I BLOCCHI DI PUMA PUNKU
Articolo di Paolo Brega
Fonte: http://ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO_ID=9683
“I costruttori di queste grandi fondamenta e fortificazioni ci sono ignoti, né sappiamo quanto tempo è trascorso dall’epoca loro, dal momento che oggi scorgiamo solo mura di raffinata fattura, erette secoli e secoli fa. Talune di queste pietre sono consumate e in rovina, e ve ne sono altre talmente imponenti che viene da chiedersi come poté la mano dell’uomo trasportarle fino a dove oggi si trovano. Oserei dire che si tratta delle antichità più vetuste di tutto il Perù … Ho chiesto ai nativi se risalissero al tempo degli Incas, ma gli indigeni, ridendo della domanda, mi hanno ripetuto ciò che ho già detto: vennero costruite prima del regno degli Incas; ma non sapevano indicare o ipotizzare chi o perché le avesse erette”
Questa frase, riferita alle rovine di Tiwanaku, è stata scritta dal cronista spagnolo Pedro Cieza de Leon, nel 1549. Egli si era infatti posto come obiettivo quello di ricostruire la storia degli Inca dalle origini ai suoi giorni e diede corpo a questo redigendo la “Crónica del Perú, que trata del Señorio de los incas Yupanquis y de sus grandes hechos y gobernación.”.
Per redigere questa opera il Cieza si preoccupò di interrogare gli anziani saggi degli inca ancora sopravvissuti e ne elencò scrupolosamente i nomi e le famiglie di origine, consentendo anche agli storici attuali una attendibile indagine critica ripresa poi da W.Wetphal nella sua opera “Gli Inca” edita da Bertelsmann nel 1985. Fu anche da queste interviste che ebbe origine il pensiero che apre l’articolo.
Pedro Cieza de Leon
Secondo una delle interpretazioni più diffuse, Tiwanaku significherebbe letteralmente “la città di Dio”. Quando gli Incas guidati dal leggendario imperatore Pachacutec giunsero a Tiwanaku per la prima volta, “si sentirono invadere dallo stupore“,: “costruzioni simili non ne avevano mai viste“.come riferiscono i manoscritti di Cobo e Barnabé (rispettivamente datati 1599 e 1657) successivamente antologizzati nella opera “Historia del Nuevo Mundo”
Non deve dunque destare meraviglia che già a partire dall’epoca Inca le leggende più incredibili e le storie più strane prendessero a circolare sull’identità dei misteriosi costruttori di Tiwanaku. Secondo una nota leggenda Inca, a Tiwanaku, dove il mondo era stato creato, il creatore del mondo Tikki Viracocha inviò i suoi due figli, Manco Capac e Mama Occlo affinché fondassero un nuovo impero.
Una storia questa che richiama un certo sincretismo tra i personaggi citati nella leggenda Inca con i miti sumeri degli Anunnaki. Ecco che Viracocha può diventare Anu e i suoi due figli, Manco Capac e Mama Occlo, rispettivamente Enki ed Enlil. Non guardiamo ai nomi che purtroppo poi col tempo e con le tramandazioni orali dei miti nei secoli tendono a sovrapporsi e confondersi l’uno con l’altro. Viracocha può essere qui Anu e in un’altra leggenda ricordare la figura di Enki, portatore di conoscenza e benevolo nei confronti dell’umanità. Guardiamo piuttosto alle figure e alla descrizione dei ruoli. Abbiamo anche nel caso degli Inca la figura di un dio e dei suoi due figli caratterizzati da una funzione colonizzatrice. Addirittura secondo ulteriori leggende il dio Viracocha era apparso presso il sacro lago Titicaca e da li avrebbe rifondato la Terra dopo il diluvio. E in questa immagine subito balena alla mente il ruolo di Enki e dei sopravvissuti dell’età dell’oro nello svolgimento della “Rinascita” così come previsto nelle teorie sostenute nell’ambito del Progetto Atlanticus.
Il dio Viracocha raffigurato sulla porta del sole a Tihuanaco
Tutti sulle Ande sapevano di Tiwanaku, e pellegrini Inca (e non solo Inca) giungevano ad ammirare i grandi templi e gli immensi edifici di pietra, affrontando viaggi che potevano durare anche anni. Eppure, all’epoca degli Inca solo rovine restavano del grande centro cerimoniale. La fine di Tiwanaku resta infatti uno dei molti enigmi irrisolti dell’archeologia precolombiana.
L’intera città sembra essere stata sconvolta da un cataclisma di indescrivibile potenza, che squarciò i palazzi e ridusse i grandi templi, le strade e le piazze ad un unico immenso cimitero, seppellendo tutto sotto una coltre di fango spessa in alcuni punti anche 21 metri. Le distruzioni maggiori Tiwanaku dovette tuttavia subirle dopo la conquista. Divenuta ormai una sterminata cava di pietre. Intorno alla metà dell’800 le spoliazioni procedevano ad un ritmo tale che una linea ferroviaria dovette essere appositamente costruita per collegare Tiwanaku a La Paz. Ancora oggi risulta perciò difficile riconoscere molti dei luoghi tanto accuratamente ritratti e disegnati dai viaggiatori europei del tempo.
Fu Arthur Posnansky il primo a intraprendere scavi scientifici nella zona, tratteggiando dunque per la prima volta un quadro più chiaro dell’antica civiltà dei suoi costruttori e descrivendo la possibilità che l’area di Tiwanaku a 3844 metri s.l.d.m. sarebbe stata costruita circa 15.000 anni prima di Cristo. Questo dato non concorda con l’archeologia ufficiale, che in base al metodo del carbonio 14 ha datato alcuni oggetti ritrovati nei pressi della città al 200 d.C.
Ma è altresì vero che una città, come qualsiasi altro monumento in pietra è molto difficile da datare, e non sempre ci si più basare sul metodo del carbonio 14.
Inoltre, assumendo vera l’ipotesi della archeologia ufficiale, ci troveremmo dinanzi a una città di più di 40-50.000 abitanti in una regione che offre scarse risorse di cibo e ci possiamo accorgere subito confrontando l’ambiente circostante la città di Tiwanaku con l’immagine di ciò che doveva essere lo sfarzo e la magnificenza del sito archeologico durante il suo massimo splendore. Chi edificherebbe la propria capitale in mezzo al deserto? Chi costruirebbe una enorme città dove i suoi abitanti avrebbero difficoltà a trovare le risorse sufficienti al suo sostentamento?
A queste stesse conclusioni era giunto già Squier nel 1877:
“Non è questa una regione che possa offrire nutrimento o sostentamento per una gran massa di persone, e certamente non è un’area dove ci si potrebbe aspettare di trovare una capitale. Tiwanaku forse fu un luogo sacro o un santuario, la cui posizione venne fissata casualmente, in base a un auspicio o ad un sogno. Mi è difficile credere che fosse la sede di un qualche potere centrale.”
A meno che, ai tempi della edificazione, l’ambiente circostante non fosse diverso, più adatto alla costruzione di una città di tali dimensioni e importanza nella zona. In tal caso dobbiamo per forza di cose tornare a un tempo precedente alla fine della glaciazione di Wurm. In tal caso i miti e le leggende Inca diventano più verosimili rispetto alle teorie dei nostri archeologi.
Arthur Posnansky
Soprattutto perché l’area archeologica di Tiwanaku è composta da più siti tutti egualmente misteriosi e affascinanti: La Porta del Sole, la Porta della Luna, il Palazzo, il monolito El Frate, la piramide di Acapana e qualche kilometro più a sud-ovest l’enigmatico sito di Puma Punku, sul quale concentriamo la nostra attenzione.
Immagine tratta da “Le mappe di Atlanticus – l’età dell’oro”
http://goo.gl/maps/8FzOyAncor più di Tiwanaku, Puma Punku è in grado di suscitare nel visitatore profondi interrogativi su chi abbia popolato questa regione e su chi e come abbia edificato le incredibili opere presenti sull’altipiano a pochi chilometri dal lago Titicaca, anch’esso carico di misteri. Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare questo luogo è rimasto imbarazzato dinanzi alla peculiare lavorazione e forma dei blocchi di pietra disseminati nell’area. Ancora una volta le leggende locali ci indicano alcuni dicono essere Tiwanaku un tempio, costruito in un antico passato dagli uomini del posto per commemorare l’arrivo degli dei del cielo nella vicina Puma Punku.
Impossibili lavorazioni, pietre perfettamente levigate, fori che solo chiamando in causa il leggendario Shamir di Re Salomone sarebbe stato possibile realizzare, (leggasi a tal proposito il precedente articolo appunto dedicato allo Shamir).
Esempi di lavorazione praticati sulle pietre di Puma Punku
Il tempio principale del Puma Punku, affacciato su di una vasca cerimoniale o piazza sprofondata, perfettamente levigata, è una delle costruzioni in pietra più grandi del nuovo mondo, in cui a blocchi di pietra di 440 tonnellate ne seguono altri più piccoli, di 200, 100, e via via fino a quelli di 80 e 40 tonnellate.
Il Puma Punku colpisce per la dimensione dei blocchi, ma colpisce anche per la raffinatezza della decorazione scultorea. Ovunque giacciono sparsi al suolo parti di quelli che furono portali, finestre, nicchie o semplici blocchi di pietra. In nessun luogo del nuovo mondo, e probabilmente neppure del vecchio, si trova traccia di una lavorazione della pietra tanto precisa e raffinata. Come in un gigantesco gioco a incastri, ogni blocco era progettato per incastrarsi perfettamente con quelli adiacenti tramite un complesso sistema di indentature, incavi e morsetti metallici. Dai pochi frammenti rimasti, sembra che anche il tetto di questi straordinari edifici fosse costituito di enormi lastre di pietra.
Il rebus di Puma Punku sta tutto nella precisione millimetrica dei suoi blocchi di pietra, specialmente quelli a forma di H. Sono tutti della stessa grandezza come fossero stati prodotti in serie con una sorta di stampo, hanno linee perfette, scanalature levigate, fori di estrema precisione e, come gli altri blocchi, sembrano fatti per essere assemblati a incastro, al fine di creare megalitiche muraglie e insolite costruzioni.
Molti ingegneri sono rimasti stupiti e ammirati da cotanta perfezione millimetrica, che sarebbe difficile da ottenere anche al giorno d’oggi con i moderni mezzi in nostro possesso. Questi enormi blocchi sono infatti composti di diorite, una pietra vulcanica dura quasi come il diamante, come potevano quegli uomini antichi tagliarli e scolpirli con tale precisione.
I blocchi H
Una teoria, forse non del tutto azzardata, ipotizza l’esistenza ai tempi dell’età dell’oro antidiluviana di un canale fluviale che collegasse il lago Titicaca all’oceano Pacifico. Alcuni ritengono che i colossali resti ritrovati a non molta distanza dal Puma Punku rappresentino la possibilità dell’esistenza di un grande porto, anch’esso costituito di filari su filari di enormi lastre monolitiche.
Teoria che consente quantomeno una spiegazione di come movimentare tali blocchi dalle cave di andesite poste a più di 60 km di distanza. Le cave di andesite, l'equivalente vulcanico della diorite, si trovano a 10 miglia di distanza. Stupisce parecchio come abbiano potuto trasportare pietre del peso di anche 130 tonnellate per quella distanza. Una delle cave si trova presso la penisola di Copacabana, sul lago Titicaca, distante circa 90 km da percorrere sul lago, più altri 10 km per raggiungere Tiwanaku.
La teoria del trasporto fluviale è stata sperimentata da Paul Harmon, un archeologo sperimentale che lavora a Tiwanaku, è quella del trasporto delle pietre sulle tradizionali zattere di canna. per trasportare una pietra di nove tonnellate, è stata necessaria una zattera larga 5 metri, lunga 14 a alta 2, composta da più di 3000 fasci di totora, la canna locale.
Se poi consideriamo che chi fu in grado di lavorare la pietra a quel modo probabilmente possedeva tecnologia in grado di sostituire preistoriche zattere con chiatte moderne possiamo pensare a un immagine di Puma Punku che nulla ha a che invidiare con i più moderni porti industriali.
Puma Punku potrebbe essere quindi una sorta di “fabbrica” di moduli prefabbricati in diorite, sbozzati dalle cave presenti a 60 km di distanza (il che presuppone comunque la necessità di movimentare tonnellate di materiale), costruiti in serie con tecnologie sconosciute: alcune pietre presentano delle incisioni o delle perforazioni della roccia di altissima precisione, perfettamente rettilinee e sottili nell’ordine di pochi millimetri, oltre che parallele. Pare improbabile che siano stati fatti con strumenti di pietra.
Moduli prefabbricati che come enormi “LEGO” antidiluviani, furono progettati per essere estremamente funzionali per i progetti architettonici di quell’antica civiltà madre perduta dell’età dell’Oro? Certo immaginare un grande porto industriale sull’altipiano andino più di 15000 anni fa sembra essere una ipotesi azzardata. Altrettanto azzardate sono le sperimentazioni effettuate da alcuni ricercatori sulle applicazioni pratiche di questi blocchi H? I risultati sono sconcertanti.
E’ stato infatti osservato che le nicchie dei blocchi a forma di H presentano un incastro ‘a coda di rondine’. Tale tipo di incastro rispetto ad altri modelli di giunzione presenta il doppio vantaggio di massimizzare la superficie di contatto dei giunti e di avere denti trapezoidali, più difficile a separarsi, rendendo estremamente resistente l’intera struttura scaricando il peso o la pressione non solo sul singolo blocco, ma su tutti in caso di eventuale crollo. la stessa disposizione dei blocchi fa presagire che nel sito si erigesse un edificio posizionato con un sistema modulare simile a quelli moderni.
Blocco H visto dall’alto con evidenza della struttura della nicchia a “coda di rondine”
Un muro megalitico costruito sfruttando questa fattispecie di incastri risultava pertanto essere estremamente resistente sia in caso di attacchi nemici che in caso di eventi naturali.
Ma la versatilità dell’incastro a coda di rondine dei blocchi H si manifesta anche nella possibilità prevista da altri studiosi che queste nicchie fossero gli alloggiamenti di enormi cardini per altrettanto enormi porte, come ipotizzato da Cristopher Dunn. Sull’idea di Dunn noi del Progetto Atlanticus abbiamo immaginato, nella nostra follia onirica, che i blocchi H potessero fungere da alloggiamento per i cardini delle porte d’accesso al “porto industriale” così come descritto nei paragrafi precedenti.
Esempio di cardine incastrato nel blocco H *
Ipotesi ancora più affascinante è quella suggerita dal ricercatore Paul Francis, realizzatore di modelli del Lucas Francis Studio, il quale, sempre partendo da modelli in scala dei blocchi H è stato in grado di realizzare una sorta di binario.
Rampa di lancio costruita con modelli di blocchi H *
Binario che nella sua interpretazione poteva servire allo scopo di rampa di lancio di apparecchi volanti. Apparecchi volanti che peraltro esistono nell’archeologia precolombiana proprio come se questi oggetti fossero stati fonte di ispirazione per l’artigianato locale.
Esempi di artigianato precolombiano
Ovviamente qui ci addentriamo nell’ambito della teoria degli antichi astronauti, ma a prescindere che si tratti di extraterrestri, atlantidei, civiltà perdute o esseri umani tali e quali noi, quanto trovato a Puma Punku rappresenta un enigma indecifrabile.
Indecifrabile a meno che non si prenda in seria considerazione la descrizione che la tradizione ebraica fa dello Shamir, il punteruolo sacro degli dei, lo scalpello di luce divina, che un midrash, descrivendo come Re Salomone ne fosse venuto in possesso recita:
“Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo.”
Se proviamo ad associare sincreticamente quelle lontane montagne mai esplorate dall’uomo con le Ande e Rahav, il principe del mare con Viracocha/Enki, ecco che il mito della tradizione ebraica chiude il cerchio della leggenda Inca con la quale abbiamo aperto l’articolo in oggetto.
* Immagini tratte dall'ottava puntata della quarta stagione di “Enigmi Alieni”, dedicata a Puma Punku