@ IronoIko Io non condivido al 100% l'intepretazione neurologica delle visioni mistiche. Non tutte le visioni mistiche sono giustificabili in tal senso. Ci sono dei fatti che non sono spiegabili e che hanno un riscontro oggettivo.
@Pier Tulip: io non vedo la necessità di ricondurre la figura di Gesù alla figura del mistico o del mistagogo. Fermo restando che per me il discorso mistico riguarda uno stato di beatitudine interiore, di contatto con il divino mentre tu ti riferisci a miracoli, segni particolari che non sono necessariamente fenomeni mistici ma sono segni.
"La mistica (dal greco mystikòs = misterioso, e questo da myein = chiudere, tacere) è la contemplazione della dimensione del sacro e ne comporta una esperienza diretta, "al di là" del pensiero logico-discorsivo e quindi difficilmente comunicabile.
Nell'estasi mistica l'uomo si unisce con la "Verità ultima" della propria esistenza e dell'intera realtà cosmica". da
http://it.wikipedia.org/wiki/MisticaEcco perché tutti gli episodi da te citati non rientrano nella concezione di mistica.
@ Marco. Il discorso non è semplice. Ti faccio un esempio che forse può sembrare banale. Noi tendiamo a vedere le cose da un certo punto di vista, da una certa prospettiva e, difficilmente, siamo disposti a modificarla. In certi casi, è proprio la prospettiva che ci impedisce di vedere quello che abbiamo sotto gli occhi. Un altro esempio che apparentemente non c'entra è il seguente. Ci sono vari modi di compiere un viaggio. Alcuni lo iniziano per scelta, altri sono invitati, alcuni ancora lo organizzano anche per altri, ecc. Alcuni intuiscono la meta, altri non sanno cosa troveranno o dove andare. In ogni caso, la meta rappresenta il fine di ogni viaggio ma il tempo in cui si viaggia non è mai sprecato anche se magari la strada è scomoda o ci sembra sbagliata.
Ci sono domande a cui non siamo in grado di rispondere ma le domande non sono mai inutili. Allego il pezzo di un brano trovato su Internet che secondo me presenta elementi di misticismo. "In ogni società, o meglio in ogni cultura, il lessico riflette gli interessi contingenti, che divengono poi interessi culturali.
Ecco così che gli Eschimesi hanno quaranta parole per definire il bianco e gli uomini della foresta amazzonica ne hanno almeno altrettante per il verde.
Per la loro cultura, per la loro stessa sopravvivenza, gli uomini hanno bisogno di conoscere esattamente il nome di ciascuna sfumatura di verde se sono nella foresta e di bianco se sono tra i ghiacci e la neve.
Nel Talmud, massima fonte di sapere per gli ebrei, vi sono quaranta modi per definire una stessa parola, e la parola è «domanda».
Attraverso il porre le domande si mette in gioco la stessa sopravvivenza culturale dell’ebreo.
Il Talmud si apre con una domanda: «Da quando…?».
In esso c’è un termine per definire la domanda facile e uno per quella difficile; uno per definire la domanda che si pone all’inizio di una frase e uno che già al
suo interno pone un dubbio, una ipoteca sulla risposta.
Sorprendentemente, non altrettanto importanti sono le risposte stesse.
Le domande sono comprese nel seno stesso dell’ebraismo.
Durante la cena pasquale ebraica, ci chiediamo: «Mà nishtanà ha-laila ha-zè?», «Che cosa c’è di diverso in questa notte rispetto a tutte le altre notti?».
Forse anche Elie Wiesel nella sua sconvolgente opera dal titolo "La notte" in «quella» notte si poneva la stessa domanda.
E lui alla domanda «Dove era Dio?» non ha risposto con le parole del rabbino «Dio è ovunque lo si faccia entrare», ma piuttosto con quelle raccolte dentro di sé.
Di fronte a un bambino impiccato, che agonizzava a lungo, perché troppo leggero per morire rapidamente, alla domanda «Dov’è Dio, dov’è dunque Dio?» sentiva in sé una voce che rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».
fine" da
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