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Lo Storico dai mille nomiLo Storico dai mille nomi

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MessaggioInviato: 30/08/2012, 18:23 
fonte: http://www.centrostudilaruna.it/quando- ... mondo.html

Ferito a morte in battaglia, Giuliano avrebbe sfidato il Cielo levando in alto il pugno intriso del suo sangue e gridando: Viciste, Galilee!, “Hai vinto, Galileo!”.

Così vuole la leggenda diffusa dai cristiani, che non perdonavano all’imperatore romano l’abbandono della fede cristiana e la tentata restaurazione del paganesimo.

Gregorio Nazianzeno, suo compagno di studi ad Atene e poi vescovo di Costantinopoli, lo apostrofò con spregio l’”Apostata”, il “Rinnegato”, e mise in circolazione calunnie sul suo conto, denunciando i suoi difetti fisici e morali, i suoi misfatti e le sue persecuzioni contro i cristiani. A poco servì che storici equilibrati come Eutropio e Ammiano Marcellino ne tratteggiassero invece un lusinghiero profilo di imperatore giusto ed equo: la collera cristiana non si placò, al contrario, per secoli continuò ad accanirsi contro l’imperatore che non si era rassegnato alla fine degli dèi pagani e aveva lottato contro l’annuncio riportato da Plutarco che “il grande Pan è morto”.

Ma la Terra, un tempo piena di oracoli, languiva ormai esausta e inaridita: perfino a Delfi – l’ombelico del mondo, il punto dove due aquile partite dagli estremi della terra e dirette al suo centro si erano incontrate – perfino là gli oracoli erano ammutoliti. Il torto di Giuliano fu di non comprendere che quel silenzio e quel vuoto erano ormai saldamente occupati dal cristianesimo.

Ma che cosa c’era di tanto riprovevole nella nostalgia di Giuliano? Ed era davvero così turpe la “religione pagana” in cui egli credeva? E poi, per quali incomprensibili ragioni “essere pagano” equivaleva per i cristiani a “essere senza Dio”? Denunciare l’antica religione politeista come “atea” non era forse un fatale abbaglio alimentato dall’intollerante pretesa che il proprio Dio fosse l’unico ammissibile?

Un mirabile trattatello, Sugli dèi e il mondo, attribuito a Salustio neoplatonico, un pensatore appartenente alla cerchia di Giuliano, mostra quale profonda religiosità fosse alla base della visione del mondo che l’imperatore romano intendeva salvare. Lo si può leggere ora nella superba edizione bilingue di Riccardo Di Giuseppe, che per ricchezza di informazioni e aggiornamento supera le precedenti, perfino quella delle Belles Lettres (Adelphi, 265 pagg., 22.000 lire).

In poche pagine il trattato offre una sintesi delle dottrine filosofiche e religiose del paganesimo ellenistico, filtrate attraverso la spiritualità neoplatonica della Scuola di Giamblico. Vi è contemplata l’intera realtà, strutturata su tre piani gerarchici: il mondo intelligibile (noeton), quello intelligente (noeron) e quello visibile (oraton).

Nell’illustrare le cose divine e l’azione degli dèi sul mondo, Salustio non parla per allegoresi, come il mito, ma in forma didascalica, cioè nei termini di un’esposizione scientifica. Egli assegna però ai miti classificati in “teologici, naturali, psichici e materialistici” un ruolo chiave. La loro peculiarità sta nel fatto che essi dicono e al tempo stesso non dicono, secondo quell’”ermeneutica della reticenza” che Kojève teorizzerà con acutezza nel saggio L’empereur Julien et son art d’écrire.

Il modo in cui i miti narrano degli dèi – “dèi encosmici” e “dèi ipercosmici” – si fa capire da tutti, ma occulta la verità a chi non è sufficientemente preparato per comprenderla. Infatti i comportamenti eccentrici e le stravaganze che i miti attribuiscono agli dèi, suscitando stupore, inducono l’uomo a riflettere e gli fanno capire che in fondo i miti altro non sono che un velo dietro il quale si nasconde un contenuto ineffabile, una verità che non muore: perché le cose che i miti narrano “non avvennero mai, ma sono sempre”.

Quale e quanta religiosità ispirasse la visione del mondo pagana di Salustio lo attesta lo scopo ultimo che il trattatello assegna all’uomo: l’assimilazione a Dio, ossia l’approssimazione alla forma di vita propria degli dèi. A tal fine Salustio prospetta un’iniziazione dai tratti misterici e teosofici, che si manifestano in primo luogo nella distinzione tra iniziati e profani, nell’accentuato dualismo di spirito e materia, nella preoccupazione per la morte e il destino dell’anima, nell’attribuzione alla filosofia di un carattere religioso e salvifico.

L’iniziazione fa vedere come tra il piano fisico, visibile, dell’essere e quello spirituale, invisibile, sussista una corrispondenza in base alla quale l’uomo può risalire dal primo al secondo. Coloro che amano il sapere, osservando e studiando i fenomeni naturali, in particolare il cielo, sono guidati fino alle verità supreme, precluse agli empi e agli stolti. Tra costoro, come sappiamo, Giuliano annoverava i cristiani, contro i quali lanciava un’ intera serie di “categorie” (kategoriai) ovvero di accuse.

La finalità del trattatello – impropriamente ma significativamente definito un “catechismo pagano” – era la restaurazione dell’antica religione mitologica. Finalità, questa, che Giuliano perseguiva con il sostegno di filosofi neoplatonici come Massimo di Efeso, Prisco di Epiro, Temistio e lo stesso Salustio, senza però riuscire a riconquistare il terreno spirituale ormai occupato in tutto l’impero dal cristianesimo.

La partita era insomma perduta. Eppure il neopaganesimo di Giuliano rimase un riferimento ideale per i successivi tentativi di ritornare ai valori del politeismo pagano.

Che non mancarono. Per esempio nell’Umanesimo con la nuova religione di Zeus che Giorgio Gemisto Pletone intese fondare. O con la riabilitazione di Giuliano intrapresa da Lorenzo de’ Medici nella sua Sacra rappresentazione di san Giovanni e Paolo, considerati dalla tradizione vittime di Giuliano. O con i molteplici fermenti studiati da Edgar Wind in un celebre libro sui Misteri pagani nel Rinascimento.

All’epoca ebbe peraltro inizio lo studio scientifico del Corpus Iulianeum che portò alla sua prima edizione, realizzata nel 1583 da un allievo di Pierre de la Ramée. Larga influenza ebbe soprattutto il giudizio di Montaigne, che definiva Giuliano un “très-grand homme et rare”, e vedeva in lui il modello del sovrano illuminato, ostile al clero. Più tardi, nella sua scia, Voltaire nominerà l’imperatore “padrino dei filosofi” e gli dedicherà una voce nel suo Dictionnaire philosophique. Fino ai numerosi tentativi letterari compiuti nell’Ottocento per raccontare la vicenda esistenziale dell’ultimo imperatore pagano, tra i quali spiccano il dramma di Ibsen Cesare e Galileo (1873) e il romanzo storico di Merezkovskij Giuliano l’Apostata o la morte degli dèi (1896).

In realtà, il paganesimo non ebbe più grande spazio. Certo, il suo vasto patrimonio mitologico e culturale fu assimilato dalla tradizione umanistica, ma con ciò stesso neutralizzato. Chi in seguito ha provato a rifondare una visione del mondo pagana si è condannato da sé – basti per tutti il nome di Nietzsche – all’isolamento. Forse per questo le varie forme di neopaganesimo che pure il mondo moderno ha partorito sono rimaste la religione privata di spiriti eccentrici. Come Louis Ménard, l’amico di Baudelaire autore delle Réveries dun paen mystique, o l’antichista Walter F. Otto, forse l’ultimo ad aver creduto negli dèi della Grecia. E oggi che cosa rimane della tradizione neopagana, distante dall’ateismo almeno quanto dal cristianesimo?


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Marziano
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MessaggioInviato: 01/09/2012, 21:28 
Il libro di Salustio è molto utile ed istruttivo; tra l'altro contiene l'idea, per quanto mi riguarda condivisibile, che l'universo esiste da sempre e sempre esisterà, pur mutando continuamente. Nessun creatore e nessuna creazione sul piano "orizzontale" del tempo ma un'intelligenza atemporale intrinseca al Cosmo, a sua volta discendente da un principio primo (ovviamente non personale, non temporale, non spaziale) individuabile solamente per via apofatica.

Giuliano fu molto generoso, ma la qualità degli uomini che aveva intorno si era notevolmente abbassata ed il suo tentativo di ripresa delle antiche tradizioni sotto l'egida del neoplatonismo non ebbe successo; probabilmente fu ucciso a tradimento da lancia cristiana, ma sia che le cose siano andate in questo modo oppure no è significativo che l'assassino fu santificato dalla chiesa, che ne avrebbe in seguito approvato in ogni caso il gesto, si tratta di San Mercurio di Cesarea.

Io penso che l'errore di Giuliano fu quello di prestare poca attenzione al legato sacrale più propriamente romano, l'unico che avrebbe potuto dargli la forza di ri-fondare l'impero su base Gentile. Del resto prestò poca attenzione agli auguri e penso che non sia stato un caso se ricevette in sogno il Genio del Senato e del Popolo Romano che lo guardò mestamente e mestamente gli voltò le spalle; ed è finita come è finita.

Ma in ambito stavolta strettamente romano e non ellenistico le vecchie tradizioni religiose (che come giustamente rimarca l'articolo non hanno nulla a che fare con illuminismo ed ateismo) erano dure a morire.

Memorabile la nobile figura di Quinto Aurelio Simmaco, di fronte al quale il vescovo Ambrogio (anche questo santificato dalla chiesa) con il suo fanatismo ed il suo disprezzo per lo Stato, la Patria e le sue avite e vetuste Tradizioni, fa ben meschina figura nella vicenda della rimozione dell'ara e della statua della Dea Vittoria.


Quinto Aurelio Simmaco in difesa della Tradizione

fonte: http://www.centrostudilaruna.it/quinto- ... zione.html
di Mario Enzo Migliori

Secondo libro edito dalle neonate e già benemerite edizioni Arya di Genova, ripropone la famosa Relatio tertia del princeps senatus Quinto Aurelio Simmaco curata da Renato del Ponte per la “Collana Studi Pagani” de il Basilisco nel 1986. Dalla precedente edizione differisce, oltre alla revisione e aggiornamento dei testi e della bibliografia, per la pubblicazione in appendice di quattro lettere di Simmaco tratte dal nono libro dell’epistolario e una ricca scelta d’immagini – commentate – relative ai Simmaci ovvero inerenti al culto romano di Victoria. Last but not least chiude il volume un interessante scritto di G. V. Sannazzari: Vica Pota, Studio preliminare sul culto della Vittoria in Roma antica.[1]

La scelta del “nuovo” titolo è coerente con il contenuto della relazione senatoriale. “Grande è l’amore per la Tradizione”[2] in quest’affermazione è racchiusa l’essenza della posizione religiosa e politica del Console Quinto Aurelio Simmaco “l’oratore” (considerato dai contemporanei persino superiore allo stesso Cicerone)[3] e di una delle principali linee di tendenza, quella conservatrice-tradizionalista, caratterizzanti i pagani nella Roma del IV secolo. In effetti, escludendo opere più voluminose quali i Saturnalia di Macrobio, quale scritto è il più indicato per rappresentare la società pagana in quella triste epoca che vide legalizzato il sopraffare della religione monoteista e intollerante, organizzata in quella chiesa che con i suoi massimi esponenti in quel tempo realizzò la laicizzazione della res publica – per poi sopraffarla – con tutte le conseguenze che ha determinato?


I problemi posti sono sostanzialmente giuridici: “Noi rivendichiamo pertanto lo stato giuridico dei culti religiosi, che per lungo tempo fu utile alla cosa pubblica”[4]; in effetti, dall’ambiguo Costantino[5] in poi, benché gli imperatori – escluso, naturalmente, Giuliano – fossero cristiani, i culti tradizionali e i relativi sacrifici continuarono a mantenersi a spese dello Stato e gli stessi principi cristiani continuarono a rivestire la suprema carica della religione pubblica romana: il Pontificato Massimo. Sotto la particolare influenza del vescovo Ambrogio il giovane Graziano soppresse tra i titoli imperiali quello di pontifex maximus[6] (senza assumerne nel contempo altra nella religione professata)[7]; privò le vestali e i collegi sacerdotali delle immunità e delle sovvenzioni pubbliche e ne confiscò i beni; fece nuovamente rimuovere l’altare della Vittoria dalla Curia Julia sede del Senato di Roma operando così la laicizzazione dello Stato [ 8 ].

“Per i pagani questi provvedimenti erano privi di senso, in quanto per loro la res publica non avrebbe potuto sostenersi senza il cultus deorum, garante la pax deorum, vale a dire la protezione divina sulle sorti dell’Impero. Era come se venisse unilateralmente infranto un antico patto giuridico: quello che, a partire da Romolo e Numa, era stato stipulato fra res publica Romanorum e potenze divine, col fine ultimo della tutela e conservazione della comunità dei Romani. Abolire il finanziamento pubblico ai culti tradizionali era rompere quell’antico contratto: ecco perché non potevano esistere culti, che non avessero pubblica sanzione e finanziamento.”

“Senza un riconoscimento pubblico, giuridicamente valido, i culti rientravano nella sfera privata, ma la res publica perdeva la sua anima, diveniva un’entità desacralizzata priva di luce e riferimento superiore, con conseguenze gravissime facilmente immaginabili: la caduta della stessa res publica, abbandonata a se stessa da quelle divinità che l’avevano sostenuta per undici secoli e mezzo”.[9]

A ciò cercò di opporsi il Senato inviando una prima ambasceria guidata da Simmaco alla corte in Milano per il ristabilimento dello status quo, ma a causa della scorretta iniziativa dei vescovi di Milano e Roma e di alcuni cortigiani la delegazione non fu nemmeno ricevuta.

Una nuova occasione si presentò col nuovo imperatore Valentiniano II.

I tempi sembrarono più favorevoli, Simmaco viene ricevuto e la sua relazione, il cui testo è qui riproposto, viene apprezzata dai consiglieri dell’imperatore, sia cristiani sia pagani, per la giustezza delle argomentazioni riportate.

Il Senato vedrà bloccate le sue richieste per il doppio rapido intervento di Ambrogio presso il giovane imperatore[10]: le esplicite minacce di scomunica, dai possibili effetti dirompenti sul piano politico per una corte debole[11] sortirono il loro effetto[12].

Dopo pochi anni gli imperatori cristiani succubi dei loro vescovi (Ambrogio rivendicò a sé il diritto di giudicare e assolvere anche capi di Stato; Teodosio si sottomise a ciò e il vescovo milanese si fece pagare caro il suo perdono) imposero leggi sempre più intolleranti[13]. “Ma i templi non si chiusero, i collegi sacerdotali non si sciolsero: di lì a poco la rivolta di Eugenio ed Argobaste sopraggiungeva a determinare il crollo del sistema teodosiano in Occidente.”

“Fra il 392 e il 394 torna in Senato, per l’ultima volta, l’ara Victoriae, i contributi ai collegi sono restaurati, i cembali della Grande Madre risuonano ancora per le vie di Roma. Ma è un sogno di breve durata…”.[14]

La relazione di Simmaco era caratterizzata, come la vita e le opere del suo autore, dal naturale rispetto delle altrui fedi (caratteristica tolleranza pagana). Quella di Simmaco è “la fedeltà ad una linea di conservazione intransigente, e coerente in tutte le sue manifestazioni, del mos maiorum indigeno, di quella corrente latina e italica che, dal mondo indistinto e pur luminoso delle origini di rex Saturnus, si snoda nel percorso di tutta la storia di Roma sino alle sue estreme manifestazioni ufficiali”.[15]

Da ricordare anche l’importanza avuta dal circolo simmachiano per la trasmissione del pensiero dell’antichità sino ai giorni nostri: “senza Simmaco non vi sarebbe stato un Boezio e senza Boezio forse Dante non sarebbe stato tale e il mondo della classicità latina sarebbe poco più che un muto residuo archeologico e non quella realtà che per molti ancora vive di luce propria”.[16]

QUINTO AURELIO SIMMACO, In difesa della Tradizione, Edizioni Arya, Genova 2008, pp. 96, € 16,00 (a cura di Renato Del Ponte).

Recensione originariamente pubblicata in “Arthos”, a. VII, n.s., n° 16, 2008, pp. 88-90.

Note

[1] Rivisitazione di quello apparso in “Arthos“, 30, 1986, pp. 226-232.

[2] Symm., Relatio III, 4.

[3] Cfr. PRUDENZIO, Contra Symmachum, I, 633.

[4] Symm., Rel. III, 3.

[5] Su Costantino e la sua politica religiosa cfr. P. P. Onida, Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica, in AA. VV., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino imperatore tra Oriente e Occidente, a cura di F. Sini e P. P. Onida, Torino 2003, pp. 73-169. V. anche M. E. Migliori, Haruspices e mos maiorum, “Vie della Tradizione”, 145, gen.-apr. 2007, pp. 22-29; I. Ramelli, Cultura e religione etrusca nel mondo romano, La cultura etrusca dalla fine dell’indipendenza, Alessandria 2005 (rist.).

[6] E’ noto chi in seguito e ancora oggi utilizza abusivamente tale qualifica.

[7] Ben diversamente erano andate le cose nella parte orientale dell’Impero. Cfr. R. del Ponte, Altera Roma. I riti di fondazione di Costantinopoli secondo il Diritto Sacro Romano, in Id., La città degli Dei, La tradizione di Roma e la sua continuità, Genova 2003, pp. 141-152.

[ 8 ] Cfr. R. del Ponte, Simmaco e i suoi tempi, saggio introduttivo all’ed. recensita, pp. 24-26 e F. Canfora, Simmaco e Ambrogio o di un’antica controversia sulla tolleranza e sull’intolleranza, Bari 1970, p. 11.

[9] R. del Ponte, Simmaco…, cit., pp. 26.

[10] Cfr. Ambr. Ep. 17 e 18.

[11] Il vescovo disponeva anche di una grande massa di manovra: “la Chiesa (…) che ha cura dei poveri, li iscrive in appositi ruoli nell’ambito di ciascuna sua circoscrizione, di ciascuna diocesi, provvede a fornir loro regolarmente il minimo necessario per il loro sostentamento, esigendo per contro ch’essi siano docili, sottomessi, sobri nei modi, contenti del proprio stato, presenti in gran numero alle cerimoonie religiose, ascoltatori assidui delle prediche domenicali, pronti a sostenere in ogni controversia o pubblico contrasto il proprio vescovo (F. Canfora, op. cit., p. 103).

[12] Strumentali erano le altre affermazioni di Ambrogio; p. e. non era vero che Graziano avesse semplicemente inteso stabilire una condizione di parità giuridica dei culti religiosi tollerati, perché in realtà non aveva toccato i diritti patrimoniali ed ereditari della chiesa (Cfr. R. del Ponte, Simmaco…, p. 25, n. 33). Lo stesso Ambrogio “di ricchissima famiglia, con case a Roma e possedimenti estesi in Africa e altrove, non esita, appena consacrato vescovo, a donare, secondo attesta il suo segretario e biografo Paolino, tutti i suoi beni mobili e immobili alla Chiesa, ma con la riserva che a goderne l’usufrutto, vita natural durante, sia la sorella Marcellina; sì che, in realtà, la rendita di tante ville e terreni resta a entrambi assicurata – all’una come usufruttuaria, all’altro come fratello dell’usufruttuaria o come vescovo – per la durata che a tutti e due, privi quali sono di discendenza (e privo anche di discendenza l’altro loro fratello Satiro), solo necessita”op. cit., pp. 101-102, n. 120). Ogni ulteriore commento è superfluo. (F. Canfora, op. cit., pp. 101-102, n. 120). Ogni ulteriore commento è superfluo.

[13] A proposito di “intolleranza” vedasi ora: R. del Ponte, Una questione antica e sempre attuale: “tolleranza” e libertà religiosa da Simmaco ad oggi, la validità dell’esempio romano, “Arthos“, n. s., 15, 2007, pp. 117-123.

[14] R. del Ponte, Simmaco…, pp.28-29.

[15] Idem, pp. 21-22.

[16] Idem, p. 29.


Ultima modifica di quisquis il 01/09/2012, 21:58, modificato 1 volta in totale.


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Marziano
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MessaggioInviato: 01/09/2012, 22:52 
Giuliano parlava male il latino, e certamente preferiva il greco per scrivere. Sicuramente, se qualcosa di questa versione apocrifa propagandata da Filostorgio (il quale comunque dice che Giuliano avrebbe bestemmiato il Sole più che altro) è vera, certamente in un momento tanto drammatico Giuliano avrebbe parlato in greco.

Mi venga in aiuto chi conosce il greco con un po' di aoristo.



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