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 Oggetto del messaggio: Dalla Germania arrivano i primi super-fotoni
MessaggioInviato: 27/11/2010, 07:12 
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Si chiama condensato fotonico di Bose-Einstein, e non è un congegno di un film di fantascienza. Si tratta invece di un nuovo “tipo” di luce che potrebbe diventare presto l’erede del laser. Lo ha creato un gruppo di ricercatori dell’Università di Bonn, i cui risultati sono apparsi oggi su Nature. Questa nuova sorgente di luce ha caratteristiche simili a quelle del laser, e fra le possibili applicazioni c’è la realizzazione di circuiti elettronici su scale piccolissime, permettendo di realizzare chip e computer ancora più veloci.

Il condensato di Bose-Einstein, che prende il nome dai due famosi fisici - Satyendra Nath Bose e Albert Einstein - è un particolare stato della materia che viene raggiunto quando un insieme di particelle viene portato a temperature prossime allo zero assoluto, corrispondenti a circa 273 gradi sotto lo zero. In passato, infatti, condensati di atomi, per esempio di idrogeno o di rubidio, sono stati creati abbassando moltissimo la loro temperatura.

Anche con i fotoni (che sono quanti di luce) è possibile creare un condensato, per via della loro natura intrinseca. Finora, però, non ci era mai riuscito nessuno. Non è immediato capire cosa significhi “raffreddare la luce”, ma possiamo aiutarci con un esempio tratto dall’esperienza quotidiana. Sappiamo che quanto più un corpo è caldo, tanto più emette luce a lunghezze d’onda più corte. Scaldando un pezzo di ferro, possiamo notare come prima diventi rosso e poi tenda verso il giallo. Quando invece si raffredda, passerà da giallo a rosso e successivamente emetterà luce infrarossa, invisibile all’occhio umano. Inoltre un corpo freddo emette un numero minore di fotoni. Questo vuol dire, però, che è molto complicato riuscire ad “impacchettarli” in un condensato.

Per superare questo problema, il gruppo di Bonn ha inviato un fascio di luce fra due specchi altamente riflettenti. Fra i due specchi è stato inserito un pigmento immerso in un liquido. I fotoni del raggio di luce sono stati così assorbiti dalle molecole del pigmento, che riemettono luce in base alla loro temperatura: in pratica, è come se “raffreddassero” la luce. I pochi fotoni prodotti sono inoltre “ingabbiati” fra gli specchi, e possono essere concentrati in un punto. Il risultato è un condensato di luce: una sorgente completamente nuova che può ricordare i laser. “Attualmente non siamo capaci di produrre laser a lunghezze d’onda molto corte, ad esempio nell’intervallo dell’ultravioletto o dei raggi X”, ha spiegato Jan Klars: “Con un condensato fotonico di Bose-Einstein dovrebbe tuttavia essere possibile”.

La prima applicazione di questo studio sarà la possibilità di creare circuiti elettronici molto piccoli e con altissima precisione, ma nessuno può certo immaginare quali saranno quelle future. Nel 1960, quando fu inventato il laser, nessuno immaginava che sarebbe stato utilizzato in miriadi di modi, dall’elettronica alla medicina.

Riferimento: http://www.nature.com/nature/journal/v4 ... 8517a.html

Credit Image: MerryMoonMary/iStock

Fonte: http://www.galileonet.it/articles/4cee2 ... 36f0000066


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 Oggetto del messaggio: Re: Dalla Germania arrivano i primi super-fotoni
MessaggioInviato: 19/07/2018, 16:02 
Cita:


Il fascio di luce che ristabilisce l'udito


Un impianto cocleare sperimentale di nuova generazione basato sull'optogenetica e testato su una specie di ratti potrebbe permettere ai non udenti di ascoltare musica e di comprendere il parlato anche in ambienti rumorosi. Ma gli ostacoli da superare sono ancora molti

Circa mezzo milione di persone in tutto il mondo che soffre di grave perdita dell’udito usa un impianto elettronico nelle orecchie per essere in grado di comprendere il parlato. Gli impianti cocleari, come sono conosciuti, sono una delle tecnologie di maggior successo nate dalle neuroscienze, ma forniscono solo una correzione parziale dei deficit uditivi. Non sono un dispositivo bionico che permetta alle persone di godere di una sinfonia di Mozart o di capire pettegolezzi di un amico nel frastuono di un locale. “Se vanno al ristorante, per loro è molto difficile capire il parlato”, dice Tobias Moser, neuroscienziato uditivo all’Università di Goettingen, in Germania. “E soffrono anche di suoni indesiderati.”

Gli impianti cocleari hanno un massimo di 22 canali per percepire la frequenza di un’espressione. Le nuove ricerche effettuate da Moser hanno il potenziale di superare questi limiti sfruttando la luce per stimolare con precisione i neuroni uditivi nell’orecchio interno. Moser spera che un giorno l’approccio possa migliorare l’attuale generazione di impianti cocleari e rendere il parlato in ambienti rumorosi comprensibile anche alle persone sorde.

La coclea è una struttura a spirale nell’orecchio interno che analizza le frequenze dei suoni grazie a una membrana che vibra in punti diversi in risposta alle differenti frequenze che si trovano nella lingua parlata. Le vibrazioni attivano cellule ciliate vicine che, a loro volta, stimolano i neuroni uditivi, inviando al cervello informazioni sulla frequenza lungo nervo uditivo.

La perdita neurosensoriale dell’udito implica la perdita di cellule ciliate e per aggirare il danno gli impianti cocleari stimolano direttamente i neuroni con gli elettrodi. Ma la corrente proveniente dagli elettrodi non si sposta in modo diretto e regolare dall’elettrodo a un neurone uditivo. Quando attraversa
il minuscolo spazio che li separa, tende a diffondersi, causando un’interferenza con qualsiasi elettrodo adiacente posto troppo vicino. Di conseguenza, i dispositivi sono progettati per limitare il numero di elettrodi in modo da evitare interferenze, ma limitando così anche il numero di frequenze che possono essere discriminate.

Il nuovo studio, pubblicato di recente su “Science Translational Medicine”, usa una tecnologia chiamata optogenetica che sostituisce l’elettricità con la luce. “Negli ultimi dieci anni, le prestazioni medie con gli impianti cocleari sono aumentate, quindi tutti sono alla ricerca del passo successivo”, afferma Daniel Lee, esperto in audiologia alla Harvard Medical School, che non è stato coinvolto nello studio. “L’ottica è una soluzione ragionevole, perché la luce può essere focalizzata e diretta in un modo che non è possibile con la stimolazione elettrica.” L’optogenetica, una tecnica di ricerca ampiamente usata negli studi sugli animali, consiste nell’introdurre nei neuroni alcuni geni che producono proteine sensibili alla luce (canalrodopsine, od “opsine”), permettendo l’attivazione dei neuroni con la luce.

Nel 2014 il gruppo di Moser ha pubblicato uno studio in cui ha usato roditori ingegnerizzati per esprimere le opsine fin dalla nascita. Nel nuovo studio ha usato gerbilli, detti anche ratti della sabbia, che possono sentire le basse frequenze che gli esseri umani percepiscono. I ricercatori hanno applicato la manipolazione genetica negli adulti, ricorrendo anche a un’opsina più veloce (che ha un tempo di recupero più rapido fra un’attivazione e l’altra) per migliorare la capacità del sistema di riprodurre informazioni temporali precise relative ai suoni. Gli scienziati hanno iniettato un virus nella coclea dei gerbilli, che ha portato il gene dell’opsina nei neuroni uditivi. Poi hanno usato una fibra ottica per inviare fasci di luce nella coclea attraverso un foro nella finestra rotonda (una piccola apertura tra l’orecchio centrale e l’orecchio interno). Questo ha prodotto risposte nel tronco cerebrale uditivo dei gerbilli, che erano simili a quelle evocate dal suono, e che sono rimaste stabili per settimane.

Per testare il sistema, il gruppo ha addestrato i gerbilli a evitare una scossa saltando una barriera quando sentivano un suono di allarme. Prima hanno addestrato animali dall’udito normale usando la stimolazione luminosa, dimostrando che la stimolazione ottica influisce sul comportamento. Poi hanno mostrato che gli animali addestrati con la luce saltavano anche in risposta al suono. “Questo non ci dice che i suoni erano esattamente uguali, ma che erano sufficientemente simili”, dice Moser. Infine, con una sostanza hanno reso sordi diversi gerbilli, e dimostrato che anche se non rispondevano più al suono naturale, gli animali imparavano a sfruttare rapidamente la stimolazione con la luce, dimostrando che una certa funzione uditiva era stata ripristinata. “Questi sono risultati impressionanti, che mostrano un nuovo mezzo credibile per ripristinare l’attività del sistema uditivo deficitario”, dice John Middlebrooks, neuroscienziato all’Università della California a Irvine, che non è stato coinvolto nel lavoro. “Sia pure con un notevole sforzo di ricerca futuro, c’è il potenziale per andare oltre quello che può essere realizzato con un impianto cocleare”.

Lo studio ha usato un solo canale ottico e quindi non è stato possibile misurare la risoluzione delle frequenze, e lo sviluppo di dispositivi multicanale sarà un passo importante. Le opzioni per la progettazione dei dispositivi includono schiere di micro-LED e la tecnologia a “guida d’onda” in grado di orientare la luce proveniente dalle fibre ottiche. La fibra ottica, però, consuma molta energia, e richiede dispositivi di dimensioni ingombranti. “I LED sono migliori, ma meno luminosi, quindi ancora ci sono da affrontare sfide tecnologiche”, dice Lee. “Le cose miglioreranno, soprattutto se si diverranno disponibili più opsine con soglie più basse”.

Ma restano anche altri ostacoli prima che l’approccio possa essere usato negli esseri umani. Anche se la manipolazione genetica indotta con virus non è generalmente usata per gli esseri umani, le orecchie (e gli occhi) sono buoni candidati per questi metodi, poiché sono entrambi protetti dal sistema immunitario in modo meno stringente e sono anatomicamente più isolati, così il gene inserito rimane nella sede prevista. Il tutto rappresenta una sfida, perché la coclea è isolata (è incapsulata in una conchiglia ossea) che è di difficile accesso. Il gruppo ha scoperto che meno della metà degli animali trattati ha mostrato una risposta alla luce, meno di un terzo dei neuroni ha incorporato la proteina, e circa un quarto dei neuroni sono andati perduti, presumibilmente a causa di danni dovuti all’iniezione. Di positivo c’è che i neuroni lungo la spirale della coclea hanno espresso il gene che ha prodotto la proteina opsina. Oltre ai neuroni uditivi il gruppo non ha rilevato altre cellule che avessero incorporato il gene.

I ricercatori prevedono di iniziare quest’anno le prime sperimentazioni su primati non umani, che hanno un sistema immunitario più simile al nostro, e di usare vocalizzazioni che saranno utili per confrontare le prestazioni tra i vari dispositivi. “Probabilmente nel giro di un paio di anni circa sapremo se ci sentiremo pronti a tradurre tutto questo in un dispositivo medico”, dice Moser. “Finora le cose sono andate piuttosto bene, ma c’è ancora molta strada da fare.” Moser sta fondando un’azienda, OptoGenTech, che lancerà il prossimo gennaio, per contribuire a commercializzare la tecnologia.



http://www.lescienze.it/news/2018/07/18 ... 47986/?rss


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