un estratto a caso ....
In Vaticano è ben noto il caso di un grosso prelato che tenne sotto scacco la curia per circa un quarantennio.
Dicevano: più lui in curia, che Carlo in Francia. Unico figlio, scoprì da adulto la vocazione al sacerdozio, che senza formazione adeguata abbracciò un po' per lassitudine e un po' per rapimento. Brigò per servire la Chiesa esattamente in segreteria di Stato, dove approdò difilato, seppure non da tutti gradito.
In forse se tenerlo o no, stette in prova presso il sostituto Giovanni Battista Montini, che se lo tenne come segretario personale e che da allora lo protesse a spada tratta, finché visse. Astuto com'era, il prelato si guadagnò la stima del suo protettore Montini con la puntigliosa precisione e rigorosità di cui andava fiero.
In curia lo conoscevano dotato di moderata pazienza nell'attendere il suo turno.
Di vita egocentrica, di carattere rigido e aspro, di intelligenza brillante, di comportamento da tiranno assoluto, costui era sbrigativo e rude nel tratto, ma generoso e a volte benevolo e comprensivo.
Aveva acquisito il difetto del suo padrone: parziale e partigiano con tutti fino alla morbosità, sia nel proteggere che nel perseguitare. Era un perfetto concentrato di virtù e difetti in giusta miscela e, si sa, in curia i vizi del superiore vengono montati, incartati e confezionati ad arte da sembrare virtù. La decadenza morale porta a quella mentale, in contrasto con la logica.
In carriera diplomatica, a Berna ebbe un incidente affettivo con una giovane suora di nunziatura, che voleva onestamente sposare. Trasferita la suora altrove, il prelato fu spedito in altra nunziatura, avanzando di livello.
Soltanto, c'era l'inconveniente che la religiosa apparteneva alla stessa congregazione di suor Pasqualina, a servizio presso Pio Dodicesimo; essa, finché stette con papa Pacelli, riuscì a tenerlo escluso dall'episcopato. Soltanto dopo morto il Papa, riposta suor Pasqualina, eletto papa Roncalli, quel desso fu fatto vescovo e nunzio.
Quando Montini da Milano divenne Paolo Sesto, l'ex suo segretario particolare dalla nunziatura egiziana gli parlò in cifra per tornare a servirlo a Roma più da vicino. Presentatosi in curia, il prelato rampante si vide offrire un dicastero non cardinalizio, che non accettò. Intanto arrivarono pure i suoi colli che aveva fatto in tempo a spedire. Rifiutò di tornare indietro. Fece sapere che aspettava ordini.
I capidicasteri, però, riferivano al Papa che non lo gradivano come segretario nel proprio ufficio. Ma Paolo Sesto, quando voleva una cosa, bucava l'interlocutore coi suoi occhi impenetrabili, sottili, come trapano al laser, così che l'altro, raggelato e inerme, accettava in silenzio.
Si dava il caso fortuito che lo stesso nunzio che lo aveva tirato fuori dal pasticcio di Berna, ora da cardinale stava a capo di un dicastero di curia. Solo lui poteva rilanciargli la scialuppa di salvataggio. L'augusto protettore consigliò al prelato rampante di raggiungere tale porporato nella sua villa bergamasca, dove trascorreva lunghi periodi di freschi ozi; parlò a nome del Papa, e il teste accettò.
Due giorni dopo "L'Osservatore Romano" pubblicava il nome del successore di monsignor Giovanni Scapinelli, che fin allora viveva trepidante i suoi giorni nel tremore delle dimissioni senza porpora. Ciò che avvenne.
Il promosso dignitario rimase a strafare in curia per ancora un ventennio, millantando appoggio e credito smisurato da parte di papa Montini. Tutti quelli di curia, compreso il potente sostituto Benelli da lui gratificato anche di fagiani reali, erano convinti che ormai da quel posto egli non sarebbe uscito che da cardinale.
Lo strapotere del promosso dignitario sfociava in plateali favoritismi e in amicizie particolari, persino con famigli di giovanile aspetto, ai limiti della decenza, dando a intendere che lui tutto poteva sul cuor di Federico. Un pomeriggio, barcollando alticcio nel corridoio d'ufficio, costui cantava di sé: «Che segretario che ci avete!».
Accompagnato a braccio dagli uscieri nel suo contiguo appartamento, riluttante lui li apostrofava quali energumeni per il poco riguardo con cui lo costringevano a rientrare in casaà
A seguito di una severa inchiesta sul suo conto, fu portato all'attenzione del Papa il risultato, ma il Pontefice non volle intervenire. Mentre Dio vuole soltanto tutto quello che può nel bene, quel prelato poteva tutto quello che voleva nel male.
Abbindolava tutti i cardinali prefetti che si succedevano nel dicastero durante il suo lungo incarico, rigirandoseli come manichini per farli entrare nell'ottica delle sue mire.
Mancavano pochi giorni dal concistoro indetto da Paolo Sesto, per la creazione dei preconizzati cardinali. Nella lista dei nuovi porporati al terzo posto figurava il nome del suo protetto ex segretario.
Il cardinale Dino Staffa, prefetto del supremo tribunale della Segnatura Apostolica, cercò di accertarsi sui fatti addebitati all'arcivescovo segretario: avutane conferma, con disappunto, battendo con stizza la mano sul ginocchio, diceva: «Eppure sarebbe stata l'occasione buona per liberare il sacro collegio da codesto personaggio. E' un insulto per tutti i suoi membri!».
Ma è noto che l'uomo propone e Dio dispone. Si era all'anno della massima svalutazione monetaria, nel 1975. La lira calava giorno dopo giorno sempre più a picco, con massima preoccupazione di chi aveva qualche gruzzolo da parte. I fortunati cercavano di trasferire all'estero la valuta italiana, cosiddetta pregiata. Alcuni però venivano fermati al confine svizzero e portati di filato in gattabuia; la stampa informava sistematicamente l'opinione pubblica proprio al fine di scoraggiare tutti gli altri dal farlo.
Per mettere al sicuro i suoi risparmi, il nostro dignitario decise di trasferirli oltre confine qualche giorno prima della sua nomina a cardinale. Un'operazione di routine e senza troppi intoppi, per lui cittadino vaticano; almeno così pensava. Si fece accompagnare da un capitano della Guardia di finanza, una stazza di bellimbusto, fratello di un monsignore del suo ufficio.
L'aitante militare dava spago al prelato soltanto per avvantaggiare la carriera del proprio fratello, il quale infatti con tanto appoggio andava per la maggiore in segreteria di Stato, che gli aveva concesso un "visa" di ambasciatore volante nei Paesi dell'est; i salamelecchi dei curiali si sprecavano verso il fortunato protetto, ormai preconizzato ad avanzamenti celesti.
Giunti, dunque, alla frontiera di Pontechiasso, un poliziotto chiese di perquisire la macchina. Il prelato, sniffando flemmatica strafottenza, esibiva il suo passaporto di servizio che lo rendeva cittadino vaticano. La guardia di frontiera, forse novellino per siffatte finezze diplomatiche, si diresse per consiglio verso il comandante in cabina, chiedendone il parere tornò imbarazzato, ma col mandato di procedere alla perquisizione. La cosa si metteva male.
Il peggior guaio s'abbatteva sul capitano della Guardia di finanza, che rischiava d'essere deferito. Vista l'inflessibilità dei colleghi frontalieri, il capitano ai poliziotti di servizio dette la versione che, per quanto lo riguardava, trattavasi di una semplice passeggiata d'accompagno fino a quel confine senza altri specifici interessi personali; era amico del prelato, gli faceva compagnia, senza ovviamente addentrarsi nello scopo della gita. Ma rimase anche lui in stato di fermo.
Di fronte alla valigia strapiena di valuta italiana e straniera il prelato dichiarò che la portava in Svizzera per conto del Vaticano. Chiedeva di mettersi in contatto telefonico con il sostituto della segreteria di Stato, monsignor Benelli, che data l'ora tarda non risultava reperibile né in casa né in ufficio. Il prelato e il capitano rimasero consegnati in camera di sicurezza tutta la notte e il giorno seguente, domenica.
Il caso divenne subito diplomatico: il Vaticano non c'entrava affatto con quel trafugamento di valuta italiana all'estero. Monsignor Benelli andò su tutte le furie; però si rendeva conto di non poter lasciare un arcivescovo segretario della curia romana in arresto con tutte le conseguenze di un susseguente scandalo. I due ministeri esteri erano allertati, compresi polizia e nunziatura.
Per trarli fuori custodia dal confine si convenne di adottare l'unica soluzione diplomatica: rilascio del prelato e dell'amico capitano, gruzzolo intatto in valigia e nessun nero sul bianco. Gli dissero soltanto: «Lei, monsignore, non è mai passato di qua, beninteso!».
Ma la stampa all'indomani pubblicava trafiletti sarcastici: un prelato perquisito e rilasciato. Per un grosso pugno di dollari e lire quanto chiasso su quel ponte. In Vaticano i sussurri montavano; un cardinale commentava mordacemente: è il caso di dire dal galero alla galera!
Frattanto, un'augusta mano suo malgrado depennava dalla lista degli eleggendi cardinali il terzo nome.
Inesorabile si faceva il declino del prelato e dei suoi protetti, depennati così dalla nidiata montiniana.
A più riprese, il decardinato chiese a quei di sopra di assegnare almeno una diocesi al suo protetto monsignore, in considerazione dei servigi resi. Non gli fu possibile: risultò che alcune scoutiste, in quel della Montanina, non approvarono la sua direzione spirituale, molto spinta, parlandone ai genitori. Rimosso il protettore, anche il protetto fu smistato ad altro dicastero, col "promoveatur ut amoveatur" che indora ogni scabrosa situazione curiale.
Si chiudeva così l'ogiva di siffatto dignitario dalla vita improntata a un'operetta sapida, dal primo all'ultimo atto. Per andarsene aspettò fino all'ultimo giorno della "Ingravescentem aetatem".
Ma non finiva lì. Occorreva che la successione fosse quanto più "soft" possibile, in modo che nell'ufficio tutto rimanesse invariato; come dire che l'inettitudine del successore avrebbe fatto risaltare l'intelligente furbizia del predecessore.
Dietro il passetto, oltre il perimetro di casa sua, in un vicolo cieco si tiene una ricca cena; i cinque grossi prelati, di cui due brisighellesi, siedono in stanzetta appartata. La solita cena di lavoro, per decidere sul candidato da designare.
Stando alle premesse, non poteva essere che l'unico incapace e inetto. Si puntò sull'ucraino, furbastro quanto una volpe e astuto come una serpe, che il governo comunista stimava fino a dargli libertà di transito in entrata e in uscita dalla sua patria: spoglia creatura che il dimissionante protettore a suo tempo fece vestire di paludamenti vescovili.
Nei momenti d'incertezza e d'indecisione quello che appare dimesso, benché "minus habens", per un verso o per l'altro ha la strada fatta per l'ascesa in carriera, meglio ancora se non è tagliato per il compito che gli si vuole affibbiare.
Designato dai cinque nel chiuso di quella remota stanzetta, la nomina apparve qualche giorno dopo con tanto di augusto consenso del sant'uomo del Papa il quale, ignaro di tutto, riteneva la successione la più naturale e indovinata.
Il nuovo segretario, privo di titoli accademici, frattanto si dava a collezionare patacche di lauree "honoris causa" presso università europee. Una collezione del genere è sempre un comodo incentivo al cardinalato in aspirazione. In tutti questi lunghi anni egli ha spiegato ai dipendenti molto bene quello che non sapeva affatto.
Se la provvisione, concertata così, fu sbrigativa, non altrettanto fu facile sbarazzarsi del peso morto del dignitario da operetta, che stagnò a lungo maleodorante.
Lo volevano regalare alla Chiesa in Ucraina; ma quei vescovi, che hanno ancora addosso la muffa dei lager e le cicatrici non rimarginate, opposero un netto rifiuto a sorbirselo da metropolita. Che sia la stessa curia romana a goderselo; tanto un cardinale in più non le fa male, adusa a ben altro.
A chi non ancora sta uscendo dalle catacombe, è meglio il vecchio che il nuovo!
Per loro il profeta Osea scriveva: «E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta».
- Storia falsa e menzognera.