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 Oggetto del messaggio: GIUSEPPE FLAVIO .AUTOBIOGRAFIA
MessaggioInviato: 30/11/2013, 02:13 
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[1] La mia famiglia non è oscura, anzi, è di discendenza sacerdotale: come presso ciascun popolo esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale.

[2] Per quanto mi riguarda, la mia famiglia non discende semplicemente da sacerdoti, ma dalla prima delle ventiquattro classi sacerdotali, il che è già di per sé un segno di distinzione, e, all’interno di questa, dalla più illustre delle tribù. Inoltre, per parte di madre sono imparentato con la famiglia reale, giacché i discendenti di Asmoneo, dei quali lei è nipote, detennero per lungo tempo il sommo sacerdozio e il regno del nostro popolo.

[3] Questa è la mia genealogia, e la esporrò. Nostro bisavolo fu Simone, soprannominato «il Balbuziente»; visse al tempo del sommo sacerdozio del figlio del sommo sacerdote Simone, al tempo cioè di colui che per primo tra i sommi sacerdoti ebbe nome Ircano.

[4] Simone il Balbuziente ebbe nove figli, dei quali uno, Mattia, chiamato «figlio d’Efeo», prese in moglie una figlia del sommo sacerdote Gionata, il primo tra gli Asmonei a rivestire il sommo sacerdozio e fratello del sommo sacerdote Simone. Durante il primo anno del regno di Ircano, a Mattia nacque un figlio, Mattia detto «il Gobbo».

[5] Da costui, nel nono anno del regno di Alessandra, nacque Giuseppe, e da Giuseppe nacque Mattia, nel decimo anno del regno di Archelao; infine, da Mattia nacqui io, il primo anno dell’impero di Gaio Cesare4. lo ho tre figli: Ircano, il più grande, nato nel quarto anno del regno dell’imperatore Vespasiano, poi Giusto, nato nel settimo, e Agrippa, nel nono.

[6] Questa è dunque la genealogia della nostra famiglia: la riproduco come l’ho trovata registrata negli archivi pubblici, con buona pace di coloro che tentano di screditarci.



2.


[7] Mio padre Mattia si segnalava non solamente per la nobiltà della stirpe, ma più ancora per la sua rettitudine, e godeva di grande reputazione a Gerusalemme, la nostra capitale.

[8] Quanto a me, mentre venivo educato insieme con Mattia, che è mio fratello sia per parte di padre che di madre, avevo raggiunto un livello di istruzione notevole, tanto da procurarmi fama di eccellenza per capacità mnemoniche e intellettive.

[9] Quand’ero ancora poco più di un bambino, all’incirca sui quattordici anni, grazie alla mia passione per lo studio ricevevo gli elogi di tutti, dato che venivo di continuo avvicinato dai sommi sacerdoti e dalle persone più importanti della città che richiedevano il mio parere per interpretazioni particolarmente sottili delle leggi.

[10] Giunto intorno ai sedici anni, volli fare esperienza delle tendenze dottrinali esistenti presso di noi, che sono tre, come ho avuto più volte modo di dire, e cioè la prima, dei Farisei, la seconda, dei Sadducei, e la terza, degli Esseni; avrei potuto scegliere la migliore, così pensavo, solo se le avessi conosciute tutte a fondo.

[11] Le praticai infatti tutte e tre, applicandomi seriamente e sottoponendomi a non poche fatiche; giudicando tuttavia insufficiente per me l’esperienza fattavi, e venuto a sapere che nel deserto viveva un tale di nome Banno, che si vestiva con quanto ricavava dagli alberi e si cibava di ciò che cresceva spontaneamente, facendo di giorno e di notte frequenti abluzioni con acqua fredda a scopo purificatorio, divenni suo emulo.

[12] Dopo tre anni trascorsi con lui, soddisfatto così il mio desiderio, ritornai in città. A diciannove anni presi dunque a vivere seguendo i precetti della scuola farisaica, che si avvicina a quella che i Greci chiamano stoica




3.

[13]. Tra i ventisei e i ventisette anni mi accadde di partire alla volta di Roma, per il motivo che ora verrà indicato. Nel periodo in cui era in carica come procuratore di Giudea, Felice aveva mandato a Roma a giustificarsi di fronte all’imperatore alcuni sacerdoti, a me noti come ottime persone, che aveva arrestato dietro accuse risibili.

[14] Io allora, volendo escogitare un modo per salvarli, soprattutto perché ero venuto a sapere che nemmeno nella disgrazia avevano dimenticato la pietà verso Dio e si nutrivano di fichi e di noci, mi recai a Roma, correndo grandi rischi durante la traversata.

[15] Infatti, colata a picco la nostra nave in mezzo all’Adriatico, in circa seicento, quanti eravamo, nuotammo per tutta la notte; al sorgere del giorno, per divina provvidenza, ci apparve una nave cirenea, e io con alcuni altri, un’ottantina di persone in tutto, che eravamo stati più svelti, fummo issati a bordo.

[16] Così, arrivato sano e salvo a Dicearchia, che gli Italici chiamano Pozzuoli, strinsi amicizia con Alituro (era un mimo, di nazionalità giudaica, assai gradito a Nerone), grazie al quale fui presentato a Poppea, la moglie dell’imperatore; allora provvidi quanto prima a scongiurarla di far liberare i sacerdoti. Ottenuto da Poppea non solo questo beneficio, ma anche grandi favori, me ne tornai in





4.

[17] Vi trovai già i primordi delle agitazioni rivoluzionarie, e molti che si scaldavano progettando la rivolta contro i Romani. lo tentai allora di calmare i sediziosi e di persuaderli a cambiare idea, aprendo loro gli occhi su chi erano coloro ai quali volevano fare la guerra, e di convincerli che non solo erano militarmente inferiori ai Romani, ma anche meno fortunati;

[18] e che non suscitassero, in maniera sconsiderata e assolutamente demenziale, il pericolo di scatenare le peggiori disgrazie contro la loro patria, le loro famiglie e loro stessi.

[19] Parlavo così, cercando insistentemente di dissuaderli, giacché prevedevo che l’esito della guerra sarebbe stato per noi catastrofico. Ma non riuscii a convincerli: ad avere la meglio fu la follia di quegli scervellati.




5.

[20] Poiché anzi ebbi paura, continuando a esprimermi in tal senso, di giungere a farmi odiare in quanto sospettato di intesa col nemico, e di correre il rischio dell’arresto e poi dell’uccisione da parte loro (era già occupata l’Antonia, che era una fortezza), mi ritirai all’interno del tempio.

[21] Uscito dal mio rifugio nel tempio dopo 1#8242;eliminazione di Menahem e dei capi della banda di terroristi io, ripresi a frequentare i sommi sacerdoti e i Farisei più eminenti.

[22] Eravamo presi da un’inquietudine irrimediabile, giacché vedevamo da una parte il popolo pronto a combattere, e noi dall’altra che non sapevamo cosa fare, non essendo comunque in grado di far cessare l’attività dei sediziosi; e dato che ci trovavamo chiaramente in pericolo, dicevamo di condividere le loro posizioni, ma consigliavamo loro di rimanere tranquilli e di lasciare che fossero i nemici ad attaccare, affinché risultasse credibile che prendevano le armi per legittima difesa.

[23] Agivamo così sperando che di lì a non molto Cestio, avanzando con un grande esercito, avrebbe posto fine all’insurrezione.




6.

[24] Ma quando egli fu arrivato ed ebbe attaccato battaglia, fu sconfitto con gravi perdite dei suoi. La sconfitta di Cestio si risolse in una sciagura per tutta la nostra nazione: i fautori della guerra ne furono ancor più esaltati e, visto che avevano vinto i Romani una volta, credevano di poterli vincere del tutto; ma era sopraggiunto anche un altro fattore, questo.

[25] Gli abitanti dei dintorni delle città di Siria catturarono e massacrarono i Giudei là residenti, compresi le donne e i bambini, senza avere alcuna accusa da imputare loro, visto che né avevano progettato alcuna sedizione antiromana, né avevano complottato ostilmente contro i Siriani stessi.

[26] Gli abitanti di Scitopoli furono quelli che fra tutti si comportarono nel modo più empio e iniquo. Avendoli infatti assaliti dei Giudei loro nemici che venivano da fuori, essi costrinsero i Giudei della loro città a prendere le armi contro i connazionali, il che per noi è illecito, e attaccando unitamente con loro sconfissero gli assalitori; ma dopo la vittoria, dimentichi delle garanzie date ai concittadini e alleati, li uccisero tutti quanti erano, diverse decine di migliaia.

[27] La stessa sorte ebbero anche i Giudei residenti a Damasco. Di loro ho però dato notizie più dettagliate nella mia opera sulla guerra giudaica; ora li ho ricordati solo con l’intento di dimostrare ai lettori che l’iniziativa della guerra contro i Romani non fu dovuta tanto ai Giudei, quanto piuttosto alla fatalità.




7.

[28]Dunque, dopo la sconfitta di Cestio di cui ho detto, le autorità di Gerusalemme vedevano che mentre i terroristi e con loro gli insorti avevano armi in abbondanza, c’era invece il timore che loro stessi, essendo senz’armi, soccombessero ai nemici, il che in effetti in seguito accadde; venuti allora a sapere che non tutta la Galilea si era ribellata ai Romani, ma che una parte della regione era ancora tranquilla,

[29] vi inviarono me e altri due degnissimi sacerdoti, Gioazaro e Giuda, con l’incarico di persuadere i malintenzionati a deporre le armi, e di convincerli che era meglio tenerle in serbo per i governanti della nazione. Costoro avevano deciso di tenere le armi sempre pronte per ogni evenienza, ma intanto di aspettare per sapere che cosa avrebbero fatto i Romani.




8.

[30]Con queste consegne, dunque, io giunsi in Galilea. Vi trovai gli abitanti di Sefforis in uno stato di non lieve preoccupazione per la loro città, giacché i Galilei avevano deciso di saccheggiarla, a causa dei sentimenti filo-romani dei suoi abitanti, dal momento che avevano promesso ufficialmente fedeltà al governatore di Siria Cestio Gallo.

[31] Io però li liberai completamente dai loro timori, dopo che ebbi riconciliato con loro la moltitudine ed ebbi ottenuto per loro di intrattenere relazioni ogni volta che lo volessero con i concittadini trattenuti a Dora come ostaggi da Cestio; la città di Dora è in Fenicia. Trovai invece gli abitanti di Tiberiade già dediti alla lotta armata, per questo motivo.




9.

[32] In città vi erano tre fazioni, una degli uomini ragguardevoli, e la guidava Giulio Capello.

[33] Costui, e tutti quelli con lui – Erode figlio di Miaro, Erode figlio di Gamalo e Compsos figlio di Compsos; invece il fratello di quest’ultimo, Crispo, che un tempo era stato un intendente del grande re, si trovava nelle sue proprietà al di là del Giordano –

[34] tutti i suddetti, insomma, erano del parere, in quella circostanza, di mantenersi fedeli ai Romani e al re. Non condivideva invece quest’opinione Pistos, vuoi istigato da suo figlio Giusto, vuoi per la sua naturale mancanza di equilibrio.



[35] La seconda fazione invece, composta di uomini senza alcun peso, aveva deciso per la guerra.

[36] Quanto a Giusto, il figlio di Pistos, a capo della terza fazione, fingeva di essere indeciso riguardo alla guerra, ma in realtà covava velleità rivoluzionarie, ritenendo di poter trarre dal rivolgimento del potere per sé.

[37] Fattosi dunque avanti, tentava di dimostrare alla folla che la città aveva sempre avuto una posizione di predominio in Galilea, almeno ai tempi di Erode il Tetrarca, il quale ne era stato il fondatore e aveva voluto che la città di Sefforis dipendesse da Tiberiade; e che loro, i cittadini di Tiberiade, non avevano perduto questo primato nemmeno sotto il re Agrippa Padre, ma l’avevano mantenuto fino al tempo del procuratore di Giudea Felice.

[38] Ora invece, diceva, era toccata loro la sfortuna di essere stati dati in dono da Nerone ad Agrippa il Giovane; così, subito dopo che si era sottomessa ai Romani, Sefforis aveva assunto un ruolo predominante in Galilea, mentre da loro, a Tiberiade, erano stati rimossi la banca reale e gli archivi.

[39] Dicendo queste cose contro il re Agrippa, e molte altre ancora, per incitare il popolo alla rivolta, aggiunse che quello era il momento di prendere le armi e, dopo essersi associati come alleati i Galilei (costoro infatti avrebbero acconsentito a lasciare loro il comando, a causa dell’odio che avevano per gli abitanti di Sefforis, i quali si mantenevano fedeli ai Romani), di vendicarsi dei Sefforitani per mezzo di un grande numero di uomini.

[40] Con queste parole mise in subbuglio la moltitudine; era infatti un abile demagogo, in grado di sopraffare con l’astuzia e il fascino della sua retorica anche gli argomenti migliori di chi lo contraddiceva. Del resto, non era sprovvisto di cultura greca, confidando audacemente nella quale intraprese a scrivere una storia di questi avvenimenti, credendo di poter avere la meglio sulla verità grazie alla sua eloquenza.

[41] Ma a proposito di quest’uomo, col procedere della narrazione mostrerò quanto spregevole sia stata la sua vita e come praticamente sia stato lui, insieme con suo fratello, il responsabile dell’inizio della catastrofe.

[42] In quella occasione Giusto, dopo aver convinto i cittadini a prendere le armi e avendovi costretto anche coloro che erano contrari, partito alla testa di tutti costoro incendiò i villaggi di Gadara e Hippos, che si trovavano prossimi al territorio di Tiberiade e a quello di Scitopoli.




10.

[43]Questa era pertanto la situazione di Tiberiade. A Giscala invece le cose stavano casi: Giovanni figlio di Levi, vedendo che alcuni cittadini erano esaltati all’idea della ribellione ai Romani, si adoperava per calmarli e pretendeva che si mantenessero fedeli.

[44] Tuttavia, nonostante il suo impegno appassionato, non vi riuscì. Infatti le genti dei dintorni, Gadaresi e Gabaresi, Soganei e Tirii, raccolte forze considerevoli e attaccati gli abitanti di Giscala, presero la città con la forza; la incendiarono, poi la rasero al suolo e fecero ritorno alle loro sedi.

[45] Giovanni allora, reso furente dall’accaduto, armò tutti i suoi concittadini e, guidatoli all’attacco contro le genti nominate sopra, le sconfisse; ricostruita quindi Giscala con maggiori difese, per sua futura sicurezza la provvide di fortificazioni.




11.

[46]Gamala invece restò fedele ai Romani, per il seguente motivo. Filippo figlio di Jachim, intendente del re Agrippa, dopo essersi miracolosamente salvato con la fuga dall’assedio del palazzo reale di Gerusalemme, era incorso in un altro pericolo, tanto che rischiò di essere eliminato da Menahem e dalla sua banda di briganti;

[47] ma alcuni Babilonesi imparentati con lui che si trovavano a Gerusalemme impedirono ai briganti di procedere all’esecuzione. Filippo dunque, dopo essere rimasto laggiù per quattro giorni, il quinto si diede alla fuga, utilizzando una parrucca per non farsi riconoscere. Giunto poi in uno dei villaggi sotto la sua giurisdizione, situato ai confini del territorio della fortezza di Gamala, mandò ad alcuni dei suoi uomini l’ordine di recarsi da lui.

[48] Ma la provvidenza divina fortunatamente lo ostacolò nel suo progetto; se infatti ciò non fosse avvenuto, egli sarebbe certamente morto. Colpito da un improvviso attacco di febbre, scrisse una lettera ai giovani Agrippa e Berenice e la diede a uno dei suoi liberti che la recapitasse a Varo.

[49] Quest’ultimo era a quel tempo l’amministratore del regno dietro incarico dei sovrani; essi, volendo incontrarsi con Cestio, si erano recati a Berito.

[50] Varo dunque, ricevuta la lettera di Filippo e venuto così a sapere che egli si era salvato, se ne ebbe a male, comprendendo che i suoi servigi sarebbero in futuro apparsi inutili ai sovrani, dal momento che arrivava Filippo. Avendo dunque trascinato di fronte alla folla il latore della lettera e accusatolo di averla falsificata, sostenendo che quello aveva mendacemente annunciato che Filippo a Gerusalemme stava combattendo con i Giudei contro i Romani, lo mise a morte.

[51] Nel frattempo Filippo non sapeva spiegarsi come mai il suo liberto non facesse ritorno; inviò allora un secondo messaggero, che tornasse a riferirgli che cosa mai era accaduto al primo inviato e per quale motivo egli tardava.

[52] Ma, al suo arrivo, Varo condannò a morte anche lui con accuse infondate. Era infatti stato condotto a nutrire ambizioni smodate dai Siriani di Cesarea, i quali andavano dicendo che Agrippa sarebbe stato messo a morte dai Romani in seguito a denunce dei Giudei, e che allora il regno sarebbe stato suo, visto che era di discendenza regale. Che Varo fosse di lignaggio regale, in quanto discendente del tetrarca del Libano Soemo, era un fatto universalmente accettato.

[53] Dunque Varo, accecato da queste ambizioni, tenne per sé le missive, cercando di non farle capitare in mano al re, e fece sorvegliare tutte le uscite della città, in modo che nessuno corresse a raccontare al re il suo operato. Inoltre, per ingraziarsi i Siriani di Cesarea, fece uccidere parecchi Giudei.

[54] Volle anche, armate delle truppe in accordo con gli abitanti della Traconitide in Batanea, condurre una spedizione contro i Giudei «Babilonesi», come erano chiamati, di Ecbatana.

[55] Convocati allora i dodici Giudei più eminenti di Cesarea, ordinò loro di recarsi a Ecbatana per comunicare questo ai loro connazionali residenti laggiù: «Varo, pur non prestando fede a ciò che ha udito di voi, che cioè state per marciare contro il re, ci ha mandati a intimarvi di deporre le armi; il vostro consenso costituirà per lui la prova che ha agito bene non dando credito alle voci su di voi».

[56] Aveva anche ordinato che gli mandassero i settanta cittadini più autorevoli a discolparsi dell’accusa mossa contro di loro. Così i dodici, recatisi dai connazionali di Ecbatana, e constatato che quelli non avevano alcuna intenzione rivoluzionaria, li convinsero a inviare i settanta rappresentanti.

[57] Ed essi li inviarono poiché non avevano assolutamente sospettato ciò che stava per capitare loro. Così quelli scesero verso Cesarea insieme con i dodici ambasciatori. Allora Varo, fattosi loro incontro con l’esercito reale, li massacrò tutti, compresi gli ambasciatori, e si mise in marcia contro i Giudei di Ecbatana.

[58] Tuttavia uno dei settanta, che si era salvato, riuscì a precederlo avvertendoli, e quelli, armatisi, si ritirarono con le mogli e i figli nella fortezza di Gamala, abbandonando i loro villaggi abbondantemente riforniti e ricchi di migliaia di capi di bestiame.

[59] Filippo, venuto a conoscenza di ciò, si recò anch’egli alla fortezza di Gamala; al suo arrivo, la folla lo esortò a gran voce a prendere lui il comando, e a combattere contro Varo e contro i Siriani di Cesarea; si era infatti diffusa la voce che il re fosse stato assassinato da costoro.

[60] Filippo dal canto suo cercava di calmare gli ardori, rammentando loro i benefici ricevuti dal re e insistendo sulle dimensioni della potenza dei Romani; contro costoro, continuava a dire, non conveniva sollevare una guerra, e alla fine riuscì a convincerli.

[61] Il re intanto, venuto a sapere che Varo era in procinto di massacrare in un solo giorno migliaia e migliaia di Giudei di Cesarea, compresi le donne e i bambini, lo richiamò presso di sé mandando a sostituirlo Equo Modio, come ho spiegato altrove. Così Filippo mantenne il comando della fortezza di Gamala e del territorio circostante, che rimasero fedeli ai Romani.




12.

[62] Io, dopo che fui giunto in Galilea e venni informato di questa situazione, la riferii per iscritto ai membri del Sinedrio di Gerusalemme, chiedendo le loro istruzioni sul da farsi. Essi mi mandarono a dire di rimanere sul posto e di provvedere alla Galilea, trattenendovi anche i miei colleghi di delegazione, se lo volevano.

[63] I miei colleghi però, provvisti del molto denaro delle decime consegnate loro, che in quanto sacerdoti ricevevano di diritto, avevano deciso di tornarsene a casa; ma, alla mia richiesta di restare finché non avessimo ristabilito la situazione, si convinsero.

[64] Partito dunque con loro dalla città di Sefforis, giunsi in un villaggio chiamato Bethmaus, che dista da Tiberiade quattro stadi; inviati di lì dei messaggeri ai membri del consiglio di Tiberiade e ai rappresentanti del popolo cittadino, li invitai a recarsi da me.

[65] Al loro arrivo (con loro era venuto anche Giusto), dissi che ero stato inviato presso di loro dal governo di Gerusalemme in qualità di ambasciatore, insieme con i miei colleghi, per ottenere la distruzione del palazzo fatto costruire da Erode il Tetrarca, che conteneva raffigurazioni di esseri viventi, mentre le nostre leggi vietano di costruire alcunché di simile; insistevo dunque affinché ci permettessero di procedere il più presto possibile.

[66] I compagni di Capella e gli altri notabili tergiversarono a lungo nella loro decisione, ma, costretti da noi, acconsentirono. Tuttavia a precederci fu Gesù figlio di Saffia, di cui si è detto che capeggiava il partito sovversivo dei marinai e dei nullatenenti, il quale, presi con sé alcuni Galilei, appiccò il fuoco a tutto il palazzo, pensando di poterne trarre un ricco bottino, giacché aveva visto che i soffitti di alcune sale erano ricoperti d’oro.

[67] Agendo contro la nostra volontà, perpetrarono un notevole saccheggio; noi d’altronde, dopo l’incontro con Capella e i rappresentanti di Tiberiade, ci eravamo mossi da Bethmaus alla volta dell’Alta Galilea. Allora gli uomini di Gesù massacrarono tutti i loro concittadini greci e quanti prima della guerra erano stati loro nemici.




13.

[68] Appreso l’accaduto, io montai su tutte le fu-rie, e ridisceso a Tiberiade mi misi energicamente a recuperare dagli autori del saccheggio tutto ciò che potevo degli arredi reali. Vi erano candelabri di fattura corinzia, tavoli reali e una considerevole quantità di argento non coniato: decisi di conservare per il re tutto quello che ero riuscito a prendere.

[69] Così, fatti venire i dieci uomini più autorevoli del consiglio, tra cui Capella figlio di Antillo, affidai loro le suppellettili, intimando di non consegnarle a nessuno fuorché a me.

[70] Quindi mi recai con i miei colleghi a Giscala, da Giovanni, poiché volevo conoscere le sue intenzioni. Mi accorsi subito che era bramoso di rivolgimenti e che aveva forti ambizioni di comando.

[71] Infatti mi chiese di autorizzarlo a impadronirsi del grano imperiale giacente nei villaggi dell’Alta Galilea: diceva che voleva impiegarne il ricavato per riparare le mura della sua città.

[72.] Io però, avendo capito i suoi progetti e quel che aveva in mente di fare, gli negai l’autorizzazione. Invece, in base all’autorità su quelle zone che mi era stata conferita dal governo di Gerusalemme, pensavo o di conservare il grano per i Romani, o di tenerlo per me.

[73] Non riuscendo pertanto a convincere me delle sue intenzioni, si rivolse ai miei colleghi; essi non si davano affatto pensiero delle conseguenze future ed erano assai disponibili ad accettare del denaro. Così, corrompendoli, li indusse a votare che tutto il grano che si trovava nel suo distretto fosse consegnato a lui. E io, solo e in minoranza contro due, dovetti lasciare perdere.

[74] Giovanni aggiunse anche un secondo imbroglio. Affermò infatti che i Giudei residenti a Cesarea di Filippo, là trattenuti per ordine del re da Modio, il quale era l’amministratore generale del regno, gli avevano mandato a chiedere, trovandosi sprovvisti di olio puro per il loro fabbisogno, che provvedesse a procurarne loro una provvista, per evitare che, spinti dalla necessità, trasgredissero le leggi usando dell’olio greco.

[75] Di certo Giovanni non parlava così per autentico scrupolo religioso, ma per evidentissima cupidigia. Giacché sapeva che da loro, a Cesarea, due sestieri d’olio si vendevano per una dracma, mentre a Giscala con quattro dracme si avevano ottanta sestieri, inviò laggiù tutto l’olio disponibile, apparentemente dietro mia autorizzazione;

[76] gliel’avevo concessa non perché fossi d’accordo, ma per paura della folla, temendo di venir lapidato in caso mi fossi opposto. Così, con il mio consenso, da questo imbroglio Giovanni ricavò grandi profitti.




14.

[77]Avendo lasciato che i miei colleghi partissero da Giscala per Gerusalemme, mi preoccupai di procurare il rifornimento delle armi e il rafforzamento delle fortificazioni delle città. Fatti venire da me i più audaci dei briganti, mi accorsi che era impossibile togliere loro le armi; allora convinsi il popolo ad assoldarli, dicendo che era meglio pagare volontariamente a quelli una modesta mercede piuttosto che lasciarsi razziare da loro le proprietà.

[78] Ottenuta dietro loro giuramento l’assicurazione che non sarebbero entrati in quel territorio a meno che non vi fossero stati chiamati, o non avessero ricevuto il compenso pattuito, li congedai, non prima di aver intimato loro di non attaccare né i Romani né le popolazioni vicine: mia principale preoccupazione era infatti mantenere la pace in Galilea.

[79] Volendo altresì, col pretesto della mia amicizia, trattenere come ostaggi, a garanzia della lealtà della regione, i personaggi più autorevoli della Galilea, in tutto circa una settantina, ne feci degli amici e dei compagni di viaggio; me li affiancai nei processi ed emisi le sentenze tenendo conto del loro parere, cercando di non commettere ingiustizia per avventatezza e di mantenermi immune da qualsiasi forma di corruzione al riguardo.




15.

[80] Avevo allora circa trent’anni, un’età nella quale, anche se uno si tiene lontano dalle passioni illecite, gli è difficile sfuggire alle calunnie dell’invidia, specialmente se si trova in una posizione di grande responsabilità; eppure, io rispettai la virtù di tutte le donne, e respinsi qualunque donativo come se non sapessi che farmene: non accettai neppure di prendere da chi me le portava le decime che, in quanto sacerdote, mi erano dovute.

[81] Tuttavia, dopo la vittoria sui Siriani che abitavano nelle città del circondario, presi una parte del bottino, e ammetto che la mandai a Gerusalemme ai miei parenti.

[82] Benché inoltre avessi preso con la forza due volte Sefforis, quattro volte Tiberiade, e una volta Gabara; e nonostante avessi avuto più volte in mio potere Giovanni, che aveva complottato contro di me, non punii né lui né nessun altro delle popolazioni suddette, come il corso della narrazione dimostrerà.


[83] Ritengo che questo sia il motivo per cui Dio mi ha salvato dalle loro mani (a Lui infatti non sfuggono coloro che compiono il loro dovere) e poi mi ha protetto dai molti pericoli nei quali ero caduto; ma di ciò parlerò più avanti.



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16.

[84] L’attaccamento e la fedeltà nei miei confronti della gente di Galilea era tale che, benché le loro città fossero state espugnate e le loro donne e i loro figli presi in schiavitù, non si addoloravano per le loro sventure tanto quanto si preoccupavano della mia salvezza.

[85] Rendendosene conto, Giovanni ardeva d’invidia; e mi scrisse chiedendomi il permesso di scendere a Tiberiade a frequentare le acque termali, per una cura sanitaria.

[86] lo non glielo impedii, non sospettando assolutamente che stesse per compiere un qualche imbroglio; anzi, scrissi personalmente a coloro ai quali avevo affidato l’amministrazione di Tiberiade, che preparassero una sistemazione per Giovanni e per la sua scorta e li provvedessero in abbondanza di tutto il necessario. A quel tempo io mi ero stabilito in un villaggio della Galilea che è chiamato Cana.




17.

[87] Ma Giovanni, giunto nella città di Tiberiade, cercava di convincerne gli abitanti a tradire la loro fedeltà a me per passare dalla sua pane. Parecchi, quelli sempre ansiosi di novità rivoluzionarie, che erano per natura inclini ai rivolgimenti e felici di ribellarsi, accolsero con gioia il suo invito;

[88] Giusto e suo padre Pistos, più di tutti, si affrettarono a staccarsi da me per passare a Giovanni. lo però riuscii a ostacolarli prevenendoli.

[89] Infatti giunse da me un messaggero di Sila, che io avevo nominato governatore di Tiberiade, come già dissi, annunciandomi le intenzioni dei Tiberiesi ed esortandomi a non perdere tempo: se avessi indugiato, la città sarebbe caduta in potere altrui.

[90] Dunque, letto il messaggio di Sila, presi con me duecento uomini e marciai per tutta la notte, dopo aver mandato avanti un messaggero che annunciasse il mio arrivo agli abitanti di Tiberiade.

[91] All’alba, mentre mi avvicinavo alla città, mi si fece incontro la folla, e Giovanni con essa; e dopo avermi salutato, in stato di totale turbamento, giacché temeva, a un esame della sua condotta, di trovarsi in pericolo di vita, si ritirò in fretta nei suoi alloggi.

[92] Allora io, recatomi allo stadio, dopo aver lasciato in libertà tutte le mie guardie del corpo tranne una e tenuto con me anche altri dieci soldati, mi misi ad arringare la folla di Tiberiade, stando ritto su di un modesto rilievo del terreno, e li esortai a non essere così pronti a ribellarsi;

[93] una simile volubilità sarebbe infatti stata controproducente per loro, e avrebbe causato in un futuro comandante il fondato sospetto che essi non gli sarebbero stati fedeli.




18.

[94] Non avevo ancora finito di parlare, che udii uno dei miei uomini incitarmi a scendere: non era per me il momento di preoccuparmi della lealtà dei Tiberiesi, ma della mia salvezza personale, e di come sarei sfuggito ai nemici.

[95] Giovanni aveva mandato i suoi più fedeli soldati, scelti fra i mille che aveva con sé, e aveva ordinato loro di uccidermi, quando era venuto a sapere che ero rimasto solo con pochi intimi.

[ 96] Gli emissari giunsero, e avrebbero eseguito il loro incarico, se io non fossi saltato giù in fretta dal monticello insieme con Giacobbe, la mia guardia del corpo, e non fossi stato raccolto da un certo Erode di Tiberiade; accompagnato poi da costui fino al lago, presa una barca, vi salii, e giunsi a Tarichea sfuggendo contro ogni aspettativa ai nemici.




19.

[97]Gli abitanti di questa città, come seppero del tradimento dei Tiberiesi, ne furono fortemente adirati. Prese dunque le armi, mi chiedevano di guidarli contro quelli; affermavano infatti di voler vendicare il loro generale.

[ 98] Diffusero la notizia dell’accaduto anche fra tutti gli abitanti della Galilea, dandosi con grande impegno a sollevare anche quelli contro i Tiberiesi, e li incitavano a raccogliersi numerosi e a recarsi da loro, per mettere in opera le loro decisioni sotto la guida del generale

[99] Così i Galilei arrivarono da ogni dove, numerosi e armati, e mi esortavano ad attaccare Tiberiade, a prenderla con la forza e, dopo averla rasa al suolo, a fame schiavi gli abitanti compresi le donne e i bambini; dello stesso tenore erano i consigli dei miei amici che si erano salvati fuggendo da Tiberiade.

[100] Io però non ne condividevo i propositi, giacché giudicavo criminale scatenare una guerra fratricida. Ritenevo che la contesa non dovesse andare oltre lo scontro verbale; inoltre, facevo presente che un’azione di quel tipo non avrebbe recato loro alcun vantaggio, visto che i Romani aspettavano soltanto che essi si autoeliminassero in lotte intestine. Con queste parole riuscii a smontare la furia dei Galilei.




20.

[101] Giovanni, giacché il suo complotto era fallito, iniziò a temere per la sua vita e, presi gli armati che aveva con sé, mosse da Tiberiade alla volta di Giscala, e mi scrisse per giustificarsi di quanto aveva fatto, dicendo che era avvenuto contro la sua volontà; mi pregava di non nutrire alcun sospetto nei suoi confronti, aggiungen­do giuramenti e imprecazioni terribili, con i quali pensa­va di rendere credibile il messaggio che mi mandava.




21.

[102] Ma i Galilei (ne erano arrivati molti altri an­cora in armi da tutta la regione), sapendo che quell’uo­mo era malvagio e spergiuro, mi incitavano a condurli contro di lui, affermando di voler annientare sia lui che Giscala.

[103] Io allora dichiarai la mia gratitudine per il loro attaccamento verso di me, e affermai che avrei sapu­to superare la loro devozione; tuttavia, li esortavo a trat­tenersi, pregandoli e chiedendo loro di comprendermi, giacché avevo stabilito di comporre le contese senza spar­gimenti di sangue. Essendo così riuscito a persuadere la moltitudine dei Galilei, mi recai a Sefforis.




22.

[104] Gli abitanti di questa città, avendo deciso di rimanere fedeli a Roma, e temendo il mio arrivo, cerca­rono di mantenersi al sicuro deviando altrove la mia at­tenzione.

[105] Così, con l’invio di un messaggio, promi­sero a Gesù, il capobrigante ai confini del territorio di Tolemaide, di dargli una notevole somma di denaro se avesse acconsentito a muovere guerra contro di noi con la sua truppa, che contava ottocento uomini.

[106] Quel­lo, avendo dato retta alle loro promesse, decise di piom­barci addosso mentre eravamo impreparati e all’oscuro di tutto. Mandatomi dunque un messaggio, mi domandò di autorizzarlo a venirmi a presentare i suoi omaggi. Do­po che io ebbi acconsentito (ero infatti del tutto ignaro del complotto), mosse rapidamente contro di me con la sua banda di briganti.

[107] Non gli riuscì tuttavia di por­tare a termine la sua azione scellerata; quando infatti già si stava avvicinando, uno dei suoi, un disertore, venne a svelarmi il suo piano. Avute queste informazioni, io mi recai nella piazza del mercato, mostrando di ignorare il complotto. Mi seguivano parecchi Galilei armati, e anche alcuni Tiberiesi.

[108] Avendo quindi dato l’ordine di sorvegliare con la massima accuratezza tutte le strade, in­timai alle sentinelle delle porte di permettere l’ingresso al solo Gesù, quando si fosse presentato, e ai capi, ma di chiudere fuori gli altri, respingendoli a botte se avessero usato la forza.

[109] Avendo quelli eseguito i miei ordini, Gesù entrò con pochi uomini; e al mio comando di de­porre subito le armi, perché se avesse disobbedito sareb­be morto, vedendo che i soldati lo circondavano da ogni parte, terrorizzato obbedì. Alla notizia del suo arresto, quelli del suo seguito che erano rimasti chiusi fuori si die­dero alla fuga.

[110] Allora io, preso Gesù in disparte, gli dissi che non ignoravo il complotto ordito contro di me, e nemmeno da chi era stato diretto, ma che gli avrei tut­tavia perdonato il suo comportamento se lui fosse stato intenzionato a pentirsi e a essere leale con me.

[111] Poi­ché egli prometteva di farlo, lo lasciai andare, conceden­dogli di ricostituire la truppa che aveva prima. Minacciai invece di punire i Sefforitani, se non avessero desistito dal loro comportamento sconsiderato.




23.

[112] In quel periodo giunsero da me due alti per­sonaggi della Traconitide, sudditi del re, con i loro ca­valli, le armi e il denaro che portavano via con sé.

[113] Dato che i Giudei pretendevano che si facessero circonci­dere, se volevano vivere accanto a loro, io non permisi che vi fossero obbligati con la forza, sostenendo che cia­scuno dovrebbe onorare Dio secondo la propria inclina­zione e non perché costretto, e che bisognava che costoro non si pentissero di essersi venuti a rifugiare da noi in cerca di sicurezza. La folla si lasciò convincere; e io pro­curai ai nuovi arrivati, in abbondanza, tutto ciò di cui fa­cevano uso nel loro modo di vita abituale.




24.

[114] Il re Agrippa inviò allora delle truppe sotto il comando di Equo Modio a distruggere la fortezza di Gamala. Poiché i soldati mandati allo scopo non erano in numero sufficiente a circondare la fortezza, presa po­sizione nei luoghi scoperti iniziarono l’assedio di Gama­la.

[115] Il decurione Ebuzio, al quale era stato affidato il comando sulla Grande Pianura, avendo sentito dire che io mi trovavo a Simonias, un villaggio situato sulla fron­tiera della Galilea, distante sessanta stadi da lui, con i cento cavalieri e i circa duecento fanti che aveva a dispo­sizione, e in più gli abitanti di Gaba come ausiliari, mar­ciando di notte giunse al villaggio dove mi ero stabilito.

[116] Ma dato che io gli schierai contro a mia volta delle forze imponenti, Ebuzio tentò di spingerei verso il piano, giacché confidava parecchio nella sua cavalleria; noi pe­rò non ci facemmo attirare. Io infatti, comprendendo che i cavalieri sarebbero stati avvantaggiati su di noi, vi­sto che eravamo tutti appiedati, se fossimo scesi sul terre­no pianeggiante, decisi di attaccare i nemici sul posto.

[117]Per un certo periodo Ebuzio e i suoi ci tennero testa valorosamente; vedendo però che in quel luogo la sua ca­valleria era inutile, egli ripiegò senza aver ottenuto alcun risultato verso la città di Gaba, lasciando tre uomini sul campo di battaglia.

[118] Io lo seguii tallonandolo, con duemila soldati; giunto nei pressi di Bessaraba, una città prossima al territorio di Tolemaide e distante venti sta­di da Gaba, dove era attestato Ebuzio, piazzai i soldati all’esterno del villaggio, con l’ordine di sorvegliare atten­tamente le strade, per evitare che i nemici potessero di­sturbarci mentre portavamo via il grano

[119] (ve ne era una grande quantità, di proprietà della regina Berenice, raccolto a Bessaraba dai villaggi dei dintorni); dopo che ebbi caricato i numerosi cammelli e asini che mi ero por­tato dietro, inviai il grano in Galilea.

[120] Fatto questo, invitai Ebuzio allo scontro; al suo rifiuto (era stato colpito dalla nostra prontezza e audacia), mi rivolsi contro Neapolitano, avendo sentito dire che stava facendo scor­rerie nel territorio di Tiberiade.

[121] Neapolitano era il comandante di uno squadrone di cavalleria ed era stato incaricato di difendere Scitopoli dai nemici. Avendogli dunque impedito di infliggere danni ulteriori a Tiberia­de, passai a occuparmi della Galilea.




25.

[122] Ma quando Giovanni figlio di Levi, il quale, come ho detto, si trovava a Giscala, venne a sapere che tutto procedeva secondo i miei desideri, che ero oggetto delle simpatie dei miei uomini e del timore dei miei nemi­ci, non ne fu affatto contento, anzi, ritenendo che i miei successi fossero la sua rovina, fu preso da un’invidia sen­za limiti.

[123] E con la speranza di far cessare la mia buo­na sorte instillando nei miei seguaci l’odio per me, cercò di convincere ad abbandonarmi e a passare dalla sua par­te sia gli abitanti di Tiberiade e di Sefforis, sia anche quelli di Gabara (sono le tre città più importanti della Galilea); sosteneva infatti che sarebbe stato un coman­dante migliore di me.

[124] I Sefforitani non lo seguirono (in realtà, non diedero retta né a me né a lui, visto che avevano scelto la sottomissione ai Romani); quanto ai Tiberiesi, non aderirono alla rivolta, ma acconsentirono a stringere un patto d’amicizia con lui. Invece i Gabareni passarono a Giovanni; a istigarli fu Simone, un perso­naggio eminente in città, che era amico e fautore di Gio­vanni.

[125] Essi all’apparenza non ammettevano certo la loro defezione: infatti erano terrorizzati dai Galilei, dato che avevano già più volte avuto prova della loro devozio­ne nei miei confronti; però complottavano di nascosto, attendendo il momento opportuno. Fu così che io incorsi in un gravissimo pericolo, per questo motivo.




26.

[126] Alcuni audaci giovani, originari di Dabaritta, avendo teso un agguato alla moglie di Tolemeo, il ministro del re, che percorreva la Grande Pianura dal territorio soggetto al re verso la regione sotto il dominio romano, accompagnata da un grande seguito e con la scorta di qualche cavaliere, piombarono all’improvviso sul corteo;

[127] costrinsero la donna a fuggire, e arraffa­rono tutto quanto ella portava con sé. Vennero quindi a Tarichea, da me, spingendo quattro muli stracarichi di vesti e di suppellettili varie, compresi una notevole quan­tità d’argento e cinquecento pezzi d’oro.

[128] Benché io volessi custodire il tutto per Tolemeo, visto che era un connazionale, e le nostre leggi proibiscono di derubare perfino i nemici, a quelli che avevano portato il bottino dissi che bisognava conservarlo, affinché col suo ricava­to si potesse provvedere al restauro delle mura di Gerusa­lemme.

[129] Ma i giovani se ne ebbero a male, non aven­do ottenuto dalla spartizione del bottino quanto si erano ripromessi, e girando nei villaggi dei dintorni di Tiberiade, andavano dicendo che io avevo intenzione di conse­gnare la loro regione ai Romani;

[130] e che avevo usato con loro l’astuzia di dire che avrei conservato i proventi della rapina per il restauro delle mura della città di Geru­salemme, mentre avevo già deciso di restituire al proprie­tario gli oggetti rubati.

[131] In effetti almeno in questo non avevano male interpretato le mie intenzioni; infatti, non appena essi se ne furono andati, fatti chiamare Dassione e Gianneo figlio di Levi, due eminenti personaggi che appartenevano alla cerchia degli intimi del re, ordi­nai loro di prendere gli oggetti del furto e di recapitarli a lui, sotto la minaccia di metterli a morte se ne avessero fatto parola con qualcun altro.




27.

[132] Poiché si era ormai diffusa per tutta la Galilea la voce secondo la quale io ero intenzionato a conse­gnare la regione ai Romani, e tutti si erano scatenati a chiedere il mio castigo, gli abitanti di Tarichea, che ave­vano anch’essi preso per vere le affermazioni dei giovani, persuasero le mie guardie del corpo e i miei soldati ad ab­bandonarmi mentre dormivo e a recarsi rapidamente all’ippodromo, per discutervi con tutti gli altri della con­dotta del generale.

[133] Lasciatisi dunque anch’essi con­vincere e unitisi agli altri, trovarono già riunita una gran­de folla, e la decisione che tutti gridavano era una sola, punire lo scellerato che li aveva traditi.

[134] A incendiare i loro animi era principalmente Gesù figlio di Saffia, che allora ricopriva la massima carica di Tiberiade, un indi­viduo squallido, fornito di una naturale inclinazione a ingarbugliare le situazioni già difficili, un sobillatore e un rivoluzionario quant’altri mai. In quell’occasione, fattosi avanti con le leggi di Mosè tra le mani,

[135] disse: «Cittadini, se per quanto vi riguarda non riuscite a odia­re Giuseppe, rivolgete lo sguardo alle leggi patrie, che il vostro comandante supremo si apprestava a tradire, e in loro nome accusate la gravità del crimine, e punite chi ha osato tanto!».




28.

[136] Dette queste parole, che la folla aveva ap­plaudito rumoreggiando, con alcuni uomini armati si di­resse in fretta verso la casa dove alloggiavo, per uccider­mi. Io, non rendendomi conto di nulla, ero caduto ad­dormentato per la fatica prima dei disordini.
[137] Simone, l’incaricato di guardia alla mia persona e l’unico a es­sere rimasto con me, visto l’accorrere dei cittadini mi svegliò e mi mise al corrente del pericolo incombente; e mi consigliò di morire nobilmente per mano sua, prima che arrivassero i nemici a costringermi o a uccidermi essi stessi.

[138] Così diceva, ma io, affidata a Dio la mia sorte, mi mossi per andare incontro alla folla. Così, cambiato il mio abito con una veste nera e appesami la spada al collo, presi una strada diversa, dove pensavo che nessuno dei nemici mi si sarebbe parato davanti, in direzione dell’ippodromo; comparsovi all’improvviso, mi gettai al suolo, imbevendo la terra di lacrime, e mossi tutti a compassione.

[139] Resomi conto del mutato atteggia mento della folla, cercai di dividerne le opinioni prima che gli armati facessero ritorno da casa mia. Ammisi che dal loro punto di vista, ero colpevole, ma chiesi di poter prima spiegare quale scopo tenevo in disparte il dena­ro ricavato dalla rapina, e poi, se lo volevano, mi ucci­dessero pure.

[140] Quando la folla mi stava ordinando di parlare, sopraggiunsero gli armati che, non appena mi videro, accorsero per uccidermi. Poiché però la folla inti­mava loro di fermarsi, obbedirono, attendendosi tutta­via di giustiziarmi come reo confesso di tradimento, do­po che avessi confessato pubblicamente di aver conserva­to il denaro per il re.




29.

[141] Allora, nel silenzio generale, dissi: Compa­trioti, se è giusto che io muoia, non chiederò pietà; ma, prima di morire, voglio dirvi la verità.

[142] Sapendo che questa città è assai ospitale con gli stranieri e che è affol­lata da un grande numero di persone che, lasciati i loro luoghi d’origine, sono venute di buon grado a dividere il loro destino con il nostro, mi ero proposto di costruire delle mura con questo denaro, per il quale siete così indi­gnati, benché fosse destinato alla loro erezione».

[143] A queste parole, da parte dei Taricheesi e degli stranieri si levarono le, voci di chi approvava e mi invitava a ripren­dere coraggio, mentre i Galilei e i Tiberiesi permanevano nell’ostilità; tra loro scoppiò anche una rissa, perché gli uni minacciavano di farmela pagare, gli altri [mi invita vano] a non curarmene.

[144] Ma quando annunciai an­che che avrei fatto erigere mura sia a Tiberiade, sia nelle altre loro città che ne avevano necessità, datami la loro fiducia si ritirarono ciascuno a casa propria. E così, sfug­gito contro ogni aspettativa al pericolo che ho narrato, ritornai a casa con i miei amici e venti uomini armati.




30.

[145] Ma nuovamente i briganti e i promotori del­la rivolta, temendo che facessi loro pagare quanto aveva­no commesso, raccolti seicento uomini armati vennero alla casa dove alloggiavo con l’intenzione di incendiarla.

[146] All’annuncio del loro arrivo, io ritenni indecoroso darmi alla fuga, e decisi di affrontare il pericolo facendo uso di un po’ di audacia. Dato dunque l’ordine di sbarra­re le porte della casa e salito al piano superiore, li invitai a mandare qualcuno a prendere il denaro; mi dicevo in­fatti che in questo modo la loro furia si sarebbe calmata.

[147] Ma quando ebbero mandato il più audace dei loro, io lo feci fustigare e, dato l’ordine di tagliargli una mano e di appendergliela al collo, in quelle condizioni lo ricac­ciai da coloro che l’avevano inviato.

[148] Li prese uno stupore e uno spavento senza limiti. Dunque, con la pau­ra di subire lo stesso trattamento, se fossero rimasti, giacché immaginavano che all’interno io avessi più uomi­ni di loro, si diedero alla fuga. Così, facendo uso di que­sto stratagemma, riuscii a sfuggire anche al secondo complotto.





SEGUE


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31.

[149] Ma alcuni aizzarono nuovamente la massa sostenendo che gli alti dignitari di corte arrivati da me non meritavano di vivere, giacché rifiutavano di ade­guarsi ai costumi di coloro presso i quali erano giunti a cercare salvezza; li accusavano inoltre di essere degli stre­goni che impedivano la sconfitta dei Romani. Tratta in inganno da parole pronunciate appositamente per com­piacerla, la folla in breve si lasciò convincere.

[150] Io, ve­nutone a conoscenza, mi misi di nuovo a spiegare alla gente che non si dovevano perseguitare dei rifugiati; poi smontai quella stupida accusa di stregoneria, facendo notare che i Romani non avrebbero mantenuto tutte quelle migliaia di soldati, se avessero avuto la possibilità di vincere i nemici con artifici stregoneschi.

[151] Per un po’ di tempo diedero retta ai miei discorsi, ma, tornati indietro, furono ancora aizzati dai malintenzionati con­tro gli alti dignitari, e una volta si recarono armati a casa loro,a Tarichea, con l’intenzione di ucciderli.

[152] Quando ne fui informato, io temetti che, se quel delitto fosse stato compiuto, la città si sarebbe resa impraticabi­le per coloro che desideravano rifugiarvisi.

[153] Così con alcuni altri mi recai all’abitazione degli alti dignitari, e, dopo averne bloccato le uscite, feci scavare un cunicolo conducente dalla casa al lago; fattomi poi mandare un’imbarcazione, e salitovi con loro, raggiunsi il confine del territorio di Hippos. E dopo aver pagato loro il prez­zo dei cavalli, che, viste le condizioni in cui era avvenuta la fuga, non mi era stato possibile portare via, mi con­gedai con molte esortazioni a sopportare coraggiosamen­te la loro sorte sfortunata.

[154] Io stesso ero assai turba­to per essere stato costretto ad abbandonarli di nuovo fuggiaschi in territorio nemico, ma, pensavo, era me­glio che morissero nel territorio dei Romani, se ciò dove­va accadere, piuttosto che all’interno del mio. Invece si salvarono: il re Agrippa infatti concesse loro il perdono per gli errori commessi. E così terminarono le loro av­venture.




32.

[155] Quanto agli abitanti di Tiberiade, essi scris­sero al re chiedendogli di inviare delle truppe per proteg­gere il loro territorio; volevano infatti consegnarsi a lui. Questo fu dunque il tenore della loro lettera per lui.

[156] Invece a me, al mio arrivo tra loro, chiesero di costruire loro le mura, secondo quanto avevo promesso; avevano infatti udito che Tarichea era già stata fortificata. Dato dunque il mio consenso, e procurato tutto il necessario ai lavori di costruzione, diedi ai costruttori l’ordine di ese­guire l’opera.

[157] Tre giorni dopo, però, quando ormai ero in viaggio per Tarichea, che dista trenta stadi da Tiberiade, avvenne che fossero avvistati alcuni cavalieri romani, di passaggio non lontano dalla città, i quali die­dero l’impressione che l’esercito del re si stesse avvici­nando.

[158] Ed ecco che subito si levarono molte voci di acclamazione all’indirizzo del re, e molti insulti per me; un tale corse ad annunciarmi le loro intenzioni, che cioè avevano deciso di defezionare da me.

[159] All’udirlo io fui molto allarmato. Si dava il caso infatti che avessi la­sciato nelle loro case i miei soldati di Tarichea, dato che il giorno seguente era sabato, perché non volevo che gli abitanti di Tarichea fossero disturbati dalla presenza di numerosi armati;

[160] d’altronde, tutte le volte che vi soggiornavo non prendevo precauzioni nemmeno per la mia sicurezza personale, dato che avevo più volte avuto prova della lealtà degli abitanti nei miei confronti.

[161] Non sapevo proprio che fare, con i soli sette soldati e gli amici che avevo accanto. Non mi sembrava infatti op­portuno richiamare la mia truppa, poiché il giorno volge­va alla fine, e se anche essa fosse arrivata, non le sarebbe stato possibile, l’indomani, prendere le armi, dato che le nostre leggi lo vietano, perfino nel caso che a richiederlo siano circostanze di assoluta necessità.

[162] Vedevo d’al­tra parte che, se avessi guidato i Taricheesi e gli stranieri residenti presso di loro al saccheggio della città, sarem­mo stati in numero insufficiente, e anche in eccessivo ri­tardo; pensavo che l’esercito del re sarebbe arrivato pri­ma di me, e ne sarei stato respinto dalla città.

[163] Decisi dunque di ricorrere a uno stratagemma contro di loro. Fatti immediatamente appostare i miei amici più fidati alle porte di Tarichea, a sorvegliare severamente quelli che volevano uscire, e convocati i capifamiglia, a ciascu­no di costoro ordinai di calare in acqua una barca, di sa­lirvi portando con sé un timoniere e di seguirmi a Tiberiade.

[164] Imbarcatomi anch’io con i miei amici e i miei soldati, che erano, come ho detto, in numero di sette, fe­ci rotta verso Tiberiade.




33.

[165] Non appena i Tiberiesi si resero conto che l’esercito del re da loro non era arrivato, e videro invece il lago interamente coperto di barche, temendo per le sor­ti della città e credendo terrorizzati che le imbarcazioni fossero al di uomini, cambiarono idea.

[166] Così, deposte le armi, ci vennero incontro con le donne e i bambini, levando alte grida di acclamazione nei miei confronti (non immaginavano certo che io fossi venuto a conoscenza delle loro intenzioni), e mi supplicarono di risparmiare la città.

[167] Giunto in prossimità di Tiberia­de, diedi ai timonieri l’ordine di gettare le ancore lontano dalla riva, perché i Tiberiesi non scoprissero che le bar­che erano vuote di soldati. Io invece, avvicinatomi su di un’imbarcazione, li rimproverai per la loro insensatezza, e per la leggerezza con cui, senza alcun motivo plausibile, erano pronti a tradire la fedeltà nei miei confronti.

[168] Accondiscesi tuttavia a perdonarli senza remore per il fu­turo, a patto che mi inviassero dieci dei loro capi. Aven­do essi prontamente acconsentito, mi mandarono gli uomini di cui ho detto sopra; e fattili imbarcare, li inviai a Tarichea per metterli agli arresti.




34.

[169] Arrestato con questo stratagemma, un grup­petto dopo l’altro, l’intero consiglio cittadino, e con quello anche parecchi dei capi popolari, che non erano di numero inferiore, li mandai tutti a Tarichea.

Ritorna all’ inizio

[170] La po­polazione, quando capì la gravità delle malefatte a cui era giunta, prese a incitarmi a punire il responsabile della sedizione. Era un giovane di nome Clitos, sconsiderato e senza scrupoli

[171] Dato che io, pur considerando un’empietà mettere a morte un compatriota, dovevo pe­rò assolutamente punirlo, comandai che Levi, una delle mie guardie del corpo, si facesse avanti e tagliasse una mano a Clitos.

[172] Ma poiché il soldato che aveva rice­vuto l’ordine aveva paura ad avanzare solo in una folla così grande, e io non volevo rendere manifesta ai Tiberiesi la sua codardia, rivoltomi direttamente a Clitos gli dis­si: «Dal momento che ti sei dimostrato così ingrato verso di me che meriti di perdere entrambe le mani, sii tu stesso il tuo carnefice, e se non obbedisci, incorrerai in un casti­go più grave».

[173] Poiché mi supplicava di lasciargli una mano, con riluttanza acconsentii. E lui, grato di non perdere entrambe le mani, afferrata una spada si tagliò la sinistra. Questa esecuzione fece cessare la rivolta.




35


[174]Quando i Tiberiesi, dopo il mio ritorno a Tarichea, capirono il trucco che avevo usato con loro, furono stupiti del fatto che fossi riuscito senza spargi­mento di sangue a far cessare il loro comportamento sconsiderato

Ritorna all’ inizio

[175] Quanto a me, fatti venire dalla prigio­ne i rappresentanti dei Tiberiesi (tra di loro vi erano Giu­sto e suo padre Pistos), li feci pranzare con me; e nel cor­so del pranzo dissi loro che nemmeno io ignoravo che la potenza militare dei Romani era in assoluto senza rivali, ma che tuttavia non ne parlavo per colpa dei briganti.

[176] Il consiglio che davo anche a loro era di fare lo stesso, in attesa del momento opportuno, e di non essere maldisposti verso un comandante come me: non gliene sarebbe potuto capitare facilmente un secondo altrettan­to ragionevole.

[177] A Giusto poi ricordai che prima del mio arrivo da Gerusalemme i Galilei avevano tagliato le mani a suo fratello, prima dello scoppio della guerra, dietro l’accusa di avere falsificato dei documenti, e che dopo la partenza di Filippo gli abitanti di Gamala, in ri­volta contro i Babilonesi, avevano ucciso Carete (si trat­tava di un parente di Filippo),

[178] e spietatamente mas­sacrato suo fratello Gesù, marito della sorella di Giu­sto. Dopo che durante il pranzo ebbi conversato di que­sti argomenti con Giusto e i suoi compagni, la mattina seguente ordinai che fossero tutti liberati dalla prigione.




36.

[179] Prima di questi avvenimenti, era accaduto che Filippo figlio di Jachim si fosse allontanato dalla for­tezza di Gamala, in queste circostanze.

[180] Venuto a sapere che Varo era stato deposto dal re Agrippa e che a succedergli era arrivato Modio Equo, suo amico e confi­dente da lunga data, scrisse a costui raccontandogli le sue vicende e pregandolo di far recapitare ai sovrani le lettere che aveva precedentemente inviate.

[181] Modio si ralle­grò parecchio nel ricevere la missiva, giacché ne deduce­va che Filippo era in salvo, e mandò le sue lettere ai so­vrani, che si trovavano allora nei dintorni di Berito.

[182] Quando il re Agrippa seppe che le dicerie riguardanti Fi­lippo erano false (era girata infatti la voce che si fosse messo a capo dei Giudei per far guerra ai Romani), inviò uno squadrone di cavalleria con l’incarico di scortare da lui Filippo.

[183] Accoltolo poi con grande cordialità al suo arrivo, lo presentò agli ufficiali romani: quello era il Filippo del quale si diceva in giro che si era ribellato ai Romani! Quindi gli ordinò di prendere con sé dei cavalieri e di dirigersi in tutta fretta alla fortezza di Gamala, per farne uscire tutti i suoi uomini e per far stabilire nuova­mente i Babilonesi in Batanea.

[184] Lo incaricò anche di adoperarsi con ogni mezzo per evitare qualunque solle­vazione da parte dei suoi sudditi. Pertanto Filippo, dopo che il re aveva così disposto, si affrettò a eseguire ciò che gli era stato ordinato.


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37.

[185] [Non molto tempo prima] Giuseppe, il figlio della levatrice, indotti a seguirlo parecchi giovani avven­turieri e fattili sollevare contro le autorità di Gamala, aveva tentato di convincerli a ribellarsi al re e a far ricor­so alle armi per riconquistare con questo mezzo l’indi­pendenza. Alcuni furono costretti a forza, altri, che non condividevano i loro progetti, furono eliminati.

[186] Uc­cisero tra gli altri Carete, e anche Gesù, un suo parente, cognato di Giusto di Tiberiade, come ho detto prima. In seguito scrissero a me chiedendomi di inviare loro un contingente armato e degli operai per ricostruire le mura della loro città. Io non mi opposi a nessuna delle due ri­chieste.

[187] Si ribellò al re anche il distretto di Gaulanitide, fino al villaggio di Solima. Feci costruire mura a Seleucia e a Sogane, villaggi assai ben difesi per posizione naturale; provvidi ugualmente di mura i villaggi dell’Alta Galilea, che si trovano in luoghi assai accidentati,


[188] e hanno nome Iamnia, Ameroth e Acharabe. Nella Bassa Galilea fortificai inoltre le città di Tarichea, Tiberiade, Sefforis, e i villaggi di Grotta di Arbela, Bersubé, Selamé, Jotapata, Kafarath, Komus, Sogana, Pafà e il monte Tabor . Vi feci portare anche una notevole quanti­tà di grano e delle armi, per loro futura sicurezza.




38.

[189] Intanto montava vieppiù contro di me l’o­dio di Giovanni figlio di Levi, che si tormentava per il mio successo. Deciso dunque a sbarazzarsi di me a ogni costo, fece costruire le mura di Giscala, sua città d’origi­ne,

[190] e mandò suo fratello Simone, con Gionata figlio di Sisenna e cento uomini armati, a Gerusalemme, da Simone figlio di Gamaliel, per esortarlo a convincere il go­verno di Gerusalemme a sollevarmi dal comando delle operazioni di Galilea e ad affidarne ufficialmente la re­sponsabilità a lui.

[191] Questo Simone era un cittadino di Gerusalemme, di famiglia assai illustre, appartenente al­la cerchia dei Farisei, i quali hanno fama di superare chiunque nell’esatta interpretazione delle patrie leggi.

[192] Era un uomo dotato di grande intelligenza e discer­nimento, che aveva la capacità di ristabilire, con un col­po d’ingegno, anche le situazioni più compromesse; lega­to a Giovanni da lunga e profonda amicizia, era allora di ben diversa predisposizione nei miei confronti.

[193] Ac­colta dunque la richiesta, tentò di convincere i sommi sa­cerdoti Anano e Gesù figlio di Gamala, e pure alcuni al­tri della medesima fazione, a stroncarmi subito, e a non permettere che salissi al culmine della fama, dicendo che sarebbe stato nel loro interesse rimuovermi dalla Galilea. Esortava poi Anano e i suoi a non indugiare, nel timore che, se fossi stato anticipatamente avvertito, potessi as­salire la città di Gerusalemme con un grande esercito.

[194] Questo era quanto Simone suggeriva; ma il sommo sacerdote Anano dichiarò che la cosa non era così facile, dal momento che parecchi sommi sacerdoti e diversi capi del popolo testimoniavano che ero un valente comandan­te: mettere sotto accusa un uomo contro il quale non si poteva produrre legittimamente alcunché era un’autenti­ca leggerezza.




39.

[195] Come Simone ebbe udito la replica di Anano, chiese agli inviati di mantenere il segreto e di non di­vulgare le parole dei sacerdoti; asserì che ci avrebbe pen­sato lui stesso, a farmi rimuovere al più presto dalla Gali­lea. Fatto poi chiamare il fratello di Giovanni, stabilì che inviasse dei doni ad Anano e ai suoi seguaci; in questo modo, disse, li avrebbe persuasi a cambiare in fretta pa­rere.

[196] Così, alla fine, Simone raggiunse ciò che si era prefissato; infatti Anano e il suo gruppo, corrotti dal de­naro, concordarono di allontanarmi dalla Galilea, senza che nessun altro in città ne fosse a conoscenza. Avevano pertanto deciso di inviare degli uomini di differente estrazione sociale, ma di retroterra culturale simile.

[197] Due di questi, Gionata e Anania, erano dei popolani di osservanza farisaica, mentre un terzo, Giozaro, Fariseo anch’egli, era di famiglia sacerdotale, e Simone, il più giovane, discendeva da sommi sacerdoti.

[198] Ordinaro­no a costoro che, una volta giunti in Galilea, si informas­sero presso la popolazione dei motivi per cui mi era devo­ta. Se la gente lo avesse attribuito al fatto che io ero di Gerusalemme, avrebbero dovuto replicare che anch’essi lo erano, tutti e quattro; se invece si trattava della mia conoscenza delle leggi, avrebbero asserito che nemmeno loro ignoravano i patrii costumi; se poi avesse detto che mi era devota per la mia condizione sacerdotale, avreb­bero dovuto rispondere che anche due di loro erano sa­cerdoti.




40.

[199] Date queste istruzioni a Gionata e ai suoi colleghi, li fornirono di quarantamila pezzi d’argento presi dal tesoro pubblico.

[200] Giacché poi avevano udi­to che un Galileo di nome Gesù si trovava allora a Geru­salemme con la sua schiera di seicento armati, mandato­lo a chiamare e pagatogli il soldo per tre mesi gli ordina­rono di seguire Gionata e compagni, tenendosi a loro di­sposizione; inoltre, convocarono trecento cittadini affin­ché seguissero i commissari, offrendo il denaro per il mantenimento di tutti.

[201] Così, avendo costoro obbedito, e completata la loro preparazione per la spedizione, Gionata e compagni si misero in viaggio con loro, por­tando con sé anche il fratello di Giovanni con cento ar­mati;

[202] gli ordini che recavano da parte di chi li aveva inviati erano di mandarmi vivo a Gerusalemme, se avessi deposto spontaneamente le armi, ma, se avessi opposto resistenza, di uccidermi senza alcun timore: queste erano infatti le direttive.

[203] Avevano anche scritto a Giovan­ni di tenersi pronto ad attaccarmi, e diedero ordine agli abitanti di Sefforis, Gabara e Tiberiade di mandare aiuti a Giovanni.




41.

[204] Poiché mio padre mi aveva informato di tut­to ciò per lettera (a lui l’aveva comunicato Gesù figlio di Gamala, uno dei presenti a quella seduta consigliare, che era un mio vecchio e caro amico), io ne fui veramente ad­dolorato, apprendendo sia che a causa dell’invidia i miei concittadini, divenuti così ingrati nei miei confronti, ave­vano decretato che fossi messo a morte, sia che mio pa­dre, nella stessa lettera, mi esortava con insistenza a re­carmi da lui; diceva infatti di voler rivedere suo figlio pri­ma di morire.

[205] Così riferii tutto quanto ai miei amici, e dissi che entro quattro giorni, lasciato il paese, mi sarei messo in viaggio verso la mia città. Lo sconforto si ab­batté su tutti coloro che mi ascoltavano, e mi supplicava­no piangendo di non abbandonarli, perché sarebbero stati perduti, se privati della mia guida.

[206] Visto che io non cedevo alle loro suppliche ma mi preoccupavo della mia salvezza, i Galilei, che temevano di diventare dopo la mia partenza una facile preda per i briganti, inviarono per tutta la Galilea dei messaggeri ad annunciare la mia intenzione di andarmene.

[207] Non appena ebbero udito ciò, da ogni direzione si radunarono in molti, con le don­ne e i bambini: un comportamento dovuto, a mio parere, non tanto all’attaccamento nei miei confronti, quanto piuttosto alla paura per loro stessi; infatti ritenevano che non sarebbe capitato loro alcunché di male, se io fossi rimasto. Così si diressero in massa nella grande pianura, detta di Asochis, dove io risiedevo.




42.

[208] Nel corso di quella notte, feci un sogno, una visione meravigliosa. Infatti, dopo che mi ero disteso per dormire, in preda al dolore e all’agitazione per quella let­tera, mi parve che qualcuno stando accanto a me mi di­cesse:

[209] «Cessa, amico, di tormentarti nell’animo, scaccia ogni timore. Ciò che ti addolora farà di te un grand’uomo, baciato dalla fortuna in ogni circostanza. Il successo ti arriderà non solo in questa situazione, ma an­che in molte altre. Non crucciarti dunque; e ricordati che dovrai perfino fare guerra ai Romani».

[210] Allora, do­po aver fatto questo sogno, mi levai, impaziente di scen­dere alla pianura. Al mio apparire i Galilei, una vera fol­la comprendente anche le donne e i bambini, prosternan­do il volto a terra e piangendo mi supplicavano di non abbandonarli ai nemici, di non andarmene lasciando la loro regione esposta all’oltraggio di chi le era ostile.

[211] Visto però che io non mi lasciavo persuadere dalle sup­pliche, cercavano di costringermi a forza di scongiuri a restare con loro; e si scagliavano maledicendolo contro il popolo di Gerusalemme, poiché non permetteva che il loro paese vivesse tranquillo in pace.




43.

[212] Ascoltando le loro parole e vedendo la di­sperazione della folla, mi lasciai impietosire, consideran­do che valeva la pena di affrontare dei rischi, benché evi­denti, per una folla così numerosa. Così acconsentii a re­stare, e dato l’ordine che cinquemila di loro, armati e ri­fornitisi di cibo, venissero da me, rimandai gli altri alle loro case.

[213] Dopo che i cinquemila furono arrivati, con loro e con i tremila soldati già con me, più ottanta cavalieri, mi misi in marcia alla volta di Cabolo, un vil­laggio ai confini del territorio di Tolemaide; e là tenni le mie truppe unite, fingendo di compiere i preparativi per la guerra contro Placido.

[214] Costui era arrivato, invia­to da Cestio Gallo, con un corpo di due coorti di fanteria e uno squadrone di cavalleria, per incendiare i villaggi dei Galilei situati nei dintorni di Tolemaide. Poiché egli stava impiantando una trincea davanti alla città di Tolemaide, anch’io posi un campo, a una distanza di circa sessanta stadi dal villaggio di Cabolo.

[215] Più volte dunque facemmo avanzare le truppe, come per dar bat­taglia, ma non combinammo nulla all’infuori di qualche scaramuccia. Quanto più infatti Placido sentiva che io ero impaziente di combattere, tanto più arretrava spa­ventato; ma intanto non si ritirava dal territorio di Tolemaide.




44.

[216] Proprio in questo periodo, Gionata, giunto da Gerusalemme con gli altri commissari, dei quali già dissi che erano stati mandati dal gruppo di Simone e del sommo sacerdote Anano, tentò con un complotto di far­mi cadere in un tranello: non aveva infatti il coraggio di agire allo scoperto.

[217] Così mi scrisse questa lettera: «Gionata e i colleghi inviati da Gerusalemme salutano Giuseppe. Siamo stati mandati dalle autorità di Gerusa­lemme, che hanno appreso delle reiterate macchinazioni ordite da Giovanni di Giscala contro di te, per redarguir­lo e intimargli in futuro di obbedirti.

[218] Poiché deside­riamo concertare con te una comune linea di condotta, ti invitiamo a venire al più presto da noi, e con scarso se­guito, dato che il villaggio non potrebbe ricoverare un in­gente gruppo di soldati».

[219] Scrissero queste parole prevedendo una di queste due possibilità, e cioè che, se mi fossi presentato da loro disarmato, mi avrebbero avu­to in loro potere, oppure che mi avrebbero dichiarato ne­mico pubblico, se avessi condotto molti soldati con me.

[220] A portarmi la missiva era venuto un cavaliere, un giovane piuttosto insolente, che in precedenza aveva mi­litato nell’esercito del re. Era già la seconda ora della notte, ed io stavo cenando con i miei amici e i notabili della Galilea.

[221] Avendomi un servitore annunciato che era arrivato un cavaliere giudeo, dopo che ebbi dato l’ordine di introdurlo, costui non mi salutò nemmeno, e tendendomi la lettera disse: «Gli inviati di Gerusalemme ti mandano questa. Scrivi immediatamente la tua rispo­sta, perché ho fretta di tornare da loro».

[222] I miei com­mensali si stupirono della faccia tosta del soldato, men­tre io lo invitai ad accomodarsi e a cenare con noi. Al suo rifiuto, io tenni in mano la lettera, come l’avevo ricevu­ta, e continuai a conversare con gli amici di argomenti di­versi.

[223] Non molto dopo, alzatomi e lasciati liberi tut­ti gli altri di andare a dormire, invitai a restare solo quat­tro dei miei amici intimi e ordinai allo schiavo di prepa­rare del vino; dissigillata poi la lettera senza che nessuno mi vedesse, e resomi subito conto delle intenzioni di chi l’aveva scritta, la sigillai di nuovo.

[224] E sempre tenen­dola in mano, come se non l’avessi ancora letta, ordinai di dare al soldato venti dracme per le sue spese di viag­gio. Quello le prese ed espresse il suo ringraziamento; al­lora io, avendo intuito la sua cupidigia, e che a causa di questa egli era corruttibile, dissi: «Ehi, se vorrai bere con noi, riceverai una dracma per ogni coppa».

[225] Accon­sentì con entusiasmo; ma, avendo tracannato il vino in gran quantità per prendere più soldi ed essendosi com­pletamente ubriacato, non fu più in grado di nascondere i suoi segreti, anzi, anche senza che gliela si chiedesse, prese a raccontare del complotto che era stato ordito e di come da quelli fosse stata decisa la mia morte. Udito ciò, scrissi la mia risposta in questo modo:

[226] «Giuseppe saluta Gionata e i suoi colleghi. Apprendo che avete rag­giunto la Galilea in ottima salute, e me ne rallegro, so­prattutto perché mi sarà possibile affidarvi la cura degli affari di qui e tornarmene a casa, cosa che già da molto tempo desideravo fare.

[227] Avrei certamente dovuto presentarmi da voi, e non solo a Xaloth, ma anche più lontano, anche se non me l’aveste ordinato; chiedo però il vostro perdono, non essendomi possibile farlo, dato che mi trovo a Cabolo a sorvegliare Placido, il quale ha in progetto di attaccare la Galilea. Venite dunque voi da me, dopo aver letto questa lettera. State bene».




45.

[228] Scritta questa lettera e datala da recapitare al soldato, lo rimandai insieme con trenta Galilei dei più autorevoli, ai quali avevo dato disposizione di porgere i miei saluti a quei signori, ma di non dire nulla di più. As­segnai inoltre a ciascuno di loro uno dei miei uomini più fidati, con l’incarico di sorvegliare che non ci fossero conversazioni tra i miei emissari e il gruppo di Gionata. Essi si misero dunque in cammino.

[229] Ma Gionata e i suoi, avendo fallito nel loro primo tentativo, mi manda­rono una seconda lettera, questa: «Gionata e i suoi colle­ghi salutano Giuseppe. Ti invitiamo a presentarti senza scorta da noi entro tre giorni al villaggio di Gabaroth, per dare udienza alle accuse da te formulate contro Gio­vanni».

[230] Dopo avere scritto questa lettera ed essersi congedati dai Galilei che io avevo inviato, si recarono a Jaffa, il più importante villaggio della Galilea, provvisto di robuste mura e densamente popolato. Andò loro in­contro la folla, con le donne e i bambini, e tutti intimava­no gridando che se ne andassero e non li privassero di un valente comandante.

[231] Gionata e i suoi erano assai ir­ritati dalle grida e non osavano manifestare la propria rabbia, ma, non degnateli di alcuna risposta, si diressero verso gli altri villaggi. Ovunque però li accoglievano le stesse invettive da parte di tutti, che dichiaravano a gran voce che nessuno avrebbe potuto indurli a non tenere come comandante Giuseppe.

[232] Andandosene da quei luoghi con un nulla di fatto, Gionata e i suoi colleghi si recarono a Sefforis, la più grande città della Galilea. La popolazione locale, che inclinava verso i Romani, andò loro incontro, ma senza parlare né bene né male di me.

[233] Scesi poi da Sefforis ad Asochis, la popolazione del luogo li coprì di invettive quasi quanto quella di Jaffa; essi allora, non riuscendo più a trattenere l’ira, ordinaro­no ai loro soldati di colpire a bastonate i dimostranti. Giunti a Gabara, li accolse Giovanni con tremila armati.

[234] Io, che dalla lettera già sapevo della loro decisione di attaccarmi, allontanatomi da Cabolo con tremila uo­mini, dopo aver lasciato a capo dell’accampamento il più fidato dei miei amici, volendo avvicinarmi mi mossi ver­so Jotapata, che era a quaranta stadi da loro; quindi scrissi loro così:

[235] «Se volete assolutamente che io venga da voi, in Galilea vi sono duecentoquattro tra città e villaggi. Mi presenterò in quello che tra questi scegliere­te, fuorché a Gabara e a Giscala: l’una infatti è la patria di Giovanni, l’altra è in rapporti d’alleanza e d’amicizia con lui».




46.

[236] Ricevuta questa lettera, Gionata e i suoi non mandarono alcuna ulteriore risposta ma, convocati a consiglio i loro amici e invitatovi anche Giovanni, discus­sero del modo di condurre l’attacco contro di me.

[237] Giovanni era dell’opinione di scrivere a tutte le città e i villaggi della Galilea, giacché in ognuno vi sarebbero senz’altro state almeno una o due persone a me ostili, e di chiamarle a raccolta come contro un nemico pubblico. Li invitò a inviare questa proposta anche a Gerusalemme, affinché i cittadini, venendo a sapere che ero stato di­chiarato nemico pubblico dai Galilei, lo decretassero ufficialmente anch’essi; diceva che, una volta fatto questo passo, anche i Galilei ben disposti nei miei confronti mi avrebbero abbandonato spaventati.

[238] Il piano esposto da Giovanni piacque molto anche agli altri.

[239] Queste decisioni vennero a mia conoscenza verso la terza ora della notte, quando Saccheo, uno dei loro che aveva di­sertato, venne ad annunciarmi il loro piano. La situazio­ne non doveva essere procrastinata oltre.

[240] Così, avendo scelto tra i miei un soldato che giudicavo degno di fiducia, Giacomo, gli ordinai di sorvegliare con due­cento armati le vie d’uscita da Gabara alla Galilea, e di arrestare e mandare da me quelli che le percorrevano, so­prattutto se sorpresi con delle lettere.

[241] Inoltre man­dai al confine della Galilea Geremia, un altro mio fido, con seicento uomini, a sorvegliare le strade che di là con­ducevano a Gerusalemme, avendo dato anche a lui l’or­dine di fermare i viaggiatori recanti delle lettere, di im­prigionarli sul posto e di recapitare le lettere a me.




47.

[242] Impartite queste istruzioni ai miei inviati, emisi un proclama per i Galilei, ordinando di presentarsi da me a Gabaroth l’indomani, provvisti di armi e di cibo per tre giorni. Poi, suddivise le mie truppe in quattro parti, destinai i soldati più fedeli a mie guardie del corpo, dopo aver posto al loro comando degli ufficiali e aver da­to ordine di badare che nessun soldato sconosciuto si mi­schiasse a loro.

[243] Giunto a Gabaroth verso l’ora quin­ta dell’indomani, trovai l’intera pianura antistante il villaggio coperta di armati che, come avevo ordinato loro, si erano presentati da tutta la Galilea per schierarsi con me; e molti altri ancora stavano accorrendo in massa dai villaggi.

[244] Quando, presentatomi davanti a loro, ini­ziai ad arringarli, tutti presero ad acclamarmi chiaman­domi benefattore e salvatore del loro paese. E io, dopo aver espresso loro la mia riconoscenza, li invitai a non attaccare nessuno e a non sporcarsi le mani con le ruberie, ma ad accamparsi nella piana accontentandosi delle loro razioni. Confermai infatti di voler far cessare i disordini senza spargimenti di sangue.

[245] Quello stesso giorno accadde che gli inviati con le lettere di Gionata cadessero nelle mani delle sentinelle da me disposte a guardia delle strade. Come io avevo ordinato, gli uomini vennero arre­stati sul posto; dal canto mio, dopo aver letto le lettere, piene di insulti e di menzogne, decisi di muovere all’at­tacco, senza avvertire nessuno.




48.

[246] All’udire che mi ero mosso, Gionata e i suoi si ritirarono nella casa di Gesù, portandosi dietro i loro seguaci e anche Giovanni; era un grande edificio fortifi­cato, per nulla inferiore a un fortino. Avendovi dunque nascosto dei soldati in agguato, dopo averne serrate tutte le porte tranne una, lasciata aperta, si aspettavano che io arrivassi dalla strada per salutarli.

[247] Avevano pertan­to dato disposizioni ai soldati di lasciarmi entrare da so­lo, quando fossi arrivato, trattenendo fuori gli altri; pen­savano infatti che in questo modo sarei caduto facilmen­te in mano loro. Ma le loro speranze andarono deluse.

[248] Io infatti, che sapevo in anticipo del tranello, come arrivai dalla marcia mi accampai proprio davanti a loro, e feci finta di andare a dormire.

[249] Gionata e i suoi compagni, credendo che io stessi veramente riposando in preda al sonno, si affrettarono a recarsi alla pianura per indurre i miei a cambiare opinione, spacciandomi per un cattivo comandante.

[250] Invece accadde loro il contra­rio: non appena infatti furono avvistati, dai Galilei si le­varono grida pari solo alla devozione per me, il loro ge­nerale; essi inoltre fecero le loro rimostranze a Gionata e ai suoi, che si erano presentati a sconvolgere la situazione del paese, benché non fossero stati fatti oggetto di alcuna ostilità; e intimarono loro di andarsene, visto che non si sarebbero mai lasciati convincere a prendere un altro ca­po all’infuori di me.

[251] Dopo che ne fui informato, non indugiai oltre a farmi avanti in mezzo a loro. Scesi dunque subito da loro per ascoltare quel che dicevano Gionata e compagni. Al mio arrivo vi furono immediata­mente un applauso generale della folla e acclamazioni benedicenti che esprimevano gratitudine per la mia atti­vità di comando.





SEGUE


Ultima modifica di barionu il 30/11/2013, 02:57, modificato 1 volta in totale.


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