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 Oggetto del messaggio: L'intelligence degli Dei
MessaggioInviato: 30/03/2019, 17:59 
Luigi Baratiri, nome in codice – Benjamin – è un agente doppio del Servizio militare libico di Gheddafi e del SISMI italiano. Il 29 agosto 1992 tutti i Media del mondo, ma in particolare quelli italiani, parlano di un arresto a Rimini di due commercianti per un traffico di Uranio dall’Ex Urss: uno dei due arrestati in realtà è “Benjamin”. Ma cosa era realmente accaduto? Mentre Baratiri ritorna nell’ombra, tutto di colpo viene messo a tacere, scompare dai Media e viene dimenticato. Oggi l'ex agente decide di rivelare la sua “verità” dietro quella storia, con un saggio romanzato. Un intreccio quasi magico tra servizi segreti, lezioni di volo non autorizzate, strani "comandanti", antichi monumenti nel deserto, basi sotterranee ed intrighi internazionali vecchi come il mondo.

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Questa è storia di un'anima, di un viaggio tra costellazioni di personaggi su cui si potrebbero scrivere libri interi, tra scenari da film che si muovono troppo velocemente per la mente umana, tra simboli che solleticano l'inspiegabile desiderio di tuffarsi sempre più verso l'ignoto. Questa è la storia dell'eroe, di chi è qui da sempre, della lotta eterna per l'equilibrio finale. Così in cielo così in terra recita il Corpus Hermeticum, e allora chissà che i servizi segreti libici, italiani e americani che si alternano nelle pagine avventurose di questo romanzo, che forse tanto romanzo non è, non siano solo le controparti dei veri Servizi Segreti, l'Intelligence degli Dei.

A CHI SI RIVOLGE
Questo romanzo non può mancare nella libreria di tutti coloro che si interessano a temi legati alla simbologia, al cospirazionismo, alla piramide di potere, alla storia occulta del regime nazista, all'archeologia proibita, all’ufologia, alla mitologia e all’esoterismo in generale.


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 Oggetto del messaggio: Re: L'intelligence degli Dei
MessaggioInviato: 30/03/2019, 18:01 
Estratto #1
Tratto dal quarto capitolo: "Ombre nel deserto"

Quel giorno tornai a casa e nuovamente mi misi a studiare i luoghi dove avrei dovuto passare il mio futuro anno, anche se per sole due settimane al mese. Uno era a Ghat e non c’era nulla da studiare: era in mezzo al deserto e quindi potevo stare solo dentro la base, attrezzata con aria condizionata. Ma quello che volevo sapere sui luoghi in cui stavo per avventurarmi era qualcosa di diverso. La cosa che iniziò a interessarmi fu l’altra base dove avrei dovuto trascorrere gli ultimi sei mesi, sempre con intervalli di due settimane operative e due libere per tornare a Tripoli, in Italia o dove mi sarebbe stato gradito andare. Iniziai ad informarmi finché non trovai le seguenti informazioni sul luogo dove avrei dovuto recarmi:

Tibesti è la catena montuosa più elevata del deserto del Sahara. Di origine vulcanica, il massiccio montuoso è ubicato nel Sahara centrale e più precisamente nella regione di Borkou-Ennedi-Tibesti nella parte nord-occidentale del Ciad dove occupa una vasta area di forma grossomodo triangolare. Le pendici settentrionali del massiccio si estendono fino al territorio della Libia. Il massiccio è caratterizzato da elevate pareti di roccia vulcanica scura modellata dall’erosione. La vetta principale culmina con i 3415 metri del monte Emi Koussi, altre vette sono il Kegueur Terbi (3376 m), Tarso Taro (3325 m), il vulcano attivo Pic Tousside (3265 m), il Soborom (3100 m) e il Bikku Bitti (2260m), che si trova in territorio libico. Nel massiccio si ha un clima sensibilmente più umido di quello dell’area desertica circostante, le precipitazioni annue sulle aree più elevate sono stimate intorno ai 12 cm e l’escursione termica nell’arco della giornata è molto ampia. L’area fu abitata dalle popolazioni Tebu che intrattenevano relazioni commerciali con Cartagine fin nel lontano 500 a.C. Le montagne sono note per le loro pitture rupestri risalenti a epoche comprese fra il 5000 a.C. e il 3000 a.C. Nel massiccio si trovano diversi geyser e sorgenti di acqua calda, vi si trova inoltre un cratere vulcanico largo oltre 3 miglia ricoperto di sale bianchissimo. Il principale centro abitato è Bardaï, centri minori sono Zouar e Aouzou.

Più lo leggevo e più era come se il mo cervello andasse per i fatti suoi senza la mia volontà. Io stavo solo a guardare, e lo seguivo. Aouzou stava nella striscia per cui Gheddafi pochi anni prima aveva scatenato una guerra pazzesca contro il Ciad, sostenendo i ribelli e annettendo al suo territorio praticamente tutta la zona. La cosa incredibile era che quella regione è ricchissima di uranio, ma quello che mi colpiva di più era il fatto che, come avevo appena letto, in quella zona c’erano tracce di passaggi umani risalenti ad almeno 7000 anni fa. Cercavo di lottare con me stesso, mi ripetevo che non mi interessava per nulla, che io dovevo fare il mio lavoro e non vedevo perché tutto ciò mi stesse insidiando la mente: cosa diavolo mi stava accadendo? Perché mi spingevo ad interessarmi a queste tematiche? Mi balzarono in testa idee di ogni genere, ma ciò che più mi preoccupava era la pubblicità della birra con il pinguino. Pensai che non potevo sottrarmi, dovevo seguire quello che il destino aveva in serbo per me. Ebbi a quel punto la certezza che non stavo andando lì solo ad addestrare piloti per soldi e passione e anche, perché no, per potere, ma che qualcosa mi stava chiamando e mi stava portando lì per altre ragioni, molto più importanti. Beh’, per oggi è abbastanza dissi tra me e me, cercherò di non pensarci più sino a lunedì, quando incontrerò il colonnello Mansour, e gli porrò qualche domanda a riguardo di questa faccenda, senza ovviamente andare nello specifico ma cercando di capire dalle sue risposte qualcosa in più. Non mi interessavano informazioni sul lavoro offertomi, ma sulla zona e soprattutto sul perché una base aerea fosse posta lì, e come mai il corso di base anzi, nel mio caso quello pre-basico, ai giovani piloti non si sarebbe potuto fare nelle vicinanze di Tripoli invece che in in basi molto più lontane e segrete. Me ne andai al mare e cercai di non pensarci sino a domenica sera, quando mi sarei preparato qualche domanda da porre al mitico Colonnello Mansour.
Il venerdì, giorno di festa nei Paesi musulmani, come sempre andai alla spiaggia. Era una giornata a dir poco stupenda e caldissima. Raggiunsi la spiaggia privata del complesso residenziale in cui alloggiavo.
Era bellissimo: c’erano gli Ambasciatori con le loro famiglie, c’erano vari clubs, campi da tennis, palestre e all’ingresso parecchi militari. Nessuno poteva entrarvi se non invitato o in compagnia di un residente.
Appena arrivato in spiaggia incontrai Adnan, un mio amico di vecchia data che però non vedevo da qualche mese. Fu una gioia per me, perché faceva parte del gruppo di amici d’infanzia con i quali sono cresciuto, nonostante, come proprio nel suo caso, alcuni di loro li avessi persi di vista da tempo. Tripoli, alla fine, allora era piccola e i luoghi d’incontro, specie per gente che viveva più “all’occidentale”, erano pochi, quindi prima o poi ci si incontrava e si faceva affidamento proprio su questo per mantenere i contatti. Adnan era il figlio del più quotato archeologo della Libia che insegnava all’Università di Tripoli e aveva deciso di seguire le orme del padre. Lo accompagnava sin da piccolo nelle sue esplorazioni e per la sua età era molto preparato, soprattutto per ciò che riguardava il passato del popolo e del territorio libico, deserto sahariano compreso.
Prendemmo un drink sulla terrazza del casotto sulla spiaggia entrambi contenti di esserci rivisti. Discutemmo di più cose ma, ad un certo punto, mi saltò in mente così, come un lampo, la forma della struttura che avevo visto nel deserto, come la cuspide di una piramide. Non ci avevo pensato subito ma Adnan era la persona più adatta per aiutarmi a capirne di più. Gli spiegai la cosa e rimasi sorpreso quando mi disse candidamente: «Forse mio padre ne sa di più, anzi sicuramente. Quanto a me, non credo ci sia nulla da quelle parti».
Al che io gli dissi:
«Adnan, quello che mi interessa sapere è se è possibile che io abbia preso un abbaglio, che si possa trattare del gioco del vento sulle dune,oppure no».
«Non credo sia il tuo caso Luigi» mi rispose.
«Allora, Adnan, devi farmi un favore. Chiedi a tuo padre se gli risulta che da quelle parti ci sia qualcosa» gli diedi le coordinate precise, dato che le avevo memorizzate perfettamente.
«Se non mi chiami vuol dire che è solo un mio errore di valutazione; in caso contrario mi raccomando chiama, perché considero la cosa molto importante».
Adnan mi disse che mi avrebbe chiamato comunque. Ci salutammo ripromettendoci di non perderci più di vista per mesi come accaduto negli ultimi tempi, e anzi Adnan aggiunse:
«Facciamo una cosa, vieni a cena da noi così parliamo direttamente con mio padre».
«Ottimo Adnan,» risposi «vengo molto volentieri!».
Mi disse ancora:
«Facciamo dopodomani, perché tra due giorni è certo che mio padre sarà a casa».
«Ok, chiamami domani sera per conferma» gli dissi.
Il traffico di quel lunedì mattina era particolarmente intenso, la mia Land Rover, sprovvista di aria condizionata con i vetri aperti risultava ancora vivibile, ma quando il traffico era fermo c’era da impazzire dal caldo.
Per questo portavo sempre con me delle camicie o delle t-shirt di ricambio. Arrivai davanti alla grande base dell’Aeronautica Militare dove il colonnello Mansour mi attendeva nel suo ufficio. Mi cambiai la camicia, mi diedi una sistemata e mi incamminai verso il mio destino, perché capivo perfettamente che stavo andando dritto verso ciò che il fato mi aveva riservato. Quello era il primo dei passi che mi avrebbero catapultato verso scenari per i quali stavo preparandomi dalla nascita, seppur inconsciamente...

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 Oggetto del messaggio: Re: L'intelligence degli Dei
MessaggioInviato: 30/03/2019, 18:04 
Estratto #2
Tratto dal primo capitolo: "Rimini-Tripoli"

Mi incuriosì la nazionalità dell’uomo che divideva il taxi con me: un “canadese”. Sapevo che in Libia operavano tecnici americani del settore petrolifero e, non essendoci alcuna ambasciata USA in suolo libico (quella del Belgio ne curava gli interessi solo per i casi di emergenza), questi giravano con passaporto canadese. Lo squadrai a fondo ma non ci trovai nulla di eccezionalmente strano, anche per i miei canoni tutt’altro che normali. Una volta partiti iniziai a riflettere, pensavo che dopo l’incontro con il maresciallo Paolini qualcosa di strano stava iniziando ad aleggiarmi intorno,e ciò non mi piaceva affatto. Fino ad allora avevo vissuto come in un gioco, la mia vita stessa era un gioco, ero sempre allegro e di buon umore e credevo di essere al di sopra di tutto e di tutti, come mi fosse garantito una sorta di “appoggio divino”. Mi venne allora in mente l’episodio della mia vita che fino ad allora aveva forse più fomentato il mio sentimento verso qualcosa di superiore. Ad appena diciotto anni infatti, prendendo il brevetto di volo basico, stavo percorrendo la tratta Locarno-Sion, Sion-Lugano, Lugano-Locarno, quando la torre di controllo mi chiamò e mi disse:
«Ascolta HB-CNX,» (era la sigla del mio Cessna 152, “hotel-bravo-charlie-november-xray”) «stanno decollando dei Mirage militari in addestramento, sanno che sei un aereo scuola e verranno a farti paura, rilassati che non ti accadrà nulla».
Sino ad allora avevo visto i caccia militari solo da terra, ma vederli in volo da un aereo molto lento fu un’esperienza pazzesca, mi sfrecciavano ai lati e fui preso dalla paura, credevo che non mi avessero visto. Iniziai così a muovere le ali e ad accendere e spegnere il faro d’atterraggio. Non sapevo più cosa fare per farmi vedere. Andarono via ma con mia grande sorpresa, quando rimisi gli occhi sulla rotta, mi resi conto di aver perso i punti di riferimento, e iniziai così a girovagare sopra le valli svizzere, completamente alla cieca. Credendo di aver riconosciuto alcune località, mi indirizzai verso di queste convinto di potremi raccappezzare sul da farsi, ma la dura verità era che mi ero completamente perso. Fu allora che mi prese il panico e decisi di tentare un atterraggio d’emergenza. Morale della favola: non mi feci nemmeno un graffio. Il mio istruttore non credeva ai suoi occhi poiché il 99 % di chi fa questi incidenti, ci rimette la vita...

Il taxi procedeva e io continuavo a pensare a tutto quello che mi era capitato di strano di recente, al maresciallo Paolini e al motivo del suo interesse nei miei riguardi. Non avevo nessuna intenzione di parlarne ai miei amici libici, specialmente agli ufficiali dell’esercito... A Tripoli conoscevo tutti. Quando andavo al Suq, nel mercato vecchio, quasi ad ogni bancarella mi invitavano per il tè. Tripoli era tutta addobbata di bandiere verdi come ogni fine agosto, giacché si preparava alla festa del primo settembre, il giorno in cui Gheddafi, nel 1969, aveva preso il potere. Il colonnello Mohammed Mansour, una mia conoscenza, era solito invitarmi a casa sua per cena. Ci teneva molto, mi stimava e io l’ho sempre considerato un uomo eccezionale. Aveva quattro figli e tre figlie, una villa a ridosso di Tripoli con svariati terreni e persino un campo da golf, ottenuto dopo aver bonificato una parte di terreno sabbioso. Il Colonnello, tempo prima, mi aveva preso da parte durante una delle nostre serate, e mi aveva detto:
«È tempo che parliamo seriamente, Benjamin».
Benjamin era il mio soprannome da pilota e così tutti iniziarono a chiamarmi e a conoscermi così. Finimmo un ottimo couscous e il Colonnello disse ai figli di congedarsi e lasciarci soli. Mansour si fece serio e mi disse:
«Ascolta Luigi,» era la prima volta che mi chiamava con il mio nome di battesimo «tu sei l’unica persona alla quale posso confidarlo, perché sarai tu a esser scelto per dover portare avanti il contatto».
Non capivo e gli dissi:
«La ascolto Colonnello Mansour ma sinceramente non comprendo, di cosa si tratta?».
«Ascolta Luigi, tutto ciò che noi sappiamo è errato, la vera storia dell’umanità trova i suoi primi riferimenti nella mitologia degli antichi Sumeri ed Egizi, ma non mi riferisco a ciò che vi si legge o vi si scopre, sebbene molta di quella “divina” conoscenza sia tenuta nascosta. Mi riferisco a ciò che io ho visto con questi occhi e alle persone con le quali ho parlato vis-à-vis. Vedi, Benjamin, c’è una base sotto le Montagne Verdi, una base segretissima, alcuni pensano che sia stata fatta costruire dal nostro Governo, ma non è così. C’è sempre stata. L’abbiamo solo scoperta, ma ciò che è impressionante è che esiste un condotto che rimane volutamente chiuso, ma io so dove conduce».
Il discorso si faceva sempre più interessante, ma non capivo ancora cosa, in quella circostanza, Mansour cercasse di comunicarmi e perché lo volesse rivelare proprio a me...

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Estratto #3
Tratto dal decimo capitolo: "L'Uranio"

La sera mi vidi di nuovo con Ilneer. Mi disse che mi avrebbero dato un campione di venti grammi di uranio, che lo avrei dovuto consegnare al SISMI riferendo loro che c’era la possibilità di bloccare un grosso traffico di questa merce pericolosissima. Avrei dovuto dire che avevo incontrato dei trafficanti internazionali a Bucarest, e che questi mi avevano proposto un grosso affare. Ovviamente, come avviene in questi casi, non si sa molto o nulla di chi incontri, l’anonimato in queste trattative, specie nell’approccio, è d’obbligo. Ma come è possibile che in tutto ciò io non abbia mai pensato a cosa, e a quanto ci potrei guadagnare? pensai tra me e me. Ilneer, come se mi avesse letto nel pensiero, mi disse:

«Non ci guadagni nulla economicamente, ma allora perchè tanta fatica ti chiederai... Adempiere ai tuoi doveri ti sembra poco? Oh sì certo oggi non capisci, ma aspetta, specie negli anni a venire quando di tutto ciò ti rimarrà solo un ricordo a freddo. Questo non è né più né meno che il tuo compito, ecco cosa capirai in Libia, magari prima ancora del nostro prossimo incontro» si vedeva che teneva particolarmente a farmi capire a fondo il messaggio.

Continuò:

«Fai ciò che ti ha detto Mansour: vai a Ghat e incontra il capitano Yousef, fai il tuo lavoro di istruttore e, nei momenti liberi, segui Yousef. Ti puoi fidare di ciò che dice, non c’è bisogno che ti dia nessun recapito, perché noi ufficialmente non ci siamo mai visti. Se proprio dovrai contattarmi, pensa intensamente a ciò che vuoi chiedermi e ascolta la risposta dentro di te, non sarai tu che parlerai a te stesso, ma io che ti risponderò... Un’ultima cosa: ricordati sempre che il vero pazzo è colui che si oppone alle Stelle... Stammi bene, Benjamin...» fece per andarsene ma poi si rigirò e disse: «Anzi, ti saluto in sumero, ma non credere che stia pronunciando il tuo nome: ciao lu.igi! O al plurale se preferisci, ciao lu-lu.igi-igi! Sai cosa significa?».

«No» risposi spiazzato.

«Beh, informati, non è difficile».

Mah, pensai tra me, Luigi... lu.igi, lu igigi, lulu igigi, ma che diavolo starà farneticando? Farà lo spelling del mio nome... All’epoca non capivo, credevo che Ilneer stesse scherzando, ma mi sarebbe bastato conoscere l’abc del sumero per capire che non era così. Fu allora che scoprii che il nome Luigi deriva da questo antico linguaggio. In sumero gli Igigi sono gli dèi inferiori, letteralmente significa “Sorveglianti” e “Lu” è la traduzione di “Uomo”. I Sumeri, per il plurale, raddoppiavano la parola: esempio Uomo=lu, Uomini=lulu. Semplice no?...

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 Oggetto del messaggio: Re: L'intelligence degli Dei
MessaggioInviato: 30/03/2019, 18:07 
Estratto #4
Tratto dal ventesimo capitolo: "L'Hangar"

Il Comandante leggeva nella mia mente e carpiva ogni mio pensiero:
«Bravo!» mi disse «Cominci a capire come comportarti, e a breve capirai altre cose!».
Gli dissi:
«Mi sfugge però dove si andrà a parare con l’intrigo dell’uranio scomparso... tutto questo contesto preparatorio era proprio necessario?».
«Il tuo speciale retaggio ci avrebbe aiutato nei nostri intenti. Per questo è stato deciso di farti venire qui da noi».
«Ma, il senso di tutto questo, il senso della mia vita, della Vita?».
Il Comandante rispose:
«Ecco appunto, il senso della Vita in generale, o meglio il senso della Vita particolare, ossia quello deciso per ogni uomo che viene al mondo. Ci sono delle finalità, ci sono dei disegni prestabiliti. Sembrano parole vuote, parole al vento, ma le cose stanno proprio così. Stiamo intervenendo per il tuo bene, e per il nostro, di modo che tutto sia in “armonia” con un desiderio cosmico primario. Non c’è molto altro da dire se non consigliarti di seguire sempre e solo il tuo istinto. Non sei un uomo destinato a fare parte di una semplice massa di persone già di per sé poco incisiva, quindi dobbiamo aiutarti in modo che tu possa aiutare la “causa nostra”, così come la chiamiamo noi! Dire altre cose in merito potrebbe confonderti o allarmarti troppo».

«Comandante io capisco il suo riserbo, ma non potrebbe provarci lo stesso?».
«Sarebbe meglio di no, sono qui per cercare di chiarirti le cose basilari e non per renderti le cose ancora più difficili. Non siamo qui a fare i misteriosi con te, anche se quello che ti abbiamo riferito rappresenta solo la punta dell’ iceberg. Siamo consapevoli che quello che ti capiterà in questo periodo lo potrai comprendere appieno solo tra qualche decennio... Ma adesso basta parlare e filosofeggiare, il tempo stringe e abbiamo altre cose da fare. Intanto, per sdrammatizzare un po’, tu sei un pilota militare, non è vero?».
«Comandante, da quello che ho capito lei sa più cose su di me di quanto io stesso potrei mai sapere, quindi questi interrogativi sono del tutto inutili... senza offesa ovviamente!».
«Ovviamente!» mi disse il Comandante, divertito.
Uscimmo dalla stanza e attraversammo un lungo corridoio da sogno, non saprei definirlo meglio, era tutto lastricato di marmo bianco, illuminato da luci che non capivo da dove provenissero, e sui lati era circondato da colonne in stile greco-romano, nuovissime. Percorremmo un centinaio di metri in quello scenario futuristico, finché arrivammo davanti ad una porta. Due esseri ai lati le facevano la guardia, erano simili al Comandante: alti, biondissimi e con grandi occhi di ghiaccio. Il loro vestiario era una via di mezzo tra quello dei Pretoriani dell’antica Roma e quello degli eroi dei moderni film di fantascienza, vestivano infatti una specie di calzamaglie di materiale a me sconosciuto e portavano a tracolla un’arma di forma stranissima, come di pera allungata. Le due guardie, appena arrivammo in prossimità della porta, tesero il braccio a mo’ di saluto romano, la porta si aprì: eravamo dentro una sorta di hangar contenente dei mezzi spaziali, più precisamente dischi volanti... Non ci potevo credere, ero allibito, sembravano quelli visti e filmati da George Adamski negli anni Cinquanta, ma avevano forma più aerodinamica, meno a “fanale capovolto”. Mi avvicinai al disco più vicino e notai qualcosa che ancora adesso, dopo molti anni, nel ricordarlo mi evoca una sensazione impressionante: i dischi presentavano delle insegne raffiguranti un grande disco nero accoppiato a delle scritte cuneiformi, forse numeri in caratteri sumeri. Non c’era personale, a parte altre coppie di guardie sparse qua e là, la manutenzione era evidentemente operata da macchinari computerizzati, o almeno cosi dedussi. Dico questo perché non mi sarei sorpreso se quelle macchine utensili fossero state dotate di intelligenza artificiale, ma non lo chiesi perché ero troppo affascinato da ciò che stavo vedendo. Il comandante si fermò a discutere con due guardie, e poi mi disse:

«Puoi avvicinarti, puoi anche toccarli se vuoi, io arrivo subito» e fece per allontanarsi. «Ah no! Quasi dimenticavo, avvicinati solo a quello» disse indicandomi il disco che avevamo più vicino e che sembrava libero dall’attenzione delle “macchine utensili manutentrici”, così le avevo denominate in quei convulsi momenti di eccitazione.

Il disco volante poggiava su di un piccolo cilindro di sostegno posto ad un’altezza di due metri circa, cosi potei andargli sotto, alzare le mani e toccarlo. Aveva un diametro di circa cinque metri: la prima cosa che mi venne in mente fu di misurarlo, seppur con dei semplici passi. Il disco numerava 2-26, almeno così mi parve, data la scarsa conoscenza di numeri cuneiformi che avevo allora (oggi mi sento molto più ferrato in materia). Ciò significava che quello era il caccia a disco nr. 26 della seconda squadriglia, almeno se le cose funzionavano come le nostre aeronautiche militari di superficie, oggi non escludo che potesse significare altro, ma al momento dedussi questo. La sensazione più incredibile la ebbi quando alzando la mano riuscii a toccarlo, sembrava fatto di un misto di seta e velluto, ma se facevo pressione lo percepivo come più duro della corazza di carro armato. Non aveva bullonature, niente giunti o saldature, nulla, sembrava un pezzo unico, proprio come riportato negli avvistamenti dei primi dischi. Non riuscivo a capacitarmi di come si potesse forgiare qualcosa del genere.
Era di colore scuro e di una certa fattura, almeno così mi pareva, dato che stazionava in una zona d’ombra. Il simbolo, il disco nerastro che prima ho descritto, al tatto non pareva di vernice ma sembrava smaltato, liscissimo, e vedendolo da vicino mi accorsi che era bordato da una finissima striscia dorata, magari era oro vero, come quello ad utilizzo iconografico religioso (non mi sarei certo sorpreso della cosa). Non riuscivo a vedere bene la parte superiore, cosi mi allontanai di qualche metro e, cercando di fare dei salti per riuscire a veder meglio, mi accorsi che...

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