora e’ ricoperto d’acqua, era da considerarsi appartenete al mondo emerso, infatti tracce di queste civiltà giacciono nei fondali del mediterraneo a largo del Circeo, come affermava anche l’ammiraglio Costantino Cattoi (archeologo, geografo e cartografo) nel 1934, colui che va considerato l’antesignano della moderna archeologia subacquea.

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La Tirrenide fu distrutta da un forte sisma seguito da un terribile maremoto che costrinse la sua popolazione ad emigrare verso est, in seguito questi migranti tornarono nelle terre di origine ed in particolare nelle zone del basso Lazio dove trovando un clima mite, rigogliosa vegetazione ed abbondanza di acqua, diedero vita a numerose piccole civiltà definite successivamente gli “Italici”.

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La maestosità dell'arco di Trevi e delle sue "Mura Ciclopiche".

I Tirennidi avevano sviluppato grandi conoscenze nei più svariati campi scientifici, tra cui l’astronomia, la meccanica e l’ingegneria edile. Infatti essi costruivano con enormi pietre opere gigantesche le cui tracce sono ancora oggi ben visibili in più parti d’Italia. Nel basso Lazio ed in particolare nel nostro territorio, la presenza delle mura megalitiche è la testimonianza del passaggio di questo evolutissimo popolo. A suffragio di queste teorie riprese in seguito da vari studiosi, nel 1980 fu fatta una eccezionale scoperta. Il ricercatore Giorgio Copiz, riformulando cartine geografiche del territorio ciociaro (chiamato anche Pentapoli di Saturno), si accorse che unendo con delle linee tutte le città attraversate dalle mura megalitiche, si otteneva un interessante e stupefacente disegno: la linea centrale della costellazione del Gemelli. Come per le piramidi che viste dall’alto rappresentano la costellazione di Orione, le nostre antiche mura megalitiche ridisegnano in terra la posizione di tutte le stelle appartenenti alla linea centrale della costellazione del gemelli. Da qui il nome di “Citta’ cosmiche” che sono: Segni, Norba, Alatri,Trevi nel Lazio, Ferentino, Veroli, Civita d’Antino, Angizia, Sora, Bovile, Ernica, Rocca d’Arce, Arpino, Montecassino, Castro dei Volsci, Fondi, Terracina, Formia, Gaeta, Roccamonfina, San Felice Circeo e Sezze. Trevi sulla carta rappresenta la stella piu’ luminosa: Castore. L’analogia con le piramidi d’Egitto e la costellazione di Orione e’ certo molto forte, ma se fosse reale come affermava Leonardi, sarebbe la prova che gli egizi discendessero dai popoli della tirennide che con le loro migrazioni portarono la loro tecnologia e la loro conoscenza in ogni parte del mondo.

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Sicuramente la necessità di orientarsi era alla base della metodica nella ricerca del luogo di costruzione di queste città e delle mura ciclopiche, e come afferma Copiz nel suo libro “Dagli Appenini ad Atlantide”, gli antichi costruivano i loro luoghi di vita in armonia con la natura e con il cosmo (chi fosse interessato consiglio di cercare il disco di Nebra); gli astri, il sole e la luna, rappresentavano la ciclicità del tempo al quale legare la propria esistenza e la produzione agricola fondamentale per il proprio sostentamento. Questa probabilmente la teoria piu’ concreta, ma ad usare un po’ di fantasia, perchè non pensare a queste citta’, disposte come il disegno del cielo, a dei messaggi rivolti a civiltà extraterrestri nell’‘attesa di un loro eventuale ritorno.??? Come testimoniano anche tanti altre opere monumentali sparse per il pianeta.

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Trevi nel Lazio Città cosmica

Certo e’ che di questi argomenti si conosce sempre poco, un po’ per la difficoltà nel razionalizzare il tema, un pò per la mancata promozione dei nostri luoghi che una politica totalmente assente non fa o non vuol fare, fatto sta che con gli stessi monoliti e le stesse leggende, paesi stranieri, hanno sviluppato intere economie intorno ad esse. Nel 2011 non si possono avere più scuse, quello che ci e’ stato lasciato è un eredità storica non indifferente che va conosciuta, apprezzata e valorizzata. Trevi nel Lazio non e’ semplicemente un luogo dove trascorrere una breve vacanza, Trevi nel Lazio e’ il “Luogo” e molto probabilmente la culla di un a storia e di una civiltà persa nei secoli dei secoli, che forse nemmeno immaginiamo possibile.

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La leggenda di IchnusaMilioni di anni fa, quando l’Italia non era ancora spuntata dal mare, esisteva un piccolo continente chiamato Tirrenide. Era una terra felice. C’erano grandi boschi e molto belli, monti alti e superbi, fiumi, laghi, animali di ogni specie e gente buona e pacifica. Ma un brutto giorno accadde un tremendo terremoto e tutte quelle bellezze furono distrutte, quel paradiso terrestre sparì. La terra si mise a tremare, i monti si spaccarono, i fiumi uscirono dagli argini e il mare mandò le sue onde rabbiose a travolgere il piccolo continente, che incominciò a sprofondare negli abissi del Mar Tirreno. La gente non sapeva più a quale santo votarsi, anche perché a quei tempi i santi non esistevano ancora. C’erano solo gli Dei, il re dei quali era Zeus, che in quel momento sembrava che fosse impegnato a bisticciare con sua moglie Era. Ma c’è anche chi racconta che quel terribile terremoto l’avesse provocato proprio Zeus, in uno dei suoi proverbiali momenti di malumore. Come fu, come non fu, il fatto è che la Tirrenide stava per sprofondare miseramente negli abissi marini. Soltanto un brandello di quella terra, ormai non più felice, resisteva con forza e gagliardia al furore delle onde gigantesche. A questo punto, Zeus, pentito della sua collera, decise di intervenire e di salvare il salvabile. Scese velocemente dall’Olimpo, volò sul Mar Tirreno e con il suo sandalo bloccò quel lembo di Tirrenide che ancora galleggiava. Così salvò la Sardegna, ma le lasciò il marchio indelebile del suo gran piede divino.


http://trevinellazio.wordpress.com/2011 ... -cosmiche/


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L'uomo del pliocene di Savona

Scoprire di abitare a pochi chilometri dal luogo della scoperta di uno dei più importanti esemplari dell'Archeologia Proibita italiana è stata una sorpresa inaspettata per il sottoscritto, appassionato sostenitore del lavoro di Michael Cremo.

Si tratta del cosiddetto Antropoide di Savona (cap.7, par. "Lo scheletro di Savona"), o almeno questo è il nome con cui lo aveva battezzato il geologo Arturo Issel (1842-1922), professore dell'Università di Genova, autore di numerose ricerche sulla geomorfologia e paleontologia dell'area mediterranea. Diverse fonti conservate nella Biblioteca Comunale e alla Società Savonese di Storia Patria hanno consentito di ricostruire in maniera più completa una storia interessante, che rappresenta il prototipo delle scoperte anomale del secolo scorso. Ma procediamo con ordine.

Nel 1852, nel centro di Savona, in Vico del Vento, si procedette ad un ampio sbancamento per la costruzione delle fondamenta della Chiesa delle Suore della Misericordia. Alla profondità di circa 3 metri, dove lo scavo aveva raggiunto il livello della marna pliocenica, gli operai incontrarono un teschio umano. La marna è una roccia sedimentaria di natura mista calcarea e argillosa, di media consistenza, a seconda del contenuto d'acqua. Su tutta la riviera ligure i sedimenti pliocenici costituiscono la testimonianza dell'antico livello del mare che, nel periodo compreso tra 2 e 5 milioni di anni fa, si spingeva oltre 100 metri sopra a quello attuale (il luogo del ritrovamento si trova a 15 s.l.m.).

Procedendo nello scavo affiorò uno scheletro completo impigliato nella marna, quasi a ridosso della roccia denominata "lo Sperone", in posizione supina, con le braccia protese in avanti e la testa inclinata più in basso delle spalle. Intorno ad esso si trovarono pezzetti di carbone e molte ostriche e conchiglie fossili. Dato il contesto del ritrovamento, durante l'estrazione molte parti dello scheletro si frantumarono, mentre, grazie all'interessamento di uno scultore presente sul cantiere, venne salvato il tronco e diverse piccole ossa della testa e degli arti.

Purtroppo la cassa toracica completa di tutte le costole (una rarità per i ritrovamenti paleontologici) e la maggior parte del corpo principale andò perduta negli anni successivi, ma i frammenti rimanenti furono conservati da don Perrando, un parroco locale appassionato di storia naturale (cui è intitolato un Museo nell'entroterra savonese). Questi chiamò quindi in causa il prof. Issel perché esaminasse i reperti che consistevano in alcuni pezzetti di ossa parietali, mandibolari, mascellari, del bacino, diverse parti di due femori, di un omero, di un perone e di una clavicola. Questo materiale si trova attualmente conservato al Museo Civico di Archeologia Ligure di Villa Pallavicini a Genova Pegli.

Nel 1867, al Congresso internazionale d'antropologia e archeologia preistorica di Parigi, Issel (appena 25enne) presenta una relazione sui caratteri osteologici dei frammenti e sulla natura del terreno di provenienza, affermando che i fossili sono umani e della stessa età degli strati pliocenici: «queste ossa presentano tutti i caratteri propri ai fossili del medesimo giacimento, sono, cioè, di color bruno chiaro traente al cinereo, lucenti, leggere, fragili, allappanti alla lingua ed inquinate di marna fine ed omogenea la quale penetra nelle cavità midollari dell'omero e del perone e riempie ogni interstizio». Infatti i campioni fossili della fauna e della flora pliocenica trovati nella zona di Savona sono numerosi e non solo forniscono un campione di paragone per l'aspetto delle ossa umane, ma permettono di collocare il deposito nel pliocene inferiore (arcaico).

Le reazioni dei colleghi furono di forte scetticismo, date le circostanze del ritrovamento (e data la giovane età del relatore), e si formò presto l'opinione che dovesse trattarsi di una sepoltura recente. Gli scettici sostenevano che se un uomo fosse annegato nel mare del pliocene le onde avrebbero sballottato il suo corpo e non si sarebbe dovuto trovare uno scheletro intatto, ma più probabilmente ossa sparse (Gabriel De Mortillet). Inoltre l'esame di un'anomalia riscontrata nella mascella fece dividere gli antropologi: alcuni (tra cui il celebre Paul Broca) ravvisavano in essa un segno di remota antichità, altri (tra cui Armand De Quatrefages) la consideravano analoga a quelle già osservate in uomini moderni molto anziani (un esame odontoiatrico successivo stabilì invece che l'uomo sembrava avere circa 30-40 anni al momento della morte).

L'ostilità della maggioranza degli studiosi verso l'idea di un uomo antico va inquadrata nell'ottica delle conoscenze dell'epoca. A pochi anni dalla pubblicazione de "L'Origine delle specie" (1859), le argomentazioni degli scienziati sull'antichità dell'uomo si basano esclusivamente su convinzioni personali, e non sulle deduzioni dei riscontri fossili. Pur non essendo ancora in grado di attribuire al termine di "razza umana" del passato un significato tassonomico preciso, si è già radicata l'idea evoluzionista che gli antenati dell'uomo debbano presentare dei caratteri morfologici regrediti, scimmieschi.

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FRAMMENTO DI MANDIBOLARE SUPERIORE SINISTRO

Infatti già l'anno dopo, nel 1868, in una comunicazione fatta alla Società Italiana di Scienze Naturali, Issel sottolinea l'osservazione di Broca per dare maggior credito all'antichità del suo fossile.

Al successivo Congresso archeologico di Bologna del 1872, Don Perrando interviene a sostegno del professore genovese, sperando di rassicurare i presenti sulle effettive modalità del ritrovamento. Le sue osservazioni, più altre ripetute da Issel in diverse occasioni, sono valide ancora oggi per valutare l'antichità dello scheletro.

1. L'eccessiva profondità a cui giaceva lo scheletro (3 m) e la sua posizione inclinata e distesa sono illogiche per una sepoltura recente (si intende di epoca romana o addirittura medievale NOTA 1). Il fatto di averlo trovato intatto è perfettamente compatibile con l'ipotesi che il corpo di un uomo annegato si sia stato depositato e seppellito in un estuario dalle acque tranquille e poco profonde, come doveva essere il mare del pliocene in quella zona (in base all'obiezione di De Mortillet allora nessun fossile di animale marino dovrebbe conservarsi fino ai giorni nostri).

2. Nella zona della scoperta non vi erano fratture che permettessero ad oggetti superficiali di infiltrarsi in profondità, né segni di frane o di rimaneggiamenti artificiali. Se ci fossero stati, persino gli operai digiuni di geologia avrebbero potuto accorgersene, dato che in quel sito la marna grigia è coperta da uno strato di terreno ghiaioso giallastro che, mischiandosi con il sottostante, avrebbe lasciato una traccia di colore più chiaro. In caso di frane o movimenti di strati che avessero trasportato in profondità un corpo sepolto in superficie, sarebbe stato molto più probabile trovare ossa sparse.

3. Il grado di compattezza e la stratificazione della marna tutt'intorno e all'interno dello scheletro non sembrano compatibili con una sepoltura recente. Sull'assenza di vuoti nel terreno i testimoni oculari della scoperta sono concordi. In caso contrario bisognerebbe ammettere che il terreno con cui si è scavata e ricoperta la fossa si sia riconsolidato, nel giro di pochi secoli, in un modo tale da penetrare nelle cavità midollari. Quel tipo di riempimento può essersi verificato solo quando il sedimento fine era ancora sciolto e dopo che tutte le parti molli del corpo erano state completamente degradate.

Le osservazioni del 1° punto si basano inevitabilmente sui testimoni dell'epoca e, dato che al momento della scoperta non vi era alcun naturalista, costituiscono un punto debole nei confronti della critica. L'indagine geologica del sito (2) è invece documentata da Issel in persona, il quale nel 1874 procedette ad uno scavo esplorativo a fianco della chiesa suddetta, trovando, già ad 1 metro di profondità, la marna grigio-verdastra non rimaneggiata, ricca dei soliti gusci di ostriche. Naturalmente si potrebbe insinuare che Issel, nonostante fosse un'autorità proprio nel campo dei sedimenti marini, avesse commesso degli errori sull'onda dell'entusiasmo. A questo proposito vale la pena ricordare che nel 1885, in occasione della scoperta di ossa di un altro "antropoide", in una cava d'argilla (pliocenica) presso Borgio-Verezzi (SV), Issel non esitò a constatare che il giacimento era rimaneggiato. Per cui non si può immaginare che l'obiettività del geologo si fosse offuscata di fronte ad una scoperta che gli aveva procurato forti confutazioni: egli non aveva alcuna teoria paleoantropologica preferita da difendere ed era solo interessato ai fatti stratigrafici.

Oggi purtroppo non si possono verificare questi dati, essendo la collinetta di Vico del Vento completamente urbanizzata, da non poter consentire l'esame di alcun orizzonte stratigrafico. Il punto (3) è invece quello su cui si possono ancora oggi fare delle valutazioni, analizzando i reperti conservati, le loro caratteristiche fisiche, i sedimenti racchiusi nelle ossa.
Proseguendo nella lettura di libri della seconda metà dell'800, si apprende che, proprio in quegli anni, gli antropologi e i geologi discutevano apertamente sull'ipotesi che gli antenati dell'uomo fossero vissuti nell'era Quaternaria o in quella Terziaria, senza conoscere l'età assoluta di questi periodi. La distinzione stratigrafica fondamentale tra le Ere geologiche risale a Charles Lyell (1835), il padre della geologia moderna, ed è in larga parte valida ancora oggi; l'attribuzione dell'età in milioni di anni sarà possibile nel secolo successivo grazie alle datazioni radiometriche NOTA 2. Quindi, in una certa misura, in quell'epoca, è ancora tutto possibile: si sa che l'ominazione deve aver seguito una scala progressiva, ma non si sa ancora in quale epoca geologica inizia e in quale finisce.

John Lubbock (1834-1913), naturalista e antropologo, convintissimo fautore del darwinismo, nella sua enciclopedica opera del 1875 "Prehistoric Times", dedica un capitolo all'antichità dell'uomo. L'autore discute di alcune scoperte francesi e italiane che ritroveremo poi in Archeologia proibita: segni di lavorazione umana su ossa di animali pliocenici a Saint-Prest (Desnoyers-1864) e in Val d'Arno (Ramorino-1866), selci affilate da sedimenti miocenici a Thenay (Bourgeois-1867) e ad Aurillac (Tardy-1870). Argomenta che, nonostante le diverse opinioni di molti archeologi, le prove della presenza umana nel Terziario siano «assai concludenti». Ci fa sapere inoltre che Sir Charles Lyell riteneva di tracciare una netta linea di demarcazione tra l'epoca miocenica (in cui non si erano trovati segni "frequenti" della presenza umana) e quella pliocenica (nella quale invece era "logico" aspettarsi di trovarli). Lubbock ribatte addirittura all'opinione dell'esimio maestro con le stesse argomentazioni usate da Charles Darwin, «l'imperfezione degli archivi geologici NOTA 3», facendo cioè capire che i pochi reperti del Terziario sono appena la punta dell'iceberg di quello che si riuscirà a trovare in futuro. Fa poi un'affermazione sorprendente: «se l'uomo costituisce una famiglia separata di mammiferi, allora, secondo tutte le analogie paleontologiche, egli deve essere rappresentato nell'età miocenica». Auspica infine che le future ricerche sull'uomo antico siano condotte nelle regioni tropicali, dove vivono le scimmie antropomorfe.

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CLAVICOLA SINISTRA

In un breve paragrafo Lubbock espone il nucleo di discussioni teoriche capitali che hanno coinvolto la generazione di studiosi della seconda metà dell'800. I darwinisti dell'epoca non si aspettano di trovare gli antenati dell'uomo in Europa, ma piuttosto in Asia e in Africa, i luoghi delle controverse NOTA 4 scoperte di Eugéne Dubois (Homo Erectus) e Robert Broom (Australopithecus), che all'inizio del '900 avranno cancellato la memoria di tutti gli altri reperti. Eppure, proprio uno dei campioni del Darwinismo ottocentesco era già giunto alle logiche conclusioni. Gli antropologi moderni giudicano queste asserzioni del passato degli errori dovuti alla carenza di dati, ormai superate dal livello di conoscenza oggi raggiunto sui fossili di ominidi e primati. Al contrario, come i lettori di Nexus sanno, la "chiarezza" nell'albero genealogico dell'uomo, è stata raggiunta al prezzo di scartare centinaia di reperti innominabili, la cui autenticità non è mai stata confutata dai contemporanei e della cui esistenza i posteri nemmeno sono a conoscenza.

In "L'Uomo preistorico in Italia", appendice del suddetto "Tempi preistorici", Issel denuncia l'intolleranza e la scorrettezza delle critiche che gli venivano rivolte: in un libro di geologia si affermava che i resti umani di Savona furono dati per terziari per il solo gusto di contraddire le credenze religiose (la bassezza di certe accuse assomiglia molto allo stile forsennato con cui certi personaggi e comitati odierni si scagliano contro i ricercatori non ortodossi). Questo è ancor più paradossale se si pensa che l'incontrastato successo che la teoria dell'evoluzione ebbe, dopo un primo momento di incredulità, è in larga parte dovuto all'interpretazione completamente materialista della natura, che faceva piazza pulita del concetto di finalismo nell'adattamento delle specie e dell'ingerenza della religione nel campo della scienza.

Ripensando all'uso di termini come "antidiluviano", usato ad esempio nell'anzidetta relazione di Don Perrando, ci si accorge che nella mente di molti uomini di scienza di allora la consuetudine a pensare nei termini espressi dalla Bibbia era ancora forte. E' naturale che scienziati credenti non vedessero di buon occhio le prove di un'umanità troppo antica (Dio ha creato l'uomo per ultimo nella scala progressiva degli esseri viventi). Al contrario, studiosi materialisti non avevano nessun preconcetto nell'accogliere i reperti del Terziario ed è sorprendente constatare come, in quel lasso di tempo in cui ancora non si era consolidata la teoria tutt'oggi in voga, l'Uomo del Pliocene poteva essere difeso proprio dai primi discepoli di Darwin. Oggi la posizione è diametralmente ribaltata: darwinismo NOTA 5 è sinonimo di evoluzione progressiva che è culminata nell'Homo Sapiens recente, mentre chi non si conforma al dettame è generalmente accusato di essere un creazionista oscurantista.

Quindici anni dopo Issel entra da protagonista nelle vicende di Castenedolo (BS), il luogo del ritrovamento del più importante scheletro anomalo italiano NOTA 6. Nel 1860 e nel 1880 il geologo Giuseppe Ragazzoni aveva dissotterrato diversi scheletri umani moderni (uno intero e molti frammenti) nelle argille plioceniche. Nonostante l'incontestabile posizione stratigrafica e il fatto che le ossa fossero ricoperte di conchiglie e coralli, l'autore della scoperta, che pure era un esperto, aveva incontrato le stesse difficoltà di Issel. Così, quando nel 1889 affiorarono ancora resti umani da scavi in zona, Ragazzoni convocò una squadra di colleghi per ricostruire dettagliatamente la geologia dell'area e documentare la scoperta senza possibilità di equivoci. Purtroppo il terzo scheletro era veramente una sepoltura recente e, ironia della sorte, toccò proprio a Issel metterlo per iscritto nella sua relazione geologica. Questo bastò a far dimenticare l'importanza delle altre due scoperte e da quel momento la recensione di Issel servì a screditare Ragazzoni, ben oltre le intenzioni del genovese (di nuovo, questo ci ricorda il gioco scorretto delle citazioni usato per screditare promettenti scoperte, esempio recente: il geologo Robert Schoch sulle strutture subacquee del Giappone).

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FRAMMENTO DI PERONE

E' curioso notare che l'antropologo Armand De Quatrefages si pronunciò nettamente a favore dell'antichità dello scheletro di Castenedolo, affermando che le obiezioni ai ritrovamenti umani pliocenici erano basate esclusivamente sul pregiudizio. Costui è la stessa persona che, tra i primi, aveva messo in dubbio l'autenticità dell'uomo di Savona nel 1867. Ancora più strana è la posizione dello studioso di preistoria Gabriel De Mortillet, il quale si convinse, con i paleoliti di Thenay, che l'uomo fosse vissuto nel miocene; eppure negli stessi anni affermò che i segni sulle ossa spezzate degli animali pliocenici di Saint-Prest erano prodotti da forze naturali ed espresse sempre opinioni negative su entrambi gli scheletri italiani. Sarebbe necessaria un ricerca bibliografica molto più ampia di quella qui esposta per chiarire l'evoluzione del pensiero di questi professori: è evidente però che inimicizie e gelosie personali (le stesse a cui si assiste anche oggi) non hanno consentito agli studiosi tra gli anni '60 e '80 del XIX secolo di fare chiarezza su queste fondamentali scoperte.

Probabilmente anche Issel in quel periodo si convinse che non era "logico" aspettarsi uomini anatomicamente moderni in un passato così remoto, e il risultato lo leggiamo con la pubblicazione di "Liguria preistorica" nel 1908. Qui, riprendendo l'esame osteologico dei frammenti di Savona, sottolineando il prognatismo delle ossa facciali e le piccole dimensioni delle ossa lunghe, se confrontate con quelle omologhe di un individuo ligure moderno maschio (comparazione statisticamente povera, falsata dalla variabilità anatomica della specie) decise di non annoverare più il fossile nella specie umana, ma di designarlo provvisoriamente con il termine di "antropoide". Con questo Issel intendeva suggerire un termine della serie biologica non ben definito, dando prova perlomeno di un certo equilibrio professionale, in un frangente in cui altri suoi contemporanei e successori (anche dilettanti) battezzavano generosamente nuovi generi di ominidi in continuazione, basandosi su frammenti di calotta cranica (basti pensare a Davidson Black che nel 1927 introdusse una nuova specie, il Sinanthropus pekinensis dopo aver trovato qualche dente sparso in una caverna vicino a Pechino).

Pur con questa nuova collocazione l'Antropoide passò inosservato per tutto il XX secolo e non suscitò più l'interesse dei ricercatori. Sembrava quasi che se ne fossero perse le tracce, almeno fino ad oggi. Infatti proprio in questi mesi è stato ultimato, ed è in procinto di pubblicazione, uno studio morfologico sulle controverse ossa. L'antropologo dell'Università di Pisa prof. Francesco Mallegni ed Emiliano Carnieri hanno esaminato i resti e hanno concluso che si tratta senza ombra di dubbio di ossa di un uomo anatomicamente moderno. Questo dimostra il clamoroso errore di Issel e scredita l'intera vicenda agli occhi di ogni archeologo moderno che non conosca i retroscena dei fatti e che, educato nell'inossidabile ottica evoluzionista, conclude inevitabilmente che quello era una uomo sepolto in epoca storica.

Attualmente non ho potuto ancora prendere visione dei reperti, conservati, come si diceva, al Museo Archeologico di Pegli, ma si può constatare una certa difficoltà nell'affrontare datazioni alternative. Ho recentemente interpellato sulla questione, un professore di geoarcheologia dell'Università di Genova, il quale sostiene che sia molto difficile giudicare l'antichità dei reperti solamente dalla compattezza della marna cementata nelle cavità ossee, e che di solito per reperti umani ci si affida alla morfologia. Anzi, oggi la morfologia anatomica basta a togliere ogni dubbio circa l'età del reperto. Nonostante ciò sono convinto che, facendo convergere sufficienti competenze, sarebbe possibile raccogliere dati geotecnici sul comportamento della marna pliocenica caratteristica del savonese, e stimare se il rammollimento e la successiva ricompattazione in un periodo di 2000 anni al massimo è compatibile con quello che si riscontra sui reperti in esame.


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FEMORE SINISTRO

Non potendo giudicare dai sedimenti eventualmente contenuti nelle cavità ossee, non rimane che tentare con un metodo ai radioisotopi. Ma innanzitutto bisogna giustificare lo scopo di un'indagine di questo tipo presso l'autorità competente, e la richiesta di una conferma all'età presunta di 3-5 milioni di anni per un uomo moderno non è esattamente quello che vorrebbero sentire gli archeologi. Poi il radiocarbonio C14, generalmente usato per il materiale umano, risulterebbe inadeguato in questo caso, sia perché può arrivare correttamente fino a stime di circa 70000 anni al massimo, sia perché un campione organico dopo 150 anni di esposizione all'atmosfera può fornire datazioni molto più recenti. Più utile sarebbe il metodo della serie di Uranio o del Potassio-Argo, ma per procedere è necessario distruggere alcune parti del già frammentario scheletro (peraltro sacrificabili se l'uomo fosse effettivamente recente). In ultimo nessun istituto di ricerca sarebbe interessato a pagare per far effettuare un esame del genere ad un laboratorio.

Spero di riuscire, in tempi ragionevoli, a coinvolgere positivamente qualche esperto e fornirvi nuovi aggiornamenti sul controverso Uomo di Savona.




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MessaggioInviato: 07/08/2014, 11:38 
Segnalo questo... Penso possa interessare gli utenti che seguono questo argomento.

http://www.ufoforum.it/topic.asp?whichp ... _ID=340592



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MessaggioInviato: 07/08/2014, 18:00 
Articolo interessante, lo posto per intero [:)]

Cita:
Etruschi: l’ombra dei Rasna
di Dino Vitagliano

Una gloriosa migrazione venuta da lontano approda sui lidi italici e da sempre sfugge alle ricerche più approfondite. Dov’era la loro patria? Perché scomparvero senza lasciar traccia? Un’analisi degli aspetti misterici e controversi degli Etruschi.

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L’articolo non avrebbe la sua forma attuale senza il contributo prezioso e determinante di Romano Manganelli, da sempre appassionato cultore della civiltà etrusca, che con profonda umiltà mi ha permesso di comprendere i miei sbagli e rafforzare la validità delle mie ricerche. (n.d.A)

L’ombra dei Rasna

Gli Etruschi sono il popolo più enigmatico ed affascinante che appartiene all’Italia, territorio principe della loro influenza. Secondo il ricercatore Mario Gattoni Celli, le notizie storiche su di loro non coprono più di cinque o sei pagine di libro. Nulla di più esatto.

I testi scolastici sorvolano rapidamente sulla potente monarchia etrusca sviluppatasi per molte generazioni, formata da sette re che gli alunni ripetono in successione come una filastrocca, dopo i quali si giunge immediatamente alla nascita della repubblica romana. I saggi degli studiosi, dal canto loro, aggiungono soltanto che gli Etruschi erano autoctoni della nostra penisola che parlavano una lingua indecifrabile e raggiunsero livelli eccelsi nelle arti, nella politica e nell’architettura, evitando di sottolineare le conquiste umane e spirituali donate all’impero romano. Negli ultimi anni, dopo attente riflessioni, si è fatto in strada in chi scrive il sospetto, divenuto pian piano certezza, che un fitto velo di silenzio sia calato sulla stirpe etrusca, per nascondere segreti di vitale importanza. Gli Etruschi non sono mai morti e ci hanno donato un tesoro inestimabile che narra una storia, la nostra, iniziata molto tempo fa.

Discesero dai Giganti

I ricercatori più audaci pongono l’origine degli Etruschi in Lydia, a oriente di Smirne, citando Erodoto che scrive ne Le Storie, I, 94: “Raccontano i Lidi che sotto il re Atys, figlio di Manes, vi fu in Lydia una grande carestia; per un po’ la popolazione vi tenne fronte, ma poi, visto che non cessava, … il re divise il popolo in due parti… A capo dei designati a rimanere pose se stesso; degli altri designati a partire, il proprio figlio Tirreno. Gli esuli scesero a Smirne, costruirono delle navi…e salparono alla ricerca di una nuova terra…, finché dopo aver costeggiato molti paesi, giunsero presso gli Umbri dove fondarono città che tuttora abitano…”

Manes, analogo al primo faraone egizio Menes, è il leggendario monarca Manu, nome collettivo che incarna la guida delle sette razze–madri con le corrispettive sottorazze. Il Manu aveva condotto moltissime migrazioni in epoche antidiluviane dalla primordiale Isola Bianca nel Mar del Gobi, la mitica Thule, territorio tropicale lussureggiante che estendeva i suoi confini al Polo Nord, sino alla formazione dei continenti di Mu e Atlantide. Gli Etruschi chiamavano se stessi Rasna, dalla radice ra, analoga al Ramu, re–sacerdote di Mu, Rama in India e al Ra egizio, personificazione dell’energia solare, cuore vitale del Cosmo. Simboli la svastica ed il globo alato delle tavolette di Mu, effigiate rispettivamente sui muri di Sovana, a Grosseto, e nella Tomba dei Rilievi di Caere. Le vie commerciali degli Etruschi erano le Tule che giungevano sino in Himalaya, e il cui eco ritroviamo nel toponimo Caput–tolium, capo delle Tule, il Campidoglio. Roma, infatti, sorge sul Tevere che incarna la Via Lattea e ha sette colli come gli astri dell’Orsa Maggiore, vicina alla stella polare citata nel Rg-Veda indù, asse del cielo che pulsa a Thule.

Antenati degli Etruschi sono i Toltechi, terza sottorazza principe della stirpe atlantidea, come apprendiamo dall’opera di Arthur Powell, Il Sistema solare. Di colore rosso–bruno, avevano un’altezza prodigiosa e primeggiavano nell’arte edilizia con templi ciclopici, strade lastricate e ponti. Crearono un impero splendente durato diversi millenni, quando un cataclisma si abbattè su Atlantide e i Toltechi si spinsero nelle Americhe, fondando la civiltà incaica, mentre i suoi eredi edificarono nel IX sec d.C. Tula in Messico, con i loro enormi “atlanti”. Il gene tolteco si ritrova intatto nella sesta sottorazza akkadiana, propria degli Etruschi, che presentano legami inestricabili anche con gli Egizi, i Maya e gli Indiani del Nordamerica, altri discendenti dei Toltechi.

Un colore regale

Gli affreschi nella Tomba del Triclinio, a Tarquinia, ritraggono uomini rossi, mentre la Tomba degli Auguri presenta personaggi di rango elevato del medesimo colore che si stagliano sopra individui comuni. Un altro ancora tiene fra le mani un uovo, segno della creazione eterna. I re etruschi, durante le cerimonie rituali, si tingevano di rosso con il minio, e rosso sarà il colore preferito dall’imperatore Nerone. Il rosso, ammettono gli studiosi, ha carattere sacro, senza spiegarne però il motivo. Simboleggia gli ancestrali predecessori e rimanda al culto del pianeta Marte, incarnato dalla Sfinge leonina interamente rossa, a Giza, e dal giaguaro della piramide di Chichén Itzà. Il felino sacro ricompare di nuovo a Tarquinia, nella Tomba dei Leopardi e in quella delle Leonesse, in realtà giaguari. I pellerossa del Nordamerica, infine, come gli Etruschi conservano sepolcri a forma di tumulo e venerano i simboli dell’uovo e del serpente.

Parlavano sanscrito

Ma chi erano in verità gli Etruschi? La lingua ne penetra il mistero? L’imperatore Claudio, affascinato dal loro mondo, scrisse i Tirrenika in venti volumi, spariti nel nulla. Stessa sorte subirono gli Annuali Etruschi custoditi nel Tabularium Capitolinum, che narravano la vera origine dei Romani, i Libri Etruschi e i Tusci libelli, conservandosi soltanto qualche frammento negli autori latini. Strano, dato che gli scolari romani andavano a studiare l’etrusco nella prestigiosa Caere. La lingua dei Rasna, afferma il filologo Bernardini Marzolla, svela un’antica discendenza dal primo idioma del pianeta: il sanscrito. Il testo più completo è inciso sulle bende di una mummia scoperta in Egitto due secoli fa, ora al Museo di Zagabria. Le strisce di tela, quattordici metri, compongono il “Libro della Mummia”, aggiungendosi alle oltre dodicimila iscrizioni rinvenute.

Adepti della Grande Madre

Intorno al 1.000 a.C., gli abitanti della Lydia dimorarono nell’isola di Lemno con capitale Efestìa, nel Mar Egeo, disseminata di necropoli e santuari alla vergine nera Cibele, invocata come madre dell’Indo. Le fanciulle raticavano la sacra teogamia in collegi particolari, che ricordano quelli delle Mamacones inca e delle Vestali romane. La società etrusca era di tipo matriarcale, come Atlantide, con le donne che presenziavano ai sacri culti e godevano di un peso influente nelle decisioni più importanti. Prova ne è la tomba Regolini–Galassi, scoperta nel 1836 a Caere, che ospitava la principessa Larthia, con indosso un fibula intessuta di minuscole sfere granulate. Rivelatrice, poi, la storia di Lucumone, figlio di un nobile corinzio, che insieme alla moglie Tanaquilla giunge a Roma da Tarquinia nel VII sec. a.C. Alle porte di Roma, un aquila afferra il cappello di Lucumone per poi restituirglielo. Un presagio sacro, simile al mito azteco, e alla fondazione della metropoli di Cajamarquilla in Perù, dove un condor avrebbe incoronato il suo fondatore. Tanaquilla è un nome incaico, dato che quilla significa luna, suggerendo che la donna appartenesse ad un antico culto lunare. In etrusco, lo stesso nome è Thanakhvil, dove than è l’aspetto femminile del dio Tin e akhvil è ancella, in quechua aclla, indicante cioè “le ancelle degli dèi”, un ordine sacro.

Gli avamposti megalitici

Lucumone entrerà a Roma mutando il suo nome in Tarchunies Rumach, Lucio Tarquinio Prisco, e diverrà re nel 607 a.C. dopo la morte di re Anco Marzio (strana assonanza con il termine egizio Ank–hor). Sarà lui a drenare l’acqua che alimenterà il Tevere dai colli attorno a Roma, a creare il Foro Boario, il Tempio di Vesta e il Circo Massimo, luogo di culto. Suo è anche il magnifico tempio di Tinia–Giove sul Campidoglio. Roma, territorio di povere palafitte, entrerà a far parte delle dodici città sacre che coprivano l’intera Etruria, mentre un numero analogo di metropoli interessò la Campania. Nell’erezione di un sito, i geomanti etruschi tracciavano due linee ad angolo retto in direzione nord–sud, il cardo maximus, e il decumanus maximus con andamento est–ovest, ponendo nel punto d’intersezione la pietra omphalos, ritrovata spesso intatta dai moderni mezzi di rilevamento.

Le metropoli etrusche annoverano Cortona, Arezzo, Fiesole, Tarquinia, Vulci e Populonia. Il monumentale complesso urbano di Caere, con una necropoli che copre 360 ettari, era anticamente il porto più potente del Mediterraneo, insieme ad Hatria, e da innumerevoli altri sulla costa Tirrenica. Uno dei più antichi insediamenti è Vetulonia, che superava Atene con oltre centomila abitanti. Le sue pietre megalitiche un tempo si stagliavano sulla collina–tumulo, ugualmente a Ollantaytambo sulle Ande. Sulla ciclopica Cosa, vicino Orbetello, vigila una Sfinge di pietra e il contiguo monte di Ansedonia è scolpito con animali mitologici analoghi a Marcahuasi. Indistinguibili, poi, la cinta muraria di Volterra lunga 8 km e quella di Pisaq in Perù, come pure i blocchi poligonali di Alatri e Amelia, pesanti centinaia di tonnellate, e Sacsayhuaman, sovrastante Cuzco. Le profonde affinità degli Etruschi con gli Inca trovano autorevole conferma in Zecharia Sitchin, da noi interpellato, il quale ha risposto affermativamente circa la nostra intuizione di un simile legame con la lontana America.

Colpisce, poi, l’omofonia di Chianciano (probabilmente consolidatosi da un etrusco Clanikiane) e Chan Chan, capitale del Gran Chimù peruviano, le quali conservano anche identiche urne funerarie antropomorfe risalenti al VII sec. a.C. A Poggio Murlo, Siena, è stata rinvenuta anche una statuina con barba posticcia di un “antenato”, munita di uno strano sombrero simile al copricapo del Guerriero di Capestrano. Infine abbiamo Veio, patria dell’artista Velca, che scolpì la magnifica statua di Apollo, divinità la cui l’effige sul Palatino sarà alta 15 metri. La stirpe degli Amhara o Aymarà, che abitarono l’antic Ameria (Amelia) con il nome di Amr, adoravano Apu Illu, Signore dei fulmini, sul Monte Soracte in Bolivia, mentre i Romani costruirono sul Monte Soracte, cantato da Orazio nelle sue Odi, un santuario ad Apollo.

Le invisibili arterie di Porsenna

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L’opera più imponente è il Mausoleo di re Porsenna a Chiusi, tratteggiato da Varrone e Plinio nei loro libri. La struttura sembra un tempio buddhista con ben quindici piramidi di altezza indescrivibile e una sfera di bronzo al centro, che emetteva particolari frequenze. I suoi pinnacoli antenne rivolte al cielo per incanalare l’energia cosmica. Costituiva il centro oracolare madre in Italia, legato con quelli di Delfi, Dodona, Tebe, Heliopolis e Metsamor, in Asia Minore. Sotto il vicino Poggio Gaiella si diparte una fitta rete di gallerie sotterranee inesplorate che formano il labirinto di Porsenna, cuore cerimoniale connesso con le dodici città–stato e le metropoli gemelle al di là dell’oceano. Anche le catacombe sotto San Pietro, una volta templi etruschi, erano parte di questo disegno.

Funzione iniziatica avevano i cunicoli ad U, come quello lunghissimo ed inquietante di S.Valentino e altri a Pitigliano, Sorano e Sovana, un’area archeologica di notevole interesse, costellata delle famose “tagliate”. Queste enormi strade nel tufo, che paiono scavate con il laser, si ergono vertiginose nelle vicinanze di necropoli, templi, luoghi sacri, e spesso vicine le une alle altre. Sorte al ritmo del flauto, con cui gli Etruschi scandivano ogni attività, richiamano alla mente il musico greco Anfione, il quale edifica Tebe “alla musica delle sua lira”, presumibile scienza sonica antidiluviana. Se l’enorme traforo sotto Castel Gandolfo, più di 1 km, è un’opera di ingegneria idraulica, lo scopo delle “tagliate” non è ancora chiaro. Alla luce delle attuali cognizioni, rappresentano allineamenti astronomici o tellurici di rilevante importanza, istoriate da glifi cosmici. Il tufo, infatti è un materiale radioattivo, rinvenuto anche a Cuzco e sulla piana di Nazca.

Guardiani della vita

L’illustre linguista Georges Dumézil, in appendice alla sua opera La religione romana arcaica (Rizzoli, 2001), dichiara in toni concisi che i Romani mutuarono da un “passato indoeuropeo” un solido sostrato rituale, che “l’apporto etrusco” modificò lievemente. Una contraddizione in termini. Per amore di chiarezza, facciamo notare che gli Etruschi sono l’elemento indoeuropeo, e i Romani si limitarono ad adottare le loro elevatissime concezioni, come in precedenza i Greci, poi totalmente stravolte.

Gli Etruschi erano un popolo pacifico, costretto ad impugnare le armi soltanto a causa delle vessazioni di Roma. Avevano una visione animista, in cui l’Universo tutto pulsa di vita e ogni organismo è connesso. Da qui l’amore per la Terra, i boschi, le fonti, le montagne e il cielo, sinfonia sublime dell’Energia Prima, che nel corpo umano esprime la sua sacralità attraverso le funzioni sessuali. Il loro pantheon è formato da numerosi personaggi ed esseri ausiliari, esprimenti i molteplici aspetti di una lontana dottrina esoterica, invisibile ai profani. Similmente agli gnostici, ritenevano, infatti, l’uomo al centro delle forze luminose ed oscure, in grado di stabilire da solo quale via intraprendere per tornare in alto.

Il linguaggio della Natura

Le rivelazioni uraniche si ritrovano nei Libri acherontici, sulle dimensioni nascoste, rituales, fatales, e i Libri haruspicini riguardanti l’epatoscopia, o esame del fegato, per gli Etruschi un piccolo cosmo in movimento. Una scienza definita dai Romani “etrusca disciplina”. I volumi provenivano dal sapiente fanciullo Tages, spuntato da una zolla di terra, informazione che ci ricollega al regno sotterraneo di Agarthi. La Madreterra donò agli Etruschi la geometria sacra e il suono primordiale, con il quale ammaliavano gli animali. Notevole l’incisione del mandala esoterico “fiore della vita” a sei petali, di matrice indiana, trovato sulla stele del guerriero Avele Feluske, a Vetulonia. La disposizione reticolare dei massi negli edifici replica la struttura biologica della cellula, facendo sì che l’intera costruzione prenda vita e “comunichi” determinate frequenze, particolarmente attive presso i corsi d’acqua. L’elemento liquido aveva una funzione purificatrice, ancor oggi apprezzata nei centri termali di Saturnia e Petriolo. Numa Pompilio, che le tradizioni descrivono come monarca pacifico e illuminato, era in contatto con la ninfa Egeria, che abitava una sorgente nel bosco sacro vicino al fiume Almene. L’acqua sorgiva magnetizza i raggi cosmici, come gli infrarossi, rigenerando la terra e le forme di vita. Nell’uomo potenzia la memoria ancestrale e inonda l’ipotalamo di energia planetaria.

Il bagliore di Zeus

Numa compose dodici libri di “scienze naturali” che nascose in un’arca nel suo sepolcro, trovato poi vuoto, e introdusse il calendario solare di 365 giorni e ¼. Padroneggiava il “fuoco di Zeus”, l’elettricità, e i suoi templi possedevano parafulmini all’entrata. Il suo successore, Tullo Ostilio, morì invece incenerito dalle scosse fulminanti. Il segreto di Numa passò a Porsenna, che nel VI sec.a.C. polverizzò Bolsena, invocando una folgore celeste, e sconfisse con una scarica elettrica un essere feroce dal nome profetico: Volt.

Lo studio dei tuoni e dei fulmini era codificato nei Libri fulgurales, con le istruzioni per evocare, dominare e guidare le folgori. Riti complessi seguivano alla caduta di un fulmine in un determinato luogo, che veniva immediatamente recintato per precauzione e dichiarato sacro, per la presenza nel terreno di ferro meteorico dei bolidi stellari, vitale agli Etruschi. I fulguratores, provvisti di cera nelle orecchie, allontanavano le vibrazioni residue modulando una parola sacra. Alle Sorgenti della Nova, un’antica metropoli guarda da una scalinata il Monte Becco, santuario etrusco, dove ancor oggi avvengono strani fenomeni magnetici. Anche Costantino, sacerdote del Sol Invictus, consultava segretamente gli aruspici etruschi, disposti a lanciare folgori sui Goti di Alarico nel 410 d.C., sotto papa Innocenzo. I fulgurales erano una parte dei Libri Vegoici, dono della ninfa Vecu al tempio di Apollo, in cui possiamo ravvisare i famosi Libri Sibillini, portati all’imperatore Augusto da una donna misteriosa e distrutti dai cristiani nel 400 d.C.

Gli iniziati sonici

Numa istituì il collegio dei lucumoni, formato da 60 sommi sacerdoti abbigliati con la veste di porpora, la catena d’oro, il tutulo conico sul capo che funge da ricettore celeste. In mano il lituo, lo scettro ricurvo sormontato da un’aquila, che emetteva onde sonore. I lucumoni erano medici–sciamani che viaggiavano nei mondi astrali acquisendo prodigiose conoscenze utili alla guida della comunità, come avviene nella culture siberiane ed uralo–altaiche. Fra gli Inca assumevano il nome di astronomi Tarpuntaes. Sempre a Numa dobbiamo la creazione di un altro enigmatico collegio, quello dei Flamines Dialis, custodi del soffio terrestre, che nascondono nel nome l’energia fiammeggiante della kundalini, alla base della spina dorsale. Costretti da severissime norme, dormivano in grotte sacre sopra un piccolo pertugio nel terreno. Il loro abbigliamento consisteva in una “camicia” dalle ignote funzioni e una sorta di stetoscopio con un filo di lana che captava l’afflato tellurico, vestimento che nell’insieme lascia intravedere perdute operazioni geotecniche di vulcanologia.

La stirpe del silenzio

Centro iniziatico e cuore della vita etrusca è il Fanum Voltumnae, nella fitta selva del Lamone intorno al Lago di Bolsena, che estendeva i suoi confini sino a Tarquinia, formando un luogo sacro al confine tra cielo e Terra. Qui, nel sacro Tempio, i lucumoni delle dodici città sacre si riunivano ogni anno per eleggere un nuovo sacerdote e celebrare la cerimonia misterica della Paska, in cui si spezzava il pane e si beveva il vino, mentre i partecipanti ricevevano una melagrana, la rigenerazione. I Rasna erano a conoscenza che il loro compito sulla Terra volgeva al termine, come gli Incas che lessero nelle stelle uguale ammonimento. Dieci “saecula” durava la civiltà gloriosa che avevano creato, e nulla, nemmeno il più potente dei lucumoni, era in grado di opporsi. Scomparvero all’alba di un nuovo Sole, stirpe coraggiosa che in silenzio aveva plasmato il tempo.

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Bibliografia

Aziz, Philipphe La civiltà etrusca – Libritalia, 1996
Celli, Mario Gattoni Gli Etruschi dalla Russia all’America – Carabba, 1968
Churchward, James Mu: il continente perduto – Armenia, 1999
Collins, Andrew Il sepolcro degli ultimi dèi – Sperling & Kupfer, 1999
Compassi, Valentino Dizionario dell’universo sconosciuto – SugarCo, 1989
Drake, Walter Raymond Quando gli dèi camminavano sulla Terra – Casa Editrice Meb, 1982
Feo, Giovanni Misteri etruschi – Stampa Alternativa, 2000
Gatti, Enzo Gli Etruschi – Edizioni Frama Sud – 2 voll.,1979
Hancock, Graham Lo Specchio del Cielo – Corbaccio, 1998
Kolosimo, Peter Italia mistero cosmico – SugarCo, 1987
Marzolla, Piero Bernardini L’etrusco – Una lingua ritrovata – Mondadori, 1984
Moreau, Marcel La civiltà delle stelle – Corrado Tedeschi Editore, 1975
Pallottino, Massinmo a cura di Gli Etruschi – Bompiani, 1992
Pincherle, Mario Come esplose la civiltà – Filelfo, 1977
Powell, Arthur Il Sistema Solare – Edizioni Alaya, 1993
Quattrocchi, Angelo Miti, riti, magie e misteri degli Etruschi – Vallardi, 1992




http://www.acam.it/etruschi-lombra-dei-rasna/


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Piramidi nel casertano

Infine approdiamo in Italia, ma qui le “piramidi”, non si presentano tutte come “mucchi di pietre disposte a secco”. In Campania, nella zona compresa tra le province di Caserta e di Benevento, si elevano tre grandi piramidi che per le loro dimensioni assomigliano a delle vere e proprie colline. Si trovano sparse per il territorio casertano.

Una si eleva vicino a Sant’Agata dei Goti, un’altra vicino a Moiano e un’altra ancora vicino a Caiazzo. Appartengono da millenni alla tradizione più nascosta della zona e sono oggetto di interesse ancora oggi da parte di alcune comunità esoteriche locali.

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Si è cominciato a parlare di loro dopo la scoperta delle piramidi di Visoko, avvenuta in Bosnia. La ripercussione culturale della scoperta le ha riportate alla luce della storia contemporanea, sia pure con molte controversie e vari segreti da parte degli abitanti della zona.

La prima ad essere stata scoperta “ufficialmente” è stata quella di Sant’Agata dei Goti, conosciuta come “collina Ariella”. Venne rilevata casualmente nel settembre del 2008 da Leonardo B. Romano che accorgendosi della similitudine con quelle bosniache ne diede notizia ai media italiani.

Si ignora quale civiltà antica possa essere stata tra i costruttori di queste piramidi. La zona è stata abitata in più epoche storiche da varie popolazioni. Ma nessuna di queste, per quanto si conosce, ha mai manifestato caratteristiche costruttive di questo genere.

Possiamo ricordare gli Osci, gli Ausoni e i Sanniti, di ceppo indoeuropeo, e quindi gli Etruschi che abitarono la Campania dal secondo millennio a.C. Poi i Greci che giunsero e colonizzarono successivamente queste zone nel sesto secolo, dove fondarono Cuma, il primo nucleo cittadino dell’attuale Napoli.

Dopo le tre guerre sannitiche, 343-290 a.C., queste terre furono quindi occupate dai Romani, che vi fondarono parecchie colonie come l’attuale Pozzuoli. Sul finire del V secolo d.C. giunsero infine i Longobardi. Si ritiene che nessuna di queste culture abbia potuto costruire piramidi di quelle dimensioni. Probabilmente occorre riferirsi a una civiltà sconosciuta, ancora più antica e evoluta tecnologicamente di quelle citate, e andare indietro nel tempo approssimandosi ad una datazione risalente ad almeno 5-10.000 anni a.C.

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Intorno alla piramide di Sant’Agata dei Goti sono state rinvenute nei campi circostanti grandi sfere di pietra di varie dimensioni. Esse si presentano simili a quelle scoperte nei pressi delle piramidi bosniache di Visoko e a quella di Monte D’Accoddi in Sardegna.

Nella misteriosa atmosfera di questi luoghi alcune di queste sfere di pietra sono state sottratte da ignoti. Ne rimagono comunque altre a testimoniare la loro enigmatica presenza, ben protette dalla gente del luogo che le nasconde in luoghi segreti, forse conoscendo il valore che esse rappresentano.

Vicino a Caiazzo, nei pressi della piramide omonima, ci sono resti di mura megalitiche oggi fondamenta di un castello, vestigia delle antica civiltà degli Osci che ha avuto sede proprio in questi luoghi.

Intorno alla piramide di Sant’Agata dei Goti sono state rinvenute nei campi circostanti grandi sfere di pietra di varie dimensioni. Esse si presentano simili a quelle scoperte nei pressi delle piramidi bosniache di Visoko e a quella di Monte D’Accoddi in Sardegna.

Nella misteriosa atmosfera di questi luoghi alcune di queste sfere di pietra sono state sottratte da ignoti. Ne rimagono comunque altre a testimoniare la loro enigmatica presenza, ben protette dalla gente del luogo che le nasconde in luoghi segreti, forse conoscendo il valore che esse rappresentano.

Vicino a Caiazzo, nei pressi della piramide omonima, ci sono resti di mura megalitiche oggi fondamenta di un castello, vestigia delle antica civiltà degli Osci che ha avuto sede proprio in questi luoghi.


http://www.ilnavigatorecurioso.it/2013/ ... i-ovunque/


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chissà se "dentro" ci sono delle camere o è solo un cumulo... Non sono eccessivamente distanti da dove abito io quasi quasi un salto provo a farcelo!



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Max, se vai riferisci.

Quelle pietre sferiche tra le altre cose mi hanno ricordato pietre del tutto simili ritrovate in Costarica.

[8]



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Luoghi e Personaggi della Sardegna

La Sardegna e Atlantide

Atlantide mito o realtà?

Scopriamo le nuove teorie che legano

la Tirredine o Sardegna ad Atlantide

grazie all'aiuto di Leonardo Melis.



"I domini di Atlantide arrivavano alla LIBIA fino all'egitto e all'europa fino alla Tirrenide"
"Forco, re della Tirrenide affogò durante un COMBATTIMENTO CON ATLANTE"

Atlantide e Tirrenide (l'attuale Sardegna) erano due IMPERI diversi e rivali.



Un’antica civiltà in Sardinia.

Vogliamo finalmente soffermarci su un lato curioso della geografia della Sardinia, che precedentemente ci siamo sempre astenuti dal citare per non avventurarci in discorsi atlantidei o di civiltà scomparse e per non cadere nel fantascientifico. Ma la cosa è troppo evidente e diffusa in quella parte dell’Isola che conserva ancora antichi riti e antichi resti di civiltà non sempre assimilabili ai soliti nuraghes. Non vogliamo provare niente, solo mostreremo queste stranezze e sarà poi il lettore a trarre le conclusioni e, chissà, magari qualcuno potrebbe anche provare a vederci più chiaro e scoprire che le piramidi sono anche in altre parti d’Europa oltre che in Bosnia.

Vediamo come si presentano le colline sparse per chilometri e chilometri, dal Campidano alla Marmilla e alla Trexenta, vaste pianure della Sardinia del Sud. Quasi tutte hanno una sorta di piattaforma fatta di massi giganteschi squadrati e regolari. Le piattaforme sono oggi sotto uno strato più o meno alto di terra che fa da cocuzzolo in cima alle colline.

ImmagineVista la foto a fianco potrebbero anche essere opera della Natura, che nell’Isola si è spesso sbizzarrita a creare forme di ogni tipo con il granito, il calcare e il basalto abbondanti in ogni zona, da Nord a Sud. Negli anni però abbiamo sempre più creduto a qualcosa di artificiale, anche perché nel frattempo alcuni di questi massi sono precipitati a causa delle ultime abbondanti piogge degli ultimi tre anni. Qualcuno ha pensato di ammassarli, forse per farne materiale da lavoro per la sempre maggiore richiesta da parte delle imprese dell’Edilizia stanche del cemento che ha orrendamente trasformato i paesi e le città negli ultimi cinquant’anni.

Come si può notare dalla foto a fianco, si tratta di blocchi squadrati e delle stesse dimensioni. E’ un assurdo. Come se un’antica civiltà avesse costruito enormi terrazzamenti poi sepolti dal tempo o da chissà quale cataclisma naturale. Immagine

"Forco, re di Tirrenide, morì affogato durante un combattimento con Atlante". Così racconta la mitologia greca. Si tratta quindi di un continente sommerso dalla stessa catastrofe descritta nel Krizia da Platone? La Tirrenide era un continente che comprendeva la Sardinia e la Corsica.

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Ne "I Popoli del Mare" riportammo una foto satellitare che la ritraeva. Molte furono le critiche sull’autenticità. Fortuna che appena due anni dopo trovammo uno strumento che ce la regalò in forma indiscutibilmente autentica. Nella foto tratta da Google Earth è visibile il contorno sommerso di questo mitologico continente. Se pensiamo all’aumento di livello del Mediterraneo degli ultimi 15.000 anni, forse abbiamo la soluzione della sommersione fangosa delle collinette marmillesi. Proviamo a prendere in prestito la scala dei livelli marini fino ai giorni nostri da "Shardana i Custodi del Tempo".

13000 a.C. Epoca denominata Antichissimo Dryas (Ondata di freddo). Il livello del mare scese di circa 10 m.

12000 a.C. Primo Scioglimento. Gli Iceberg in quantità impressionante andarono alla deriva, facendo aumentare il livello del mare. Il lago Livingston si riversò nell’Atlantico facendo salire ulteriormente il livello dei mari. In 300 anni questi si innalzarono di 13-14 m.

11000 a.C. Nuovo Antico Dryas (Ondata di freddo) e glaciazione.

9500 a.C. Riscaldamento con crescita dei mari di 7,5 m. in 160 anni (50 m. in meno rispetto al livello dell’età moderna). Collassarono il Lago Glaciale del Baltico e il Lago Agassiz (Canada) riversandosi nel Golfo del Messico.

6400 a.C. Il Nuovo Dryas (Glaciazione). Il livello dei mari scese di 6 m.

6000 a.C. Scioglimento della Laurentide. (calotta glaciale a Nord-Est del Canada). I livelli marini salirono di 25 m. Terzo Diluvio?

5000-3500 a.C. Ultimo Diluvio (quello Biblico?). Il Mediterraneo si riversò nel Mar Nero. I Mari raggiunsero il livello odierno. Questo fu il Diluvio scoperto da Sir Leonard Woolley ad Ur. Fu anche il Diluvio che sommerse la civiltà nuragica? Abbiamo uno e più motivi per crederlo. Aspettando la verifica di qualcosa che abbiamo intravisto in fondo al nostro mare… se avremo concluso tale verifica prima della definitiva stesura del libro, lo annunceremo ai nostri lettori.

Vediamo che, fino al 9500 a.C. i mari erano 50 m. più bassi rispetto ad oggi. Se l’affondamento dei due continenti a cui si riferiscono i greci (che l’appresero dagli Egizi) avvenne in questa data… Se queste civiltà sono quello che ci lascia intendere Platone o qualcosa di più, perché enormi terrazzamenti non potrebbero essere stati sommersi dal mare e dal fango, riemergendo pian piano dall’acqua, ma con il fango ancora presente a nasconderli in parte? Proprio quello che vediamo dalle foto.

Immagine

Come dalle foto risultano strane forme di colline a forma di… Piramidi!

I mari si ritrassero lentamente, di anno in anno con varie, più recenti glaciazioni. Anche le de-glaciazioni si ripetevano regolarmente, con conseguenti diluvi e inondazioni, ma al nostro tempo risulta un abbassamento relativo del mare rispetto alla situazione del 9500 a.C. In poche parole, il continente Tirrenide oggi è in parte riemerso lasciando scoperte la Corsica e la Sardinia, ma in parte coperte di fango, almeno quest’ultima… Purtroppo, se i Grandi delle Nazioni non si metteranno d’accordo, un altro sollevamento delle acque è oggi già in atto, minacciando di sommergere le città delle coste se non addirittura intere isole.

Un’altra elemento tipico di quest’isola ci ha lasciato dei grossi interrogativi sulla loro datazione. In Sardinia esistono delle misteriose Torri chiamate Nuraghes o Nuraxis, o Nurakes dagli abitanti. Un numero impressionante, con una stima approssimativa di 15000 circa, incredibile per un’isola relativamente piccola. Alcuni sono crollati se non per le intemperie, di sicuro per mano dell’uomo. Quello che però lascia perplessi è che nessun nuraghe risulta integro. A tutti manca la copertura. Assurdo che fra migliaia di esemplari intatti per il resto, non ve ne sia uno con la sua originale copertura. Perché? Uno smantellamento sistematico da parte di un popolo nemico è impensabile. Alcune di queste torri sono ancora oggi in siti difficilmente raggiungibili, in mezzo a foreste inesplorate e inaccessibili fra gli aspri monti di Barbagia, la Terra di Mezzo dei Sardi antichi. Imprendibile persino per i Romani.

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Cosa c’era sulla sommità della torre? Cosa le ha spazzate via in modo così simultaneo? L’unica spiegazione è un cataclisma naturale di una forza smisurata, quale il Diluvio descritto da Sumeri e altre civiltà. Casualmente il nome NUR.AKE è un nome sumero/akkadico. Significa "di luce.torre", quindi torri della luce o torri di luce. Il nome glielo diedero i Shardana arrivati nel II millennio, oppure…

Il mistero su queste torri si infittisce di anno in anno e di anno in anno la Scienza Ufficiale è costretta ad aumentare la datazione a ritroso nel tempo. Vent’anni fa si parlava ancora del VI-VII sec. a.C. oggi siamo già al XVII sec… Noi propendiamo per un periodo di molto precedente a quello definito storico. Per il semplice motivo che non si trova niente, oltre le torri, che si riferisca a una civiltà su cui indagare. Gli antichi non ne accennano neanche. A parte i Greci che li citano per attribuirli a Dedalo. Ma noi sappiamo che i Greci "avevano memoria di bambini" come diceva quel sacerdote di Sais allo stupito Solone.

I nostri lettori sanno benissimo che non scriviamo, né parliamo volentieri dei nostri pur bellissimi Nuraghe, ma spesso veniamo tirati dentro a viva forza da amici che ci portano a scoprire le funzioni più incredibili di queste torri. In "Shardana i Calcolatori del Tempo" riportiamo la scoperta di Tonino Mura del "Nuraghe Calcolatore", una scoperta che andava a completare la nostra scoperta della Pintadera/Calcolatore del Tempo/Calendario e la descrizione dei Riti del fuoco di Federico Melis. Così ora ci arriva un altro "regalo nuragico" da un altro amico, che afferma di aver trovato una "Pietra che canta" all’interno di una torre nuragica. Gli chiediamo di spiegarci questo strano fenomeno. Personalmente abbiamo avuto modo di sentir suonare la pietra e ne siamo restati molto impressionati.

Un’ultima annotazione: anni fa si parlava molto di Atlantide in Sardinia, grazie anche a un libro di un giornalista romano pubblicato nell’estate 2002, in contemporanea al nostro "Shardana i Popoli del Mare". Già nella seconda edizione del nostro libro nel 2003 avemmo modo di dichiarare che "Atlantide NON era la Sardinia", con grande dispiacere dei nostri lettori e con disappunto del giornalista e dei suoi fans. Non avevamo niente contro quel libro, che spesso abbiamo avuto modo di difendere dagli attacchi degli Archeobuoni, solo riteniamo che tale ipotesi non sia sostenibile per alcuni motivi. Motivi che andremo adesso ad elencare, non per affossare quel libro, ma semplicemente perché riteniamo ci siano altri motivi per ritenere la Sardinia gia antica per gli Antichi.

In quel libro di parlava di tsunami che devastò la Sardinia da Sud (Cagliari) a Nord (la Jara). Scartiamo subito l’ipotesi di uno tsunami in grado di far scomparire un continente nel 1200 a.C. I testi di storia ne avrebbero parlato. Difatti si trova ampiamente documentato un altro tsunami che devastò Creta nel 1600 a.C. quindi molto prima. I conti non tornano.

I Popoli del Mare sono identificati con gli Atlantidi che combatterono contro Atene. Inizialmente anche noi avevamo ipotizzato questa equazione, tornando immediatamente sui nostri passi, anche perché l’Invasione del 1200 a.C. pare risparmiasse proprio Atene fra tutte le città greche. I Greci confermano questo fatto, sostenendo che gli Eraclidi sarebbero tornati e avrebbero distrutto ogni città greca risparmiando appunto Atene che diede loro ospitalità quando erano perseguitati in patria e prima di partire per la Sardinia. Come invece tutti sappiamo, Platone dice che fu Atene a fermare l’invasione degli Atlantidi, decretando la loro sconfitta. I conti non tornano.

Platone sosteneva nelle sue due opere Krizia e Timeo che Atlantide si trovava oltre le Colonne d’Eracle. La teoria del giornalista romano cercava di dimostrare che le colonne d’Eracle si trovavano, ai tempi di Platone, nel canale di Sicilia. Questo portava a identificare la Grande Isola Sarda con la stessa Atlantide. Peccato che ciò non possa essere esatto. Per alcuni motivi:



1. La teoria che fosse stato il direttore della biblioteca di Alessandria, Eratostene, a spostare le colonne dove si trovano attualmente (Gibilterra), perché le conquiste di Alessandro allargarono il mondo conosciuto, non tiene. Anche perché nella "Vita di Alessandro" si legge che "Nearco, ammiraglio cartaginese fece visita ad Alessandro a Babilonia e Alessandro espresse il desiderio di circumnavigare la Libia (Africa) con lui, rientrando nel Mare Mediterraneo dalle Colonne d’Eracle." Quindi le Colonne erano già dove sono oggi: a Gibilterra. E la Sardinia è al DI QUA delle Colonne di Gibilterra. I conti non tornano.

2. L’altro punto che non torna affatto è quello che Platone scrive riguardo proprio alla Tirrenide. "Questa città (Atlante) estendeva i suoi domini, al di qua delle colonne, alla Libia (Africa) fino all’Egitto e all’Europa fino alla Tirrenia". Quindi la Tirrenide (Sardinia) si trovava al di qua delle colonne e NON poteva essere Atlantide. Né con le colonne a Gibilterra, né tanto meno con le colonne nel canale di Sicilia. I conti non tornano.



Atlantide sprofondò e sparì. La Sardinia, Grazie a Dio, è ancora qui. Certo potremmo dire che è riemersa. Su questo siamo parzialmente d’accordo, perché un fenomeno del genere, molto ridotto, è realmente accaduto nel 1200 a.C. Noi lo abbiamo spesso citato: un sollevamento del livello del mare di circa 2,5 m. è realmente e geologicamente documentato. Fu quello che sommerse in parte le antiche città shardana, come Nora, Tharros, Antas, Nabui, Korra… ma anche Mozia, Palermo, Marsala città shakalasa in Sicilia e altre città del Mare degli Eraclidi. Da qui a parlare di tsunami però ce ne vuole. Se poi si ipotizza che tale tsunami fosse quello che provocò la fuga dei popoli mediterranei verso l’Oriente (L’invasione dei PdM del 1200 a.C.) i conti tornano ancora meno. Come avrebbero infatti potuto fuggire da una catastrofe del genere? Soprattutto, come avrebbero potuto armare 1200 navi (tante pare fossero quelle dei PdM)? Uno tsunami non lascia intatte né case, né tanto meno imbarcazioni di alcun genere. I conti non tornano.



Le dimensioni di Atlantide descritte da Platone non sono quelle della Sardinia, né della Tirrenide. La Tirrenide ormai la conosciamo per averne pubblicata l’immagine in questo libro. Platone scrive nel Timeo: "Questo continente, Atlantide, era più grande della Libya e dell’Asia messe insieme". Non solo la Tirrenide è molto più piccola, ma un continente del genere non ci stava proprio dentro il Mediterraneo. I conti non tornano.

Novemila anni prima sarebbero avvenuti questi fatti, secondo quanto scritto nel Krizia. Il nostro amico giornalista sostiene trattarsi di anni lunari, quindi di mesi. Come se al tempo di Platone non si conoscesse il calendario diviso in giorni, mesi e anni! Vecchio excamotage. I conti non tornano.



La posizione delle Colonne a Gibilterra è sostenuta dallo stesso Platone. Nel Krizia infatti si legge che i gemelli nati da Posidone erano dieci, a coppie di due. Il primo nato della prima coppia aveva nome Atlante e a lui toccò il regno sull’isola capitale. "Il suo gemello, nato dopo di lui, a cui toccò l’estrema parte dell’Isola verso le Colonne d’Eracle che ora in quel tratto è detta gadirica, ebbe il nome greco di Eumelo, che nella loro lingua si dice Gadiro e dal suo nome potè nominarsi quella contrada". La regione Gadirica era conosciuta da Greci e Romani presso Gibilterra, appunto. I conti non tornano.



La pianura identificata con il Campidano era lunga, sempre secondo il Krizia, tremila stadi da una parte e da duemila dal mare fino al centro della città che circondava. Uno stadio greco corrisponde a 177,60 m. e se lo moltiplichiamo per 3000 otteniamo 532.800 m. e cioè 532,8 km e 355,2 km. Una pianura grande tre volte la Sardegna stessa. Questa pianura era cintata da una fossa lunga diecimila stadi. Qui è lo stesso Platone a dire che stenta a crederci. Stiamo parlando infatti di una fossa lunga 1.776 km. Aveva ragione Platone a dubitare! I conti proprio non possono tornare.



Perché abbiamo voluto scrivere queste cose? Primo per amore di verità. Secondo perché non c’è bisogno di scomodare Atlantide per trovare un antico continente leggendario dell’età dell’oro. Del resto, se andiamo a vedere la Marmidha, pianura interna al Campidano stesso, vediamo che l’impressione che una sommersione delle terre ci sia davvero stata, non certo nel 1200 a.C. però. Chissà forse in quella data fatidica ormai accettata anche dalla scienza come fine di un’antica civiltà. Data che coincide con quella citata da Platone. Fine decretata da diluvi e sconvolgimenti del territorio. Il Diluvio Universale? La Tirrenide era il regno di Forco, padre di Medusa e di tanti altri personaggi citati dai Greci.

Gli stessi Greci raccontavano che "Forco morì annegato durante un combattimento con Atlante" Più chiaro di così… Al centro del Mediterraneo vi era più di 11.000 anni fa un continente oggi in parte sommerso: la Tirrenide, le cui parti emerse sono la Sardinia e la Corsica. Come da foto. Questo continente era la Terra abitata da un popolo ormai scomparso. Quel popolo che costruì i primi nuraghe. Non ce ne voglia l’amico giornalista. Il suo è stato comunque un lavoro che ha fatto parlare di Sardinia e questo lo giudichiamo positivo a prescindere.

Da: "Shardana Jenesi degli Urim"

Di Leonardo Melis


http://www.centrosardegna.net/sardegna_atlantide.htm


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Tirrenide l’Atlantide italiana

TIRRENIDE. ATLANTIDE NEL TIRRENO. Anche L’ita1ia vanta IL suo “continente perduto”: un’enorme isola nel Tirreno che comprendeva la Sardegna, la Corsica e le Baleari; così almeno riteneva Costantino Cattoi, pluridecorato asso dell’aviazione nella prima guerra mondiale. Nel 1924 Cattoi si ritirò in pensione a Orbetello, dove i resti delle mura cittadine stimolarono la sua curiosità nei confronti delle antiche popolazioni italiche; ben presto si convinse che Orbetello faceva parte della misteriosa “Tirrenide” e ne intraprese la ricerca con l’aiuto della moglie sensitiva la quale “vedeva sotto terra come a occhio nudo”. Venne ribattezzato “il Cacciatore di Giganti” in quanto sosteneva che, in tempi remotissimi, Tirrenide fosse stata abitata dai Ciclopi, e, successivamente, dai Pelasgi, antenati degli Etruschi, i1 cui re Tirreno diede nome al mare. Cattoi annuncio di aver localizzato tre delle città di Tirrenide tra Porto Santo Stefano e l’Isola del Giglio, ma mori senza essere riuscito a trovare finanziamenti per l’esplorazione sottomarina che avrebbe provato le sue ipotesi.


http://www.tuttomisteri.it/tirrenide/


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vimana131 ha scritto:

Cita:
Tirrenide l’Atlantide italiana

TIRRENIDE. ATLANTIDE NEL TIRRENO. Anche L’ita1ia vanta IL suo “continente perduto”: un’enorme isola nel Tirreno che comprendeva la Sardegna, la Corsica e le Baleari; così almeno riteneva Costantino Cattoi, pluridecorato asso dell’aviazione nella prima guerra mondiale. Nel 1924 Cattoi si ritirò in pensione a Orbetello, dove i resti delle mura cittadine stimolarono la sua curiosità nei confronti delle antiche popolazioni italiche; ben presto si convinse che Orbetello faceva parte della misteriosa “Tirrenide” e ne intraprese la ricerca con l’aiuto della moglie sensitiva la quale “vedeva sotto terra come a occhio nudo”. Venne ribattezzato “il Cacciatore di Giganti” in quanto sosteneva che, in tempi remotissimi, Tirrenide fosse stata abitata dai Ciclopi, e, successivamente, dai Pelasgi, antenati degli Etruschi, i1 cui re Tirreno diede nome al mare. Cattoi annuncio di aver localizzato tre delle città di Tirrenide tra Porto Santo Stefano e l’Isola del Giglio, ma mori senza essere riuscito a trovare finanziamenti per l’esplorazione sottomarina che avrebbe provato le sue ipotesi.


http://www.tuttomisteri.it/tirrenide/




Riguardo Costantino Cattoi c'è da ricordare anche il fatto curioso che fu amico di uno dei primi contattisti "storici" USA, George Hunt Williamson (autore de " i dischi parlano" e di "other tongues other flesh") per via del fatto che Williamson in quel periodo si stava interessando di quella che oggi definiremmo "paleoastronautica"; Williamson fu uno dei primi ad interessarsene; i due quindi si conobbero a causa dei rispettivi lavori (a mio parere quelli di Cattoi si situano su di un piano più elevato); Williamson venne in Italia a trovare Cattoi.


Cattoi fu anche amico di Ighina.
Cattoi fu un personaggio interessante, tutto ancora da approfondire, secondo me.



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MessaggioInviato: 09/10/2014, 21:57 
Un'altra figura estremamente affascinante legata alla riscoperta del mito della cosiddetta Tirrenide fu Evelino Leonardi, umbro di Gubbio. L'ispirazione che lo condusse verso questo genere di studi gli venne in parte dal contatto con alcune correnti dell'ermetismo italiano dell'epoca, soprattutto quello "napoletano" kremmerziano; del resto basta ricordare le suggestioni che ancora un Vico esprimeva nel suo "de antiquissima italorum sapientia" ed il Cuoco nel suo "Platone in Italia"; in parte forse da altri contatti.

Tema comune degli ambienti frequentati dal Leonardi erano l'italicità di Pitagora e l'estrema antichità di una Italica civiltà atlantidea - saturnia precedente la Roma storica.



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 Oggetto del messaggio: Re: Tirrenide
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 Oggetto del messaggio: Re: Tirrenide
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Cita:
Le piramidi di Sicilia


In Sicilia, che è la maggiore isola del Mediterraneo (26000 km2), la presenza umana è molto antica e risale alla fine del Pleistocene. Nelle grotte dell'isola, nelle cavrne dell'Addaura, dalle parti di Palermo, e nelle isole Egadi, si trovano disegni risalenti al 6000/8000 a.C. Vi sono anche molte tracce risalenti al Paleolitico superiore. Nell'isola furono ambientati anche diversi episodi della mitologia dei Greci e dei Romani. Il patrimonio archeologico è di gran ricchezza e diversità, ma le sue piramidi rimangono poco conosciute. Sono partita in perlustrazione, con la mia équipe. Comunità agricole dette "primitive" si stabilirono intorno al mare Egeo intorno al 6000 a.C., ma si sostiene che questa regione rimase arretrata rispetto alle punte di progresso che erano costituite dall'Egitto e dalla Mesopotamia. Crediamo che la realtà possa essere più ricca di sfumature. Omero, nell'Odissea, chiamava la Sicilia Sikania (nei testi classici troviamo anche il nome Sikelia) e menziona le montagne sicane. Uno dei tre popoli più antichi dell'isola si chiamava Sicani (Sikanoi) e pare risalire al 3000 â€" 1600 a.C., considerando anche il periodo protoâ€"sicano, quando diversi influssi provenienti dal Mediterraneo si mescolavano nelle popolazioni durante il Neolitico, nelle parti centrale e occidentale dell'isola. Molte delle nostre conoscenze sui più antichi abitanti della Sicilia provengono dalla letteratura greca e da scrittori come Diodoro Siculo, ma si sa troppo poco sui Sicani. Di loro parlò lo storico greco Tucidide (460â€"394 a.C.), padre della storia scientifica e del realismo politico. Egli li descriveva come una tribù proveniente dall'Iberia. Ci sarebbero elementi linguistici a sostegno di tale teoria e c'è un fiume Sicano in Spagna, ma le prove non sono definitive. Il nome deriverebbe dal termine Sika, che indicava il calcedonio, del quale sono ricchi i luoghi da loro abitati, e che era usato per costruire gli attrezzi neolitici. Si sa che vivevano in confederazioni autonome, che mantenevano scambi piuttosto stretti con la cultura cretese minoica (4000 â€" 1200 a.C.) e con i Micenei (1450 â€" 1100 a.C.). La civiltà minoica fioriva verso il 2000 a.C. come la principale cultura del Mediterraneo, e c'è una teoria che sostiene che si trattasse d'egiziani che sfuggivano ai disordini, presenti all'epoca nella loro terra, e che portavano le proprie tecniche e mantenevano scambi commerciali con la Mesopotamia. I Minoici inventarono una propria forma di scrittura. Secondo Tucidide, i Sicani sconfissero i giganti Ciclopi e occuparono tutta l'isola, prima dell'arrivo dei Siculi. Verso il 1400 a.C., dalle coste calabresi giunsero i Siculi (Si'keloi) che s'installarono nella Sicilia orientale e respinsero i Sicani verso la parte ovest dell'isola. Lo storico greco Filisto di Siracusa (IV sec. a.C.), autore d'una Storia della Sicilia (Sikelikà), racconta che l'invasione giungeva in origine dalla Liguria, guidata da un certo Siculo, figlio del re Italo, il cui popolo era stato respinto dai Sabini e dagli Umbri. Alcuni ricercatori moderni pensano che Siculo e il suo popolo provenissero da più lontano ancora, dall'Oriente. In Sicilia, i prof. Enrico Caltagirone ed Alfredo Rizza stimano che l'attuale lingua siciliana contenga oltre 200 parole che derivano direttamente dal sanscrito. Nell'Età del Bronzo, altri popoli giungono in Sicilia: gli Elimi (Elimoi, Elymi) provenienti dall'Anatolia e derivati dai famosi "Popoli del Mare". Tucidide dice che venivano da un gruppo di Troiani, sfuggiti all'eccidio della loro città, che si sarebbe mescolato ai Sicani. Virgilio scrive che erano condotti dall'eroe Aceste, re di Segesta, che aveva recato aiuto a Priamo ed Enea e aveva sepolto Anchise ad Erice. Essi dunque si concentrarono intorno a Segesta e ad Erice. L'interpretazione della loro lingua pone ancora problemi agli specialisti e non credo che l'origine troiana sia immaginaria, come qualcuno pensa. Occorrerebbe poter procedere ad analisi del DNA delle ossa ritrovate. In ogni caso, erano abbastanza forti da resistere all'espansionismo dei Greci di Selinunte, che riuscirono a contenere grazie all'alleanza con i Cartaginesi. Nel sec. VIII a.C. comincia la colonizzazione della Sicilia da parte dei Fenici (Cartaginesi) alleati ai Cretesi e dei Greci, Corinti, Ioni e Megaresi. Vediamo dunque che non è facile distinguere fra i tre popoli antichi della Sicilia, per stabilire chi di loro fossero i costruttori delle piramidi. Le piramidi intorno all'Etna La prima cosa da considerare, nello studio delle piramidi siciliane, è che si trovano per la maggior parte raggruppate in arco di cerchio intorno al vulcano Etna.L'Etna (Aïtné in Greco, Aetna in Latino, Jebel Utalamat in arabo (la mondagna di fuoco) e di conseguenza Mungibeddu (Mongibello, monte + jebel) in siciliano, è il più antico vulcano attivo del mondo. Occupa un'area di 1190 km2 ed ha una circonferenza di 165 km. La sua altitudine varia da 3326m a 3350m, secondo le eruzioni. Il cratere centrale ha una larghezza di 1/2 km. Si tratta d'un vulcano stratoâ€"vulcanico, ai piedi del quale sorge la città di Catania. La piana attuale di Catania era un golfo di mare, 700.000 anni fa, quando nacque l'Etna da una serie d'eruzioni sottomarine. Non si dimentichi che la Sicilia subisce gli effetti di spostamento di tre placche tettoniche: quella eurasiatica, quella araba e quella africana. Nel 6000 a.C., uno tsunami causato da un'eruzione dell'Etna lasciò i segni nell'Est del Mediterraneo, e nel 396 a.C. una sua eruzione arrestò i Cartaginesi che avanzavano per attaccare Siracusa. Le sue ceneri ancor oggi raggiungono Roma, a 800 km di distanza. Che fanno tutte queste piccole piramidi intorno al vulcano? Diverse forme di piramidi, costruite tutte allo stesso modo Innanzitutto, sapevo che una decina di piramidi erano già state identificate e documentate da fotografi italiani. Decisi di andare a vederle di persona, con le poche informazioni disponibili. Tentai d'identificarle da foto satellitari, ma senza successo, dato il terreno lavico, talvolta coperto da frutteti e vigne. Dopo un soggiorno a Catania, e poi a Giardini Naxos, ci dedicammo a percorrere in auto la zona, con circa 300 soste al giorno, per proseguire a piedi, scalare colline, fotografare e misurare. Ho scattato circa 2000 foto, d'una trentina di piramidi! La cosa non è stata facile, perché molte piramidi sono in proprietà private di difficile accesso, altre sono nascoste dalla vegetazione ed altre ancora sono state quasi interamente distrutte o sono servite da basamenti per la costruzione di case, vista la loro stabilità impeccabile. Pensavo dapprima di ritrovare le piramidi già fotografate, ma rimasi sorpresa dalla scoperta di decine d'altre. Piramidi perfette, di pietra lavica, che sembravano non essere mai state inventariate. Ben presto, avvicinandoci, facendone il giro, osservandole a diverse ore del giorno, ci rendemmo conto che tutte le piramidi intorno all'Etna risalivano ad una medesima civiltà, erano fatte con la stessa pietra lavica, la stessa disposizione, lo stesso trattamento degli angoli, e che ne esistevano diversi tipi, ben distribuiti intorno al vulcano. Abbiamo potuto elencare, da Piedimonte Etneo, passando per Linguaglossa, Passopicciaro, Randazzo, Bronte sino ad Adrano, piramidi rettangolari a gradoni, piramidi quadrate a gradoni, piramidi a base rettangolare con gli spigoli arrotondati, con gradoni pure arrotondati, talvolta con altari sommitali, e piramidi coniche, su base rotonda, a gradoni. Abbiamo visto anche un buon numero di percorsi pavimentati di pietre laviche, non utilizzati più d gran tempo e compresi tra muretti di pietre a secco, ricoperti da fichi d'india e da cespugli spinosi, come una rete di sentieri sinuosi che disegnano miriadi di piccoli campi, racchiusi da muri alti 4 m, e talvolta provvisti di porte e finestre… c'erano persino intere colline "lavorate" con sistemi antichi di canali d'irrigazione e stretti terrazzamenti a teatro, sui versanti che guardavano verso l'Etna… ad esempio, a Catena presso Linguaglossa, al di là della strada, a nord d'una stradina moderna che serve delle case, si trova subito a sinistra un percorso sinuoso pavimentato d'antiche pietre nere.Stretti tra i due muretti, si raggiunge un ciuffo d'alberi e appare improvvisamente una piccola, perfetta piramide, la piccola piramide di Catena, che qualcuno ha tentato inutilmente di distruggere, e che ha ad ovest una rampa d'accesso, ancora visibile. Il tutto è circondato da brandelli di muri in rovina, parti d'un complesso, che si perdono in mezzo alla vegetazione incolta. Se si prosegue per lo stesso cammino, ma andando diritti verso le colline, si trovano muretti d'una fattura particolare, spessi e larghi, che si trovano solo in vicinanza delle piccole piramidi. Esattamente gli stessi muri che avevamo trovano nella plaine Magnien all'isola Mauritius, vicino alle piramidi di quella località! Si vedono poi almeno tre colline lavorate a terrazzamenti ad arco, come un vero e proprio teatro, con un luogo in basso pavimentato di grandi lastre, che fronteggia la maestà dell'Etna. I gradoni sono stretti, troppo per coltivare, benché oggi si cerchi di piantarvi vigne e ulivi, con grandi difficoltà. Gli angoli sono perfetti e la lavorazione delle pietre denota maestria: un esempio notevole di quello che poteva essere un antico luogo di culto dedicato al vulcano. La mitologia dei luoghi Non si dimentichi che la parola Etna è il nome d'una ninfa siciliana, trasformata in una dea: Aetna (Aitnê, Aitna) che deriva dal greco Aitne, da aithô : "Io brucio". Ella si chiamava anche Thalia. Aetna era figlia di Gaia, la terra, e d'Urano, il cielo, che erano i genitori dei Giganti, dei Titani, dei Ciclopi (uno dei quali si chiamava Bronte, come una cittadina ad Est dell'Etna) e delle Furie (una delle quali, Megaera, ha dato pure il nome ad una città siciliana). Aetna ebbe due gemelli da Adrano, un dio molto simile a Hephaïstos, che viveva sotto il vulcano, e che certi ricercatori paragonano al fenicio Adar ed anche al persiano Adramelech, tutti personificazioni del sole e del fuoco. Adrano, dio dei Siculi che abitavano intorno al vulcano, era adorato in tutta la Sicilia e in modo particolare nella città d'Adrano, che porta il suo nome, sulle pendici dell'Etna, dove terminano le piramidi. Sempre intorno all'Etna Dall'altro lato di Linguarossa, sul versante Nord Est dell'Etna, si trova su diversi km2, una miriade di sentieri sinuosi fiancheggiati da muri, che chiudono piccoli giardini, alti talvolta sino a 4 m e larghi anche 80 cm, che non si trovano in nessun altro luogo della Sicilia, della stessa fattura delle piramidi di pietra lavica, con la stessa usura e la stessa disposizione. Questi muri sono davvero impressionanti. Oggi i campi racchiusi dai muri contengono talvolta costruzioni e abbiamo visto strutture piramidali usate come zoccolo per piccole case. È difficile vedere che cosa si trovi esattamente nei piccoli campi chiusi, di proprietà privata, ricchi d'alberi e d'orti.Gli ultimi piani sono in rovina, la base è larga 23 m con scale molto ripide, che salgono ai terrazzamenti superiori. Al piede della piramide, altre terrazze sono disposte in bell'ordine, ricoperte oggi da ulivi e da vigneti. Potevamo constatare che tutte le piramidi avevano scale o rampe per salire sino in cima. Tra Linguaglossa e Randazzo, tra le altre, ce n'è una in un vigneto, perfettamente rettangolare, con sei gradoni ed una scaletta che presenta il fianco verso l'Etna.Tra Passopisciaro e Francavilla di Sicilia si può vedere una notevole piramide rettangolare, oblunga, da gradino ben diritti, come tirati con la cordicella, che formano all'interno della piramide come un sentiero sinuoso d'accesso, perché gli angoli sono incredibilmente arrotondati e si trova una scaletta che sale sino in cima, a raggiungere la piattaforma sommitale . Si vedono anche specie di merlature, con doccioni che permettono lo scolo delle acque. È chiaro che si salisse, girando tutt'intorno, sino alla cima, che offre la vista sul vulcano. Lungo la strada, tra Randazzo e Bronte, si trovano diverse piramidi dalla forma classica. Ne abbiamo contate una decina, alcune delle quali molto rovinate, perdute nella vegetazione, tutte con rampe d'accesso.Abbiamo visto anche sapienti terrazzamenti, che sembrano della stessa epoca delle piramidi e dovevano servire ad un antico sistema d'irrigazione. Una fonte è captata e piccoli canali scendono dai gradini alti e versano l'acqua. Non sembra che questi terrazzamenti servissero all'agricoltura, perché per la maggior parte sono completamente privi di coltivazioni.Abbiamo potuto constatare anche che molte piramidi si trovano vicino a importanti siti megalitici e a pietre erette. Osservazioni essenziali Abbiamo dunque constatato che le piramidi, nonostante le diverse forme, avevano tutte rampe o scale d'accesso alla cima, con vista privilegiata verso le sommità dell'Etna, e che si trovavano tutt'intorno al vulcano, ove vi erano pericoli di colate laviche. Quale non fu la nostra sorpresa nel constatare ripetutamente che gigantesche colate di lava si erano fermate nettamente proprio a pochi passi da quelle piramidi. Si tratta di un'osservazione fatta sul terreno per 27 piramidi.Alcuni scienziati del nostro gruppo, http://www.gizaforhumanity.org, hanno cominciato a riflettere ed il nostro fisico ha proposto una teoria che meriterebbe d'essere approfondita e verificata sul terreno. Si tratta di questo: nel creare su una piramide, o un rilievo conico o cilindrico o emisferico, un percorso a elica o spirale dalle proprietà focalizzanti, si materializza il percorso del campo unitario, poiché si crea una cavità risonante, ossia un'antenna. Ciascuna spirale ha una risonanza propria. Questo può alterare nelle vicinanze la struttura spazioâ€"temporale e le regole di comportamento delle masse, ed è un processo che viene attivato tramite la marcia processionale, con una cadenza particolare, che crea risonanza. Forse un'antica tecnica per fermare la lava? In ogni caso, un'ipotesi che merita una verifica. Non dimentichiamo che i soldati, quando passano in marcia ritmata sui ponti, possono farli cedere, e perciò rompono la cadenza, in modo da evitare che il ponte entri in risonanza. È interessante vedere, su un'antica carta della Sicilia, un cerchio che avvolge il vulcano, come un serpente, dove si trovano le piramidi. Altre scoperte Dopo aver visto le piramidi della valle d'Alcantara intorno all'Etna, siamo andati nel cuore della Sicilia per studiare una piramide già nota, quella di Pietraperzia presso Caltanissetta. L'accesso a questa piramide è molto difficile, occorre percorrere stretti sentieri sterrati e caotici per decine di chilometri, ma ne vale la pena. Non solo abbiamo trovato in mezzo ai campi di grano una magnifica piramide a gradoni arrotondati, con sulla cima due pietre erette in due piccoli vani privi di tetto ed un percorso a chiocciola che conduce alla cima, ma anche, in distanza, abbiamo visto altre tre piramidi perfettamente simili, mai identificate prima.Constatammo anche che le piramidi erano allineate in linea perfettamente retta con la Pietra forata, che dà il nome alla località di Pietraperzia. Attraverso questa pietra si osservano i raggi del sole al solstizio. Altre strutture, nella zona, giacciono ancora sotto l'erba, compresa una perfetta piramide triangolare. Gli Antichi avevano scelto questo luogo particolare, al centro dell'isola, per installarvi un centro di culto molto importante.i può osservare che le piramidi rotonde hanno gradoni "a petali" tutt'intorno e sino alla cima e tutto si trova sotto la cifra 2: due stanzette prive di soffitto, separate da una scala, in cui si trovano due pietre erette identiche con il simbolo " Y " intagliato, e più in alto domina un sedile per due… forse in onore dei gemelli Palici , i due volte nati, figli della ninfa Aetna : gli dèi siciliani della navigazione e dell'agricoltura. Una delle stanzette in cima alla piramide. Una delle due pietre erette. Lungo il muro d'una delle stanzette si può ancora salire. Una poltrona per due, in cima alla piramide, con la traccia d'una finestrella che offre la vista diretta, a distanza, della pietra forata. Comunque, sopra il "sedile", si vede la traccia d'una finestrella che offre la vista diretta, a distanza, della pietra forata, il che indica la presenza d'un culto solare sofisticato e solstiziale. All'epoca, quando un raggio luminoso attraversava da parte a parte tutte le strutture al solstizio, doveva essere uno spettacolo magnifico. Si trovano anche altari di pietra disseminati un poco dappertutto, intorno alle piramidi. Possibile origine delle piramidi I Sicani e i loro predecessori preistorici hanno certamente occupato tutta la Sicilia, all'origine, prima dell'arrivo dei Siculi, perché le loro tracce si trovano un poco dappertutto, come sul monte Kronio presso Sciacca, e potremmo scommettere che fossero loro i costruttori di queste piccole piramidi, tanto più che le piramidi nel cuore della Sicilia, zona specifica d'occupazione dei Sicani, sembrano essere leggermente anteriori a quelle che circondano l'Etna. Non dimentichiamo che una cultura sicana si può identificare propriamente a partire dal 1600 a.C., ma che essi esistevano già prima. Molto si deve ancora scoprire su di loro e la loro storia non è priva di personaggi favolosi, come il re sicano Kokalos che offrì rifugio, contro il re di Creta, al famoso architetto inventore Dedalo, a Inycus presso il fiume Belice. Dedalo costruì in Sicilia fortificazioni, terme, acquedotti, templi e serbatoi, un po' dappertutto. Un'altra ipotesi possibile è quella dei famosi Popoli del Mare, composti da una dozzina di tribù, tra le quali un gruppo misterioso e poco conosciuto, gli Shekelesh, forse originari della Sicilia del sud est (secondo lo studioso N.K Sandars). Shekelesh, Sikala, Sikil, Siculi sono un popolo che si trova negli anni 1220 e 1186 a.C. negli attacchi contro l'Egitto (Redford 1992 :148) sotto i regni dei faraoni Merneptah e Ramses III. Li troviamo citati negli archivi di Merenptah (1224â€"1214 a.C.), il quale catturò 222 Shekelesh, e in un'iscrizione della tomba di Ramses III (N°157/Tebe Ovest), nel papiro Harris che fornisce l'elenco dei gruppi che componevano i Popoli del Mare, tra cui gli Shekelesh, e nelle famose iscrizioni del tempio funerario di Medinet Habu, ai piedi della Valle dei Re, a Luxor, dove gli Shekelesh sono descritti come grandi, con un'acconciatura in testa e un medaglione sul petto, due lance ed uno scudo rotondo. Cosa interessante, perché gli archeologi hanno ritrovato villaggi Shekelesh, tra l'altro, anche nel corridoio Siroâ€"Palestinese, a Tell Zeror, e la loro identificazione come Siculi di Sicilia sarebbe provata dalla scoperta di anfore sul monte Dessueri in sicilia, identiche a quelle trovate presso Jaffa, ad Azor. Questo popolo siciliano, che avrebbe navigato un po' dappertutto sui mari, forgiava tripodi e calderoni di bronzo e conosceva la ruota (frammenti scoperti a Piediluco) e fabbricava ceramiche (a Termitito)… nel sec. XIII a.C. Il re ittita Suppiluliuma II avvertì il re d'Ugarit Hammurabi dell'arrivo imminente del popolo Shikalayu, che viveva su navi, e gli storici pensano si trattasse degli stessi Shekelesh/Sicel citati da Merenptah… Essi erano fieri navigatori, e ciò spiegherebbe perché si trovino le stesse piramidi in Sicilia, a Tenerife e persino all'isola Mauritius (cfr. articoli su Mauritius della stessa autrice) e certamente in altri luoghi, ancora da scoprire. Fonti: http://www.gigalresearch.com http://www.gizaforhumanity.org http://www.liutprand.it/articoliMondo.asp?id=279#top Bibliografia: â€" La Sicilia e l'arcipelago maltese nell'età del Bronzo Medio, D. Tanasi Pubblicazioni del Progetto Kasa 3 (Officina di Studi Medievali), Palermo 2008. â€""On the Thapsos Culture in the Syracuse Area: the Problem of the Aegean Component" â€" by the author Gianmarco Alberti, Thesis: 2001â€"02. â€" "Histoire des origines de la Grèce ancienne", Cannop Thirlwall, 1832.â€" "The Sea Warriors of the Ancient Mediterranean", Sandars, N.K., London. â€""The Sea Peoples", The Cambridge Ancient History, vol II. Barnett, R.D. â€""Medinet Habu Inscriptions and Papyrus Harris" in Pritchard, J.B.1969, Princeton University Press. â€""The Shekelesh", Michele MacLaren, CAMS. â€""Final Bronze Age Transmarine Migrations", Federico Bardanzellu. â€""Best of Sicily",: "Daedalus in Sicily"& "Sicilian People :The Sicanians" di Vincenzo Salerno. â€""Storia degli Etruschi", Mario Torelli, Romaâ€"Bari, 1998. Copyright (©) Antoine Gigal, 2009. All Rights Reserved. Foto di Antoine Gigal A cura di Antoine Gigal


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