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 Oggetto del messaggio: Atlantide - La civiltà perduta
MessaggioInviato: 17/09/2010, 18:36 
Ho notato che riguardo all'argomento "Atlantide" ci sono un sacco di topic aperti inutilmente. Cosi ho deciso di riprendere l'argomento in soli due topic. Questo, dove verranno raccolte tutte le fonti dove viene "citata" questa ipotetica civiltà, e questo (http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=7928) dove invece si parlerà della sua possibile collocazione.
Tutti gli altri topic gia aperti o che verranno aperti in futuro li chiuderò. Cosi almeno non si disperde tutto quello che viene detto.




ATLANTIDE


Immagine


Atlantide è una leggendaria isola scomparsa, menzionata per la prima volta da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia.
Nel racconto di Platone Atlantide era una potenza navale situata "oltre le Colonne d'Ercole" che conquistò molte parti dell'Europa occidentale e dell'Africa 9mila anni prima il tempo di Solone (approssimativamente nel 9600 a.C.). Dopo avere fallito l'invasione di Atene, Atlantide sprofondò "in un singolo giorno e notte di disgrazia".
Il nome dell'isola deriva da quello di Atlante, il leggendario governatore dell'Oceano Atlantico, che sarebbe stato anche, secondo Platone, il primo re dell'isola.
Essendo una storia funzionale ai dialoghi di Platone, Atlantide è generalmente vista come un mito concepito dal filosofo greco per illustrare le proprie idee politiche. Benché la funzione di Atlantide sembri chiara alla maggior parte degli studiosi, essi disputano su quanto e come il racconto di Platone possa essere ispirato ad eventuali tradizioni più antiche. Alcuni argomentano che Platone si basò sulla memoria di eventi passati come l'eruzione di Thera o la Guerra di Troia, mentre altri insistono che egli trasse ispirazione da eventi contemporanei come la distruzione di Elice nel 373 a.C. o la fallita invasione ateniese della Sicilia nel 415–413 a.C.
La possibile esistenza di un'autentica Atlantide venne attivamente discussa durante l'antichità classica, ma fu generalmente rigettata e occasionalmente parodiatada autori posteriori. Mentre si conosce poco durante il Medioevo, la storia di Atlantide fu riscoperta dagli umanisti nell'era moderna. La descrizione di Platone ha ispirato le opere utopiche di numerosi scrittori rinascimentali, come La nuova Atlantide di Bacone. Atlantide ispira la letteratura contemporanea, dalla fantascienza ai fumetti ai film, essendo divenuta sinonimo di ogni e qualsiasi ipotetica civiltà perduta nel remoto passato.

I dialoghi di Platone
Platone riporta una discussione avvenuta nel 421 a.C. ad Atene, cui parteciparono Socrate, Timeo, Ermocrate e Crizia:

« Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. (...) In tempi posteriori (...), essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte (...) tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve. »

Nel Timeo si racconta di come Solone, giunto in Egitto, fosse venuto a conoscenza da alcuni sacerdoti egizi di una antica battaglia avvenuta tra gli Atlantidei e gli antenati degli Ateniesi, che avrebbe visto vincenti i secondi. Secondo i sacerdoti, Atlantide era una monarchia assai potente, con enormi mire espansionistiche. Situata geograficamente oltre le Colonne d'Ercole, politicamente controllava l'Africa fino all'Egitto e l'Europa fino all'Italia. Proprio nel periodo della guerra con gli Ateniesi un immenso cataclisma fece sprofondare l'isola nell'Oceano, distruggendo per sempre la civiltà di Atlantide.
Nel dialogo successivo, il Crizia, Platone descrive più nel dettaglio la situazione geopolitica di Atlantide, collocando il tutto novemila anni prima.
Secondo Platone il dio Poseidone si sarebbe innamorato di Clito, una fanciulla di Atlantide, e "recinse la collina dove ella viveva, alternando tre zone di mare e di terra in cerchi concentrici di diversa ampiezza, due erano fatti di terra e tre d'acqua ...". Al centro della città vi era il tempio di Poseidone e Clito, lungo 250 metri ed alto in proporzione, rivestito di argento al di fuori e di oricalco all'interno, con al centro una statua d'oro di Poseidone sul suococchio di destrieri alati, che arrivava a toccare la volta del tempio. Poseidone e Clito ebbero 10 figli, il primo dei quali, Atlante, sarebbe divenuto in seguito il governatore dell'Impero. La civiltà atlantidea divenne una monarchia ricca e potente e l'isola fu divisa in dieci zone, ognuna governata da un figlio di Poseidone e dai relativi discendenti. Inizialmente il loro era stato un governo saggio e giusto ma la convivenza con i mortali li corruppe a tal punto che Zeus fu costretto ad intervenire, inabissando l'isola.
Platone riferisce nel Timeo che l'isola era più grande della Libia (Nord Africa) e dell'Asia (Anatolia) messe insieme.

Antichità
Al di fuori dei dialoghi Timeo e Crizia di Platone non vi è alcun riferimento antico di prima mano su Atlantide, il che significa che tutti gli altri riferimenti paiono rifarsi, in una maniera o nell'altra, a Platone.
Per quanto alcuni nell'antichità avessero ritenuto un fatto storico il racconto riportato da Platone, già il suo allievo Aristotele non diede molta importanza alla cosa, liquidandola come un'invenzione del maestro. Ad Aristotele è infatti attribuita la frase "L'uomo che l'ha sognata, l'ha anche fatta scomparire."
Alcuni autori antichi videro Atlantide come frutto dell'immaginazione mentre altri credettero fosse reale. Il filosofo Crantore di Soli, uno studente dello studente di Platone Senocrate, è spesso citato come esempio di autore che ritenne la storia un fatto storico. La sua opera, un commento al Timeo di Platone, è perduta, ma essa è riferita da Proclo, uno storico classico che scrisse sette secoli dopo.
Altri storici e filosofi dell'antichità che credevano nell'esistenza di Atlantide furono Strabone e Posidonio.
Il racconto di Platone sull'Atlantide può inoltre avere ispirato imitazioni parodiche: scrivendo solo poche decadi dopo il Timeo e Crizia, lo storico Teopompo di Chio narrò di una terra in mezzo all'oceano conosciuta come Meropide (ovvero terra di Merope). Questa descrizione era inclusa nel libro VIII della sua voluminosa Filippica, che contiene un dialogo tra re Mida e Sileno, un compagno di Dioniso. Sileno descrive i Meropidi, una razza di uomini che crescevano al doppio dell'altezza normale e abitavano due città sull'isola di Meropis: Eusebes ("città pia") e Machimos ("città combattente"). Egli inoltre scrive che un'armata di dieci milioni di soldati attraversarono l'oceano per conquistare Iperborea, ma abbandonarono tale proposito quando si resero conto che gli Iperborei erano il popolo più fortunato del mondo. Heinz-Günther Nesselrath ha argomentato che questi e altri dettagli della storia di Sileno sono intesi come imitazioni ed esagerazioni della storia di Atlantide, allo scopo di esporre le idee di Platone al ridicolo.
Zotico, un filosofo neoplatonico del III secolo a.C., scrisse un poema epico basato sul racconto di Platone.
Lo storico romano del IV secolo d.C. Ammiano Marcellino, dissertando sulle perdute opere di Timagene, uno storico attivo nel I secolo a.C., scrive che i Druidi della Gallia riferirono che parte degli abitanti di quella terra erano migrati lì da isole lontane. Alcuni hanno inteso che si parlasse di sopravvissuti di Atlantide giunti via mare nell'Europa occidentale, ma Ammiano in realtà parla di "isole e terre oltre il Reno", un'indicazione che gli immigrati in Gallia vennero dal Nord (Britannia, Olanda o Germania). Secondo Diodoro Siculo, comunque, i Celti che venivano dall'oceano adoravano gli dei gemelli Dioscuri che apparvero loro provenienti dall'oceano.
Un trattato ebraico sull'astronomia computazionale datato al 1378-1379, apparentemente una parafrasi di una precedente opera islamica a noi ignota, allude al mito di Atlantide in una discussione concernente la determinazione dei punti zero per il calcolo della longitudine.

[align=right]Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Atlantide[/align]


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IL TIMEO


Il Timeo, scritto intorno al 360 a.C. da Platone, è il dialogo platonico che maggiormente ha influito sulla filosofia e sulla scienza posteriori. In esso vengono approfonditi essenzialmente tre problemi: quello cosmologico dell'origine dell'universo, quello fisico della sua struttura materiale, ed infine quello, anche escatologico, della natura umana. Ai tre argomenti corrispondono altrettante parti in cui è possibile suddividere l'opera, alle quali va aggiunto il prologo.

Prologo
Platone presenta questo dialogo come tenuto il giorno dopo di quello de La Repubblica. Alla conversazione partecipano Socrate, il pitagorico Timeo di Locri, Ermocrate e Crizia; Socrate esprime il desiderio che la città ideale che si era teorizzata il giorno precedente venga ora presentata in azione, come vivente. Allora Crizia inizia il suo racconto, appreso da suo nonno, dell'antica Atene di 9000 anni prima, che nella sua magnificenza era riuscita ad opporsi all'espansionismo di Atlantide. In seguito si stabilisce su cosa verterà il dialogo di quel giorno, delineando i temi fondamentali di questo scritto.

[align=right]Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Timeo_(dialogo)[/align]

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Bene :) iniziamo a postare le fonti più celebri:

Da qui http://www.google.it/url?sa=t&source=web&cd=3&ved=0CB0QFjAC&url=http%3A%2F%2Fachieve.it%2Findex2.php%3Foption%3Dcom_content%26do_pdf%3D1%26id%3D26&ei=07aTTIb4EoOMswaQ2LH4CQ&usg=AFQjCNEBOkpmFQeKRumX0w9ETU9Oga2vrw potete scaricare in PDF il TIMEO ( completo ) il famoso dialogo di Platone

o scaricarlo da qui: http://www.megaupload.com/?d=RGVCNK27

L'altro dialogo Platonico in cui si parla di Atlantide è il Crizia, ma è nel Timeo che la città viene descritta con dovizia di particolari.


Ultima modifica di Bastion il 18/09/2010, 09:18, modificato 1 volta in totale.

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MessaggioInviato: 18/09/2010, 09:20 
IL CRIZIA


Il Crizia è uno degli ultimi dialoghi di Platone. Strutturato come una continuazione del Timeo (stessi personaggi, e quindi stessa data drammatica), si tratta di un dialogo incompiuto, che si conclude con la narrazione del mito di Atlantide, che probabilmente doveva rappresentare la parte centrale dell’opera.
Per quanto riguarda lo stile, il Crizia si presenta come un lungo monologo di Crizia (lo zio di Platone, leader dei Trenta Tiranni), a cui cede la parola Timeo, protagonista dell’omonimo dialogo. Nel suo lungo discorso, Crizia narra le origini dell’Attica secondo la testimonianza di Solone, cogliendo l’occasione per alcune riflessioni di filosofia politica che, molto probabilmente, avrebbe dovuto poi sviluppare nella seconda parte, mai scritta.

[align=right]Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Crizia_(dialogo)[/align]

___________________________________________________________



Ecco il famoso dialogo:

TIMEO: Con quanta gioia, o Socrate, come se riposassi dopo un lungo cammino, mi libero ora volentieri del corso del ragionamento. Quel dio, nato un tempo nella realtà e ora nato da poco a parole, io prego che ci garantisca la conservazione, tra tutto ciò che è stato detto, di quelle cose che sono state dette con misura, e se, senza avvedercene, dicemmo qualcosa di stonato su di loro, di infliggere la giusta pena. Ma giusta punizione è rendere intonato colui che stona; affinché dunque in futuro facciamo discorsi corretti sull'origine degli dèi, preghiamo di fornirci la conoscenza, potentissimo ed efficacissimo tra i rimedi. Dopo aver così pregato, lasciamo, conformemente a quanto convenuto, il seguito del ragionamento a Crizia.

CRIZIA: Ebbene, Timeo, accetto; tuttavia la preghiera a cui anche tu all'inizio facesti ricorso, chiedendo comprensione giacché avresti parlato di grandi cose, ebbene, Questa stessa preghiera la formulo anch'io adesso, ma chiedo di ottenere una comprensione ancora maggiore per le cose che stanno per essere dette. Sebbene io sappia più o meno che la richiesta è molto ambiziosa e che sto per farla in modo più rozzo di come avrei dovuto, tuttavia devo farla. Del resto, quale uomo dotato di senno oserebbe affermare che le tue parole non sono state dette bene? D'altra parte il fatto che ciò che sarà detto ha bisogno di maggior comprensione in quanto più difficile, questo in qualche modo bisogna cercare di spiegarlo. Perché, caro Timeo, quando si dice qualcosa degli dèi agli uomini è più facile dare l'impressione di parlarne esaurientemente che non quando a noi si parla dei mortali. Infatti l'inesperienza e la totale ignoranza degli ascoltatori costituiscono un'ampia risorsa per chi intenda parlare di quelle cose sulle quali chi ascolta si trova in siffatta condizione: quanto agli dèi poi conosciamo la nostra situazione. Per chiarire maggiormente ciò che vado dicendo, seguitemi per questa via. Imitazione e rappresentazione bisogna che in qualche misura siano i discorsi pronunciati da tutti noi: la riproduzione di immagini fatta dai pittori, atta a rappresentare i corpi divini e i corpi umani, consideriamola per la facilità e la difficoltà a sembrare, a coloro che la guardano, un'imitazione soddisfacente, e riconosceremo che terra e monti e fiumi e boschi, tutto il cielo e le cose che in esso sono e si muovono in un primo momento potrebbero soddisfarci, se uno è in grado di riprodurre anche in piccola parte qualcosa per somiglianza; ma poi, dal momento che di tali cose non sappiamo nulla di preciso, non esaminiamo né critichiamo le pitture, e ci serviamo di un chiaroscuro indistinto e ingannevole per questi stessi oggetti; invece quando uno tenta di rappresentare i nostri corpi, poiché percepiamo distintamente ciò che viene trascurato, per via della osservazione costante e familiare, diventiamo giudici terribili di chi non renda in maniera completa tutte le somiglianze. Questa stessa cosa bisogna notare che avviene anche per i discorsi, e cioè ci riteniamo soddisfatti se gli argomenti celesti e divini vengono esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, mentre le cose mortali e umane le sottoponiamo ad attento esame. Ebbene se, in ciò che stiamo dicendo ora improvvisando, non saremo capaci di rendere perfettamente quel che conviene, bisogna avere indulgenza: perché si deve pensare che le cose mortali non sono facili ma difficili da rappresentare rispetto all'aspettativa. Ho detto tutto questo, o Socrate, perché volevo ricordarvi questi fatti, e chiedere un'indulgenza non minore, bensì maggiore per le cose che stanno per essere dette. Se dunque sembra che a buon diritto io chieda tale dono, concedetemelo di buon grado.

SOCRATE: Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da parte nostra concesso anche al terzo, a Ermocrate, è chiaro infatti che tra poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi; e dunque per far sì che possa preparare un altro inizio e non sia costretto a pronunciarne uno uguale, parli convinto di avere, per quel momento, la nostra indulgenza. Tuttavia, caro Crizia, ti esponga preventivamente il pensiero dell'uditorio: il poeta che ti ha preceduto gode di una fama straordinaria presso questo uditorio, cosicché avrai bisogno di una buona dose di indulgenza, se è tua intenzione poterti procurare questi stessi riconoscimenti.

ERMOCRATE: Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed effettivamente uomini privi di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e, rivolta l'invocazione a Peone e alle Muse, proclamare e celebrare le virtù degli antichi cittadini.

CRIZIA: Caro Ermocrate, tu sei stato assegnato all'ultima fila e hai un altro davanti a te, ed è per questo che sei ancora pieno di baldanza. Di che natura sia dunque questa impresa, presto sarà essa stessa a chiarirtelo: bisogna quindi prestare ascolto alle tue esortazioni e ai tuoi incoraggiamenti e oltre agli dèi che tu hai menzionato dobbiamo invocare anche gli altri e soprattutto Mnemosine. Infatti quello che, per così dire, è l'aspetto più importante delle nostre parole dipende interamente da questa divinità: se abbiamo sufficiente memoria e avremo riferito più o meno ciò che sia stato detto dai sacerdoti e riportato qui da Solone, io sono più o meno sicuro che a questo uditorio daremo l'impressione di aver svolto adeguatamente i nostri compiti. Questo dunque è ciò che bisogna fare e non indugiare oltre. Per prima cosa ricordiamoci che in totale erano novemila anni da quando, come si racconta, scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne di Eracle e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra bisogna ora descriverla compiutamente. A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città, che sostenne la guerra per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il comando dei re dell'isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, era a quel tempo più grande della Libia e dell'Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre. Quanto ai numerosi popoli barbari e a tutte le stirpi greche che esistevano allora, per ciascuna lo sviluppo del discorso nel suo svolgersi mostrerà ciò che accadde; quanto invece alla stirpe degli Ateniesi di allora e degli avversari contro i quali guerreggiarono, è necessario innanzi tutto esporre da principio la potenza di ciascuno e le loro costituzioni. £ tra questi stessi popoli dobbiamo dare la priorità, nel racconto, a quelli che abitarono qui. Gli dèi infatti un tempo si divisero a sorte tutta quanta la terra secondo i luoghi - non per contesa: sarebbe difatti un ragionamento non giusto pensare che gli dèi ignorino ciò che conviene a ciascuno di loro e che poi, conoscendo ciò che conviene meglio ad altri, avessero cercato di procurarselo per se stessi a forza di contese - ottenendo dunque con sorteggi di giustizia ciò che era loro gradito, prendevano dimora in quelle regioni e, dopo esservisi stabiliti, come i pastori le greggi, ci allevavano beni propri e proprie creature, senza usare violenza sul corpo con la forza fisica, come i pastori che conducono al pascolo le bestie sotto i colpi della sferza, ma nel modo in cui, in particolare, si tratta un animale docile, guidando da poppa, attaccandosi all'anima con la persuasione come un timone, secondo il loro disegno: in questo modo guidavano e governavano tutto il genere umano. Gli dèi, avendo dunque ottenuto in sorte chi questi luoghi chi altri, li amministravano. Efesto e Atena, che hanno una natura comune, sia in quanto fratello e sorella nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo fine per il loro amore della sapienza e dell'arte, così ricevettero entrambi un unico lotto, questa regione, come congeniale e naturalmente adatta per la virtù e il pensiero, e avendovi fatto nascere come autoctoni uomini virtuosi, stabilirono nella loro mente l'ordinamento politico; i loro nomi sono conservati, ma le loro opere a causa delle distruzioni dei successori e per la lunghezza del tempo trascorso, sono svanite. Infatti la stirpe che sempre sopravviveva, come si è detto precedentemente, rimaneva montanara e illetterata, e conosceva solo per sentito dire i nomi dei signori di quella regione e, oltre a questi, poche delle loro opere. Essi dunque, si accontentavano di assegnare questi nomi ai figli, ma ignoravano le virtù e le leggi dei predecessori, tranne alcune oscure informazioni su ognuno di loro e trovandosi, essi e i loro figli per molte generazioni, sprovvisti dei beni di necessità, rivolgendo la mente a ciò di cui mancavano, e a questo dedicando inoltre i loro discorsi, non si curavano dei fatti avvenuti nei tempi precedenti e anticamente. Il racconto e la ricerca degli avvenimenti antichi infatti entrano nelle città insieme con il tempo libero, quando si comincia a vedere qualcuno già rifornito dei beni necessari per vivere, prima no. Così i nomi degli antichi si sono conservati, senza il ricordo delle loro opere. Dico questo basandomi sul fatto che tra le moltissime imprese che appunto si ricordano associate ai nomi di ciascuno, di Cecrope, Eretteo, Erittonio, Erisittone e degli altri eroi anteriori a Teseo, tra queste imprese Solone dice che i sacerdoti, menzionando per lo più i nomi di quei personaggi, raccontarono la guerra che si combatté a quel tempo, e allo stesso modo per i nomi delle donne. Quanto poi all'immagine e alla statua della dea, dal momento che a quel tempo le occupazioni militari erano comuni sia alle donne sia agli uomini, così, conformemente a quella consuetudine, essi avevano una statua votiva della dea armata, prova che tutti gli esseri viventi che vivono associati, femmine e maschi, sono per natura capaci di esercitare in comune la virtù che compete a ciascun sesso. A quel tempo dunque abitavano in questa regione le altre classi di cittadini impegnate nei mestieri e a trarre nutrimento dalla terra, mentre la classe dei guerrieri, fin dal principio distinta per volere di uomini divini, viveva separatamente, provvista di tutto ciò che fosse necessario per il sostentamento e per l'educazione; nessuno di loro possedeva nulla di proprio, ma consideravano tutto in comune, e non ritenevano giusto accettare nulla dagli altri cittadini che fosse più del nutrimento sufficiente ed esercitavano tutte le attività descritte ieri, che sono state menzionate a proposito dei guardiani che abbiamo ipotizzato. Inoltre la storia che veniva riportata sulla nostra regione era credibile e vera: per prima cosa, per quel che concerne i confini a quel tempo arrivavano fino all'Istmo e, nella parte lungo il resto del continente, fino alle cime del Citerone e del Parnete, scendevano poi avendo a destra l'Oropia e a sinistra fino al mare escludendo l'Asopo: questa nostra regione superava per fertilità tutte le altre, per cui a quel tempo poteva anche nutrire un grande esercito inoperoso nei lavori dei campi. Una valida prova del suo valore: ciò che ora resta di essa sostiene il confronto con qualunque terra, perché produce di tutto, molti frutti e abbondanti pascoli per tutti gli animali. A quel tempo invece, oltre alla fine qualità di quei frutti, ne produceva anche in grande abbondanza. Come è possibile dunque questo e sulla base di quale residuo attuale della terra di allora può esser detto a ragione? Essa, staccata interamente dal resto del continente, giace allungandosi fino al mare come la punta di un promontorio; il bacino di mare che la comprende sprofonda rapidamente da ogni parte. Essendoci dunque stati molti e terribili cataclismi in questi novemila anni - perché tanti sono gli anni che intercorrono da quel tempo fino a oggi - la parte di terra che in questi anni e in tanti accidenti si è staccata dalle alture non accumulava sedimenti di terra di una certa consistenza, come in altri luoghi e, scivolando giù in un processo continuo tutt'intorno, scompariva nella profondità del mare; dunque, come avviene nelle piccole isole, a confronto con ciò che c'era a quel tempo, le parti che oggi restano sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la terra intorno, ciò che di essa era grasso e molle, è scivolata via, ed è rimasto soltanto, della regione, l'esile corpo. A quel tempo invece, quando era integra, aveva per monti colline e levate e ricche di terra grassa, le pianure oggi dette di Felleo, e sui monti aveva vasti boschi, dei quali sussistono testimonianze visibili ancora oggi. E di quei monti ve ne sono alcuni che attualmente forniscono nutrimento soltanto alle api, ma non è poi moltissimo tempo che, ricavati dagli alberi tagliati via da qui per fare da riparo in costruzioni imponenti, si conservavano ancora i tetti. Vi crescevano, numerosi, alti alberi coltivati, ma fornivano anche pascoli inesauribili per il bestiame. Inoltre ogni anno godeva dell'acqua che veniva da Zeus, e non la perdeva, come avviene ai nostri giorni, quando scompare defluendo via dalla terra spoglia fino al mare; poiché ne aveva in abbondanza la accoglieva nel suo seno, la teneva in serbo nella terra argillosa e impermeabile, lasciando poi cadere l'acqua dall'alto dalle alture fino alle cavità, offriva dappertutto abbondante flusso di sorgenti e di fiumi, e i santuari che ancora oggi rimangono presso le sorgenti che esistevano un tempo sono una testimonianza del fatto che i racconti odierni su di essa corrispondono a verità. Queste dunque le condizioni naturali del resto del paese. E, come conviene, era tenuta in bell'ordine, da veri agricoltori, che facevano proprio questo mestiere, amanti del bello e dotati di buone qualità, disponevano di terra eccellente, acqua in notevole abbondanza e, su quella terra, godevano di stagioni decisamente temperate. Ed ecco come era abitata a quel tempo la città. Innanzi tutto la parte dell'acropoli non era allora come è oggi. Ci fu infatti una sola notte di pioggia, in cui piovve più di quanto la terra potesse sopportare, che l'ha liquefatta tutt'intorno e resa oggi terribilmente spoglia, e nello stesso tempo vi furono terremoti e una straordinaria alluvione, la terza prima della catastrofe di Deucalione; ma precedentemente, in un altro tempo, per grandezza si estendeva fino all'Elidano e all'llisso, abbracciava al suo interno la Pnice e comprendeva, dalla parte opposta rispetto alla Pnice, il monte Licabetto, ed era tutta di terra e, salvo che in un piccolo tratto sulla sommità, pianeggiante. Le zone periferiche, sotto i fianchi stessi dell'Acropoli, erano abitate dagli artigiani e dagli agricoltori che lavoravano la terra circostante; la zona superiore la abitava, intorno al santuario di Atena e di Efesto, la sola classe dei guerrieri, i quali l'avevano circondata da un muro come il giardino di un'unica dimora. Abitavano i fianchi di questa rivolti a settentrione, in dimore comuni. Vi avevano allestito mense per i mesi invernali; tutto ciò che si addiceva alla vita in comune, per le loro costruzioni e per i santuari, essi lo possedevano, fatta eccezione per l'oro e l'argento - di questi metalli infatti non facevano assolutamente uso, e perseguivano piuttosto una via di mezzo tra sfarzo arrogante e illiberale spilorceria, abitando case dignitose, nelle quali essi stessi e i figli dei loro figli invecchiavano e che lasciavano via via in eredità ad altri uguali a loro, i fianchi esposti a sud invece, quando abbandonavano giardini, ginnasi e mense, ad esempio durante la stagione estiva, li utilizzavano per questi scopi. C'era una sola fonte, nel luogo dove oggi è l'acropoli, della quale, inaridita a causa dei terremoti, restano attualmente piccoli rivoli tutt'intorno, e che invece agli uomini di quel tempo forniva, a tutti, un flusso abbondante, ed era temperata sia in inverno sia in estate. Questo dunque il modo in cui abitavano la città, fungendo da custodi dei loro propri concittadini e d'altra parte da capi, liberamente accolti, degli altri Greci, sempre però vegliando che al loro interno fosse quanto più possibile lo stesso in tutti i tempi il numero degli uomini e delle donne, di quelli già in grado di combattere e di quelli che lo fossero ancora, circa ventimila al massimo. Tali dunque essendo questi uomini e in tal modo sempre amministrando secondo giustizia la propria città e la Grecia, erano stimati in tutta l'Europa e in tutta l'Asia per la bellezza del corpo e per ogni tipo dì virtù dell'animo, ed erano fra tutti gli uomini del loro tempo i più famosi. Quanto poi ai loro avversari, quali fossero le loro condizioni e come andassero le cose in origine, se in noi non è spento il ricordo di ciò che udimmo quando eravamo ancora bambini, ve lo spiegheremo: e ciò che sappiamo sia in comune con gli amici, è d'uopo tuttavia, prima di iniziare il discorso, fornire ancora una breve chiarificazione, perché non vi sorprendiate di sentire pronunciare nomi greci per uomini barbari: ne apprenderete la causa. Solone, poiché aveva in mente di usare questo racconto per la sua poesia, cercando informazioni sul senso di questi nomi, trovò che quegli Egiziani che per primi avevano scritto questi nomi, li avevano tradotti nella propria lingua, e di nuovo egli, a sua volta, recuperando il significato di ciascun nome, li trascrisse trasferendoli nella nostra lingua. E questi scritti appunto si trovavano in possesso di mio nonno, attualmente sono ancora in mio possesso, e me ne sono molto occupato quando ero un ragazzo. Se dunque udrete tali nomi, simili a questi nostri, non vi sembri strano: ne conoscete la ragione. Ed ecco dunque qual era pressappoco l'inizio di questo lungo racconto. Come si è detto prima, a proposito del sorteggio degli dèi, che si spartirono tutta la terra, in lotti dove più grandi dove più piccoli, e istituirono in proprio onore offerte e sacrifici, così anche Poseidone, che aveva ricevuto in sorte l'isola di Atlantide, stabilì i propri figli, generati da una donna mortale, in un certo luogo dell'isola. Vicino al mare, ma nella parte centrale dell'intera isola, c'era una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e garanzia di prosperità, vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa cinquanta stadi, c'era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato. Questo monte era abitato da uno degli uomini nati qui in origine dalla terra, il cui nome era Euenore e che abitava lì insieme a una donna, Leucippe. Generarono un'unica figlia, Clito. La fanciulla era ormai in età da marito, quando la madre e il padre morirono. Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, sì unì con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio, a partire dal centro dell'isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l'isola fosse inaccessibile agli uomini: a quel tempo infatti non esistevano né imbarcazioni né navigazione. Egli stesso poi abbellì facilmente, come può un dio, l'isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte, l'altra fredda; fece poi produrre dalla terra nutrimento d'ogni sorta e in abbondanza. Generò cinque coppie di figli maschi, li allevò e dopo aver diviso in dieci parti tutta l'isola di Atlantide, al figlio nato per primo dei due più vecchi assegnò la dimora della madre e il lotto circostante, che era il più esteso e il migliore, e lo fece re degli altri, gli altri li fece capi e a ciascuno diede potere su un gran numero di uomini e su un vasto territorio. Diede a tutti dei nomi, a colui che era il più anziano e re assegnò questo nome, che è poi quello che ha tutta l'isola e il mare, chiamato Atlantico perché il nome di colui che per primo regnò allora era appunto Atlante; il fratello gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l'estremità dell'isola verso le Colonne di Eracle, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica dal nome di quella località, in greco era Eumelo, mentre nella lingua del luogo Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la denominazione a questa regione. Ai due figli che nacquero nel secondo parto Poseidone diede, al primo, il nome Amfere e al secondo il nome Euemone; ai figli di terza nascita diede nome Mnesea, a quello nato per primo, Autoctone a quello nato dopo; dei figli di quarta nascita Elasippo fu il primo e Mestore il secondo; ai figli di quinta nascita fu dato il nome di Azae al primo, di Diaprepe al secondo. Tutti costoro, essi stessi e i loro discendenti, per molte generazioni abitarono qui, esercitando il comando su molte altre isole di quel mare, ed inoltre, come si disse anche prima, governando regioni al di qua, fino all'Egitto e alla Tirrenia. La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorata, e poiché era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio dei suoi figli il potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in quantità tale quante mai ve n'erano state prima in nessun dominio di re, né mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d'altra parte potendo disporre di tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del paese. Infatti molte risorse, grazie al loro predominio, provenivano loro dall'esterno, ma la maggior parte le offriva l'isola stessa per le necessità della vita: in primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si conosce solo il nome - a quel tempo invece la sostanza era più di un nome, l'oricalco, estratto dalla terra in molti luoghi dell'isola, ed era il più prezioso, a parte l'oro, tra i metalli che esistevano allora - sia tutto ciò che le foreste offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e nutriva poi a sufficienza animali domestici e selvaggi. In particolare era qui ben rappresentata la specie degli elefanti. Difatti i pascoli per gli altri animali, per quelli che vivono nelle paludi, nei laghi e nei fiumi e così per quelli che pascolano sui monti e nelle pianure, erano per tutti abbondanti e altrettanto Io erano per questo animale, nonostante sia il più grosso e il più vorace. A ciò si aggiunga che le essenze profumate che la terra produce ai nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da fiori o da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora, forniva il frutto coltivato e quello secco che ci fa da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo per fare il pane - tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo cereali - e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti e oli profumati, il frutto dalla dura scorza, usato per divertimento e per piacere, difficile da conservare, così quelli che serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi è affaticato dalla sazietà: tali prodotti l'isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli e meravigliosi, in una abbondanza senza fine. Prendendo dunque dalla terra tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali, i porti, i cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente modo. Le cinte di mare che si trovavano intorno all'antica metropoli per prima cosa le resero praticabili per mezzo di ponti, formando una via all'esterno e verso il palazzo reale. Il palazzo reale lo realizzarono fin da principio in questa stessa residenza del dio e degli antenati, ricevendolo in eredità l'uno dall'altro, e aggiungendo ornamenti a ornamenti cercavano sempre di superare, per quanto potevano, il predecessore, finché realizzarono una dimora straordinaria a vedersi per la grandiosità e la bellezza dei lavori. Realizzarono, partendo dal mare, un canale di collegamento largo tre plettri, profondo cento piedi e lungo cinquanta stadi fino alla cinta di mare più esterna: crearono così il passaggio dal mare fino a quella cinta, come in un porto, dopo aver formato un'imboccatura sufficiente per l'ingresso delle navi di maggiori dimensioni. Inoltre tagliarono le cinte di terra che dividevano tra loro le cinte di mare all'altezza dei ponti, tanto da poter passare, a bordo di una sola trireme, da una cinta all'altra, e coprirono i passaggi con tetti, in modo tale che la navigazione avvenisse al di sotto: e infatti le sponde delle cinte di terra si elevavano sufficientemente sul livello del mare. La cinta maggiore, con la quale era in comunicazione il mare, era di tre stadi di larghezza e di pari larghezza era la cinta di terra a ridosso; delle due cinte successive quella di mare era larga due stadi, quella di terra aveva ancora una volta una larghezza pari alla cinta di mare; di uno stadio era invece la cinta di mare che correva intorno all'isola stessa, nel mezzo. L'isola, nella quale si trovava la dimora dei re, aveva un diametro di cinque stadi. Questa, tutt'intorno, e le cinte, e il ponte, largo un plettro, li circondarono da una parte e dall'altra con un muro di pietra, facendo sovrastare il ponte, da entrambe le parti, da torri e porte, lungo i passaggi che portavano al mare; tagliarono la pietra tutt'intorno, al di sotto dell'isola centrale, e sotto le cinte, nella parte esterna e in quella interna, bianca, nera, rossa, e mentre tagliavano creavano all'interno due profondi arsenali la cui copertura era di quella stessa pietra. Quanto alle costruzioni, alcune erano semplici, mentre altre le realizzavano variopinte, mescolando, per il piacere della vista, le pietre: e così rendevano loro una grazia naturale; rivestirono tutto il perimetro del muro che correva lungo la cinta esterna con il bronzo, servendosene a guisa di intonaco, mentre quello della cinta interna lo spalmarono con stagno fuso, e infine quello che circondava la stessa acropoli con oricalco dai riflessi di fuoco. Il palazzo reale, all'interno dell'acropoli, era sistemato nel seguente modo. Al centro il santuario, consacrato in quello stesso luogo a Clito e a Poseidone, era lasciato inaccessibile, circondato da un muro d'oro, e fu là che in origine concepirono e misero al mondo la stirpe dei dieci capi delle dinastie reali; ed era ancora là che ogni anno venivano, da tutte e dieci le sedi del paese, le offerte stagionali per ognuno di quelle divinità. Il tempio dello stesso Poseidone era lungo uno stadio, largo tre plettri, proporzionato in altezza a queste dimensioni, e aveva nella figura un che di barbarico. Rivestirono d'argento tutta la parte esterna del tempio, ad eccezione degli acroterii, e gli acroterii erano d'oro; quanto agli interni, il soffitto era a vedersi interamente d'avorio, variegato d'oro, argento e oricalco; tutte le altre parti, pareti, colonne e pavimento, le rivestirono di oricalco. Vi collocarono statue d'oro, il dio in piedi su un carro, auriga di sei cavalli alati, egli stesso tanto grande da toccare con la testa il soffitto del tempio, tutt'intorno cento Nereidi su delfini perché tante pensavano allora che fossero le Nereidi - e vi erano molte altre statue, doni votivi di privati. Intorno al santuario, all'esterno, si trovavano immagini d'oro di tutti, le donne e quei re che nacquero dai dieci, e molte altre offerte votive di grandi dimensioni, di re e privati, originari della città stessa e di altri paesi esterni, quelli sui quali governavano. L'altare, per la grandezza e la raffinatezza del lavoro, era in armonia con questo apparato, e la reggia, allo stesso modo, ben rispondeva da una parte alla grandezza dell'impero, dall'altra allo splendore del tempio stesso. Quanto alle fonti, quella della sorgente di acqua fredda e quella della sorgente di acqua calda, di generosa abbondanza, ognuna straordinariamente adatta all'uso per la gradevolezza e la virtù delle acque, le utilizzavano disponendo intorno abitazioni e piantagioni di alberi adatte a quelle acque e installandovi intorno cisterne, alcune a cielo aperto, altre coperte usate in inverno per i bagni caldi, da una parte quelle del re, dall'altra quelle dei privati, altre ancora per le donne, altre per i cavalli e per le altre bestie da soma, attribuendo a ciascuna la decorazione appropriata. L'acqua che sgorgava da qui la portavano fino al bosco sacro di Poseidone, alberi d'ogni sorta, che avevano, grazie alla virtù della terra, bellezza ed altezza straordinarie, e facevano scorrere l'acqua fino ai cerchi esterni attraverso canalizzazioni costruite lungo i ponti. E qui erano stati costruiti molti templi, in onore di molte divinità, molti giardini e molti ginnasi, alcuni per gli uomini, altri per i cavalli, a parte, in ognuna delle due isole circolari. Inoltre, al centro dell'isola maggiore, per sé si erano riservati un ippodromo, largo uno stadio e tanto lungo da permettere ai cavalli di percorrere per la gara l'intera circonferenza. Intorno a questo, dall'una e dall'altra parte, vi erano costruzioni per le guardie, per la gran massa dei dorifori; ai più fedeli era stato assegnato il presidio nella cerchia minore, che si trovava più vicino all'acropoli, mentre a coloro che fra tutti si distinguevano per fedeltà erano stati dati alloggi all'interno dell'acropoli, vicino ai re. Gli arsenali erano pieni di trireme e delle suppellettili necessari alle trireme, tutte preparate in quantità sufficiente. E nel modo seguente erano poi sistemate le cose intorno alla residenza dei re: per chi attraversava i porti esterni, in numero di tre, a partire dal mare correva in cerchio un muro, distante cinquanta stadi in ogni parte dalla cinta maggiore e dal porto. Tale muro si chiudeva in se stesso in uno stesso punto, presso l'imboccatura del canale dalla parte del mare. Tutta questa estensione era coperta di numerose e fitte abitazioni, mentre il canale e il porto maggiore pullulavano di imbarcazioni e di mercanti che giungevano da ogni parte e che, per il gran numero, riversavano giorno e notte voci e tumulto e fragore d'ogni genere. Abbiamo dunque riferito ora pressappoco quanto a quel tempo si disse della città e dell'antica dimora; cerchiamo allora di richiamare alla mente quale fosse la natura del resto del paese e come fosse organizzato. In primo luogo tutto quanto il territorio si diceva che fosse alto e a picco sul mare, mentre tutt'intorno alla città vi era una pianura, che abbracciava la città ed era essa stessa circondata da monti che discendevano fino al mare, piana e uniforme, tutta allungata, lunga tremila stadi sui due lati e al centro duemila stadi dal mare fin giù. Questa parte dell'intera isola era rivolta a mezzogiorno e al riparo dai venti del nord. I monti che la circondavano erano rinomati a quel tempo, in numero, grandezza e bellezza superiori ai monti che esistono oggi, per i molti villaggi ricchi di abitanti che vi si trovano e d'altra parte per i fiumi, i laghi, i prati, capaci di nutrire ogni sorta di animali domestici e selvaggi, per le foreste numerose e varie, inesauribili per l'insieme dei lavori e per ciascuno in particolare. Questa pianura in un lungo lasso di tempo, per opera della natura e di molti re, prese dunque la seguente sistemazione. Aveva, come ho già detto, la forma di un quadrilatero, rettilineo per la maggior parte, e allungato, ma là dove si discostava dalla linea retta Io raddrizzarono per mezzo di un fossato scavato tutt'intorno: ciò che si dice della profondità, larghezza e lunghezza di questo fossato non è credibile, che cioè opera realizzata dalla mano dell'uomo potesse essere di tali dimensioni, oltre agli altri duri lavori che aveva comportato. Bisogna tuttavia riferire ciò che udimmo: ebbene, era stata scavata per una profondità di un plettro, mentre la sua larghezza era in ogni punto di uno stadio, e poiché era stata scavata tutto intorno alla pianura, ne risultava una lunghezza di diecimila stadi. Riceveva i corsi d'acqua che discendevano dai monti e girava intorno alla pianura, arrivando da entrambi i lati fino alla città, da lì poi andava a gettarsi nel mare. Dalla parte superiore di questo fossato canali rettilinei, larghi circa cento piedi, tagliati attraverso la pianura, tornavano a gettarsi nel fossato presso il mare, a una distanza l'uno dall'altro di cento stadi. Ed era per questa via dunque che facevano scendere fino alla città il legname dalle montagne e su imbarcazioni trasportavano verso la costa altri prodotti di stagione, scavando, a partire da questi canali passaggi navigabili e tagliandoli trasversalmente l'uno con l'altro e rispetto alla città. Due volte l'anno raccoglievano i prodotti della terra, in inverno utilizzando le piogge, in estate irrigando tutto ciò che offre la terra con l'acqua attinta dai canali. Quanto al numero degli uomini abitanti la pianura che fossero utili per la guerra, era stato stabilito che ogni lotto fornisse un capo: la grandezza di un lotto era di dieci stadi per dieci e in tutto i lotti erano sessantamila; per quel che concerne invece il numero degli uomini che venivano dalle montagne e dal resto del paese, si diceva che fosse infinito e tutti, secondo le località e i villaggi, venivano poi ripartiti in questi distretti, sotto il comando dei loro capi. Era dunque stabilito che il comandante fornisse per la guerra la sesta parte di un carro da combattimento fino a raggiungere il numero di diecimila carri, due cavalli e i relativi cavalieri, inoltre un carro a due cavalli senza sedile, che avesse un soldato capace all'occasione di combattere a piedi, munito di un piccolo scudo, e assieme al combattente un auriga per entrambi i cavalli; due opliti, due arcieri e due frombolieri, tre soldati armati alla leggera che lanciano pietre e tre lanciatori di giavellotto, quattro marinai per completare l'equipaggio di milleduecento navi. Questa era dunque l'organizzazione militare della città regia; diversa invece quella in ognuna delle altre nove province, che tuttavia sarebbe troppo lungo spiegare. Quanto alle magistrature e alle cariche pubbliche, furono così ordinate fin da principio. Ciascuno dei dieci re esercitava il comando nella propria parte e nella sua città sugli uomini e sulla maggior parte delle leggi, punendo e mettendo a morte chiunque volesse; ma il potere che avevano l'uno sull'altro e i rapporti reciproci erano regolati dalle prescrizioni di Poseidone, così come li avevano tramandati la tradizione e le lettere incise dai primi re su una stele di oricalco, che era posta nel centro dell'isola, nel santuario di Poseidone, dove ogni cinque anni e talvolta, alternando, ogni sei si riunivano, assegnando uguale importanza all'anno pari e all'anno dispari. In tali adunanze deliberavano degli affari comuni, esaminavano se qualcuno avesse trasgredito qualche legge e formulavano il giudizio. Quando dovevano giudicare, prima si scambiavano tra loro assicurazioni secondo il seguente rituale. Alcuni tori (50) venivano lasciati liberi nel santuario di Poseidone, e i dieci re, rimasti soli, dopo aver rivolto al dio la preghiera di scegliere la vittima che gli fosse gradita, davano inizio alla caccia, armati non di armi di ferro, ma solo di bastoni e di lacci; il toro che riuscivano a catturare, lo conducevano davanti alla colonna e lì, sulla cima di questa, lo sgozzavano proprio sopra l'iscrizione. Sulla stele, oltre alle leggi, v'era inciso un giuramento che lanciava terribili anatemi contro i trasgressori. Così, compiuti i sacrifici conformemente alle loro leggi, quando passavano a consacrare tutte le parti del toro, mescolavano in un cratere il sangue e ne versavano un grumo per ciascuno, mentre il resto, purificata la stele, lo ponevano accanto al fuoco; dopodiché, attingendo con coppe d'oro dal cratere e offrendo libagioni sul fuoco, giuravano di giudicare conformemente alle leggi scritte sulla stele, di punire chi in precedenza tali leggi avesse trasgredito e, d'altra parte, di non trasgredire per precisa volontà in avvenire nessuna delle norme dell'iscrizione, che non avrebbero governato né obbedito a chi governasse se non esercitava il suo comando secondo le leggi del padre. Ciascuno di loro, dopo aver innalzato queste preghiere, per sé e per la propria discendenza, beveva e consacrava la coppa nel santuario del dio, poi attendeva al pranzo e alle occupazioni necessaire, e quando scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella quant'altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio, all'apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d'oro che dedicavano in ricordo insieme alle vesti. Vi erano altre leggi, numerose e particolari, che concernevano i privilegi di ciascun re, tra le quali le più importanti: che non avrebbero mai impugnato le armi l'uno contro l'altro e che si sarebbero aiutati vicendevolmente, e se uno di loro in qualche città tentava di cacciare la stirpe regia, avrebbero deliberato in comune, come i loro antenati, le decisioni che giudicassero opportuno prendere riguardo alla guerra e alle altre faccende, affidando il comando supremo alla stirpe di Atlante. Un re non era padrone di condannare a morte nessuno dei consanguinei senza il consenso di più della metà dei dieci. Tanta e tale potenza, viva allora in quei luoghi, il dio raccolse e diresse poi contro queste nostre regioni, dietro siffatto pretesto, come vuole la tradizione. Per molte generazioni, finché fu abbastanza forte in loro la natura divina, erano obbedienti alle leggi e bendisposti nell'animo verso la divinità che aveva con loro comunanza di stirpe: avevano infatti pensieri veri e grandi in tutto, usando mitezza mista a saggezza negli eventi che di volta in volta si presentavano e nei rapporti reciproci. Di conseguenza, avendo tutto a disdegno fuorché la virtù, Stimavano poca cosa i beni che avevano a disposizione, sopportavano con serenità, quasi fosse un peso, la massa di oro e delle altre ricchezze, e non vacillavano, ebbri per effetto del lusso e senza più padronanza di sé per via della ricchezza; al contrario, rimanendo vigili, vedevano con acutezza che tutti questi beni si accrescono con l'affetto reciproco unito alla virtù, mentre si logorano per eccessivo zelo e stima e con loro perisce anche la virtù. Ebbene, come risultato di un tale ragionamento e finché persisteva in loro la natura divina, tutti i beni che abbiamo precedentemente enumerato si accrebbero. Quando però la parte di divino venne estinguendosi in loro, mescolata più volte con un forte elemento di mortalità e il carattere umano ebbe il sopravvento, allora, ormai incapaci di sostenere adeguatamente il carico del benessere di cui disponevano, si diedero a comportamenti sconvenienti, e a chi era capace di vedere apparivano laidi, perché avevano perduto i più belli tra i beni più preziosi, mentre agli occhi di coloro che non avevano la capacità di discernere la vera vita che porta alla felicità allora soprattutto apparivano bellissimi e beati, pieni di ingiusta bramosia e di potenza. Tuttavia il dio degli dèi, Zeus, che governa secondo le leggi, poiché poteva vedere simili cose, avendo compreso che questa stirpe giusta stava degenerando verso uno stato miserevole, volendo punirli, affinché, ricondotti alla ragione, divenissero più moderati, convocò tutti gli dèi nella loro più augusta dimora, la quale, al centro dell'intero universo, vede tutte le cose che partecipano del divenire, e dopo averli convocati disse...

[align=right]Fonte: http://www.misteromania.it/atlantide/Crizia.htm[/align]

Grazie mauro! [;)]


Ultima modifica di Bastion il 18/09/2010, 10:03, modificato 1 volta in totale.

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MessaggioInviato: 18/09/2010, 09:36 
cari amici,
il Crizia completo si può trovare sul sito del nostro Antonio
http://www.misteromania.it/atlantide/Crizia.htm
ciao
mauro



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MessaggioInviato: 18/09/2010, 10:17 
caro Near,
sull'altro topic hai messo
Cita:
Grazie mille mauro
[:D]
ma bisognerebbe ringraziare anche il nostro Antonio che l'ha "tradotto
personalmente" [;)] [:D]

Volevo anche aggiungere, come ho già messo in un altro topic,
che ci sono, oltre ad Atlantide, riferimenti, ad altri continenti perduti,
Mu , Lemuria,Megaranika,e molto altro.
Purtroppo, i siti che sto guardando, sono in giapponese [xx(] e anche col traduttore , non si capisce molto.
ciao
mauro


Ultima modifica di mauro il 18/09/2010, 10:18, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 18/09/2010, 14:03 
metto il link di alcuni testi su Atlntide,(purtroppo sempre in inglese)
http://www.sacred-texts.com/atl/index.htm

in italiano abbiamo l'Oera Linda, sempre tradotta dal nostro Antonio [:29]

http://www.misteromania.it/Oera_linda/libro.html
ciao
mauro



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MessaggioInviato: 18/09/2010, 19:00 
Cita:
bleffort ha scritto:

Tratto dal libro ""ATLANTIDE"" di Alberto Arecchi.
La descrizione del Cataclisma nei documenti Egizi



Ramses III,secondo Faraone della XX dinastia,dovette affrontare la grande invasione dei
popoli del mare e nè lasciò il ricordo nel proprio tempio funerario,a Medinet Habu,
sulla sponda sinistra del Nilo,proprio di fronte a Luxor.

I popoli del nord nelle loro isole erano in agitazione;si misero in moto tutti insieme.
Nessun paese potè reggere di fronte alla loro forza...i loro principali sostegni erano
i Peleset (Filistei),gli Zekal,gli Shakalash (Siciliani),i Denen (Danai),i Weshesh
(Washasha).Tutti questi popoli erano uniti ed avevano legato le loro mani sui paesi
lontani come il cerchio della Terra.I loro cuori erano fiduciosi e pieni di ambizioni.

Sui Geroglifici di Medinet Habu si legge:

""Gli stranieri venuti dal nord videro le loro terre distrutte"",il loro paese è stato
distrutto,le loro anime sono sconvolte"",i popoli del nord complottavano nelle loro isole,
quando la tempesta inghiottì il loro paese...",la loro Capitale è stata distrutta,
annientata"".

La stessa iscrizione parla dei danni causati dai terremoti al territorio Egiziano:

""L'Egitto era come un fuggitivo,privo di pastore..,era desolato,totalmente distrutto,
quando il Faraone cominciò...."",""la mia intenzione fù quella di risolvere l'Egitto
dalla devastazione".

Nel Papiro Ipuwer si legge:

Le città sono distrutte,l'Alto Egitto è devastato,la città Reale è crollata in un istante.
I figli dei Principi sono stati schiacciati dai muri caduti,i loro corpi giacciono per le
vie,la prigione è in rovina"".


Sintetizzo andando in un altro capitolo:

A proposito dei popoli venuti dal nord,Ramses III fa dire al Dio Amon-Ra-Harakte:

""Rivolgendo il mio volto verso il nord,ho fatto un miracolo a tuo favore""

Qualche riga più in basso si trova la spiegazione del Prodigio:

""Ho fatto in modo che possano constatare la tua potenza e quella di Num (il grande Mare
l'Oceano);egli è uscito dal suo letto ed ha proiettato un'immensa onda che ha inghiottito
città e villaggi"".



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MessaggioInviato: 25/09/2010, 19:57 
Discussione "ATLANTIDE E' ESISTITA DAVVERO?"
http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=1187


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MessaggioInviato: 26/09/2010, 15:20 
L'isola di Antilla (Navigatori fenici e cartaginesi)


Secondo antichi racconti, i Fenici e poi i Cartaginesi conoscevano una lontana isola di Antilla, colma di ricchezze, e diedero corpo alla leggenda del continente perduto per garantirsi la conoscenza esclusiva delle rotte atlantiche. Nel sec. V a.C. molti Cartaginesi salparono verso la “nuova isola” verdeggiante e la città rischiò di spopolarsi, sì che i governanti dovettero proibire di passare le colonne d’Erakles.

[align=right]Fonte: http://www.liutprand.it/articoliMondo.asp?id=129[/align]


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MessaggioInviato: 26/09/2010, 15:30 
Gli Ataranti, Atlanti e Atlantidi (Tribù del nord africa)


...Gli Ataranti che hanno la caratteristica di non avere nomi propri di persona, ma solo quello collettivo di popolo, gli Atlanti vegetariani e nelle regioni più interne....

...Diodoro Siculo si sofferma nel III libro della sua Biblioteca su Etiopi, Libici ed Atlantidi....

...Quanto agli Atlantidi sono ritenuti molto superiori per la loro devozione agli dei e nell’umanità mostrata nei rapporti con gli stranieri. Affermavano che gli dei fossero nati da loro, racconto che ben si accorda con quanto detto da Omero per bocca di Era: «Infatti io vado a vedere i confini della terra bellissima, / Oceano, la corte degli dei e Teti divina, loro madre»...

[align=right]Fonte: http://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/ ... onfine.htm[/align]


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MessaggioInviato: 26/09/2010, 15:42 
L'Atlaintika dei Baschi


I Baschi ritengono di provenire da una terra che essi chiamavano Atlaintika e che per i Portoghesi si chiamava Atlantida.

[align=right]Fonte: http://www.edicolaweb.net/arti092a.htm[/align]


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Aztlán, la patria degli Aztechi


Immagine

Raffigurazione della partenza da Aztlàn


Aztlán è la leggendaria terra d'origine degli Aztechi e di tutte le popolazioni di etnia nahua, una tra le più importanti culture mesoamericane.

Etimologia
Azteca, in lingua nahuatl, significa proprio "gente di Aztlán".
Secondo alcuni studiosi, Aztlán deriverebbe dalle parole nahuatl aztatl, che significa airone (o uccello dalle piume bianche) ,e tlan(tli), che significa "posto del": Aztlán vorrebbe quindi dire "posto degli aironi". Secondo un'altra teoria, deriverebbe dal nome del dio Atl e significherebbe "vicino all'acqua".

Alcuni, sulla base dell'assonanza dei nomi e di una somiglianza etimologica, hanno accostato Aztlàn all'Atlantide narrata da Platone. Il Codex Boturini descrive Aztlan come "un'isola in mezzo a una distesa d'acqua".

[align=right]Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Aztlán[/align]


___________________________________________________________



Codice Boturini
Il Codice Boturini è opera di un autore azteco rimasto sconosciuto, e fu realizzato nel periodo tra il 1530 e il 1541, appena un decennio dopo la conquista spagnola. Si tratta di un codice pittografico che racconta il leggendario viaggio degli Aztechi da Aztlán fino alla Valle del Messico.
Invece di impiegare pagine separate, l'autore ha usato un lungo foglio di amatl (derivato dalla corteccia di ficus) , piegato a fisarmonica in 21 pagine e mezza. La ventiduesima pagina è spezzata a metà, ma non è chiaro se l'autore intendeva finire in quel punto il manoscritto oppure no. Al contrario di molti altri codici aztechi, i disegni non sono colorati, ma semplicemente delineati con inchiostro nero.
Il codice è conosciuto anche come Tira de la Peregrinación ("La striscia del Viaggio"), e prende il suo nome da uno dei suoi primi proprietari europei, Lorenzo Boturini Bernaducci (1702 – 1751).

Codice Aubin
Il Codice Aubin è una storia pittografica degli Aztechi dalla loro partenza da Aztlán fino al primo periodo della conquista spagnola, terminando nel 1607. È formato da 81 fogli, probabilmente l'inizio della sua composizione può essere datata intorno al 1576, ed è possibile che frate Diego Durán abbia soprainteso alla sua preparazione, visto che fu pubblicato nel 1867 Historia de las Indias de Nueva-España y isles de Tierra Firme, indicando Durán come autore.
Tra gli altri argomenti, il Codice Aubin contiene una descrizione del massacro della Grande Piramide a Tenochtitlan nel 1520.
Conosciuto anche come Manuscrito de 1576 (Manoscritto del 1576), il codice è attualmente conservato nella Bibliothèque nationale de France a Parigi. Una copia dell'originale si trova nella Collezione Robert Garrett della biblioteca dell'Università di Princeton. Il Codice Aubin non va confuso con il quasi omonimo documento Tonalamatl Aubin.

[align=right]Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Codici_aztechi[/align]


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MessaggioInviato: 26/09/2010, 18:31 
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Near ha scritto:

L'Atlaintika dei Baschi


I Baschi ritengono di provenire da una terra che essi chiamavano Atlaintika e che per i Portoghesi si chiamava Atlantida.

[align=right]Fonte: http://www.edicolaweb.net/arti092a.htm[/align]


Questa storia dei Baschi l'ho sentita diverse volte, ma vorrei sapere quali sono le vere fonti. Conosco qualcosa della cultura e della mitologia basche, mi interessano molto aldilà di questo dato, ma finora non ho ancora incontrato nessuna testimonianza al riguardo.... io sinceramente sono un poco dubitabondo... vorrei dei riscontri oggettivi, dati antropologici al riguardo..... non so.. chiedo troppo?
A questo fine, ho deciso di interessarmi di più alla cultura basca proprio per chiarire queste "voci" che sinceramente finora non hanno avuto per me alcun riscontro....
Caso interessante, però, su Internet ho trovato degli strani riferimenti e paragoni addirittura con gli Olmechi! Pare che anche questo popolo dicesse di venire da Atlaintika!
Ma sinceramente questo mi rende ancora più scettico, perché mi domando da dove si sono potuti ricavare simili informazioni, dato che gli Olmechi si sono estinti molto tempo prima che arrivassero gli Spagnoli in Messico. Anzi, da quello che ne so, la civiltà olmeca fu quella che precedette e originò la civiltà dei Maya.... non mi risulta neanche che ci abbiano lasciato dei testi in proposito.....
Insomma, come al solito.... un sacco di cose che sono da chiarire!


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MessaggioInviato: 26/09/2010, 19:40 
Infatti ho postato solo quelle poche righe perchè purtroppo non ho trovato altro... Sempre la stessa frase ripetuta ovunque, senza nessuna fonte "primaria".


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MessaggioInviato: 28/09/2010, 17:24 
http://www.tanogabo.it/Diodoro.htm fonte

Diodoro Siculo, le Amazzoni e Atlantide



Diodoro Siculo è stato uno storico greco nato ad Agirio, oggi Agira in provincia di Enna (ca. 80 - ca. 20 a.C.)
Diodoro, il cui nome significa "dono di Dio", visse a Roma in età Cesarea ed Augustea.
Considerato dai greci "padre della storia" insieme ad Erodoto, volle e seppe esprimere la sua cultura di lingua greca tanto da essere spesso chiamato "storico greco". Viaggiò molto in Asia e in Europa e fu a lungo a Roma, per raccogliere una documentazione per la Bibliotheca historica, un'immensa storia universale a cui attese per trent'anni dal 60 al 30 aC. Si trattava di un'opera in in quaranta volumi,dei quali restano soltanto quindici. Nel proemio Diodoro presenta le sue ricerche storiche ed introduce come scopo della sua opera, e della storia in generale, l'utilità e l'insegnamento che da essa possono trarre gli uomini. La storia universale è esempio della fratellanza tra gli uomini; essa riconduce ad un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro per spazio e tempo, ma partecipi di un'unica parentela (I 1, 3). L'opera è, dunque, la summa della storiografia greca classica ed ellenistica, "un prezioso deposito di tradizioni diverse, atte a mostrare il nuovo che la storiografia greca ha prodotto dopo la grande stagione tucididea" (Musti).

A prescindere dai durissimi giudizi della critica dell'Ottocento (fu definito "il più miserabile degli scrittori" dal tedesco Schwartz), la Biblioteca ha come perno l'ammirevole intento di una storia universale, che racchiude in sintesi il lavoro della migliore (e spesso anche dei "minori") storiografia greca.
La sua opera, tradotta in diverse lingue, tratta dalla tecnica egizia della mummificazione alla scienza urbanistica mesopotamica, dal periodo precedente la guerra di Troia alle conquiste di Giulio Cesare in Gallia.


Alla sua fonte hanno attinto Marco Polo, che lo cita ne "Il Milione", Salzano, Holm e Di Berenger.
Innegabili sono i meriti della sua opera che ci ha tramandato avvenimenti mai raccontati e che altrimenti sarebbero andati perduti.
Plinio il Vecchio lodò il contenuto della sua opera scrivendo pure che Diodoro non favoleggiò, ma trasse i fatti reali dalla somma delle tradizioni locali e, dove non era possibile per assenza di documenti, da accurate deduzioni.
La prima traduzione latina, di ciò che ci è pervenuto, fu stampata a Bologna nel 1472 e la prima del testo greco a Parigi nel 1555.
La statua di Diodoro Siculo, che si ergeva in piazza Roma ad Agira, è andata perduta. Dopo il terremoto del 1693, l'iscrizione appartenente al monumento fu trovata dall'abate della Abbazia e trasferita quindi al museo di Biscari a Catania, oggi nel museo del Castello Ursino.


Dalla storia al mito
alcuni brani tratti dall'opera di Diodoro Siculo

LIII.
Si racconta che ai confini della terra e all’occidente della Libia abiti una nazione governata da donne, che hanno costumi del tutto diversi dai nostri. Le donne usano prestare servizio militare durante un periodo di tempo determinato, conservando la propria verginità. Quando il termine del servizio militare è raggiunto, si accostano agli uomini per averne dei figli, e coprono le magistrature e tutte le funzioni pubbliche. Gli uomini trascorrono tutta la propria vita a casa, come le nostre casalinghe, dedicandosi solamente a occupazioni domestiche; sono tenuti lontani dall’esercito, dalla magistratura e da ogni altra funzione pubblica che possa ispirare loro l’idea di sottrarsi al giogo delle donne. Dopo aver partorito, le Amazzoni consegnano il neonato tra le mani degli uomini, che pensano a nutrirlo di latte e d’altri alimenti appropriati per la sua età. Se il bambino è una femmina, le si bruciano le mammelle, per impedire a tali organi di svilupparsi con l’età, perché delle mammelle prominenti sarebbero scomode per l’esercizio guerriero; ciò spiega il nome d’Amazzoni che i Greci hanno dato loro. Secondo la tradizione, le Amazzoni abitavano in un’isola chiamata Espera, posta a occidente, nel lago Tritonide.
Questo lago, che si trova presso l’Oceano che circonda la terra, trae il proprio nome dal fiume Tritone, che vi si getta. Il lago Tritonide si trova in vicinanza dell’Etiopia, al piede della più alta montagna di quel paese, che i Greci chiamano Atlante, e che tocca l’Oceano.
L’isola Espera è abbastanza grande e piena d’alberi da frutto d’ogni specie, che forniscono cibo agli abitanti. Questi si nutrono anche del latte e della carne, delle quali hanno grandi greggi, ma non hanno ancora appreso la coltivazione del grano.
Spinte dai propri istinti guerrieri, le Amazzoni sottomisero prima con le armi tutte le città dell’isola, tranne una sola che si chiamava Mené, ed era considerata sacra. Questa città era abitata da Etiopi mangiatori di pesce, vi si vedevano esalazioni infiammate, e vi si trovavano molte pietre preziose, come quelle che i Greci chiamano carbonchi (rubini), sardoines (pietre di calcedonio) e smeraldi.
Dopo, le Amazzoni soggiogarono le terre circostanti, molte tribù libiche e costruirono, nel lago Tritonide, una città che chiamarono Cherconeso, a causa del suo aspetto.

LIV
Incoraggiate dai loro successi, le Amazzoni percorsero diverse parti del mondo. Si dice che i primi uomini attaccati da loro fossero gli Atlanti, il popolo più civilizzato di quelle terre, che abitavano in una regione ricca, con grandi città.
Fu presso gli Atlanti e nel paese vicino all’Oceano che, secondo la mitologia, nacquero gli dèi; e ciò si accorda abbastanza bene con i racconti dei mitologi greci; più avanti ne parleremo dettagliatamente.
Si dice che Myrina, regina delle Amazzoni, raccolse un esercito di trentamila donne di fanteria, e di ventimila a cavallo; esse si applicavano in modo particolare all’esercizio del cavallo, per la sua utilità in guerra.
Usavano portare come difesa delle pelli di serpente, poiché in Libia si trovano rettili enormi. Le loro armi offensive erano spade, lance e archi. Sapevano servirsene molto bene, non solo per attaccare, ma anche per respingere chi le avesse messe in fuga.
Dopo aver invaso il territorio degli Atlanti, esse sconfissero in battaglia campale gli abitanti di Kerne e inseguirono i fuggiaschi, si dentro le mura. S’impadronirono della città e maltrattarono i prigionieri, per diffondere il terrore tra i popoli vicini. Passarono a fil di spada tutti gli uomini puberi, ridussero in schiavitù le donne e i bambini, e demolirono la città.
Quando la voce del disastro dei Kerneani si diffuse in tutto il paese, gli altri Atlanti ne furono talmente terrorizzati che tutti, di comune accordo, consegnarono le loro città e promisero di fare tutto ciò che fosse stato loro ordinato.
La regina Myrina li trattò con dolcezza, accordò loro la propria amicizia e, al posto della città distrutta, ne fondò un’altra a cui diede il proprio nome. La popolò con tutti gli indigeni, da lei fatti prigionieri, che volessero abitarvi. Dopo di che, gli Atlanti le fecero doni magnifici e le tributarono pubblicamente grandi onori, ed ella accettò i segni del loro affetto e promise di proteggerli.
Poiché gli Atlanti erano spesso attaccati dalle Gorgoni, che stavano nelle vicinanze e che da sempre erano loro nemiche, la regina Myrina andò a combattere le Gorgoni nel loro paese, dietro preghiera degli Atlanti.

Le Gorgoni si schierarono in battaglia e il combattimento fu accanito, ma infine le Amazzoni le sopraffecero e uccisero un gran numero delle nemiche, e fecero più di tremila prigioniere. Poiché le altre erano fuggite nei boschi, Myrina, che voleva distruggere completamente quella nazione, appiccò il fuoco; non essendo riuscita in tale disegno, si ritirò alle frontiere del paese.

LV
Una notte le Amazzoni, eccitate dal successo, facevano la guardia con negligenza. Allora le Gorgoni prigioniere riuscirono a riprendersi le spade e ne sgozzarono un gran numero, ma furono ben presto circondate dalle Amazzoni e sopraffatte dal numero. Furono tutte uccise, dopo una vigorosa resistenza.
Myrina fece bruciare su tre roghi i corpi delle compagne uccise e fece innalzare con la terra tre grandi tumuli, che sono chiamati ancor oggi le tombe delle Amazzoni. In seguito le Gorgoni, che si erano moltiplicate, furono attaccate anche da Perseo, figlio di Zeus (Dia); Medusa era allora la loro regina.
Infine le Gorgoni, così come la razza delle Amazzoni, furono sterminate da Eracle, quando, durante la sua spedizione a Occidente, pose una colonna in Libia, poiché non poteva tollerare che, dopo tutti i benefici che egli aveva offerto al genere umano, ci fosse una nazione governata da donne.
Si dice che il lago Tritonide sia completamente scomparso a causa di terremoti, che hanno fatto rompere la diga verso l’Oceano.




Myrina, dopo aver percorso con il suo esercito gran parte della Libia, entrò in Egitto, dove si legò d’amicizia con Horus, figlio d’Iside, che era in quel tempo il re del paese.
Di là, andò a fare la guerra agli Arabi, e ne sterminò un grandissimo numero. In seguito, sottomise tutta la Siria; gli abitanti della Cilicia le andarono incontro offrendole doni e promettendole di sottomettersi volontariamente ai suoi ordini. Myrina lasciò loro la libertà, poiché erano venuti ad arrendersi spontaneamente. Perciò ancor oggi essi sono chiamati Eleuthero–Cilici.
Dopo aver fatto la guerra ai popoli che abitano presso il monte Tauro, famosi per la loro forza, ella entrò nella grande Frigia, situata presso il mare, e, dopo aver percorso con il proprio esercito diverse terre lungo il mare, terminò la sua spedizione lungo il fiume Caïcus. Nel paese conquistato, scelse i luoghi più adatti per la fondazione di città; ne costruì parecchie, tra le quali una portò il suo nome. Alle altre città diede il nome delle Amazzoni che avevano comandato i principali corpi d’armata, come le città di Cyme, di Pitana e di Priene, che si trovano sul mare, e ne fondò diverse altre all’interno.
Sottomise anche alcune isole e particolarmente Lesbo, ove fondò la città di Mitilene, dal nome di sua sorella, che aveva partecipato alla spedizione.
Mentre andava a sottomettere altre isole, la sua nave fu colpita da una tempesta; e, implorando la madre degli dèi per la propria salvezza, fu gettata su un’isola deserta; seguendo un avvertimento ricevuto in sogno, consacrò tutta quell’isola alla dea che aveva invocato, le eresse degli altari e istituì sacrifici in suo onore. Diede a quell’isola il nome di Samotracia che, tradotto in greco, significa « isola santa ». Alcuni storici sostengono che quell’isola dapprima si chiamasse Samos e che dopo divenne Samotracia, dai Traci che vi abitavano. Comunque sia, quando, secondo la tradizione, le Amazzoni ebbero conquistato il continente, la madre degli dèi portò in quest’isola, a lei gradita, dei coloni per popolarla, tra i quali i propri stessi figli, i Coribanti, il cui padre è rivelato solo a coloro che sono iniziati ai misteri.
Quella dea insegnò loro i misteri che ancor oggi sono celebrati nell’isola, e vi consacrò un tempio inviolabile.
A quell’epoca, Mopso di Tracia, bandito dalla patria da parte del re Licurgo, invase il paese delle Amazzoni con un esercito. Sipilo, della nazione degli Sciti, bandito a sua volta dalla propria patria, la Scizia, limitrofa della Tracia, si unì alla spedizione di Mopso. Vi fu una battaglia; le truppe di Mopso e di Sipilo riportarono la vittoria.
Myrina, la regina delle Amazzoni, e la maggior parte delle sue compagne furono massacrate.
Vi furono in seguito diversi altri combattimenti nei quali i Traci rimasero vincitori, e ciò che rimaneva dell’esercito delle Amazzoni si ritirò in Libia.
Questa fu, secondo la mitologia, la fine della spedizione delle Amazzoni.





LVI

Poiché abbiamo menzionato gli Atlanti, pensiamo che non sia fuori luogo riferire ciò che essi raccontano sulla nascita degli dèi. Le loro tradizioni non sono, a tal proposito, molto lontane da quelle dei Greci. Gli Atlanti abitano sul litorale dell’Oceano, in una terra molto fertile. Sembrano distinguersi dai loro vicini per la loro pietà e la loro ospitalità. Pretendono che il loro paese sia stato la culla degli dèi, e il più celebre di tutti i poeti della Grecia sembra condividere tale opinione, quando fa dire a Hera: "Parto per visitare i limiti della Terra, l’Oceano, padre degli dèi, e Teti, loro madre". Ora, secondo la tradizione mitologica degli Atlanti, il loro primo re fu Urano. Quel principe radunò tra le mura d’una città gli uomini, che prima di lui erano sparsi per le campagne. Ritirò i suoi sudditi dalla vita selvaggia, insegnò loro l’uso dei frutti e la maniera di conservarli, e trasmise loro diverse altre invenzioni utili. Il suo impero di estendeva su quasi tutta la terra, ma principalmente verso occidente e verso il nord. Preciso osservatore degli astri, egli predisse diversi eventi che dovevano accadere nel mondo, e insegnò alle nazioni a misurare l’anno tramite il percorso del sole, e i mesi con il corso della luna, e divise l’anno in stagioni. Il volgo, che ignorava l’ordine eterno del movimento degli astri, ammirava queste predizioni e guardava colui che le aveva fatte come un essere soprannaturale. Dopo la sua morte, i popoli gli decretarono onori divini, in ricordo dei benefici che avevano ricevuto da lui. Diedero il suo nome all’universo; sia perché gli attribuivano la conoscenza della levata e del tramonto degli astri e d’altri fenomeni naturali, sia per testimoniare la loro riconoscenza con gli onori eminenti che gli rendevano. Infine lo chiamarono re eterno di tutte le cose.

LVII

Secondo le stesse tradizioni, Urano ebbe quarantacinque figli, da diverse donne ; ne ebbe diciotto da Titea. Questi ultimi, ciascuno dei quali aveva un nome particolare, furono identificati col nome collettivo di Titani dal nome della loro madre.
Titea, conosciuta per la sua saggezza e la sua benevolenza, fu, dopo la morte, elevata al rango degli dèi da coloro che aveva colmato di beni, e il suo nome fu mutato in quello di Gea (Terra).
Urano ebbe anche parecchie figlie, e le due maggiori furono le più famose, Basilea e Rea, che qualcuno chiama anche Pandora.
Basilea, la più grande e al tempo stesso la più saggia e la più intelligente, allevò tutti i suoi fratelli e prodigò loro le cure di una madre. Perciò fu soprannominata la Grande Madre.
Quando suo padre fu elevato al rango degli dèi, ella salì sul trono col consenso dei popoli e dei suoi fratelli. Era ancora vergine e, per un eccesso di saggezza, non voleva sposarsi. Più tardi, per avere dei figli che potessero succederle nella regalità, Sposò Hyperion, quello tra i fratelli che più amava. Ne ebbe due figli, Helio e Selene, entrambi ammirevoli per bellezza e saggezza.
La sua felicità attirò a Basilea la gelosia dei fratelli i quali, temendo che Hyperion s’impadronisse del regno, concepirono un disegno esecrabile. Complottarono tra loro e sgozzarono Hyperion e annegarono nell’Eridano suo figlio Helio, che era ancora un bambino. Quando tale disgrazia fu scoperta, Selene, che amava molto il fratello, si precipitò dall’alto del palazzo.
Mentre Basilea cercava lungo il fiume il corpo di suo figlio Helio, si addormentò per la stanchezza e vide in sogno Helio che la consolò, raccomandandole di non affliggersi per la morte dei suoi figli; aggiunse che i Titani avrebbero ricevuto il meritato castigo, che sua sorella e lui si sarebbero trasformati in esseri immortali per ordine d’una provvidenza divina; che quello che un tempo si chiamava il cielo del fuoco sacro sarebbe stato indicato dagli uomini col nome di Helio (Sole), e che l’antico nome di Mene sarebbe stato mutato in quello di Selene (Luna). Al suo risveglio, ella raccontò al popolo il sogno che aveva avuto, e le sue disgrazie. Poi ordinò di accordare ai suoi figli onori divini, e proibì a chiunque di toccare il loro corpo. Dopo di che, fu presa da una specie di mania. Afferrava i giocattoli della figlia, e strumenti rumorosi, e andava in giro per tutto il paese, con i capelli sciolti, danzando come al suono dei timpani e dei cimbali, causando sorpresa in chi la vedeva.
Tutti ebbero pietà di lei; qualcuno cercò di fermarla, quando arrivò una gran pioggia, accompagnata da tuoni in continuazione.
Il quel momento, Basilea scomparve.
Il popolo, rimasto attonito per l’evento, collocò Helio e Selene tra gli astri. Furono innalzati altari in onore della loro madre e si offrirono sacrifici, con altri onori, al suono di timpani e cimbali, imitando ciò che ella aveva fatto.

LVIII
I Frigi raccontano in modo diverso la nascita di questa dea. Secondo la loro tradizione, Meone, che regnava un tempo sulla Frigia e la Lidia, sposò Dindima e ne ebbe una figlia. Non volendo allevarla, ma espose sul monte Cibelo.
Là, protetta dagli dèi, la bambina fu nutrita dal latte delle pantere e d’altri animali feroci. Alcune donne, che portavano le loro greggi a pascolare sulla montagna, furono testimoni di questo fatto miracoloso; presero con sé la bambina e la chiamarono Cibele, dal nome del luogo ove l’avevano trovata. La ragazza, crescendo, si fece notare per bellezza, intelligenza e spirito.
Inventò il primo flauto a diverse canne e introdusse nei giochi e nella danza i cimbali e i timpani. Compose rimedi purificanti per gli animali malati e i neonati e, poiché guariva molti bambini, che teneva tra le braccia, con canti magici, ricevette per tali buoni gesti il nome di Madre della montagna. Si dice che il suo amico più intimo fosse Marsia il Frigio, un uomo ammirato per il suo spirito e la sua saggezza.
Marsia diede una prova del suo spirito quando inventò il flauto semplice, capace di imitare da solo tutti i suoni del flauto a diverse canne, e si può valutare la sua castità dal fatto che morì senza aver conosciuto i piaceri di Venere. Tuttavia, arrivata all’età della pubertà, Cibele amò un giovane del paese, chiamato prima Attis e poi Papas.
Ebbe con lui rapporti intimi e rimase incinta, quando fu riconosciuta dai suoi genitori.

LIX
Ricondotta al palazzo del re, fu dapprima ricevuta come una vergine dal padre e dalla madre. La sua colpa fu poi scoperta e il padre fece uccidere le pastore che l’avevano nutrita, e Attis, e lasciò insepolti i loro corpi. Trasportata dall’amore per quel giovane e afflitta dalla sorte delle sue nutrici, Cibele impazzì e percorse il paese coi capelli sciolti, gemendo e battendo il tamburo. Marsia, preso dalla commiserazione, si mise a seguirla volontariamente, in ricordo dell’amicizia che un tempo le aveva portato. Arrivarono così insieme presso Dioniso a Nisa e qui incontrarono Apollo, celebre in quel tempo come suonatore di cetra.
Si pretende che Hermes sia stato l’inventore di questo strumento, ma che Apollo sia stato il primo che se ne servì con metodo. Marsia entrò in gara con Apollo per l’arte della musica, e scelsero gli abitanti di Nisa come giudici. Apollo suonò per primo sulla cetra, senza accompagnamento di canto, ma Marsia, col suo flauto, colpì maggiormente gli ascoltatori per la novità del suono e per la melodia della sua arte, se sembrò in grado di vincere di gran lunga sul rivale. Convennero di riprendere la gara e di dare ai giudici una nuova prova della loro abilità. Apollo suonò dopo il rivale e, mescolando il canto al suono della cetra, sorpassò di gran lunga il suono primitivo del flauto da solo. Marsia, indignato, protestò agli uditori la propria frustrazione contro l’ingiustizia; perché bisognava valutare l’esecuzione strumentale e non la voce, ma si trattava di sapere se fosse la cetra o il flauto a vincere per armonia e melodia del suono.
In una parola, era ingiusto impiegare due arti contro una sola. Apollo rispose, secondo quanto raccontano i mitologi, che non aveva preso alcun vantaggio su di lui; che aveva fatto come Marsia che soffiava nel suo flauto e che, affinché la lotta fosse uguale, bisognava che nessuno dei due antagonisti si servisse della bocca nell’esercizio della propria arte, oppure che entrambi non si servissero delle dita.
Gli uditori trovarono che Apollo aveva ragionato giustamente e ordinarono una nuova prova. Marsia fu vinto ancora e Apollo, che era rimasto inasprito dalla lotta, lo scorticò vivo.
Apollo tuttavia se ne pentì poco tempo dopo e, constatando quanto aveva fatto, ruppe le corde della sua cetra e fece scomparire il modo armonico che aveva inventato.
Le Muse poi ritrovarono la Mese, Linus Lichanos, Orfeo e Thamiris, Hipate e Paripate. Apollo depose nella grotta di Dioniso la sua cetra e i flauti di Marsia, divenne amante di Cibele e l’accompagnò nei suoi spostamenti sino agli Iperborei.
In quell’epoca, i Frigi erano afflitti da una malattia e la terra era sterile. Nella loro sventura, gli abitanti si rivolsero all’oracolo, che ordinò loro di seppellire il corpo di Attis e d’onorare Cibele come una dea. Ma poiché il corpo di Attis era stato interamente corroso dal tempo, i Frigi lo raffigurarono come un giovane uomo. Davanti a lui facevano grandi lamentazioni, per calmare la collera di colui che era stato ingiustamente messo a morte.
Questa cerimonia si è conservata sino ad oggi. Compiono anche sacrifici annuali in onore di Cibele sui loro antichi altari. Infine le costruirono un magnifico tempio a Pisinunte, in Frigia, e le dedicarono delle feste.

A questa solennità contribuì grandemente il re Mida. La statua di Cibele è circondata da leoni e da pantere, perché si ritiene che la dea fosse allattata da quegli animali. Ecco quello che i Frigi e gli Atlanti, che abitano sulle rive dell’Oceano, raccontano della madre degli dèi.

LX
Dopo la morte d’Hyperion, i figli d’Urano si divisero il regno. I più celebri furono Atlante e Cronos. Le terre litorali erano toccate in sorte ad Atlante, che diede il suo nome ai suoi sudditi Atlanti, e alla più alta montagna del suo paese. Atlante eccelleva nell’astrologia e fu il primo a raffigurare il mondo come una sfera. Di là viene la favola, secondo la quale Atlante porta il mondo sulle sue spalle. Atlante ebbe parecchi figli; ma Espero si distinse solo per la sua pietà, per la sua giustizia e la sua dolcezza. Salito in cima all’Atlante per osservare gli astri, Espero fu improvvisamente portato via da un vento impetuoso. Il popolo, toccato dalla sua sorte, e ricordandosi le sue virtù, gli decretò gli onori divini, e consacrò al suo nome il più brillante degli astri.
Atlante fu anche padre di sette figlie che, dal nome del padre, furono chiamate Atlantidi; i nomi di ciascuna di loro sono: Maia, Elettra, Taigete, Asterope, Merope, Alcione e Celeno. Esse si congiunsero ai più nobili degli eroi e degli dèi, e generarono figli che furono i capi di molti popoli e che in seguito divennero famosi come i loro padri.
Maia, la maggiore di tutte, ebbe da Zeus (Dia) un figlio chiamato Hermes, che fu l’inventore di parecchie arti utili agli uomini.
Le altre Atlantidi ebbero pure figli celebi; gli uni diedero la nascita a diverse nazioni, e gli altri fondarono città. Perciò non solo alcuni Barbari, ma anche i Greci, fanno discendere dalle Atlantidi la maggior parte dei loro antichi eroi.
Queste donne erano d’una saggezza notevole; dopo la loro morte, furono venerate come divinità e poste nel cielo, sotto il nome di Pleiadi. Le Atlantidi furono chiamate anche Ninfe, perché nel loro paese si chiamavano così tutte le donne.


LXI
Secondo il racconto dei mitologi, Cronos, fratello d’Atlante, si fece invece notare per la sua empietà e avarizia. Sposò sua sorella Rea, e generò Zeus (Dia), in seguito soprannominato l’Olimpico. Ci fu un altro Zeus (Dia), fratello d’Urano e re di Creta, ma era inferiore in gloria a quello che nacque dopo, perché quest’ultimo divenne padrone del mondo intero. Zeus (Dia), re di Creta, ebbe dieci figli chiamati Cureti; chiamò l’isola di Creta Idea , dal nome di sua moglie ; vi fu sepolto e si mostra ancor oggi il luogo della sua tomba.
Tuttavia i Cretesi raccontano le cose in modo differente, e vi ritorneremo parlando della storia di Creta. Cronos regnò sulla Sicilia, la Libia, e persino sull’Italia. In breve, estese il suo impero su tutti i paesi dell’Occidente. Costruì in questo paese fortezze, affidate a guardie, e fortificò tutti i punti elevati. Ecco perché si chiamano ancor oggi Saturniani (Cronou) i luoghi elevati che si vedono in Sicilia e nei paesi occidentali.
Zeus (Dia), figlio di Cronos, condusse una vita del tutto opposta a quella di suo padre; si mostrò dolce e benevolo verso gli uomini. Perciò gli uomini lo chiamarono Padre.
Succedette al comando dell’impero, sia che Cronos glie lo avesse ceduto volontariamente, sia che vi fosse stato costretto dai suoi sudditi, che lo odiavano. Zeus (Dia) vinse suo padre, che era venuto ad attaccarlo coi Titani, e s’impadronì del trono.
In seguito percorse tutta la terra per spargere i suoi benefici sulla razza degli uomini. Dotato di gran forza e di molte altre qualità, divenne ben presto padrone del mondo intero. Si sforzò di rendere felici i suoi sudditi, puniva severamente gli empi e i malvagi. Così, dopo la sua morte, gli uomini gli diedero il nome di Zeus, perché aveva insegnato loro a vivere bene. Per riconoscenza lo elevarono al cielo e gli decretarono il titolo di dio e di signore eterno di tutto l’universo. Ecco in breve quali sono le tradizioni degli Atlanti, relative all’origine degli dèi.

Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, libri III, LIII–LXI.


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