http://www.magdalaproject.org/WP/?p=92[1] La mia famiglia non è oscura, anzi, è di discendenza sacerdotale: come presso ciascun popolo esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale.
[2] Per quanto mi riguarda, la mia famiglia non discende semplicemente da sacerdoti, ma dalla prima delle ventiquattro classi sacerdotali, il che è già di per sé un segno di distinzione, e, all’interno di questa, dalla più illustre delle tribù. Inoltre, per parte di madre sono imparentato con la famiglia reale, giacché i discendenti di Asmoneo, dei quali lei è nipote, detennero per lungo tempo il sommo sacerdozio e il regno del nostro popolo.
[3] Questa è la mia genealogia, e la esporrò. Nostro bisavolo fu Simone, soprannominato «il Balbuziente»; visse al tempo del sommo sacerdozio del figlio del sommo sacerdote Simone, al tempo cioè di colui che per primo tra i sommi sacerdoti ebbe nome Ircano.
[4] Simone il Balbuziente ebbe nove figli, dei quali uno, Mattia, chiamato «figlio d’Efeo», prese in moglie una figlia del sommo sacerdote Gionata, il primo tra gli Asmonei a rivestire il sommo sacerdozio e fratello del sommo sacerdote Simone. Durante il primo anno del regno di Ircano, a Mattia nacque un figlio, Mattia detto «il Gobbo».
[5] Da costui, nel nono anno del regno di Alessandra, nacque Giuseppe, e da Giuseppe nacque Mattia, nel decimo anno del regno di Archelao; infine, da Mattia nacqui io, il primo anno dell’impero di Gaio Cesare4. lo ho tre figli: Ircano, il più grande, nato nel quarto anno del regno dell’imperatore Vespasiano, poi Giusto, nato nel settimo, e Agrippa, nel nono.
[6] Questa è dunque la genealogia della nostra famiglia: la riproduco come l’ho trovata registrata negli archivi pubblici, con buona pace di coloro che tentano di screditarci.
2.
[7] Mio padre Mattia si segnalava non solamente per la nobiltà della stirpe, ma più ancora per la sua rettitudine, e godeva di grande reputazione a Gerusalemme, la nostra capitale.
Quanto a me, mentre venivo educato insieme con Mattia, che è mio fratello sia per parte di padre che di madre, avevo raggiunto un livello di istruzione notevole, tanto da procurarmi fama di eccellenza per capacità mnemoniche e intellettive.
[9] Quand’ero ancora poco più di un bambino, all’incirca sui quattordici anni, grazie alla mia passione per lo studio ricevevo gli elogi di tutti, dato che venivo di continuo avvicinato dai sommi sacerdoti e dalle persone più importanti della città che richiedevano il mio parere per interpretazioni particolarmente sottili delle leggi.
[10] Giunto intorno ai sedici anni, volli fare esperienza delle tendenze dottrinali esistenti presso di noi, che sono tre, come ho avuto più volte modo di dire, e cioè la prima, dei Farisei, la seconda, dei Sadducei, e la terza, degli Esseni; avrei potuto scegliere la migliore, così pensavo, solo se le avessi conosciute tutte a fondo.
[11] Le praticai infatti tutte e tre, applicandomi seriamente e sottoponendomi a non poche fatiche; giudicando tuttavia insufficiente per me l’esperienza fattavi, e venuto a sapere che nel deserto viveva un tale di nome Banno, che si vestiva con quanto ricavava dagli alberi e si cibava di ciò che cresceva spontaneamente, facendo di giorno e di notte frequenti abluzioni con acqua fredda a scopo purificatorio, divenni suo emulo.
[12] Dopo tre anni trascorsi con lui, soddisfatto così il mio desiderio, ritornai in città. A diciannove anni presi dunque a vivere seguendo i precetti della scuola farisaica, che si avvicina a quella che i Greci chiamano stoica
3.
[13]. Tra i ventisei e i ventisette anni mi accadde di partire alla volta di Roma, per il motivo che ora verrà indicato. Nel periodo in cui era in carica come procuratore di Giudea, Felice aveva mandato a Roma a giustificarsi di fronte all’imperatore alcuni sacerdoti, a me noti come ottime persone, che aveva arrestato dietro accuse risibili.
[14] Io allora, volendo escogitare un modo per salvarli, soprattutto perché ero venuto a sapere che nemmeno nella disgrazia avevano dimenticato la pietà verso Dio e si nutrivano di fichi e di noci, mi recai a Roma, correndo grandi rischi durante la traversata.
[15] Infatti, colata a picco la nostra nave in mezzo all’Adriatico, in circa seicento, quanti eravamo, nuotammo per tutta la notte; al sorgere del giorno, per divina provvidenza, ci apparve una nave cirenea, e io con alcuni altri, un’ottantina di persone in tutto, che eravamo stati più svelti, fummo issati a bordo.
[16] Così, arrivato sano e salvo a Dicearchia, che gli Italici chiamano Pozzuoli, strinsi amicizia con Alituro (era un mimo, di nazionalità giudaica, assai gradito a Nerone), grazie al quale fui presentato a Poppea, la moglie dell’imperatore; allora provvidi quanto prima a scongiurarla di far liberare i sacerdoti. Ottenuto da Poppea non solo questo beneficio, ma anche grandi favori, me ne tornai in
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[17] Vi trovai già i primordi delle agitazioni rivoluzionarie, e molti che si scaldavano progettando la rivolta contro i Romani. lo tentai allora di calmare i sediziosi e di persuaderli a cambiare idea, aprendo loro gli occhi su chi erano coloro ai quali volevano fare la guerra, e di convincerli che non solo erano militarmente inferiori ai Romani, ma anche meno fortunati;
[18] e che non suscitassero, in maniera sconsiderata e assolutamente demenziale, il pericolo di scatenare le peggiori disgrazie contro la loro patria, le loro famiglie e loro stessi.
[19] Parlavo così, cercando insistentemente di dissuaderli, giacché prevedevo che l’esito della guerra sarebbe stato per noi catastrofico. Ma non riuscii a convincerli: ad avere la meglio fu la follia di quegli scervellati.
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[20] Poiché anzi ebbi paura, continuando a esprimermi in tal senso, di giungere a farmi odiare in quanto sospettato di intesa col nemico, e di correre il rischio dell’arresto e poi dell’uccisione da parte loro (era già occupata l’Antonia, che era una fortezza), mi ritirai all’interno del tempio.
[21] Uscito dal mio rifugio nel tempio dopo 1#8242;eliminazione di Menahem e dei capi della banda di terroristi io, ripresi a frequentare i sommi sacerdoti e i Farisei più eminenti.
[22] Eravamo presi da un’inquietudine irrimediabile, giacché vedevamo da una parte il popolo pronto a combattere, e noi dall’altra che non sapevamo cosa fare, non essendo comunque in grado di far cessare l’attività dei sediziosi; e dato che ci trovavamo chiaramente in pericolo, dicevamo di condividere le loro posizioni, ma consigliavamo loro di rimanere tranquilli e di lasciare che fossero i nemici ad attaccare, affinché risultasse credibile che prendevano le armi per legittima difesa.
[23] Agivamo così sperando che di lì a non molto Cestio, avanzando con un grande esercito, avrebbe posto fine all’insurrezione.
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[24] Ma quando egli fu arrivato ed ebbe attaccato battaglia, fu sconfitto con gravi perdite dei suoi. La sconfitta di Cestio si risolse in una sciagura per tutta la nostra nazione: i fautori della guerra ne furono ancor più esaltati e, visto che avevano vinto i Romani una volta, credevano di poterli vincere del tutto; ma era sopraggiunto anche un altro fattore, questo.
[25] Gli abitanti dei dintorni delle città di Siria catturarono e massacrarono i Giudei là residenti, compresi le donne e i bambini, senza avere alcuna accusa da imputare loro, visto che né avevano progettato alcuna sedizione antiromana, né avevano complottato ostilmente contro i Siriani stessi.
[26] Gli abitanti di Scitopoli furono quelli che fra tutti si comportarono nel modo più empio e iniquo. Avendoli infatti assaliti dei Giudei loro nemici che venivano da fuori, essi costrinsero i Giudei della loro città a prendere le armi contro i connazionali, il che per noi è illecito, e attaccando unitamente con loro sconfissero gli assalitori; ma dopo la vittoria, dimentichi delle garanzie date ai concittadini e alleati, li uccisero tutti quanti erano, diverse decine di migliaia.
[27] La stessa sorte ebbero anche i Giudei residenti a Damasco. Di loro ho però dato notizie più dettagliate nella mia opera sulla guerra giudaica; ora li ho ricordati solo con l’intento di dimostrare ai lettori che l’iniziativa della guerra contro i Romani non fu dovuta tanto ai Giudei, quanto piuttosto alla fatalità.
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[28]Dunque, dopo la sconfitta di Cestio di cui ho detto, le autorità di Gerusalemme vedevano che mentre i terroristi e con loro gli insorti avevano armi in abbondanza, c’era invece il timore che loro stessi, essendo senz’armi, soccombessero ai nemici, il che in effetti in seguito accadde; venuti allora a sapere che non tutta la Galilea si era ribellata ai Romani, ma che una parte della regione era ancora tranquilla,
[29] vi inviarono me e altri due degnissimi sacerdoti, Gioazaro e Giuda, con l’incarico di persuadere i malintenzionati a deporre le armi, e di convincerli che era meglio tenerle in serbo per i governanti della nazione. Costoro avevano deciso di tenere le armi sempre pronte per ogni evenienza, ma intanto di aspettare per sapere che cosa avrebbero fatto i Romani.
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[30]Con queste consegne, dunque, io giunsi in Galilea. Vi trovai gli abitanti di Sefforis in uno stato di non lieve preoccupazione per la loro città, giacché i Galilei avevano deciso di saccheggiarla, a causa dei sentimenti filo-romani dei suoi abitanti, dal momento che avevano promesso ufficialmente fedeltà al governatore di Siria Cestio Gallo.
[31] Io però li liberai completamente dai loro timori, dopo che ebbi riconciliato con loro la moltitudine ed ebbi ottenuto per loro di intrattenere relazioni ogni volta che lo volessero con i concittadini trattenuti a Dora come ostaggi da Cestio; la città di Dora è in Fenicia. Trovai invece gli abitanti di Tiberiade già dediti alla lotta armata, per questo motivo.
9.
[32] In città vi erano tre fazioni, una degli uomini ragguardevoli, e la guidava Giulio Capello.
[33] Costui, e tutti quelli con lui – Erode figlio di Miaro, Erode figlio di Gamalo e Compsos figlio di Compsos; invece il fratello di quest’ultimo, Crispo, che un tempo era stato un intendente del grande re, si trovava nelle sue proprietà al di là del Giordano –
[34] tutti i suddetti, insomma, erano del parere, in quella circostanza, di mantenersi fedeli ai Romani e al re. Non condivideva invece quest’opinione Pistos, vuoi istigato da suo figlio Giusto, vuoi per la sua naturale mancanza di equilibrio.
[35] La seconda fazione invece, composta di uomini senza alcun peso, aveva deciso per la guerra.
[36] Quanto a Giusto, il figlio di Pistos, a capo della terza fazione, fingeva di essere indeciso riguardo alla guerra, ma in realtà covava velleità rivoluzionarie, ritenendo di poter trarre dal rivolgimento del potere per sé.
[37] Fattosi dunque avanti, tentava di dimostrare alla folla che la città aveva sempre avuto una posizione di predominio in Galilea, almeno ai tempi di Erode il Tetrarca, il quale ne era stato il fondatore e aveva voluto che la città di Sefforis dipendesse da Tiberiade; e che loro, i cittadini di Tiberiade, non avevano perduto questo primato nemmeno sotto il re Agrippa Padre, ma l’avevano mantenuto fino al tempo del procuratore di Giudea Felice.
[38] Ora invece, diceva, era toccata loro la sfortuna di essere stati dati in dono da Nerone ad Agrippa il Giovane; così, subito dopo che si era sottomessa ai Romani, Sefforis aveva assunto un ruolo predominante in Galilea, mentre da loro, a Tiberiade, erano stati rimossi la banca reale e gli archivi.
[39] Dicendo queste cose contro il re Agrippa, e molte altre ancora, per incitare il popolo alla rivolta, aggiunse che quello era il momento di prendere le armi e, dopo essersi associati come alleati i Galilei (costoro infatti avrebbero acconsentito a lasciare loro il comando, a causa dell’odio che avevano per gli abitanti di Sefforis, i quali si mantenevano fedeli ai Romani), di vendicarsi dei Sefforitani per mezzo di un grande numero di uomini.
[40] Con queste parole mise in subbuglio la moltitudine; era infatti un abile demagogo, in grado di sopraffare con l’astuzia e il fascino della sua retorica anche gli argomenti migliori di chi lo contraddiceva. Del resto, non era sprovvisto di cultura greca, confidando audacemente nella quale intraprese a scrivere una storia di questi avvenimenti, credendo di poter avere la meglio sulla verità grazie alla sua eloquenza.
[41] Ma a proposito di quest’uomo, col procedere della narrazione mostrerò quanto spregevole sia stata la sua vita e come praticamente sia stato lui, insieme con suo fratello, il responsabile dell’inizio della catastrofe.
[42] In quella occasione Giusto, dopo aver convinto i cittadini a prendere le armi e avendovi costretto anche coloro che erano contrari, partito alla testa di tutti costoro incendiò i villaggi di Gadara e Hippos, che si trovavano prossimi al territorio di Tiberiade e a quello di Scitopoli.
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[43]Questa era pertanto la situazione di Tiberiade. A Giscala invece le cose stavano casi: Giovanni figlio di Levi, vedendo che alcuni cittadini erano esaltati all’idea della ribellione ai Romani, si adoperava per calmarli e pretendeva che si mantenessero fedeli.
[44] Tuttavia, nonostante il suo impegno appassionato, non vi riuscì. Infatti le genti dei dintorni, Gadaresi e Gabaresi, Soganei e Tirii, raccolte forze considerevoli e attaccati gli abitanti di Giscala, presero la città con la forza; la incendiarono, poi la rasero al suolo e fecero ritorno alle loro sedi.
[45] Giovanni allora, reso furente dall’accaduto, armò tutti i suoi concittadini e, guidatoli all’attacco contro le genti nominate sopra, le sconfisse; ricostruita quindi Giscala con maggiori difese, per sua futura sicurezza la provvide di fortificazioni.
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[46]Gamala invece restò fedele ai Romani, per il seguente motivo. Filippo figlio di Jachim, intendente del re Agrippa, dopo essersi miracolosamente salvato con la fuga dall’assedio del palazzo reale di Gerusalemme, era incorso in un altro pericolo, tanto che rischiò di essere eliminato da Menahem e dalla sua banda di briganti;
[47] ma alcuni Babilonesi imparentati con lui che si trovavano a Gerusalemme impedirono ai briganti di procedere all’esecuzione. Filippo dunque, dopo essere rimasto laggiù per quattro giorni, il quinto si diede alla fuga, utilizzando una parrucca per non farsi riconoscere. Giunto poi in uno dei villaggi sotto la sua giurisdizione, situato ai confini del territorio della fortezza di Gamala, mandò ad alcuni dei suoi uomini l’ordine di recarsi da lui.
[48] Ma la provvidenza divina fortunatamente lo ostacolò nel suo progetto; se infatti ciò non fosse avvenuto, egli sarebbe certamente morto. Colpito da un improvviso attacco di febbre, scrisse una lettera ai giovani Agrippa e Berenice e la diede a uno dei suoi liberti che la recapitasse a Varo.
[49] Quest’ultimo era a quel tempo l’amministratore del regno dietro incarico dei sovrani; essi, volendo incontrarsi con Cestio, si erano recati a Berito.
[50] Varo dunque, ricevuta la lettera di Filippo e venuto così a sapere che egli si era salvato, se ne ebbe a male, comprendendo che i suoi servigi sarebbero in futuro apparsi inutili ai sovrani, dal momento che arrivava Filippo. Avendo dunque trascinato di fronte alla folla il latore della lettera e accusatolo di averla falsificata, sostenendo che quello aveva mendacemente annunciato che Filippo a Gerusalemme stava combattendo con i Giudei contro i Romani, lo mise a morte.
[51] Nel frattempo Filippo non sapeva spiegarsi come mai il suo liberto non facesse ritorno; inviò allora un secondo messaggero, che tornasse a riferirgli che cosa mai era accaduto al primo inviato e per quale motivo egli tardava.
[52] Ma, al suo arrivo, Varo condannò a morte anche lui con accuse infondate. Era infatti stato condotto a nutrire ambizioni smodate dai Siriani di Cesarea, i quali andavano dicendo che Agrippa sarebbe stato messo a morte dai Romani in seguito a denunce dei Giudei, e che allora il regno sarebbe stato suo, visto che era di discendenza regale. Che Varo fosse di lignaggio regale, in quanto discendente del tetrarca del Libano Soemo, era un fatto universalmente accettato.
[53] Dunque Varo, accecato da queste ambizioni, tenne per sé le missive, cercando di non farle capitare in mano al re, e fece sorvegliare tutte le uscite della città, in modo che nessuno corresse a raccontare al re il suo operato. Inoltre, per ingraziarsi i Siriani di Cesarea, fece uccidere parecchi Giudei.
[54] Volle anche, armate delle truppe in accordo con gli abitanti della Traconitide in Batanea, condurre una spedizione contro i Giudei «Babilonesi», come erano chiamati, di Ecbatana.
[55] Convocati allora i dodici Giudei più eminenti di Cesarea, ordinò loro di recarsi a Ecbatana per comunicare questo ai loro connazionali residenti laggiù: «Varo, pur non prestando fede a ciò che ha udito di voi, che cioè state per marciare contro il re, ci ha mandati a intimarvi di deporre le armi; il vostro consenso costituirà per lui la prova che ha agito bene non dando credito alle voci su di voi».
[56] Aveva anche ordinato che gli mandassero i settanta cittadini più autorevoli a discolparsi dell’accusa mossa contro di loro. Così i dodici, recatisi dai connazionali di Ecbatana, e constatato che quelli non avevano alcuna intenzione rivoluzionaria, li convinsero a inviare i settanta rappresentanti.
[57] Ed essi li inviarono poiché non avevano assolutamente sospettato ciò che stava per capitare loro. Così quelli scesero verso Cesarea insieme con i dodici ambasciatori. Allora Varo, fattosi loro incontro con l’esercito reale, li massacrò tutti, compresi gli ambasciatori, e si mise in marcia contro i Giudei di Ecbatana.
[58] Tuttavia uno dei settanta, che si era salvato, riuscì a precederlo avvertendoli, e quelli, armatisi, si ritirarono con le mogli e i figli nella fortezza di Gamala, abbandonando i loro villaggi abbondantemente riforniti e ricchi di migliaia di capi di bestiame.
[59] Filippo, venuto a conoscenza di ciò, si recò anch’egli alla fortezza di Gamala; al suo arrivo, la folla lo esortò a gran voce a prendere lui il comando, e a combattere contro Varo e contro i Siriani di Cesarea; si era infatti diffusa la voce che il re fosse stato assassinato da costoro.
[60] Filippo dal canto suo cercava di calmare gli ardori, rammentando loro i benefici ricevuti dal re e insistendo sulle dimensioni della potenza dei Romani; contro costoro, continuava a dire, non conveniva sollevare una guerra, e alla fine riuscì a convincerli.
[61] Il re intanto, venuto a sapere che Varo era in procinto di massacrare in un solo giorno migliaia e migliaia di Giudei di Cesarea, compresi le donne e i bambini, lo richiamò presso di sé mandando a sostituirlo Equo Modio, come ho spiegato altrove. Così Filippo mantenne il comando della fortezza di Gamala e del territorio circostante, che rimasero fedeli ai Romani.
12.
[62] Io, dopo che fui giunto in Galilea e venni informato di questa situazione, la riferii per iscritto ai membri del Sinedrio di Gerusalemme, chiedendo le loro istruzioni sul da farsi. Essi mi mandarono a dire di rimanere sul posto e di provvedere alla Galilea, trattenendovi anche i miei colleghi di delegazione, se lo volevano.
[63] I miei colleghi però, provvisti del molto denaro delle decime consegnate loro, che in quanto sacerdoti ricevevano di diritto, avevano deciso di tornarsene a casa; ma, alla mia richiesta di restare finché non avessimo ristabilito la situazione, si convinsero.
[64] Partito dunque con loro dalla città di Sefforis, giunsi in un villaggio chiamato Bethmaus, che dista da Tiberiade quattro stadi; inviati di lì dei messaggeri ai membri del consiglio di Tiberiade e ai rappresentanti del popolo cittadino, li invitai a recarsi da me.
[65] Al loro arrivo (con loro era venuto anche Giusto), dissi che ero stato inviato presso di loro dal governo di Gerusalemme in qualità di ambasciatore, insieme con i miei colleghi, per ottenere la distruzione del palazzo fatto costruire da Erode il Tetrarca, che conteneva raffigurazioni di esseri viventi, mentre le nostre leggi vietano di costruire alcunché di simile; insistevo dunque affinché ci permettessero di procedere il più presto possibile.
[66] I compagni di Capella e gli altri notabili tergiversarono a lungo nella loro decisione, ma, costretti da noi, acconsentirono. Tuttavia a precederci fu Gesù figlio di Saffia, di cui si è detto che capeggiava il partito sovversivo dei marinai e dei nullatenenti, il quale, presi con sé alcuni Galilei, appiccò il fuoco a tutto il palazzo, pensando di poterne trarre un ricco bottino, giacché aveva visto che i soffitti di alcune sale erano ricoperti d’oro.
[67] Agendo contro la nostra volontà, perpetrarono un notevole saccheggio; noi d’altronde, dopo l’incontro con Capella e i rappresentanti di Tiberiade, ci eravamo mossi da Bethmaus alla volta dell’Alta Galilea. Allora gli uomini di Gesù massacrarono tutti i loro concittadini greci e quanti prima della guerra erano stati loro nemici.
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[68] Appreso l’accaduto, io montai su tutte le fu-rie, e ridisceso a Tiberiade mi misi energicamente a recuperare dagli autori del saccheggio tutto ciò che potevo degli arredi reali. Vi erano candelabri di fattura corinzia, tavoli reali e una considerevole quantità di argento non coniato: decisi di conservare per il re tutto quello che ero riuscito a prendere.
[69] Così, fatti venire i dieci uomini più autorevoli del consiglio, tra cui Capella figlio di Antillo, affidai loro le suppellettili, intimando di non consegnarle a nessuno fuorché a me.
[70] Quindi mi recai con i miei colleghi a Giscala, da Giovanni, poiché volevo conoscere le sue intenzioni. Mi accorsi subito che era bramoso di rivolgimenti e che aveva forti ambizioni di comando.
[71] Infatti mi chiese di autorizzarlo a impadronirsi del grano imperiale giacente nei villaggi dell’Alta Galilea: diceva che voleva impiegarne il ricavato per riparare le mura della sua città.
[72.] Io però, avendo capito i suoi progetti e quel che aveva in mente di fare, gli negai l’autorizzazione. Invece, in base all’autorità su quelle zone che mi era stata conferita dal governo di Gerusalemme, pensavo o di conservare il grano per i Romani, o di tenerlo per me.
[73] Non riuscendo pertanto a convincere me delle sue intenzioni, si rivolse ai miei colleghi; essi non si davano affatto pensiero delle conseguenze future ed erano assai disponibili ad accettare del denaro. Così, corrompendoli, li indusse a votare che tutto il grano che si trovava nel suo distretto fosse consegnato a lui. E io, solo e in minoranza contro due, dovetti lasciare perdere.
[74] Giovanni aggiunse anche un secondo imbroglio. Affermò infatti che i Giudei residenti a Cesarea di Filippo, là trattenuti per ordine del re da Modio, il quale era l’amministratore generale del regno, gli avevano mandato a chiedere, trovandosi sprovvisti di olio puro per il loro fabbisogno, che provvedesse a procurarne loro una provvista, per evitare che, spinti dalla necessità, trasgredissero le leggi usando dell’olio greco.
[75] Di certo Giovanni non parlava così per autentico scrupolo religioso, ma per evidentissima cupidigia. Giacché sapeva che da loro, a Cesarea, due sestieri d’olio si vendevano per una dracma, mentre a Giscala con quattro dracme si avevano ottanta sestieri, inviò laggiù tutto l’olio disponibile, apparentemente dietro mia autorizzazione;
[76] gliel’avevo concessa non perché fossi d’accordo, ma per paura della folla, temendo di venir lapidato in caso mi fossi opposto. Così, con il mio consenso, da questo imbroglio Giovanni ricavò grandi profitti.
14.
[77]Avendo lasciato che i miei colleghi partissero da Giscala per Gerusalemme, mi preoccupai di procurare il rifornimento delle armi e il rafforzamento delle fortificazioni delle città. Fatti venire da me i più audaci dei briganti, mi accorsi che era impossibile togliere loro le armi; allora convinsi il popolo ad assoldarli, dicendo che era meglio pagare volontariamente a quelli una modesta mercede piuttosto che lasciarsi razziare da loro le proprietà.
[78] Ottenuta dietro loro giuramento l’assicurazione che non sarebbero entrati in quel territorio a meno che non vi fossero stati chiamati, o non avessero ricevuto il compenso pattuito, li congedai, non prima di aver intimato loro di non attaccare né i Romani né le popolazioni vicine: mia principale preoccupazione era infatti mantenere la pace in Galilea.
[79] Volendo altresì, col pretesto della mia amicizia, trattenere come ostaggi, a garanzia della lealtà della regione, i personaggi più autorevoli della Galilea, in tutto circa una settantina, ne feci degli amici e dei compagni di viaggio; me li affiancai nei processi ed emisi le sentenze tenendo conto del loro parere, cercando di non commettere ingiustizia per avventatezza e di mantenermi immune da qualsiasi forma di corruzione al riguardo.
15.
[80] Avevo allora circa trent’anni, un’età nella quale, anche se uno si tiene lontano dalle passioni illecite, gli è difficile sfuggire alle calunnie dell’invidia, specialmente se si trova in una posizione di grande responsabilità; eppure, io rispettai la virtù di tutte le donne, e respinsi qualunque donativo come se non sapessi che farmene: non accettai neppure di prendere da chi me le portava le decime che, in quanto sacerdote, mi erano dovute.
[81] Tuttavia, dopo la vittoria sui Siriani che abitavano nelle città del circondario, presi una parte del bottino, e ammetto che la mandai a Gerusalemme ai miei parenti.
[82] Benché inoltre avessi preso con la forza due volte Sefforis, quattro volte Tiberiade, e una volta Gabara; e nonostante avessi avuto più volte in mio potere Giovanni, che aveva complottato contro di me, non punii né lui né nessun altro delle popolazioni suddette, come il corso della narrazione dimostrerà.
[83] Ritengo che questo sia il motivo per cui Dio mi ha salvato dalle loro mani (a Lui infatti non sfuggono coloro che compiono il loro dovere) e poi mi ha protetto dai molti pericoli nei quali ero caduto; ma di ciò parlerò più avanti.
SEGUE