LE RIVELAZIONI DELL'ING. PORRO FRA UFOLOGIA ED ESOTERISMO
Loris Bagnara
Lo scenario evocato dalle rivelazioni dell’ing. Porro sulla civiltà eocenica richiama l’archetipo della “terra nascosta” caro all’esoterismo, e anche, per certi aspetti alcune tematiche della letteratura ufologica e fantascientifica.
Riprendiamo ora il filo e torniamo alle ricerche dell’Ing. Porro. Vediamo brevemente come egli era arrivato a intraprenderle. Dal Diario di Miniaci apprendiamo che Alessandro Porro ha vissuto e lavorato come ingegnere edile a San Paolo, dal 1949 al 1963, occupandosi di fondazioni in calcestruzzo armato. Qui in Brasile, cominciò ad interessarsi di spettri molecolari, già almeno dal 1960. L’Ingegnere voleva sapere come fosse fatto un radar, ma non di quelli soliti. Cercava dati su un super-radar che captasse onde ultracorte, ne aveva bisogno per realizzare un rivelatore di onde elettromagnetiche: il suo obiettivo erano gli spettri molecolari. Gli servivano nozioni tecniche e costruttive, e consultando numerosi cataloghi ebbe la fortuna di trovare quel libro che faceva davvero al caso suo: era l’unico esemplare di una serie stampata dalla NASA negli Stati Uniti, con stampigliato sopra Top secret. Si era nel 1961.
Suggestioni ufologiche
Negli anni precedenti, in tutto il Brasile, si contarono numerose segnalazioni di avvistamenti di presunti dischi volanti. Porro riferisce di aver letto, a quei tempi, sul settimanale O Cruzeiro, alcune dichiarazioni secondo cui i dischi volanti proverrebbero da “sfere che sono nel sottosuolo della Terra”. Nel ricordo di Porro tale lettura sarebbe da collocare nell’anno in cui Marte si era trovato più vicino alla Terra; tale circostanza si verificò il 10 settembre del 1956, ma è probabile che in questo caso il suo ricordo, rievocato molti anni dopo, sia stato leggermente impreciso, perché quelle dichiarazioni sulla provenienza sotterranea degli UFO risalgono all’anno precedente, quando O Cruzeiro pubblicò un rapporto dalle vaste ripercussioni, intitolato “Il mistero dei mondi sotterranei — I dischi volanti provengono dall’interno della Terra”. Il rapporto uscì in tre puntate, nei numeri del 5, 12 e 19 febbraio del 1955. Vi si sosteneva che i dischi volanti provenivano dall’interno della Terra: era questa l’unica soluzione ammissibile, una volta escluse tutte le altre possibilità. Si argomentava, infatti, che tali veicoli non potevano essere opera né degli americani né dei russi, perché chiunque avesse avuto a disposizione un simile strumento ne avrebbe tratto immediatamente vantaggio, se non direttamente a livello militare, almeno a livello propagandistico, strategico e politico. Quanto all’altra possibilità, che i dischi volanti provenissero da altri sistemi planetari, sembrava incompatibile con le attuali conoscenze in merito alla fattibilità di viaggi spaziali così straordinariamente lunghi. Autori di queste sorprendenti affermazioni erano il Prof. Henrique José de Souza e il Comandante Paulo Justino Strauss. Il primo era Presidente della Società Teosofica brasiliana, che aveva la sua sede a San Lorenzo nello stato di Minas Geiras, dove c’è un immenso tempio in stile greco dedicato al regno sotterraneo di Agartha. Fra gli studenti del Professore c’era appunto il Comandante Paulo Justino Strauss, ufficiale della marina brasiliana e membro del Consiglio d’Amministrazione della Società Teosofica brasiliana, il quale aveva anche tenuto diverse conferenze a Rio de Janeiro su questo argomento. Studente del Prof. de Souza fu pure O. C. Huguenin, autore di un libro pubblicato in Brasile nel 1956, mai tradotto in altra lingua, il cui titolo in italiano sarebbe Dal mondo sotterraneo al cielo: dischi volanti. Questo libro riporta le tesi dell’autore secondo cui dischi volanti furono costruiti dagli Atlantidi più di 12.000 anni fa, appena prima che il loro continente sprofondasse nell’oceano. Alcuni Atlantidi sarebbero sfuggiti alla distruzione grazie ai dischi volanti con cui riuscirono a trasferirsi, attraverso le aperture polari, nel mondo interno. Dopo aver dichiarato che “l’ipotesi dell’origine extraterrestre dei dischi volanti non sembra accettabile”, Huguenin afferma:
Dobbiamo prendere in considerazione la più recente e interessante teoria proposta come spiegazione dell’origine dei dischi volanti: l’esistenza di un grande Mondo Sotterraneo con innumerevoli città in cui vivono milioni di persone. Questa umanità separata da quella di superficie ha raggiunto un alto grado di civiltà, di organizzazione economica e sociale, di sviluppo spirituale e culturale, unitamente a uno straordinario progresso scientifico, a paragone del quale l’umanità che vive sulla superficie della Terra, può essere considerata barbara. Stando alle informazioni fornite dal comandante Paulo Strauss, il Mondo Sotterraneo non si limita a caverne, ma è molto più esteso, occupando un’enorme cavità nel cuore della Terra, abbastanza ampia da contenere città e campi, dove vivono esseri umani e animali, il cui aspetto fisico è simile a quelli della superficie.
Huguenin racconta poi che questo popolo, molto più progredito del resto dell’umanità per quanto attiene allo sviluppo scientifico, costruì macchine chiamate “vimana”, che
[…] volavano nei cieli e nei tunnel come aeroplani, utilizzando una forma di energia ottenuta direttamente dall’atmosfera. […] Sono identici a quelli che noi chiamiamo dischi volanti. […] Prima della catastrofe che distrusse il loro continente, gli Atlantidi crearono rifugi nel Mondo Sotterraneo, che raggiunsero a bordo dei loro vimana, o dischi volanti. Da allora i dischi volanti sono rimasti all’interno della Terra, ed essi se ne servono per spostarsi da un luogo all’altro.
Nel 1957 si imbatté per caso in questo libro lo scrittore statunitense Walter Siegmeister (1901-1965), che l’anno prima si era trasferito nello Stato brasiliano di Santa Caterina, a Joinville, per fondarvi una comunità idealista e mettersi al sicuro dalle conseguenze di una guerra nucleare che egli prevedeva sarebbe scoppiata nel 1956. Fu proprio il libro di Huguenin a dargli la prima ispirazione sul tema della terra cava che poi, dietro lo pseudonimo di Raymond W. Bernard, avrebbe sviluppato nel libro The Hollow Earth del 1964, riprendendo anche le precedenti opere di William Reed e di Marshall Gardner. Raymond Bernard (alias Walter Siegmeister) era convinto che gli UFO provenienti da Agartha (che egli scrive “Agharta”) potessero utilizzare una forza di propulsione antigravitazionale chiamata “Vril”:
La tragica morte e scomparsa del capitano Mantell, che inseguì un disco volante finché quest’ultimo perse la pazienza e lo fece svanire disintegrandolo, starebbe a indicare che quella razza padroneggia una forma di energia superiore, che Bulwer Lytton chiamò “Vril”, che aziona i loro velivoli; essi se ne servono a fini distruttivi quando sono costretti a farlo per autodifesa.
Si deve probabilmente a Siegmeister l’idea che l’interno del globo — da dove vanno e vengono i dischi volanti di una sconosciuta civiltà tecnologica — sia proprio Agartha, e che Shambhala sia la sua capitale. Tuttavia, il primo a formulare l’idea dell’origine sotterranea dei dischi volanti non fu Huguenin, né il Comandante Strauss, ma proprio il Prof. De Souza, il quale si era interessato per anni alla leggenda di Agartha. Mentre rifletteva sul regno sotterraneo e la sua rete di gallerie — e su come qualcuno potesse servirsene senza disporre di adeguati mezzi di trasporto, — egli si convinse che i dischi volanti appartenessero ad una civiltà avanzata: se erano in grado di vivere e prosperare sotto terra potevano aver sviluppato mezzi di trasporto molto più sofisticati di quelli concepiti da coloro che vivono sulla superficie del pianeta.
Centri occulti
Con il Prof. De Souza, grande studioso di teosofia e occultismo, si entra nel pieno della più antica tradizione esoterica, che ci parla del regno immateriale di Shambhala, del regno sotterraneo di Agartha e di un favoloso sovrano chiamato il Re del Mondo. Entriamo dunque in una materia molto intricata, dalle numerosissime ramificazioni e contaminazioni, per tentare di seguire la genesi e lo sviluppo di due potentissimi archetipi: quello della “città celeste” e quello del “regno sotterraneo”. In realtà è bene fare subito delle opportune distinzioni fra Shambhala, Agartha e il Re del Mondo: se Shambhala appartiene alle più antiche tradizioni orientali (indù e buddhista), non è così per Agartha, che è una creazione occidentale relativamente recente, e nemmeno per il Re del Mondo, che sembra essere frutto di manipolazioni, anche queste relativamente recenti, dell’antica tradizione che si richiama a Sanat Kumara (a cui si è accennato). Ciò che le accomuna è l’archetipo del centro spirituale nascosto, la fonte del potere occulto che dirige lo sviluppo del mondo e il destino dell’umanità. Il tema è molto complesso e articolato, e per tentare di uscire dal groviglio delle sue innumerevoli versioni e sfaccettature, seguiremo il percorso suggerito da Joscelyn Godwin nel suo fondamentale lavoro sul “mito polare”, pubblicato nel 1993. Cominceremo dunque con Agartha.
Agartha
L’uso del termine “Agartha” (in questa o in una qualunque altra delle numerose varianti foneticamente simili), per indicare una terra nascosta e misteriosa, è sorprendentemente recente, e si può far risalire al francese Louis Jacolliot (1837-1890). Fra il 1865 e il 1869 Jacolliot svolse l’attività di magistrato nelle colonie, prima a Tahiti e poi in India meridionale, dove i suoi interessi lo spinsero a raccogliere molto materiale, che poi confluì in una trilogia sulla religione e sulla mitologia indù e i suoi rapporti con il Cristianesimo; in uno di questi libri, Le Fils de Dieu (1873), l’autore riporta la storia di “Asgartha”, come gli fu narrata dai bramini locali. L’Asgartha di Jacolliot era la splendida capitale di una grande civiltà dell’antico Indostan, non meglio ubicata: una sorta di “Città del Sole”, sede della massima autorità sacerdotale e civile, il Brahmatma, che viveva in un immenso palazzo e si mostrava al popolo una volta all’anno. La successione dei Brahmatma governò l’India dal 13.300 a.C. circa (data fissata astronomicamente, corrispondente al primo grado dell’era precessionale della Bilancia) fin verso il 10.000 a.C., dopo di che seguì un periodo in cui l’autorità passò ad un’altra fazione interna alla classe dominante; questo, fino al 5.000 a.C. circa, quando gli antichi popoli norreni, guidati dai fratelli Ioda e Skandah, invasero l’Indostan e distrussero Asgartha. I norreni, tornati poi alle loro terre, avrebbero conservato il ricordo della splendida Città del Sole nel nome dato alla dimora degli dèi, Asgard. È curioso rilevare come proprio negli stessi anni un altro autore, indipendentemente, andasse a collocare una “Asgaard” nell’Asia centrale: si tratta di Ernest Renan, in uno dei suoi dialoghi filosofici intitolato Rêves (1876). Il racconto di Jacolliot fa derivare “Asgard” da “Asgartha”, come abbiamo visto, ma poiché non sembra di poter ravvisare alcun fondamento storico nella narrazione riferitagli dai suoi bramini, è più probabile che il rapporto debba essere rovesciato, e che cioè sia il termine “Agartha” ad essere derivato dall’“Asgard” della mitologia nordica. Dunque Agartha è solo una derivazione, o meglio, un’invenzione, come detto, storicamente collocabile nel sec. XIX? Prima di trarre delle conclusioni, facciamo un passo avanti. Intanto, negli stessi anni, una singolare rivisitazione del tema del centro spirituale nascosto è quella che si trova in una strana opera anonima intitolata Ghostland, or Researches into the Mysteries of Occultism (1876), pubblicata a cura di Emma Hardinge Britten (1823-1899), nota medium e tra i fondatori della Società Teosofica. Si parla di una certa “Confraternita di Ellora”, il cui segreto luogo d’incontro si troverebbe appunto in un immenso tempio sotterraneo nei pressi del famoso complesso di templi rupestri che è meta di pellegrinaggio di tre religioni: brahmanesimo, buddhismo e giainismo. In Ghostland non compare il nome di Agartha (in alcuna delle sue varianti), e manca la figura del Signore del Mondo, Brahmatma o comunque lo si voglia chiamare; ma si afferma espressamente che dalla Confraternita si irradia una forza sconosciuta in grado di influenzare psichicamente tutto il mondo. Il passo avanti successivo ci porta a Mission de l’Inde di Joseph Alexandre Saint-Yves marchese d’Alveydre (1842-1909). Si può dire che senza Saint-Yves si sarebbe tentati di liquidare l’Asgartha di Jacolliot, senza troppi scrupoli, come pura invenzione. Saint-Yves afferma di aver potuto attingere informazioni dirette in merito alla “Terra Santa di Agarttha” (così lui la scriveva) e al suo protettore “Signore dell’Universo”: la prima fonte è costituita dal suo insegnante di sanscrito, un certo Haji Sharif (1838-?); la seconda fonte, è costituita dalle sue dirette esplorazioni di Agartha mediante viaggi nel corpo astrale. In Mission de l’Inde (stampato nel 1886, subito ritirato, poi ripubblicato postumo nel 1910) si apprende che Agartha è una terra nascosta da qualche parte in Asia, sotto la superficie, dove una popolazione di milioni di individui è governata da un “Sovrano Pontefice” denominato (come in Jacolliot) il “Brahmatma”, insieme con i suoi due assistenti, il “Mahatma” e il “Mahanga” (assenti invece in Jacolliot). Il regno di Agartha, che disponeva di una tecnologia molto più avanzata della nostra, si trasferì nel sottosuolo all’inizio del Kali Yuga, che l’autore fa risalire al 3200 a.C. circa. La sua forma di governo era la sinarchia, un sistema di tipo gerarchico basato sull’intelligenza, sulle conoscenze e sui meriti individuali. Questa era la forma di governo adottata anche in superficie, prima che andasse perduta a seguito dello scisma che ruppe l’Impero Universale, nel IV millennio a.C.; quando il mondo adotterà nuovamente la sinarchia, i tempi saranno maturi affinché Agartha ritorni alla luce e porti all’umanità i suoi doni materiali e spirituali. Negli archivi di Agartha è conservata l’intera saggezza di millenni, scolpita su pietra con i 22 caratteri alfabetici della lingua “Vattan”, la lingua originaria dell’umanità. Tra i suoi segreti vi sono quelli relativi al rapporto tra l’anima e il corpo e al modo di mantenere il contatto con le anime disincarnate. Ora, è evidente che la narrazione di Saint-Yves è in rapporto sia con il racconto di Jacolliot, sia con il romanzo fantascientifico di Edward Bulwer- Lytton (1803-1873), The Coming Race (1871), che narra di un regno sotterraneo di esseri altamente evoluti che posseggono la misteriosa “forza Vril”; questi esseri un giorno riemergeranno in superficie per dominare l’umanità e il mondo, anche se per il nostro stesso bene. Per inciso, Saint- Yves fu amico intimo del figlio di Bulwer-Lytton, il Conte di Lytton, già ambasciatore in Francia e viceré dell’India. Tuttavia, è da escludere — afferma Godwin, e noi con lui — che un’opera come Mission de l’Inde si possa spiegare semplicemente in base a influenze e suggestioni letterarie. L’estrema serietà del personaggio, le pubblicazioni e la corrispondenza nell’intero arco della sua vita sono una prova che Agartha e il Brahmatma venissero considerate da Saint-Yves alla stregua di indiscutibili realtà. Naturalmente, credere nella sua buona fede (e non vi è motivo per non farlo), non significa accettare Agartha in tutta la realtà e la concretezza che egli vi attribuì. Non si sa che sorte avrebbero avuto le rivelazioni di Saint-Yves, se non avessero incontrato un inaspettato sostegno nello scienziato polacco Ferdinand Ossendowski (1876-1945) e nel suo libro Beasts, Men and Gods (1922). L’opera è un resoconto dei suoi viaggi in Asia centrale, effettuati fra il 1917 e il 1920. Qui l’autore riferisce i racconti, da lui personalmente ascoltati in Mongolia, in merito a un regno sotterraneo di 800 milioni di abitanti chiamato “Agarthi”, guidato dal “Brahytma — il Re del Mondo”, dal “Mahytma” e dal “Mahynga”; molti altri dettagli, fra cui la lingua sacra parlata nel regno, il “Vattanan”, sembrano confermare la testimoniananza di Saint-Yves. Il libro terminava con la profezia, riferita a Ossendowski da un suo informatore, che un giorno il popolo di Agarthi sarebbe riapparso sulla superficie della Terra; e quel giorno ormai non è molto lontano, trattandosi dell’anno 2029... Sarebbe facile liquidare la storia di Ossendowski come un plagio di quella di Saint-Yves, ma è lo stesso Ossendowski a negarlo, oltremodo indignato, affermando di non avere mai sentito parlare di Saint-Yves d’Alveydre prima del 1924. Tale affermazione è fatta in presenza di René Guénon (1886-1951), il quale, tirato in ballo, sente il dovere di dire qualcosa; prima, nel 1925, quando scrive di non avere motivo di dubitare della sincerità di Ossendowski; e poi, nel 1927, con un intero libro dedicato all’argomento, Le Roi du Monde. Nel libro, senza dubbio uno dei più affascinanti di Guénon, l’autore tesse una stupefacente rete di rapporti, corrispondenze e simboli tratti dai miti e dalle religioni di Oriente e Occidente, per affermare che, indipendentemente dalle testimonianze riportate da Ossendowski, si sa da altre fonti che racconti del genere sono frequenti in Mongolia e in tutta l’Asia centrale (anche se poi Guénon non precisa quali siano queste fonti, né il grado di somiglianza con il racconto di Ossendowski). L’Agartha di Guénon, il cui nome significa “l’inviolabile”, è il centro spirituale del mondo, governato da un “Re del Mondo” (da non confondere con Satana “Princeps huius mundi”). Ma dietro tutto ciò, si può affermare la realtà concreta di Agartha, come asserivano Saint-Yves e Ossendowski? In esoterismo, questo è un falso problema, come spiega lo stesso Guènon verso la fine del libro:
Ora, la sua localizzazione in una determinata regione deve essere considerata come letteralmente effettiva, oppure soltanto simbolica, o l’una e l’altra cosa insieme? A tale domanda risponderemo semplicemente che, per noi, i fatti geografici e quelli storici hanno, come tutti gli altri, un valore simbolico che, del resto, non toglie nulla della loro realtà propria in quanto fatti, e anzi conferisce loro, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore.
In definitiva, Guénon non esclude la realtà geografica di Agartha: questa, se dimostrata, non farebbe altro che rinforzare la superiore realtà del simbolo. Si può concludere, allora, che le due interpretazioni, simbolica e materiale, non sono affatto contraddittorie, ma anzi, si completano l’un l’altra. Ritroviamo Guénon anche in un altro contesto che chiama in causa Agartha, ossia la Confraternita dei Polari. La vicenda è lunga e complessa, ma qui basti ricordare quella che è la ragione fondativa di tale Confraternita: la preservazione e l’uso di un “Oracolo dell’Energia Astrale” che costituisce un canale di comunicazione con il “Centro Iniziatico Rosacrociano dell’Asia Misteriosa”. Il testo fondamentale della Confraternita, Asia Mysteriosa (1929), fu pubblicato a Parigi con il sostegno e la fattiva collaborazione di diversi intellettuali ed esoteristi. Fra questi, Maurice Magre, poeta e romanziere, il quale equipara implicitamente la fonte dell’Oracolo a quella della Teosofia, cioè la Grande Loggia Bianca, o Fratellanza Bianca. Un altro è Jean Marquès-Rivière, giornalista e studioso di dottrine esoteriche, il quale scrive:
Ora il centro della potenza sovrumana ha un suo riflesso sulla Terra. C’è una tradizione costante in Asia e questo Centro (terrestre? Non so fino a che punto) viene chiamato in Asia Centrale Agarttha. Porta anche diversi altri nomi che è inutile riportare qui. Questo Centro ha come missione, piuttosto come “ragione d’essere”, il dirigere le attività spirituali della Terra.
Dicevamo del coinvolgimento di Guénon nella vicenda dei “Polari”, che si manifesta inizialmente con un vivo interesse per la Confraternita e in particolare per l’Oracolo, anche se poi egli ne prende le distanze, deluso dalle risposte dell’Oracolo a sue precise domande su questioni dottrinali. Lo sviluppo del mitologema di Agartha, dopo la vicenda dei “Polari”, prosegue per tutto il ’900, fino ai nostri giorni si può dire, arricchendosi di sempre nuovi particolari e contaminazioni (lo abbiamo già visto con Raymond Bernard e la sua Terra cava), ma ormai non più così significativi ai nostri fini.
Shambhala
È utile, invece, proseguire la nostra disamina andando a vedere come l’idea di Agartha si completi con quella di Shambhala. Shambhala (che come Agartha presenta numerose varianti fonetiche) deriva da un termine sanscrito il cui significato è “luogo di pace/felicità/tranquillità”. L’attuale 14º Dalai Lama ne diede la seguente descrizione nel 1981, rivolgendosi a un gruppo di persone che stavano per essere iniziate al Kalachakra Tantra:
Il Kalachakra Tantra […] è strettamente connesso al paese di Shambhala: ai suoi novantasei distretti, ai suoi re e ai loro séguiti. Eppure, se consultate una carta geografica e cercate Shambhala, non la troverete; si tratta infatti di una terra pura che, salvo coloro il cui karma e i cui meriti li hanno resi degni, non può essere vista né visitata. [...] Ciononostante Shambhala è una vera terra — una terra pura, in effetti — che non è immediatamente tangibile da parte di persone ordinarie, così come si compra un biglietto aereo per recarsi in qualche posto.
Le parole del Dalai Lama fanno comprendere che Shambhala non è un posto materiale nel significato normale o geografico del termine. Lo stesso Kalachakra Tantra, “un sistema per trasformare mente e corpo cosicché diventino puri”, viene adoperato da alcuni dei suoi numerosi iniziati al fine di assicurarsi una futura rinascita nella pura terra di Shambhala. Uno dei segretari del Dalai Lama, Khamtul Jhamyang Thondup, affermò che la comparsa di Shambhala “dipende dalle condizioni spirituali di una persona […] dunque è difficile definirla con esattezza”. Queste parole sono la chiave per comprenderla. Quel che viene detto di Shambhala è altrettanto vero di ciò che si potrebbe dire di una qualunque città reale, come New York o Londra: la qualità storica, culturale, umana, che impregna la loro realtà fisica, fatta di strade ed edifici, la si può percepire nella misura in cui la propria condizione spirituale permette di percepirle. Poiché per il buddismo tutte le esistenze, incluse quelle degli dèi nel loro cieli, sono illusorie, la distinzione fra una città “reale”, che si può rintracciare sulla carta geografica, e una “irreale”, come Shambhala, non è così netta come sembrerebbe ai materialisti. Né altrettanto netta vi è la distinzione tra ciò ch’è materiale e ciò ch’è immateriale, tra il mondo fisico e quello mentale: alla fin fine, una città è anche il il risultato di centinaia di anni di pensieri su di essa da parte di milioni di persone. Sicché, da un certo punto di vista, sia New York che Shambhala sono ugualmente reali per coloro i quali le percepiscono, o ugualmente irreali per coloro i quali non siano ingannati dal velo del Samsara. Nella pratica dei Tantra tibetani, la persona immersa in meditazione può evocare simili luoghi in tutti i loro particolari e far assumere loro un’apparenza di realtà che può persino diventare tangibile per altri. Lo stesso Kalachakra Tantra è una complessa pratica di meditazione di questo tipo. Da tali premesse, si può pensare che Shambhala non sia mai esistita come luogo fisico, ma che la possibilità, persino la frequenza, di viaggi immaginari l’abbiano resa familiare agli iniziati ai Tantra. Nessuna meraviglia, dunque, che i tibetani non diano una precisa indicazione della localizzazione geografica di Shambhala. Eppure se oggi Shambhala è situata in una dimensione immateriale, forse non è sempre stato così. Il 3° Panchen Lama ne fornisce diverse differenti indicazioni geografiche, con particolari tali da far capire chiaramente che si tratta di un mondo mitico; ma forse è utile tentare di circoscrivere l’area verso cui puntano tali sia pur vaghe indicazioni. Egli afferma che il vasto regno di Shambhala si estende fra il monte Kailas, a sud del Tibet, e “il vicino fiume Sita”, che si ritiene essere il Tarim, il grande corso d’acqua che scorre verso est attraversando il deserto di Taklamakan, nel Turkestan cinese (Sinkiang), a nord del Tibet. Il monte Kailas dista dal Tarim circa 1100 km, e Shambhala sarebbe dunque da localizzare in questa area. Esaminando ora le fonti occidentali, troviamo che i teosofi sono unanimi nell’identificare Shambhala con una perduta civiltà del deserto di Gobi (che si trova circa 2000 km più ad est del deserto di Taklamakan). In Isis Unveiled (1877) e poi in The Secret Doctrine (1888) la Blavatsky ne parla, affermando che in un tempo remoto esistette un vasto mare interno nell’Asia centrale, e che in quel mare sorgeva un’isola, abitata dagli ultimi superstiti della razza lemuriana scampati al cataclisma che aveva sconvolto la terra “per la terza volta”. Altrove dichiara che quest’isola sacra esisterebbe tutt’ora, come un’oasi circondata dalla desolazione del deserto. Per inciso, la scienza moderna conferma l’esistenza di un mare interno nell’Asia centrale, qualche decina di milioni di anni fa, esteso probabilmente fino al territorio dell’attuale deserto di Taklamakan, ma in ogni caso non fino al Gobi. Dopo la Blavatsky, anche Annie Besant e Charles W. Leadbeater (che guidarono insieme la Società Teosofica di Adyar nei primi decenni del ’900) parlarono di Shambhala, sulla base di informazioni che lo stesso Leadbeater attingeva con le sue doti di chiaroveggente. Secondo i risultati delle loro ricerche (riportate in Man: Whence, How and Whither, già citato), Shambhala appare come una città fondata circa 72.000 anni fa dal Manu (fondatore e reggente) della Razza Ariana, sulle rive del mare di Gobi, con l’Isola Bianca situata davanti ad essa. Tuttavia, vi è almeno un elemento di perplessità nelle informazioni fornite dai due teosofi: infatti, da quanto detto sopra, non vi è mai stato un mare nel territorio del Gobi, tanto meno “solo” 72.000 anni fa (se le nostre attuali conoscenze non sono completamente errate). Forse in questa circostanza qualcosa ha tratto in inganno o deviato le facoltà psichiche di Leadbeater, peraltro straordinarie e, nel loro complesso, autorevoli; lo abbiamo visto quando si è accennato al lavoro, da lui condotto con Annie Besant, sulla Chimica occulta. Anche Alice Ann Bailey (1880-1949), fondatrice della Scuola Arcana e ispirata dal maestro tibetano Djwal Khul, parlò di Shambhala in un suo libro pubblicato nel 1922, riferendosi ad essa come alla sede della Fratellanza Bianca:
La sede originaria di questa Gerarchia si trova a Shambhala, del deserto di Gobi, chiamata negli antichi libri l’Isola Bianca. Essa esiste ed è fatta di materia eterica, e quando la razza degli uomini sulla terra avrà sviluppato una visione eterica la sua localizzazione verrà riconosciuta e la sua realtà accettata.
La Shambhala della Bailey è la sede del “Signore del Mondo”: questo è forse il primo uso documentato di tale titolo con riferimento all’essere spirituale che presiede all’evoluzione umana da un centro invisibile, per quanto geografico. L’analogia con l’Agartha e il “Re del Mondo” di René Guénon, sia nel luogo che nella funzione, è del tutto evidente (anche se è vero che il termine Shambhala, in alcuna delle sue varianti fonetiche, non compare mai in Le Roi du Monde). Nessuna meraviglia, allora, che da questo momento si cominci a parlare di Shambhala e di Agartha come della stessa cosa, forzando la prima ad essere qualcosa di più di una localizzazione eterica sulla terra.
Infinite contaminazioni degli archetipi
Di forzature Shambhala ne ha conosciute parecchie. Si può quasi dire che ogni ricercatore si sia scelto il tipo di Shambhala che preferiva; ma di tutti i tipi possibili, probabilmente il più distante dal modello tibetano è quello di Louis Pauwels (1920-1997) e Jacques Bergier (1912-1978), nel loro Le Matin des magiciens, pubblicato nel 1960. Nell’opera di questi due autori si assiste ad un singolare quanto incomprensibile rovesciamento: la pura terra dei Tantra tibetani, Shambhala, diventa un luogo violento e di potere terreno, mentre la materialistica Agartha di Saint-Yves diventa un luogo di immota meditazione. Si giunge quindi ad affermare la realtà di entrambe, Shambhala e Agartha: la realtà dell’una come contraltare dell’altra e viceversa.
[...] Dopo il cataclisma del Gobi i signori e maestri di questo grande centro di civiltà, gli Onniscienti, i figli delle Intelligenze provenienti dal Difuori, presero dimora in un immenso sistema di caverne sotto l’Himalaya. Qui, nel cuore di queste caverne, si scissero in due gruppi, seguendo l’uno la “Via della Mano Destra”, l’altro la “Via della Mano Sinistra”. La prima via avrebbe avuto il suo centro ad Agarthi, luogo di meditazione, città nascosta del Bene, tempio della non partecipazione alle cose del mondo. La seconda sarebbe passata per Schamballah [sic], città della violenza e del potere le cui forze comandano agli elementi e alle masse umane, e affrettano l’arrivo della razza umana alla “cerniera dei tempi”.
Non è stato possibile individuare la fonte originaria da cui Pauwels e Bergier traggono questo singolare scenario che mette in campo Agartha contro Shambhala e viceversa. Più semplice da comprendere è lo scenario proposto da Siegmeister, come si è visto, il quale mette insieme l’uno e l’altra, il regno sotterraneo e materiale di Agartha con la sua capitale Shambhala, forse più spirituale che concreta. Si assiste insomma ad una degradazione del mitologema, che raggiunge forse il suo punto più basso nel romanzo The Spear of Destiny (1973) di Trevor Ravenscroft (in edizione italiana Hitler e la lancia del destino), dove Agartha e Shambhala diventano rispettivamente i centri di influenza luciferina e ahrimanica, l’uno complementare dell’altro, secondo la cosmologia di Rudolf Steiner (evidentemente distante dalla cultura tibetana) che identifica in Lucifero e in Ahriman le due fonti gemelle del male. È vero che la pubblicazione del libro di Ravenscroft è posteriore al periodo delle ricerche di Porro, ma è comunque indice dell’incessante vitalità del mitologema di Agartha-Shambhala e delle molteplici trasformazioni e contaminazioni che esso ha subito nel corso del ’900. In precedenza, tuttavia, si deve registrare un contributo di ben diverso spessore sul tema del rapporto fra Agartha e Shambhala, quello portato dalla famiglia Roerich: Nicholas (1874-1847), pittore ed operatore di pace; la moglie Helena, medium del maestro Morya; e il loro figlio George, in seguito professore alla Yale University. Dopo aver intrapreso una spedizione attraverso Cina e Mongolia, fino ai confini del Tibet (tra 1925 e il 1928), i Roerich pubblicarono numerosi libri di viaggio e riflessioni, uno dei quali, opera di Nicholas, era intitolato appunto Shambhala. A proposito di questa scrive Roerich:
La stessa Shambhala è un Luogo Santo, dove il mondo terreno si congiunge con i più alti stati di coscienza. In Oriente si sa che esistono due Shambhala: una terrena e una invisibile. Molte congetture sono state fatte sulla localizzazione della Shambhala terrena. Secondo certuni essa si troverebbe all’estremo nord, e aggiungono che i raggi dell’aurora boreale sono quelli dell’invisibile Shambhala.
Poi si precisa che ciò non è esatto, e che Shambhala è localizzata a nord solo in rapporto all’India, trovandosi forse nel Pamir, nel Turkestan o nel Gobi centrale. Roerich scoprì l’esoterismo attraverso la Società Teosofica, e rimase sempre fedele agli insegnamenti dei suoi Maestri, i quali erano, per lui, strettamente connessi con Shambhala. Roerich collegava a Shambhala anche la città sotterranea di Agarthi e l’Isola Bianca: questo, insieme al passo precedentemente citato, sembra portare alla conclusione che per Roerich il luogo invisibile, immateriale, è propriamente Shambhala, mentre il luogo visibile, materiale, terreno, anzi sotterraneo, è Agarthi, con il suo avamposto in superficie costituito dall’Isola Bianca. Le caverne sotterranee dell’Asia centrale sono ancora oggi abitate, egli dice, da un popolo chiamato Agarthi o Chud; e l’Isola Bianca, l’isola-rifugio descritta dalla Blavatsky, nel Mare di Gobi, era raggiungibile soltanto attraverso passaggi sotterranei. In tutta l’Asia aveva udito racconti su questo popolo scomparso, pacifico e civilizzato, che era stato costretto a cercare rifugio nel sottosuolo; ma dal sottosuolo riemergerà, e in tutta la sua gloria, quando giungerà il tempo della purificazione. Questi sono, tuttavia, racconti e miti che Roerich riporta, con vivo interesse e con mentalità aperta, ma senza la credulità di un Ossendowski riguardo alla storia dell’Agartha sotterranea. In questa, come in tutte le storie favolose concernenti tribù perdute e sotterrane, secondo Roerich si riconoscono le tracce di remoti eventi storici, fatti di guerre e migrazioni di popoli; si potrebbe dire che, per Roerich, l’Agartha sotterranea sarebbe, in definitiva, un mitologema sviluppatosi intorno alla realtà spirituale di Shambhala, venendo a rappresentarne una sua sfaccettatura. Un altro aspetto del pensiero di Roerich, che è utile evidenziare, riguarda gli insegnamenti del Kalachakra Tantra (la religione di Shambhala), che sarebbero incentrati sul Fuoco, in diretta connessione con gli antichi culti del Fuoco e del Sole, di cui la svastica è un simbolo.
Come il Treatise on Cosmic Fire di Alice Bailey e Djhwal Khul, i libri di Helena Roerich e Morya sull’“Agni Yoga” sono dedicati a spiegare [...] cosa sia l’Agni o Fuoco di Shambhala, e come esso operi nella Nuova Era: è la “grande ed eterna energia, questa impalpabile materia imponderabile che è sparsa in ogni dove e che noi possiamo usare in ogni momento”.
È evidente l’analogia con la “forza Vril” descritta da Edward Bulwer- Lytton nel romanzo The Coming Race (già citato), in termini di un particolare fluido energetico tale da permettere, ad una misteriosa civiltà residente nella Terra cava, di possedere poteri magici che renderebbe gli individui simili a divinità. Dall’altra parte, però, non si può fare a meno di associare l’Agni di Roerich alle energie dell’atomo, grande scoperta del secolo scorso, e a cui profeticamente gli Eocenici davano grande importanza, dato che il loro ritorno in superficie e il conflitto con gli “uomini futuri” (cioè noi) si sarebbe verificato subito dopo la (ri)scoperta e l’uso dell’energia atomica da parte dell’umanità attuale. Forse Roerich avrebbe esitato ad identificare Agni col nocciolo della religione di Shambhala, se avesse visto in quale forma l’uomo l’avrebbe costretto a manifestarsi nel 1945... Lo stesso celebre avvistamento ufologico avvenuto il 5 agosto 1927, nel distretto di Kukunor, da parte della carovana di Roerich, fu interpretato dai protagonisti quasi come un evento escatologico. Il lama che viaggiava con la carovana lo giudicò un segno molto buono, un segno di protezione da parte del “Signore del Mondo”. Nei libri di Roerich si parla delle profezie secondo cui il Signore del Mondo, identificabile con il bodhisattva Maitreya, il Signore della Nuova Era di Shambhala, sta preparando un invincibile esercito con cui condurrà al termine l’età oscura del Kali Yuga e darà inizio a un nuovo Satya Yuga. L’evento apocalittico era atteso dai Roerich come davvero imminente: questione di pochi anni, e gli araldi di Shambhala si sarebbero fatti vedere... La spedizione dei Roerich potrebbe perfino aver avuto un ruolo attivo in questo cambiamento di ere. Nelle opere dei Roerich si accenna infatti ad una Pietra che appartiene a Shambhala (proveniente da una stella lontana, forse Sirio) e che manifestamente si ricollega al lapis exillis (la Pietra del Graal del Parzival di Wolfram von Eschenbach) e alla pietra filosofale degli alchimisti.
La porzione più grande di questa pietra rimane a Shambhala, mentre parti di essa circolano sulla terra, conservando il proprio legame magnetico con la pietra principale.
Quanto alla pietra principale, questa si troverebbe nella torre del Signore del Mondo, da dove emette radiazioni benefiche per l’umanità. Lo studioso Andrew Thomas ritiene, da alcuni accenni sparsi nelle opere dei Roerich, che un piccolo frammento della pietra principale fu inviato in Europa per favorire la fondazione della Lega delle Nazioni, e che fu quindi riportata a Shambhala dalla spedizione dei Roerich. Il tema di una pietra dalle virtù straordinarie si trova anche in Ossendowski, il quale cita una leggenda mongola su una Pietra Nera oracolare che il Re del Mondo avrebbe inviato al Dalai Lama, e che sarebbe stata conservata a Urga (oggi Ulan Bator, capitale della Mongolia), almeno fino a cento anni fa; e a questo punto, come non ricordare anche quella pietra che, secondo la leggenda, appartenne al Re Salomone, all’imperatore Akbar, a un imperatore cinese e a Tamerlano il Grande? Se ha qualche fondamento la storia della pietra riportata dai Roerich in Asia centrale, è possibile che il luogo della riconsegna fosse proprio Urga, dove Nicholas donò al governo mongolo il suo quadro intitolato Il Signore di Shambhala, che il governo fece installare in un piccolo altare costruito appositamente; forse l’altare era destinato ad ospitare qualcosa di più di un semplice quadro...
Mitostoria
Tirando le fila di questa breve disamina del mitologema di Agartha/Shambhala, possiamo dire, citando direttamente Godwin:
[...] Pare proprio che teosofi, quasi teosofi e persino anti-teosofi, come René Guénon, qualunque fossero i loro dissensi interni, costituissero un gruppo votatosi all’ideale di Shambhala, nella sua accezione più vasta: quella del rispetto e della deferenza per un centro in Oriente da cui proviene l’impulso per l’imminente rinnovamento dell’umanità, e per un Signore, Re o Governante del Mondo che non è Cristo né Lucifero.
Leggendo questo, è quasi inevitabile il richiamo al concetto di “mitostoria”, termine coniato dallo storiografo William McNeill nel 1985: la storia diviene mito e il mito agisce nella storia influenzando i comportamenti umani, e quindi, in qualche modo, autorealizzandosi. Senza dubbio il mitologema di Agartha/Shambhala è un chiaro esempio di questa potente interazione fra mito e storia, con questo senza voler negare una base di fondatezza nella realtà; realtà che, tuttavia, potrebbe anche trovarsi su piani differenti dalla realtà materiale concreta delle scienze fisiche: i cosiddetti “piani sottili” di cui parla l’esoterismo.
Conclusioni
È giunto il momento di tirare le fila di tutte le considerazioni fatte negli ultimi tre capitoli. L’osservazione fondamentale che ci sentiamo di poter esprimere, a questo punto, è la seguente: la rappresentazione fornitaci da Porro della civiltà eocenica e dei suoi rapporti con la GS presenta forti e varie analogie con le infinite contaminazioni degli archetipi della Città Celeste, del Regno Sotterraneo, del Signore del Mondo e del Logos planetario, con suggestioni che si ritrovano anche nella letteratura ufologica, fantascientifica e fantastica (a questo proposito, il nome di Lovecraft è inevitabile – cfr. Appendice 5). Per comodità del lettore sintetizziamo qui di seguito le informazioni principali relative alla GS (informazioni desunte, come detto, dalle TF):
- La GS arrivò sulla Terra (non si sa da dove), quando la civiltà eocenica era già evoluta (non si dice da quanto tempo).
- La GS è descritta come una sfera concentrica alla Terra, e di diametro pari alla metà.
- La GS era ed è interconnessa con tutto ciò che esiste sul pianeta e può esercitare la propria influenza su qualunque fenomeno, non solo nell’ambito naturale, ma anche in quello umano.
- La GS promuove, oggi come allora, un’etica fondata sulla fratellanza umana, mentre la civiltà eocenica era caratterizzata da uno spiccato atteggiamento prevalentemente materialista, individualista, autoritario.
- La presenza della GS produsse una scissione fra gli Eocenici: da una parte, coloro che ne avevano accolto i dettami etici e ne riconoscevano la suprema autorità; dall’altra, coloro che non avevano mutato visione e continuavano a riconoscere l’autorità assoluta del Re.
- I fedeli al Re cercarono di schermare l’influenza della GS, il che indusse la GS a chiamare una popolazione extraterrestre (da Ganimede) per attuare un intervento punitivo nei confronti dei ribelli; fu proprio l’arrivo degli extraterrestri a costringere i fedeli al Re a scendere nelle sfere sotterranee, in attesa di poter risalire al momento opportuno.
- Nelle sfere sotterranee sono conservati i corpi dormienti del Re e dei suoi fedeli, ed è custodita tutta la conoscenza dell’antica civiltà eocenica.
- Vi era una profezia secondo cui in un tempo a venire i fedeli al Re si sarebbero risvegliati per risalire in superficie e combattere una battaglia contro i fedeli alla GS, alleati con i “viventi del futuro” (gli uomini di oggi).
- Si deve arguire, da tale profezia, che anche i fedeli alla GS sopravviverebbero per milioni di anni, come i fedeli al Re; ma non si dice se all’interno di strutture simili alle sfere, o in qualche altro modo.
Nel capitolo precedente si sono già evidenziate le analogie fra la GS e il concetto di Logos planetario nella letteratura teosofica; ma è altrettanto evidente il parallelismo fra l’arrivo della GS e quello dei Signori della Fiamma, con connotazioni ascrivibili alla polarità positiva (dell’unione) e pertanto riferibili all’archetipo spirituale di Shambhala, cui fa da contraltare l’archetipo materiale di Agartha (vedi l’interpretazione dualistica di Pauwels e Bergier, ma rovesciata nella polarità) incarnato dalla civiltà degli Eocenici, con connotazioni ascrivibili alla polarità negativa (della separazione). Che la civiltà degli Eocenici rappresenti il regno sotterraneo dell’Agartha è confermato dal fatto, naturalmente, che furono gli Eocenici a rifugiarsi sottoterra, nelle sfere; nonché dal fatto che di loro si attende il ritorno in superficie, proprio come nella tradizione relativa all’Agartha. Un altro tratto in comune fra gli Eocenici e tale tradizione è il tema dell’archivio, custodito nel sottosuolo, di straordinarie conoscenze, di cui un giorno l’umanità potrà beneficiare. Dall’altra parte, la GS come i Signori della Fiamma o il Logos planetario esercita un’influenza determinante nella vita e nell’evoluzione del pianeta, in tutti i suoi aspetti, incarnando in tal modo la suprema autorità del pianeta stesso. Non vi sono solo analogie, naturalmente. Ad esempio, la GS sembra essere un ente privo di individualità, che da solo esercita la sua attività; a differenza dei Signori della Fiamma, costituenti una Gerarchia Occulta con a capo il Re del Mondo (Sanat Kumara). E a questo proposito, anche nelle rivelazioni di Porro troviamo un sovrano assoluto, il Re degli Eocenici; ma se il Re del Mondo della tradizione occulta è riferibile, come detto, alla polarità positiva, il Re degli Eocenici è riferibile alla polarità opposta. Si assiste, insomma, ad un ennesimo rimescolamento delle carte, ad una nuova contaminazione dei medesimi archetipi fondamentali. Non si vuole dire con questo che Porro abbia consapevolmente plagiato tali archetipi e tali tradizioni. Abbiamo già espresso la nostra assoluta convinzione circa la sua buona fede, e circa la “realtà” di quanto egli rilevò, anche se il concetto di “realtà” va inteso in senso lato, ossia: Porro certamente ebbe modo di entrare in contatto con una sorgente di informazioni, e fedelmente riportò quanto riuscì ad apprendere; ma questo non implica necessariamente che le tali informazioni abbiano una precisa corrispondenza in oggetti materiali rinvenibili da noi, oggi, nel sottosuolo. Per essere più espliciti, forse Porro — attraverso il suo metodo che unisce ibridamente la sensibilità di uno strumento a quella dell’uomo — potrebbe avere attinto ad una sorgente di informazioni situata nei piani più sottili della manifestazione, dove per “manifestazione” si intende la totalità della realtà, di cui la realtà fisica è solo una parte, quella più grossolana. Proprio come un medium, Porro potrebbe essersi collegato agli archivi dell’akasha, o ad una possente eggregora stazionante nel piano mentale, creata non si sa quando né da chi... Del resto, per quanto questa possa sembrare un’affermazione gratuita e provocatoria, il passato non è un libro scritto che noi si debba solamente aprire e leggere, per averne conoscenza: il passato è un libro le cui pagine sono bianche, o meglio, si scrivono nel momento in cui si apre il libro, in cui si “va a vedere” (come nel poker). Solo allora il passato si scrive come eggregora creata da una collettività di individui che condivide una determinata interpretazione della realtà. La nostra ricostruzione della Seconda Guerra Mondiale, o della caduta dell’Impero Romano, o delle migrazioni dell’Homo sapiens, sono tutte eggregore quanto lo è la storia degli Eocenici raccontata da Porro; e se un buon numero di individui cominceranno a credervi, quelle sfere sotterranee potremmo perfino ritrovarle (come non citare, a questo punto, il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius di Jorge Luis Borges, meravigliosa rappresentazione letteraria di questo concetto?).