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MessaggioInviato: 31/01/2014, 14:40 
Quella che segue è la lista degli istituti specialisti in titoli di stato. Ovvero il cartello di banche dealer nello scambio moneta titoli di stato.

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Con il recente atto di conversione per decaduti termini del DL Imu Bankitalia si consegna l'oro, la BCI e le nostre riserve ai fondi di investimento internazionale, non prima di avere regalato alle banche azioniste di BdI ben 7.5 miliardi di euro, e quel che è peggio si sancisce il principio di una BC PRIVATA appartenente a soci occulti anche non italiani, banche, assicurazioni e fondi di investimento.

Alcuni diranno che era già nei fatti privata (al 95% costituita da banche nel frattempo privatizzate), ma un conto è mettere il popolo davanti al fatto compiuto, nei fatti una rapina, altro conto è sancirlo sulla carta, vale a dire abbuonarsi il misfatto, condonarselo.

Ma il M5S non demorde e pone l'impeachment del presidente della Repubblica, poiché questo atto di svendita della nostra sovranità non solo è avvenuto in una forma anticostituzionale, la tagliola, non solo è di per sé una violazione della sovranità del popolo, ma è stato fatto da un parlamento che tutti sanno illegittimo, in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale da parte della Consulta ma poi dichiarata legittima dalla stessa per le solite manovre dietro le quinte.

Quel che è peggio questa legge finisce di completare del tutto la trasformazione di un istituto previdenziale, l'INPS, azionista della stessa BCI, in fondo pensionistico privato, poiché dovendosi equiparare agli altri azionisti in un cda dove prevale la legge del più forte, quel poco di pubblico dovrà, come già sta facendo da qualche anno, con cartolarizzazioni ed espropriando il popolo della pensione, adeguarsi ulteriormente ai criteri privatistici, rapaci, di puro profitto, bancario-assicurativi contrari al principio di cooperazione della Costituzione, in poche parole USURAI, degli altri azionisti di Bankitalia, che non sono altro che le scatole cinesi, le spin off e le filiali nonché le case madri di quelle stesse banche "spacciatrici" della nostra moneta, il cartello delle banche dealer nello scambio moneta titoli del debito sopraccitate.

E' a loro vantaggio che verrà spezzettato il capitale di Bankitalia, agevolati dalla concorrenza sleale di ricevere nel contempo le linee di credito dalla stessa per comprare i titoli e derivante dall'appartenere al cartello che decide il tasso e il cappio con cui strozzarci, al nostro Stato, attraverso i titoli del debito e il cosiddetto spread.

http://mercatoliberotestimonianze.blogs ... mento.html

Si leggano anche:

http://mercatoliberotestimonianze.blogs ... -alla.html

http://mercatoliberotestimonianze.blogs ... anche.html



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MessaggioInviato: 04/02/2014, 10:12 
Uno dei principali strumenti messi in campo dalla finanza speculativa anche sui private equity sono i derivati finanziari, un vero mostro dal punto di vista 'concettuale' ed economico, totalmente svincolato dall'economia reale.

Ancora una volta vediamo come il paradigma economico accademico di una "finanza" al servizio dell'economia reale venga snaturato e ribaltato nella sua accezione nella dimensione speculativa della finanza.

Cita:
Come nascono e cosa sono i prodotti derivati

In sostanza che cos'è un derivato? Si tratta di uno strumento ''collegato'' ad un sottostante (per esempio un'azione, un tasso d'interesse o un titolo di Stato), esso ne riproduce esattamente la dinamica sia da un punto di vista di rischio finanziario, che del ritorno. La differenza essenziale sta nell'impiego del capitale che nel prodotto derivato è una frazione del sottostante.

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I prodotti derivati, la pietra dello scandalo in vari casi di finanza allegra, non sono spuntati fuori solo nell'ultimo caso del Monte dei Paschi di Siena. Già a metà degli anni 90 Nick Leeson, aveva fatto saltare la banca della Regina, la Barings Bank, con una serie di arbitraggi sull'indice giapponese, il Nikkei, speculando su presunte discrepanze tra le sue quotazioni di Osaka e Singapore. La Barings venne successivamente ricomperata da Ing (banca olandese) per una sterlina nel 1995.

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Sempre nel 1998 il leggendario Hedge Fund LTCM (Long Term Capital Partners), gestito dal mito John Meriwether con i suoi discepoli della Salomon Brothers di Londra e New York, fecero tremare le Borse mondiali per le loro ''puntate" su derivati su tassi d'interesse, azioni ed operazioni riferibili a titoli di Stato Italiani CCT e BOT. Intervenne la Federal Reserve a ripristinare la calma sui mercati.

I derivati hanno origine lontane. Nel 1971 Nixon sospese la convertibilità aurea del dollaro sganciandolo dall'oro. Malgrado tutto, il dollaro rimaneva di fatto la moneta di riserva degli scambi a livello globale, con il marco tedesco e la sterlina a seguire. La succesiva liberalizzazione dei movimenti di capitale stabilita da un acordo ronald Reagan-Thatcher poneva un ulteriore tassello allo sviluppo dei derivati e a strumenti finanziari sempre più complessi e rischiosi.

L'abolizione di fatto del Glass-Steagall Act (introdotto nel 1933) che costringeva ad una netta separazione tra Banche commerciali e Banche d'Investimento, avvenne a partire dal 1985 e con il Big Bang inglese del 1986 che lanciava di fatto le Borse elettroniche ed il LIFFE (London Financial Future Exchange). Questa ''innovazione" thatcheriana fece decollare il mercato dei derivati in Europa dove venivano trattati i Future sui famigerati Bunds (Obbligazioni tedesche a 10 anni), mentre negli USA già esistevano il CME (Chicago Mercantile Exchange) ed il CBOT (chicago board of Trade).

In sostanza il mercato USA era in condizioni di monopolio su derivati di materie prime, tassi d'intersse, indici di Borsa. Dal 1986 le banche di Londra incominciarono a ''spingere'' sul mercato dei derivati, creando una fonte alternativa di utili al mercato dei prestiti che generava sempre meno utili. Perfino le Banche giapponesi rimasero invischiate in clamorose perdite su derivati a cavallo degli anni '90. Nel frattempo colossi quali Merrill Lynch e Salomon brothers si "ingarellavano" creando vere e proprie strutture parallele al private Banking e all'attività tradizionale commerciale.

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Nel 1990 la Merrill Lynch decise di puntare sui derivati europei e i titoli di Stato italiani, assumendo lo scrivente e costituendo unità autonome che, operando in derivati, producevano 500 milioni di dollari di profitto all'anno. La vera regina di questi prodotti era la Salomon Brothers con il suo leggendario arbitrage desk mondiale capitanato da John Meriwether e con operatori miliardari tra i quali, a Londra, Kave Alamouti (iran Prof di Economia alla London School of Economics), Paul Mathews e Miogin a Tokyo. La Merrill Lynch aveva però un team fortissimo sull'Europa, comprendente, Michele Di Stefano (leggenda sui cambi), Olivier Doria e Alessandro Ceccaroni che rano stati tra i primi con Marco Mazzuchelli della Morgan Stanley a lanciare titoli di Stato italiani e derivati sui BTP nel mondo.

Ma in sostanza che cos'è un derivato?

Si tratta di uno strumento ''collegato'' ad un sottostante (per esempio un'azione, un tasso d'interesse o un titolo di Stato): il derivato ne riproduce esattamente la dinamica sia da un punto di vista di rischio finanziario, che del ritorno. La differenza essenziale sta nell'impiego del capitale che nel prodotto derivato è una frazione del sottostante.

Il cosiddetto margine varia dal 2 al 7 % del sottostante. Per questo si parla di leva finanziaria, poichè con 50 mila euro di capitale si può controllare un milione di euro di BTP ad esempio, circa 20 volte l'importo iniziale investito; se il prezzo del BTP si sposta del'1% a favore della mia posizione, guadagno il 20 % (1 unità divise le 5 iniziali investite). Mentre se operi in maniera tradizionale, il guadagno sarebbe dell'1% solamente e viceversa!

Tutta questa flessibilità dei derivati ha consentito il loro impiego per strategie sempre più complicate come il famoso spread Bund BTP che nel 1987 veniva considerata un'operazione banalissima. Inoltre i dirigenti delle banche centrali europee hanno fatto un largo uso di derivati per migliorare i ratios relativi al trattato di Maastricht. Le banche giapponesi e italiane li hanno usati da 20 anni per ''modulare'' il conto economico delle stesse: in annate brutte consentivano di gonfiare gli utili e in annate buone di diminuire il carico fiscale riportando utili ad annate future.

http://www.agoravox.it/Come-nascono-cos ... dotti.html


L'assurdità è questo mero strumento speculativo sta nel fatto che ormai ha superato ogni limite

Cita:
L'ammontare dei derivati di Morgan Chase supera il PIL mondiale

Il 30 settembre la grande banca J.P. Morgan Chase (JPMC) ha registrato un volume di derivati che supera i 43 mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra superiore al prodotto lordo mondiale e quattro volte il PIL degli Stati Uniti. Secondo in classifica è il Citigroup, con 17,5 mila miliardi di dollari di derivati, seguito a ruota dalla Bank of America con 17,1 mila miliardi. Altre due banche superano la soglia dei mille miliardi: la Wachovia (ex First Union) con 3 mila miliardi e la HSBC North America (branca americana della Hong Shang e dunque "in odore" di narcoriciclaggio) con 1,8 mila miliardi. Le cifre sono state pubblicate dal Comptroller of the Currency, che complessivamente stima a 86,9 mila miliardi di dollari il volume dei contratti derivati delle 25 banche principali (le cifre del Comptroller sono superiori a quelle pubblicate dalla FDIC, l'ente che assicura i depositi).

Le banche e gli organismi di vigilanza sostengono che il rischio netto di questo volume immane di operazioni si riduca a soli 804 miliardi di dollari e che esso comporti un'esposizione creditizia netta (equivalente) di soli 183 miliardi. Tali calcoli rassicuranti escludono, però, proprio quei rischi sistemici che non fanno parte dell'equazione, e che invece puntualmente si verificano perché l'economia reale prima o poi presenta il conto. Così alla vigilia del crac dell'LTCM il rischio derivati era considerato minimo, ma proprio un evento "non calcolato", e cioè il default dei titoli di stato russi, minacciò di far crollare il sistema.

Le banche hanno registrato una drastica diminuzione delle entrate dalle operazioni in contante e derivati. Dai 3,8 miliardi del primo trimestre ai 2,6 miliardi del secondo, all'1,3 del terzo. Le più colpite sono le operazioni sui tassi d'interesse, passate da un utile di 1,5 miliardi nel primo trimestre ad una perdita di 1,4 nel terzo. In parte la perdita è stata compensata da un incremento dell'utile delle operazioni in commodities, che è passato da 89 milioni nel primo trimestre a 405 nel secondo, a un miliardo di dollari nel terzo.

L'87% di tutti i derivati sono scommesse sui tassi d'interesse, mentre il 9% rappresenta scommesse sui cambi (Forex). I derivati sul credito sono saliti a 1,9 mila miliardi. Il 92% dei contratti derivati sono stati stipulati Over-the-Counter, cioè non registrati, e solo l'8% è stato registrato in Borsa.

http://www.movisol.org/ulse149.htm


E a completamento di questo mio intervento propongo il seguente articolo

Cita:
Quello che nessuno dice sui derivati

Mi sono stancato di leggere lunghi e documentati articoli sui derivati che dicono tutti più o meno la stessa cosa: che i derivati sono tanti, sono troppi, sono oscuri, sono pericolosi.Da quando è scoppiata la crisi, poi, la letteratura sui derivati gareggia con quella sulle cospirazioni, quanto a volume prodotto e capacità di dire tutto e il contrario di tutto. C’è chi dipinge i derivati come l’origine dei mali dell’umanità, forti della circostanza che per la maggior parte si tratta si strumenti esotici e quindi incomprensibili per il grande pubblico. C’è chi dice che invece sono uno strumento importante per la gestione del rischio e la produzione di liquidità.Raramente però mi è capitato di leggere la cosa più importante.

Ossia che i derivati fanno parte da trent’anni dell’architettura finanziaria globale e il loro sviluppo è stato la conseguenza della creazione di una nuova tecnologia di pagamento: il credito infragiornaliero (intraday), che ha rivoluzionato il sistema internazionale dei pagamenti. I derivati, insomma, non avrebbero mai potuto svilupparsi così tanto se non avessero avuto alle spalle un sistema creditizio capace di sostenerli.Tutti quelli che si lamentano dei derivati, insomma, tendono a scambiare il dito con la direzione. L’epifenomeno, con il fenomeno.Farebbero meglio a lamentarsi, se proprio devono, del livello abnorme raggiunto dal credito (ossia dal debito) sul Pil a livello globale. Ma se lo facessero dovrebbero anche dire che proprio tale sviluppo abnorme ha consentito un livello di benessere per tante parti del mondo mai raggiunto prima nella storia.

Tutto si tiene.

Altrove ho già parlato della differenza fra moneta legale e moneta bancaria. Quest’ultima ha guidato l’espansione del credito, e quindi della liquidità, negli ultimi tre secoli. Ma il grande balzo iniziato dalla fine degli anni ’70, quando l’ondata di liberalizzazione dei capitali ha provocato quella che gli storici chiamano “finanziarizzazione” dell’economia, ha ulteriormente innovato, accelerandolo, il processo di creazione della liquidità, costringendo a ripensare tutti i meccanismi di regolazione e controllo.

Se si ignora questo processo, non si capisce cosa ci sia sotto i derivati e perché siano sistemicamente rilevanti.Faccio un piccolo passo indietro. Nel 1973 due economisti, Ronald McKinnon e Edward Shaw, introducono il concetto di “repressione finanziaria” per caratterizzare lo stato dell’arte dei sistemi finanziari nel mondo, dove erano presenti forti restrizioni all’ingresso nel settore bancario e controlli sui movimenti di capitali.L’epoca della stagflazione, ossia di stagnazione e inflazione, che caratterizzò gli anni ’70, ebbe come conseguenza la reazione a questo stato di cose, culminata col processo di liberalizzazione, che ebbe effetti sia sull’attività bancaria che sul movimento dei capitali.Comincia l’esplosione del credito che il grafico che intitola questo blog illustra meglio di mille parole.Per il mondo finanziario è l’inizio di una rivoluzione che trova proprio negli strumenti derivati il suo alfiere, visto che si tratta si marchingegni molto elastici e facilmente replicabili.L’idea che sottostà a tali prodotti, ossia la “mercificazione dei rischi” e quindi la possibilità di distribuirli vendendoli, come è stato efficacemente detto, si dimostra vincente. Alla metà degli ani ’80 i derivati erano ancora “invisibili”. A metà degli anni ’90 il loro valore nozionale (quindi il valore facciale stimato dei contratti) superava i 20 mila miliardi di dollari. Agli inizi del XXI secolo eravamo già oltre gli 85 mila miliardi.

A metà dell’anno scorso, secondo i dati della Bri, eravamo arrivati a circa 670 trilioni di dollari, più o meno dieci volte il Pil del mondo.Questo spiega perché se ne parli così tanto. Mentre non si parla mai delle loro implicazioni sistemiche.Il problema è che tale montagna di obbligazioni, perché tali sono i derivati da un punto di vista giuridico, deve essere sostenuta da un’infrastruttura finanziaria, ossia da un universo di entità che deve consentirne la circolazione e il pagamento. Specie quando tale pagamento viene per lo più regolato nell’arco dell 24 ore.E qui arriviamo al punto: l’esplosione del volume dei derivati è direttamente collegata allo sviluppo del credito intraday, ossia di una modalità di credito che, a differenza del semplice credito bancario, è molto più concentrato e assai più opaco.

Nei bilanci delle banche, per giunta a cadenza trimestrale se va bene, appaiono solo i resoconti di queste “giornate vissute pericolosamente” sotto forma di profitti o perdite.

Ma pochi sanno come si comportino mentre operano.Quello che dovremmo sapere, infatti, e che raramente ci viene detto quando leggiamo di derivati e che ormai la stragrande maggioranza delle operazioni cominciano e finiscono nell’arco della giornata operativa. Questo nuovo modo di procedere, per essere sostenuto, ha bisogno di poter contare su liquidità sufficiente, pena un rovinoso credit crunch. Abbiamo visto proprio il congelamento del credito intraday nei giorni terribili dell’inizio della crisi finanziaria.Da lì a poco sarebbe fallita Lehman Brothers.Il credito intraday, quindi, è l’ultima frontiera dell’innovazione creditizia.

La vera novità che ha cambiato la storia bancaria. Equiparabile alla prima banconota o al primo deposito.Alcuni studi mostrano che nei decenni in cui il volume dei derivati cresceva di livello, la domanda di moneta a fini transattiva, in rapporto al Pil, rimaneva stabile mentre cresceva la quantità complessiva di moneta. L’unica spiegazione possibile, di conseguenza, è che l’incremento di tale volume sia stato sostenuto da un aumento della velocità di circolazione della moneta. Ricordo che, secondo la teoria quantitativa della moneta, l’offerta di moneta risulta dalla moltiplicazione della massa monetaria per la velocità di circolazione.Ma se aumenta la velocità di circolazione, significa che cresce il numero di transazioni. E un aumento esponenziale delle transazioni implica che si accorci sempre più l’arco di tempo nel quale si svolgono.

Ecco perché all’aumento esponenziale delle transazioni ha corrisposto lo sviluppo inusitato del credito intraday, categoria già esistente prima degli anni ’80, ma ancora “dormiente”.Per farla semplice: i derivati sono la benzina, il credito intraday l’automobile. Ma senza l’automobile la benzina non esisterebbe. Al contrario di quanto accade nel mondo reale.Il presupposto perché tale sviluppo dei derivati sia possibile, tuttavia, è che essi siano sempre perfettamente liquidi. Che, quindi, ci sia sempre qualcuno che li compri. Ciò implica che in ogni momento della giornata chi è chiamato a intermediare queste operazioni abbia la possibilità di attingere costantemente ad ampie provviste di liquidità per regolare le proprie pendenze. E l’unica fonte capace di garantire una simile cornucopia sono le banche centrali.Sono le banche centrali a sostenere il credito intraday, che si potrebbe rappresentare come una montagna di transazioni interbancarie destinate ad essere aperte e chiuse nell’arco della giornata operativa.

E sono proprio loro, all’inizio di questo processo, a doversi fare carico degli intoppi. Nel corso della giornata operativa, infatti, può succedere che molte banche si trovino esposte per valore molto superiori al propri patrimonio. E se qualcosa va storto è la banca centrale a doverci mettere una toppa, “monetarizzando” gli eventuali scoperti, salvo poi sterilizzarli.La storia ci fornisce alcuni esempi. Nel 1985 un problema di calcoli sbagliati mise la Bank of New York, banca che operava nel mercato dei titoli americani, nell’impossibilità di chiudere gli impegni presi nel corso della giornata. Per evitare il dissesto, la Fed aumentò la base monetaria del 10% in un giorno, usando come garanzia l’intero attivo patrimoniale della banca.Da allora sono cambiate molte cose, ma la sostanza è rimasta la stessa: il credito intraday fra operatori finanziari è diventato il principale fattore di rischio/vantaggio di chi fa girare i soldi. Sono stati affinati i processi di regolazione, e le banche centrali hanno iniziato a farsi pagare (prima era gratis) per la liquidità che mettono a disposizione degli operatori finanziari, anche a fronte del versamento di garanzie (prima non era necessario).

Ma soprattutto si sono affermate decisamente le clearing house, stanze di compensazione o controparti centrali che dir si voglia, che hanno finito col diventare protagoniste di questa montagna di transazioni giornaliere.Queste entità hanno il compito di garantire la liquidità degli scambi sul mercato dei derivati, ma ormai anche dei titoli azionari, assumendosi il rischio di inadempienza, ma al contempo aumentando la liquidità sul mercato, come se non fosse mai abbastanza. In Italia, ad esempio, opera la Cassa di compensazione e garanzia, società controllata da Borsa Italiana, mentre all’estero ci sono colossi come gli europei LCH.Clearnet ed Eurex o l’americano CME group.

Questi colossi, che via via si stanno concentrando sempre più, intermediano quotidianamente volumi enormi di scambi sulle loro piattaforme, caricandosene i rischi relativi e lucrando enormi guadagni di intermediazione. Perché un’altra cosa che raramente si ricorda, quando si parla di derivati, è che sono una fonte enorme di profitto, non tanto per quelli che li comprano o li vendono, ma per quelli che li fanno circolare.

Le commissioni che gli intermediari lucrano facendo girare questa carta è un’altra di quelle cose di non si parla quasi mai, quando si discute di derivati.Chiaro che questo Eldorado faccia gola. Di recente il Financial Times ha riportato il grido d’allarme lanciato da alcuni gruppi bancari internazionali, secondo i quali le clearing house non sarebbero capitalizzate abbastanza per reggere l’urto della marea montante delle transazioni che sono chiamate a garantire. Fa un po’ ridere che la banche, da sempre accusate di essere sottocapitalizzate, rivolgano la stessa accusa alle nuove “concorrenti”, ma così va il mondo.

Peraltro il peso specifico delle clearing house è aumentata notevolmente dopo l’esplosione della crisi, quando i regolatori internazionali hanno iniziato a puntare sul loro sviluppo per evitare di caricare di rischi le solite grandi banche, già pesantemente esposte. Le stesse che oggi lamentano che tali rischi non sarebbero sostenibili da parte di queste controparti centrali perché sottocapitalizzate o perché accettano collaterali incerti come i bond a garanzia dei margini.

In gioco c’è la torta dei derivati over the counter (OTC), quindi non quotati, che i regolatori vorrebbero fossero intermediati dalle clearing house e che invece le banche vorrebbero tenere per sé, visto che rappresentano la stragarande maggioranza dei volumi nozionali in circolazione e la più grande fonte di profitto.Su tutto questo aleggiano le banche centrali, che lottano per mantenere la loro responsabilità sul sistema dei pagamenti, messo a dura prova dall’esplosione del credito intraday, a fronte della tentazione della privatizzazione strisciante che arriva dai grandi gruppi bancari internazionali.Come si vede, cambiano i tempi, i discorsi si fanno più complessi, ma il succo è sempre quello: si continua a voler far soldi con i soldi e si lotta fra entità per decidere a chi tocchi la fetta più grossa. Tali processi, vale la pena notarlo, vengono discussi e decisi a livello sempre più sovranazionale da entità tecnico-giuridiche che poco a nulla hanno a che fare con i meccanismi classici della rappresentanza politica.Fare soldi, con i soldi, senza alcun controllo democratico.

Forse è questo è il vero problema.

Altro che i derivati.

http://www.formiche.net/2013/07/18/quel ... -derivati/



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MessaggioInviato: 13/02/2014, 12:08 
Too big to fail...

Alle banche europe servono oltre 3400 mld di dollari, il sistema non puo’ sopravvivere

13 febbr – Un servizio che pubblica l’agenzia Eir questa settimana torna ad accendere i riflettori sul crollo dei mercati emergenti, un fenomeno niente affatto isolato, anzi – scrive l’agenzia – è sistemico. E’ un crollo sistemico perché – spiega il servizio – non si tratta di una semplice bolla, ma dell’intero sistema finanziario globale che sta cedendo su un fianco debole. È talmente evidente che persino l’agente della City di Londra Ambrose Evans-Pritchard l’ha ammesso in una web chat il 6 febbraio.
“Era una bolla del credito unica a livello globale. La fase 1 è stato l’immobiliare USA, la fase 2 la crisi del debito europea, la fase 3 è l’Asia/Cina alle prese con il boom-bust”.

Scatta l’allarme nelle banche europee, che sono esposte per oltre tremila e quattrocento miliardi di dollari nei mercati emergenti. BBVA, Santander (Spagna ma anche UK), Erste Bank (Austria), HSBC, Standard Chartered (UK) e Unicredit (Italia) da sole sono esposte per mille e settecento miliardi, secondo cifre della Deutsche Bank.

Nel caso di Santander, che registra il 23 per cento dei profitti solo dal Brasile, alla fine del 2013 risultavano 132 miliardi di euro di investimenti in America Latina. Standard Chartered è ancora più esposta di Santander, con il 90% delle entrate dipendenti dagli investimenti in Asia, Africa e Medio Oriente. Santander, Standard e HSBC rappresentano una vulnerabilità concentrata per la City di Londra.

La crisi – dice l’Eir – non era inaspettata. Nel 2011 denunciammo la bolla dei mercati emergenti, documentando il caso del carry trade con Brasile, che attirava capitali speculativi con un interesse del 12%, poi ridotto all’attuale 10,5%, ancora alto. Ci si attende un rialzo all’11,25%, che è 0.25 punti al di sotto di quello dell’Uganda. Gli investitori in panico supplicano la Federal Reserve di cessare il “tapering”, la riduzione delle dosi di liquidità immesse nel sistema, e la BCE di usare nuovamente il “bazooka”.

Ma proprio l’espansione monetaria è la causa e non la soluzione del problema. La liquidità a buon mercato di Fed e BCE è stata la reazione sbagliata alla crisi del 2007-2008, come lo è fornire droga ai tossicodipendenti. Quella liquidità è stata usata per alimentare il carry trade e ha peggiorato il problema. Un salvataggio del sistema aumenterebbe enormemente il potenziale di iperinflazione.

Hanno imparato dai propri errori i banchieri centrali? No. Quando gli è stato chiesto quale fosse la causa della crisi dei mercati emergenti, il presidente della BCE Mario Draghi ha risposto di non saperlo. “Le ragioni dell’attuale situazione nelle economie dei mercati emergenti sono abbastanza complesse e certamente al di fuori del controllo delle autorità dell’eurozona o certamente al di fuori della politica monetaria”, ha affermato Draghi alla conferenza stampa della BCE il 6 febbraio.

http://www.imolaoggi.it/2014/02/13/alle ... ravvivere/

Il concetto è semplicissimo.

Io sono la banca e uso i vostri soldi per speculare... Se vinco ci guadagno. Se perdo pagate voi.

Voi continuereste a giocare?



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MessaggioInviato: 02/05/2014, 14:33 
Cambia il vento... [;)]

UNICREDIT CONDANNATA! CON I DERIVATI HA TRUFFATO LE IMPRESE. LE MOTIVAZIONI DI UNA STORICA SENTENZA

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit

Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l’azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l’istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.

Immagine

Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.

La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.

LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativadichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità medianteconsulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.

E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.

LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.

IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamentericonosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.

Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex adAlessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni. La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.

http://www.informarexresistere.fr/2014/ ... -sentenza/



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MessaggioInviato: 18/06/2014, 10:35 
Cosa Sono i Derivati Finanziari?

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Finalmente si stanno accendendo i riflettori sui derivati, causa di tanti sconquassi nel mondo della finanza prima, delle pubbliche amministrazioni e delle nostre tasche poi.

Ma cosa sono, i derivati finanziari?

Sono una particolare tipologia di operazione finanziaria originariamente creata per coprire dei rischi.

Prendiamo un pastificio che necessita mensilmente di un certo quantitativo di grano per ricavarne farina e fare la pasta. Conosce pertanto quale sia la quantità di grano che deve acquistare ogni mese.

Per tutelarsi dal rischio di aumenti del prezzo del grano, mette in piedi un'operazione in base alla quale è in grado di fissare oggi il prezzo del grano che dovrà acquistare nei mesi successivi.

Non è importante sapere come ciò sia tecnicamente possibile, anche perché sarebbe troppo lungo spiegarlo. Diciamo che, grosso modo, questo si può definire un derivato. E lo si può 'mettere in piedi' per qualunque materia prima (petrolio, rame, ecc.) ma anche per le valute (dollaro, yen, ecc.).

Dov'è il problema ?

Ritorniamo al pastificio- Abbiamo detto che ha fissato oggi il prezzo del grano che dovrà acquistare per esempio fra tre mesi. Trascorsi i tre mesi, grazie al derivato, il pastificio acquisterà il grano pagandolo al prezzo stabilito tre mesi prima, indipendentemente dal prezzo di mercato del giorno dell'acquisto.
Acquistato il grano, lo immette nel suo ciclo produttivo, ci fa la pasta e la vende, guadagnando dalla vendita della pasta, ossia dalla sua attività industriale.

Il problema è che queste operazioni le mettono in piedi anche soggetti che non sono pastifici, e che pertanto del grano non sanno cosa farsene. E allora perché lo fanno? Perchè sperano che, trascorsi i tre mesi, il prezzo del grano sia cresciuto rispetto a quello da loro fissato (tre mesi prima) con il derivato e pertanto lo possano rivendere, guadagnandoci.

Ma sono costretti a rivendere subito il grano, perchè, abbiamo detto che, non essendo pastifici, non lo possono utilizzare in nessuna maniera.

Quindi se il prezzo sarà effettivamente aumentato, nella rivendita immediata la speculazione sarà andata a buon fine, ma se il prezzo sarà invece diminuito, subiranno un perdita secca!

Il problema più grosso è che queste operazioni fasulle creano una domanda e offerta di beni fittizie (cioè non legate alle reali necessità dell'industria e dei consumi) che fanno oscillare i prezzi in maniera distorta.

Cosa c'entra una amministrazione pubblica (comuni, regioni ecc.) con queste operazioni ? Cosa c'entrava la Parmalat con derivati su valute estere (valute di cui non aveva alcun bisogno reale) ?

C'entrano perchè queste operazioni possono essere molto remunerative per uno speculatore, ma sono sempre e comunque molto remunerative per le banche, che guadagnano sulle commissioni di servizio, e lasciano il rischio, ovviamente, al cliente.

Le operazioni di derivati più sottoscritte dagli enti locali sono dette "swap".

Esistono quattro principali tipologie di swap:

Swap di valute[b]. Si tratta di un contratto stipulato fra due controparti che si scambiano dei pagamenti calcolati sulla base di due diverse valute.

[b]Swap di interessi
. E' un contratto che prevede lo scambio periodico, tra due operatori, di flussi di cassa aventi la natura di "interessi" calcolati sulla base dei tassi di interesse di un capitale teorico di riferimento (ad esempio il ricavo da un gettito fiscale locale).

Swap di commodities. è un contratto stipulato fra due controparti che si scambiano un flusso di pagamenti connessi al cambiamento di un prezzo di mercato. Un esempio sono gli swap sul prezzo del petrolio (Oil swaps).

Swap di protezione dal fallimento di una azienda. È un contratto di assicurazione a tutti gli effetti, che prevede il pagamento di un premio periodico in cambio di un pagamento di protezione nel caso di fallimento di un'azienda di riferimento (queste sono alcune delle operazioni con cui ultimamente le banche d'affari stanno scommettendo sulla insolvenza dei singoli Stati).

Fino ai primi anni '80 in Italia (allora non si chiamavano ancora derivati) non era concesso fare queste operazioni a chi non fosse in grado di dimostrarne la effettiva necessità, connessa ad una relativa attività industriale o commerciale.

Poi le operazioni sono state liberalizzate e ...

http://www.anticorpi.info/2010/03/i-derivati.html#more



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MessaggioInviato: 09/07/2014, 17:39 
Se l'energia è controllata dalle multinazionali, la medicina è controllata dalle multinazionali, il cibo e l'acqua sono controllati dalle multinazionali, l'economia è governata dalle grandi banche internazionali le quali, il più delle volte, posseggono le multinazionali sopraccitate con i complessi meccanismi di private equity illustrati nel thread...

Mi dite chi controlla e governa l'umanità?!

Cita:
Cibo, 10 grandi aziende lo controllano tutto
di Gabriella Meroni

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Sono solo dieci le grandi aziende globali a cui fanno capo la stragrande maggioranza dei marchi che troviamo nei supermercati. Un impero che secondo Oxfam schiaccia i produttori locali e continua a inquinare il pianeta

Altro che km zero. Ci sono anche marchi molto noti e amati dagli italiani (come Buitoni, Bertolli, S. Pellegrino e Algida) tra le centinaia di sigle che campeggiano sulla maggior parte dei prodotti alimentari che troviamo ogni giorno nei supermercati, e che fanno capo a sole 10 aziende multinazionali. Sono queste, le Big 10 del Food, che Oxfam International ha messo in fila in un bell'infografico che ce le mostra tutte: sono Coca Cola, PepsiCo, Unilever, Danone, Mars, Mondelez International ( la ex Kraft), Kellogg's, General Mills, Nestlé e Associated British Foods.

Un'iniziativa che mira a far conoscere ai consumatori come funziona il mercato del cibo globale, ormai saldamente in mano a queste poche compagnie, che tutte insieme hanno tra l'altro un impatto ambientale fortissimo: secondo Oxfam infatti le Big 10 hanno immesso nell'atmosfera 263,7 milioni di tonnellate di gas serra nel 2013, e se fossero una nazione del mondo sarebbero al venticinquesimo posto nella classifica dei paesi più inquinanti. Per saperne di più è possibile consultare il sito della campagna "Behind the Brands".

http://www.vita.it/ambiente/sostenibili ... tutto.html


Ultima modifica di Atlanticus81 il 09/07/2014, 17:39, modificato 1 volta in totale.


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Ma sicuramente molte di queste multinazionali sono di fatto un costola di corporazioni più grandi :)



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 30/03/2015, 14:44 
FEUDALESIMO FINANZIARIO
DI DMITRY ORLOV

C’era una volta – tanto, tanto tempo fa – nel mondo civilizzato, una cosa che si chiamava feudalesimo. Era un modo gerarchico di organizzare la società. Sopra tutti c’era un sovrano (re, principe, imperatore, faraone o alto prelato). Al di sotto dei sovrani c’erano diverse classi di nobili con titoli ereditari.

Al di sotto dei nobili c’era la gente comune e anch’essa ereditava questo status dai suoi predecessori, sia attraverso la titolarità di un pezzo di terra che coltivava, o dall’esercizio di una certa professione, com’era appunto il caso degli artigiani e i mercanti. Tutti erano come bloccati nella loro posizione sociale attraverso rapporti di dipendenza, tasse e tributi permanenti. Tasse e tributi fluivano tra le varie classi sociali dal basso verso l’alto, mentre i privilegi e la protezione dall’alto verso il basso.

Era un sistema fortemente resistente e auto-perpetuante, basato principalmente sull’uso della terra ed altre risorse naturali, tutte dipendenti dalla disponibilità della luce del sole. La ricchezza derivava soprattutto dalla terra e dai suoi vari utilizzi. Ecco qui di seguito un grafico che semplifica l’ordine che regolava la società medievale.

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Il feudalesimo era essenzialmente un sistema statico. Le pressioni demografiche erano regolate attraverso emigrazione, guerre, pestilenze e, in mancanza di questi, carestie ricorrenti. Le guerre di conquista a volte aprivano le porte a nuove temporanee opportunità di crescita economica, ma poiché la terra e la luce del sole non erano infinite, il gioco finiva sempre in pareggio.

Tutto questo, però, è cambiato quanto il feudalesimo è stato sostituito dal capitalismo. Ciò che ha reso possibile il cambiamento è stato lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, la più importante tra le quali l’energia prodotta dalla combustione di idrocarburi fossili: per primi torba e carbone, poi petrolio e gas naturale. Improvvisamente, la capacità produttiva si è scollegata dalla proprietà terriera e dalla disponibilità del sole; e sembrava si potesse continuare in questo modo all’infinito, solo continuando a bruciare idrocarburi.

Il consumo di energia, l'industria e tutta la popolazione, iniziarono ad aumentare in modo esponenziale. Si instaurò un nuovo sistema di rapporti economici sulla base di denaro che poteva essere prodotto a volontà in forma di debito, ripagabile con interessi, utilizzando prodotti sempre più sofisticati e innovativi. Rispetto al precedente, cioè al sistema sociale statico, il cambiamento si basava su un nuovo assunto: che il futuro cioè sarebbe stato sempre più vasto e più ricco, abbastanza da permettersi di pagare nuovi capitali e nuovi interessi sempre più grandi.

Con questa nuova organizzazione capitalistica, i vecchi rapporti e costumi feudali caddero in disuso, sostituiti da un nuovo sistema in cui i sempre più ricchi proprietari di capitali si opponevano a una classe lavorativa sempre più diseredata. I movimenti sindacali e la contrattazione collettiva del lavoro, permisero per un po’ di tempo di arginare questo contrasto; ma alla fine, per una serie di ragioni e fattori – come l’automazione e la globalizzazione - finirono di minare le basi del movimento operario, lasciando nelle mani dei proprietari di capitali, tutto il potere possibile e immaginabile con cui controllare la numerosa popolazione di ex-lavoratori industriali.

Nel frattempo, i proprietari di capitali formarono una loro pseudo-aristocrazia, ma senza titoli o privilegi ereditari. La nuova gerarchia si fondava su una sola cosa: il patrimonio netto. Quello che determinava la posizione di una persona nella società era quanti simboli di dollaro erano associati al suo nome.

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Tuttavia, alla fine, quelle buone risorse locali di energia si esaurirono e furono sostituite da risorse energetiche di qualità inferiore, più lontane da raggiungere, più difficili e più costose da produrre. Questo assestò un duro colpo alla crescita economica, poiché ogni anno che passava bisognava investire sempre più nella ricerca di nuove energie con cui continuare a produrre per sostenere il sistema economico, nonostante tutto.

Nello stesso momento, l’industria aveva generato, in grandi quantità, degli spiacevoli sottoprodotti: l’inquinamento , il degrado ambientale, la destabilizzazione del clima ed altri effetti indesiderati. A lungo andare, questi hanno, a loro volta, prodotto costosi premi assicurativi e spese di bonifica per rimediare alle catastrofi naturali e artificiali. Anche questo fu un duro colpo per la crescita economica.

Parte della colpa va attribuita anche alla crescita demografica. Vedete, le popolazioni numerose creano centri abitati più grandi e i risultati della ricerca mostrano che più grande è una città, più alto è il suo consumo di energia pro-capite. Diversamente dagli organismi biologici, dove più grande è l'animale, più lento è il suo metabolismo, l’intensità delle attività necessarie per sostenere un centro popolato aumenta in proporzione al numero degli abitanti. Si osservi che nelle grandi città le persone parlano più velocemente, camminano più velocemente e, in genere, devono vivere più intensamente e agire più in fretta per poter sopravvivere.

Tutta questa attività frenetica richiede energia per poter costruire un futuro sempre più grande e sempre più ricco. Sì, il futuro potrebbe essere ancora più popolato (per ora), ma oggi gli insediamenti umani in più rapida crescita sono i sobborghi metropolitani (slum), luoghi densamente abitati, privi di servizi sociali, sanitari e igienici, vivai di criminalità diffusa e sempre meno sicuri.

Tutto questo dimostra che la crescita è auto-limitante.

Inoltre, dobbiamo notare che questi limiti li abbiamo già superati e, in alcuni casi, siamo andati anche troppo oltre. Tutto il gran parlare che si fa sulla fratturazione idraulica dei depositi di scisti e olii bituminosi, è la prova dello stato più che avanzato di esaurimento delle fonti di combustibile fossile. La destabilizzazione del clima sta producendo fenomeni meteorologici sempre più violenti e siccità sempre più gravi (la California oggi ha davanti a sé solo un anno di disponibilità di acqua); si prevede, inoltre, che scompariranno del tutto diversi paesi a causa dell’innalzamento delle acque degli oceani, dell’irregolarità delle stagioni monsoniche, della diminuzione delle acque d’irrigazione e dello scioglimento dei ghiacciai.

L'inquinamento ha raggiunto e superato i suoi limiti in molti settori: lo smog urbano, sia a Parigi, Pechino, Mosca e Teheran, è diventato così grave che sono state ridotte le attività industriali per consentire alla popolazione di poter respirare. La radioattività prodotta dall’incidente nucleare dei reattori di Fukushima in Giappone, ora la si inizia a rilevare anche in pesci pescati dall’altra parte dell’Oceano Pacifico.

Tutti questi problemi stanno provocando al denaro un effetto piuttosto strano.

Nella precedente fase di crescita del capitalismo, il denaro è stato creato grazie al debito per poter sostenere i consumi e, così facendo, stimolare la crescita economica. Ma da pochi anni è stato raggiunto un limite negli Stati Uniti, che all’epoca erano l’epicentro dell’attività economica globale (oggi eclissati dalla Cina), quando un’unità di debito ha iniziato a produrre meno di un’unità di crescita economica. Da quel momento in poi non è stato più possibile chiedere prestiti con interessi dal futuro.

Mentre prima il denaro era stato preso in prestito per produrre crescita, ora doveva essere preso in prestito in quantità sempre più grandi, semplicemente per evitare il collasso finanziario e industriale. Di conseguenza, i tassi di interesse sui nuovi debiti si sono ridotti a zero, creando quella che e’ nota come la ZIRP, la politica dei tassi a interesse zero.

Per renderla ancora più dolce, le banche centrali hanno accettato il denaro dato in prestito prestato a 0% di interessi in forma dei depositi, guadagnando un po’ d’interessi, consentendo quindi alle banche di realizzare un profitto non facendo assolutamente nulla.

E’ ovvio che il fare niente si è rivelato piuttosto inefficace, e in tutto il mondo le economie hanno iniziato a ridursi. Molti paesi sono ricorsi al trucco di ritoccare un po’ le loro statistiche per mostrare un quadro un po’ più roseo, ma una statistica che non mente mai è il consumo di energia. E’ indicativo del volume complessivo di attività economica, e in tutto il mondo questo dato è in ribasso. Eccedenze di petrolio e prezzi del petrolio più bassi, è quello che vediamo come risultato della reale situazione. Altro indicatore che non mente è il Baltic Dry Index, che tiene traccia del livello delle attività di trasporto: anche questo valore è praticamente tracollato.

E così la ZIRP ha posto le basi per un ultimo mesto sviluppo: anche i tassi di interesse hanno iniziato la loro picchiata verso il segno Negativo, sia sui prestiti e sia sui depositi. Addio ZIRP, benvenuta NIRP! Le banche centrali di tutto il mondo hanno iniziato a concedere prestiti anche a piccoli tassi di interesse negativi. Proprio così, alcune banche centrali ora stanno pagando alcune istituzioni finanziarie perché prendano in prestito del denaro! Nel frattempo anche i tassi d’ interesse sui depositi bancari sono diventati di segno negativo: poter tenere i vostri soldi in banca ora è un privilegio, per il quale bisogna pagare.

Ma ovviamente i tassi d’interesse non sono di segno negativo per tutti. L'accesso al denaro gratuito è un privilegio, e i privilegiati sono i banchieri e gli industriali che finanziano. Un po’ meno privilegiati sono quelli che chiedono finanziamenti per l’edilizia; ancora di meno lo sono quelli che devono pagare per l’istruzione dei figli; quelli senza alcun privilegio sono invece quelli che comprano il cibo con la carta di credito o chiedono un miniprestito dal datore lavoro per pagare l’affitto.

Le funzioni che un tempo svolgevano i prestiti nelle economie capitaliste sono state del tutto dimenticate. Tanto tanto tempo fa, l’idea era che l'accesso al capitale lo si otteneva sulla base di un buon business plan (piano imprenditoriale), e che proprio questo spirito imprenditoriale ha permesso di prosperare e dar vita a sempre nuove imprese. Poiché chiunque – e non solo i privilegiati – possono ottenere un prestito e avviare un’impresa, questo significa che il successo economico dipende, almeno in una certa misura, dal merito.

Oggi, invece, l’attività d’impresa segue il percorso inverso, con un numero di imprese che escono dal mercato maggiore di quelle che entrano a farne parte, e la mobilità sociale è diventata per lo più una ‘cosa del passato’. Ciò che resta è una società rigidamente stratificata, con privilegi dispensati in base alla ricchezza ereditata: quelli che stanno in alto ottengono prestiti e riescono a navigare su onde cariche di denaro gratuito, mentre quelli in basso si ritrovano in una stato di indigenza e di asservimento sempre crescenti.

Può il NIRP sostenere un nuovo feudalesimo? Non si può certo invertire questa tendenza al ribasso, perché i fattori che stanno mettendo dei limiti alla crescita non sono suscettibili di manipolazione finanziaria, essendo di natura fisica. Vedete, nessuna somma di denaro può far apparire dal nulla delle nuove risorse naturali. Quello che si può fare però è congelare per un po’ la gerarchia sociale tra i proprietari di capitali; per un po’, ma non per sempre.

Ovunque guardiamo, la decrescita dell’economia si traduce in rivolta popolare, guerre e bancarotte nazionali, e queste arrestano in vari modi la circolazione del denaro. Svalutazione, fallimento di banche, impossibilità di finanziare le importazioni, crisi del sistema pensionistico e del settore pubblico. Il desiderio di sopravvivere spinge la gente a rifornirsi autonomamente di risorse materiali, distribuendole tra amici e parenti.

Di conseguenza, i meccanismi di mercato diventano estremamente opachi e distorti e spesso smettono totalmente di funzionare tutti insieme. In queste circostanze, quanti simboli di dollaro una persona abbia vicino al suo nome diventa un fattore meno rilevante, e a questo punto dovremmo assistere a un’ instabilità o addirittura a un capovolgimento radicale delle gerarchie sociali tra i possessori di capitali.

Pochi tra loro avranno le capacità di trasformarsi in signori della guerra, e questi pochi faranno fuori tutti gli altri.Ma più in generale, in una situazione in cui le istituzioni finanziarie sono crollate, le fabbriche e le imprese hanno smesso di funzionare, le proprietà immobiliari sono state prese d’assalto da teppisti criminali e occupanti abusivi, diventa difficile calcolare con precisione la ricchezza di ognuno.

A questo punto l’organigramma sociale della società post-capitalistica apparirà più o meno così: (“#REF!” è quello che appare in Excel quando il programma incontra un riferimento errato di casella in una formula.

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Il termine esatto per questo stato di cose è “anarchia”. Una volta che si sarà ricreato un nuovo substrato di “staticità”, si rinnoverà il processo di formazione dell’aristocrazia. Ma a meno che non si scoprirà per magia una nuova fonte di combustibili fossili a basso costo, il processo procederà secondo il tradizionale percorso feudale.

http://www.comedonchisciotte.org/site/m ... &sid=14855



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 30/03/2015, 14:50 
Illuminante uno dei commenti collegati al link sopraccitato...

C'è un momento storico dove cambiano gli Dei. I popoli europei avevano il Dio Comodo, che dava la Terra in comodato alle persone abitanti un Villaggio. La Terra, essendo una divinità non poteva essere comprata, venduta, parcellizzaza o essere di un unico proprietario,al contrario era in usufrutto.

Con la conquista dei medioreintali , cosidetti romani ,dei popoli europei, arriva il Dio Termine, ovvero quello della proprietà e dei confini. La Pax deorum dei romani, permetteva di uccidere i druidi o le persone sacre che si opponevano alla privatizzazione delle terre. La parola privato contiene infatti la filosofia dei romani, ovvero di privare la collettività di un bene, a favore di un proprietario. Il capitalismo inteso come privare la collettività di beni comuni è figlio della filosofia dei romani che vinsero sulle popolazioni italiche in primis e in tutta l'Europa poi.

Se l'economia era basata su un patto di appartenenza territoriale,ovvero dell'organizzazione della cosa di tutti, per avere benefici collettivi, sotto forma di Stato, oggi abbiamo la vittoria totale dei romani e del Dio Termine in quanto lo Stato non è piu necessario, proprio perchè lo Stato concettualmente doveva gestire nell'interesse collettivoun determinato territorio legato da tradizione, interesse comune, morale comune, religione comune. La globalizzazione rende lo Stato ( la Nazione ) inutile anzi,un impiccio.

Il modello vincente è stato quelle ebraico, ovvero quello di non avere uno Stato di appartenenza ma un interesse nella propria tribu ovunque essa si trova. Lo Stato è dunque la fratellanza della tribu, fratellanza che oggi si chiama massoneria, club, confraternita, e chi piu ne ha piu ne metta, che non è piu legata al territorio inteso come Patria, ma agli interessi della fratellanza, in qualunque Nazione si trovino i membri.

Ovvio che questo ha permesso la creazione di elite finanziare con immensi interessi sovranazionali e questo defrauda la cosa di Tutti ed il senso di Nazione e di economia territoriale. E' molto piu facile vivere di un'economia virtuale che crea il fiat money, schiavizzando chi ha ancora un economia reale legata al territorio, territorio inteso come produzione reale di beni concreti.

Dai romani che distrussero il campo della Pace di Giorda, in favore del Campo di Marte, ovvero attraverso il sopruso, siamo al culmine di questa filosofia. Ma tutto cio' che ha un inizio ha fortunatamente una fine...e non perchè le persone sono esseri pensanti, ma semplicemente perchè la Terra è un sistema chiuso e quindi non puo' sostenere la crescita infinita dei finti valori ( la bisca di WS) che pero' comperano beni reali e quindi finalmente i romani e la loro filosofia del sopruso finiranno.



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 30/03/2015, 14:57 
DERIVATI, LO STATO PAGA - Ecco quanto costano ai contribuenti
DI LUCA PIANA

Comune Di Gaggio Montano, lungo la strada che si snoda da Marzabotto a Porretta Terme, sugli Appennini Bolognesi. Il telefono squilla nella stanza del sindaco Maria Elisabetta Tanari, eletta nel 2011. «Vuole sapere quanto stiamo perdendo con il derivato del 2004? Mi dia un minuto». Viene interpellata la responsabile della ragioneria del municipio e la risposta arriva subito: «Mettiamo sempre tutto a bilancio, in piena trasparenza, com’è doveroso fare. Nel 2014 abbiamo pagato alla banca 66.821 euro, poco meno dei 70 mila preventivati. Quest’anno l’ultima stima prevede un flusso negativo di 66 mila euro, nel prossimo di 22 mila. Poi, per fortuna, sarà finita».

Nelle scorse settimane Carla Ruocco, deputata del Movimento 5 Stelle, ha chiesto più volte alla responsabile della Direzione debito pubblico, Maria Cannata, di conoscere i i contratti derivati sottoscritti dallo Stato Italiano. In gergo si chiama “accesso agli atti”. «Dopo diversi tentativi mi è stato detto che fornirceli avrebbe paralizzato per tre mesi gli ufici, che avrebbero dovuto smettere di lavorare per occuparsi di noi. Poi, quando abbiamo ripetuto la richiesta in Commissione Finanze, hanno risposto ancora no, sostenendo che si tratta di dati riservati», racconta la deputata.

Un piccolo comune sì, il Tesoro no: il più costoso segreto d’Italia è rappresentato da una serie di contratti derivati che stanno obbligando lo Stato a versare ogni anno alle banche alcuni miliardi di euro.

I derivati sono degli strumenti finanziari il cui valore dipende da una serie di variabili, come il cambio euro-dollaro o l’andamento dei tassi d’interesse. Possono servire per coprirsi dai rischi di mercato o, al contrario, per speculare. [Il lettore trova i dati disponibili su quelli sottoscritti dal Tesoro a pagina 62 (*)]. Su quanto ci costano ogni anno, su quali banche stanno facendoci i profitti più ingenti, su quali motivazioni ne hanno determinato l’acquisto, esistevano ino a febbraio rarissimi dati certi o dichiarazioni ufficiali. Poi il ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan ha mandato due volte la dirigente Maria Cannata alla Commissione Finanze della Camera, alzando il velo in piccola parte. Ma, se possibile, gettando altra benzina sul fuoco delle polemiche.

Il dato che ha suscitato più clamore: nella prima audizione la Cannata ha spiegato che su quei contratti, in base alle quotazioni la Cannata ha spiegato che su quei contratti, in base alle quotazioni correnti, alla fine del settembre scorso lo Stato rischiava di perderci 36 miliardi (la definizione tecnica è valore “mark to market”, la cui importanza si capirà più avanti). Quando due settimane più tardi è tornata di fronte alla commissione, ha fornito le stime aggiornate a ine dicembre: in meno di tre mesi, la perdita potenziale era salita di altri sei miliardi, raggiungendo quota 42. «Padoan, abbiamo un problema»: basterebbero queste cifre per rendere giustificata la parafrasi del messaggio dell’Apollo 13 alla base di Houston. Anche perché tutti questi derivati sono stati fatti prima che l’economista arrivasse al governo. Agli occhi degli esperti, però, il fatto più sorprendente emerso durante le audizioni non sono tanto le perdite, bensì il tipo di contratti che il Tesoro ha sottoscritto. Perché se il vero obiettivo era proteggersi dai rovesci finanziari, ci sarebbero stati modi meno rischiosi.

Come arricchire le banche.

Per addentrarsi un po’ in una materia così intricata, occorre citare almeno i derivati che stanno aprendo le ferite più sanguinose nei conti dello Stato: i cosiddetti “Interest Rate Swap”, o Irs. Si tratta di uno scambio in base al quale la banca si impegna a pagare ogni sei mesi al Tesoro una cifra parametrata ai tassi d’interesse correnti, in genere l’Euribor. Il Tesoro, al contrario, versa alla banca una somma fissa, pari a un tasso predeterminato, ad esempio, al 5 per cento. Chi ci guadagna? Dipende dai mercati. Se i tassi d’interesse scendono, come hanno fatto dal 2012 in poi, arrivando quasi a zero, la banca fa affari d’oro (paga al Tesoro tassi variabili quasi nulli e incassa il 5 per cento fisso). Se salgono e, soprattutto, se superano il famigerato cinque per cento, tocca al Tesoro godere. Perché, su questi Irs, lo Stato ci sta perdendo così tanto?

Per spiegare l’operato dei suoi uffici, la Cannata ha fornito ai deputati varie argomentazioni. Ha detto che i derivati avevano iniziato a farli negli anni Novanta, quando i governi della Prima Repubblica avevano costruito un debito pubblico enorme e di corto respiro: i titoli di Stato erano in gran parte di breve durata, Bot e Cct, e andavano continuamente rimborsati e rimpiazzati da altri, in una spirale negativa. Quando i tassi salivano, era una mazzata, perché subito il debito costava di più. Per invertire la rotta, si puntò sui più lunghi Btp e sui derivati. Con l’idea che, se contrai un Irs, è come se congelassi il costo del tuo debito: più del 5 per cento non paghi, perché se il clima peggiora sono le banche a sborsare la differenza.

Negli anni Duemila, quando il passaggio dai Bot ai Btp era completato, si puntò poi tutto sui derivati. «L’esperienza pregressa faceva presumere che il rialzo repentino dei tassi fosse il rischio principale da cui proteggersi», ha detto la dirigente del Tesoro, sostenendo la natura “assicurativa” degli Irs.

Qui c’è il primo fatto che non convince gli esperti. Perché di questi strumenti il Tesoro ne ha in portafoglio per 114 miliardi, sui quali ne sta perdendo 32. Dice Nicola Benini, fondatore di Ifa Consulting, società indipendente di consulenza che ha assistito decine di enti locali nella ristrutturazione dei derivati venduti dalle banche: «Lo Stato dovrebbe limitarsi a proteggersi dal rischio di un aumento degli interessi sui titoli a tasso variabile e per questo ha diverse alternative, tra cui le opzioni “cap”, totalmente assenti nel portafoglio derivati del Tesoro ma che, oggi, sono le uniche ammesse per gli enti locali».

Con gli Irs che la Cannata ha chiamato “di duration” (*), su cui stiamo perdendo 33 miliardi, dove il Tesoro paga un interesse fisso in cambio di un variabile per un periodo molto lungo, anche trent’anni, «è vero che si allunga di fatto la scadenza del debito. Ma non è detto che sia un buon affare se poi, per qualche motivo, devi agire in maniera contraria».

È proprio quello che è accaduto nel 2011, come vedremo. Prima però è bene chiarire un concetto: il Tesoro non dovrebbe scommettere su come si muoveranno i tassi, guadagnandoci un sacco di soldi se salgono ma perdendone altrettanti se scendono. Dovrebbe preoccuparsi di non assumere troppi rischi.

Per farlo esistono, appunto, le opzioni “cap”, che in inglese vuol dire tappo: «Se i tassi salgono oltre un limite pre-determinato, eserciti l’opzione e tocca alla banca rimborsarti quel che spendi in più per pagare gli interessi sul debito», spiega Benini.

Attivare l’assicurazione, ovviamente, ha un costo, che però «è certo e ammortizzabile nel tempo». Mentre se per i trent’anni di durata di un Irs, i tassi staranno sotto il 5 per cento dell’esempio di prima, per l’intero periodo toccherà sempre e soltanto al Tesoro versare quattrini alla banca.
Le ripercussioni negative non sono uno scenario economico ma, purtroppo, la dura realtà.

Nel 2013, come spiegato qualche mese fa dal sottosegretario Massimo Cassano, lo Stato aveva accusato sui propri derivati un esborso netto di 3 miliardi. Soldi finiti tutti alle banche d’affari. La Cannata non ha fornito i dati del 2014 ma, considerando che i tassi sono ancora scesi, è lecito pensare che sia stato sborsato ancora di più.

Stando ad alcune stime, il Tesoro avrebbe visto così volatilizzarsi metà dei risparmi che la riduzione a zero dei tassi da parte della Bce e il successivo “quantitative easing” lanciato da Mario Draghi hanno reso possibili, grazie al minor costo del debito. Ma i dubbi non finiscono qui.

Cosa nasconde quella clausola.

Un’altra spiegazione fornita alla Camera è legata ai difficili giorni di fine 2011, quando lo spread impazzava e l’Italia era nel mirino. In quel momento c’era il rischio che i Btp scottassero troppo perché le banche, spaventate da una crisi in stile greco, continuassero a comprarli. Questo e altri fattori spinsero il Tesoro a ristrutturare i derivati esistenti, attenuando e ridistribuendo i rischi che le banche correvano. E, soprattutto, vendendo un nuovo tipo di derivato, detto “swap option”, che ha determinato ulteriori rischi, visto che a oggi sono in perdita per 9,3 miliardi.

Anche su questo fronte, però, gli interrogativi sono numerosi: «In quei momenti c’era una fortissima volatilità, ovvero i prezzi cambiavano rapidamente. Perché ci siamo esposti così in una fase tanto delicata?», osserva Rita D’Ecclesia, che insegna Finanza Quantitativa alla Sapienza e Asset Pricing al Birkbeck College di Londra.

Spiega la docente: «Le banche fanno previsioni quotidiane sull’andamento dei tassi a breve e a lungo termine e, di volta in volta, decidono se utilizzare le swap option come uno strumento per coprirsi dai rischi o, al contrario, per effettuare investimenti speculativi».

Le domande da farsi, per la D’Ecclesia, sono diverse. In primo luogo bisogna chiedersi «se è sensato che uno Stato speculi». E poi andrebbe discusso il merito di quelle scelte: «Anche nei giorni di tensione massima, c’erano indicazioni e argomenti a favore del fatto che in prospettiva i tassi sarebbero scesi. Le abbiamo valutate correttamente?».

Il problema è che, nella tempesta, si era forse entrati con una consistente mole di derivati sottoscritti in anni in cui non ce n’era bisogno, perché, dice Benini, «c’era un modo più semplice per allungare la vita del debito: emettere più Btp con scadenze lunghe». Derivati che, già nel 2011, al termine di un lungo periodo di calma durante cui persino i titoli di Stato greci erano stati venduti senza problemi, esponevano l’Italia a rischi consistenti. Nella ristrutturazione sono stati scaricati sul futuro parte di quei costi? Il sospetto è lecito.

E, ancora, non vale la giustificazione che i mercati sono fatti così, oggi perdi e domani non più. Perché il “mark to market” che assegna ai derivati un valore negativo, non è solo il valore di mercato a oggi: «È la media della distribuzione delle perdite attese», dice Benini. Che spiega: «Questo vuol dire che l’ipotesi di perderci 42 miliardi è quella che sintetizza meglio la situazione complessiva del Tesoro. I mercati potrebbero ribaltarsi, annullando le perdite: ma, se si potessero analizzare i contratti, magari scopriremmo che lo scenario positivo ha le stesse probabilità di verificarsi di quello opposto, ovvero una perdita più consistente. E calcolare la perdita massima statisticamente attesa».

Ma non basta. Perché in alcuni contratti ci sono clausole che ne permettono la chiusura, a certe condizioni. Il bubbone è emerso nel 2012, quando Morgan Stanley si fece versare dal governo italiano 2,5 miliardi e uscì da una posizione in derivati (2 Irs e 2 swap option) che percepiva troppo rischiosa. Sul punto, dopo un esposto dell’Adusbef, indaga la Procura di Roma.

Nel frattempo, la Cannata ha rivelato che nel 2014 sono state esercitate altre due clausole di risoluzione. I contratti tuttora in vita che le prevedono sono tredici: «Ma da inizio 2011 ne abbiamo cancellate altre 20», ha assicurato la dirigente.

«Sappiamo troppo poco di queste clausole», osserva Ugo Patroni Griffi, che insegna Diritto Commerciale a Bari e European Business Law alla Luiss di Roma, e che ha fatto da consulente alla Regione Puglia quando era alle prese con un derivato Merrill Lynch che rischiava di comprometterne il merito di credito. Patroni Griffi si pone una serie di domande: «Questo genere di clausole comporta un rischio. Era calcolato correttamente? Era giustificato o troppo speculativo? Quali erano le probabilità che l’evento che ci è costato così tanto si verificasse? ».

Secondo il giurista, la riservatezza necessaria non dovrebbe impedire un’attività di verifica da parte del parlamento: «È stato trovato il modo per indagare su questioni coperte dal segreto di Stato, come terrorismo e mafia. Bisogna farlo anche qui, tutelando gli interessi in gioco ma senza evitare di rispondere a una domanda: i soldi che stiamo perdendo, li perdiamo per cause fisiologiche o patologiche?».

Link: https://nitroflare.com/view/621013CAAD8 ... 1_2015.pdf

17.03.2015

Articolo completo sull'Espresso:

http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... i-1.204070



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MessaggioInviato: 04/04/2015, 14:54 
Qui si spiega come il colosso finanziario ha esercitato lo "scacco" all'economia italiana attraverso gli strumenti di cui abbiamo parlato in questo thread.

Documentazione riepilogativa sul complotto del Britannia

La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni in Italia: il saccheggio di un'economia nazionale

Il 2 giugno 1992, a pochi giorni dall'assassinio del giudice Giovanni Falcone, si verificava in tutta riservatezza un altro avvenimento che avrebbe avuto conseguenze molto profonde sul futuro del Paese. Il «Britannia», lo yacht della corona inglese, gettava l'ancora presso le nostre coste con a bordo alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay's, a quelli della Baring & Co. e della S.G. Warburg. A fare gli onori di casa era la stessa regina Elisabetta II d'Inghilterra. Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell'ENI, dell'AGIP, Mario Draghi del ministero del Tesoro, Riccardo Gallo dell'IRI, Giovanni Bazoli dell'Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop, alti funzionari della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade.

Si trattava di discutere i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. Draghi avrebbe detto agli ospiti inglesi: "Stiamo per passare dalle parole ai fatti". Da parte loro gli inglesi hanno assicurato che la City di Londra era pronta a svolgere un ruolo, ma le dimensioni del mercato borsistico italiano sono troppo minuscole per poter assorbire le grandi somme provenienti da queste privatizzazioni. Ergo: dovete venire a Londra, dove c'è il capitale necessario.

Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare gli argomenti, parlare dell'urgente necessità di privatizzare per ridurre l'enorme deficit del bilancio. Al grande pubblico, sia il governo che i mass media hanno risparmiato la semplice verità che il "primo mobile" dietro tutto il dibattito sulle privatizzazioni è costituito dalle grandi case bancarie londinesi e newyorkesi. L'obiettivo è semplicemente quello di prendere il controllo di ogni aspetto della vita economica italiana sfruttando le numerose scuse di ingovernabilità, corruzione, partitocrazia, inefficienza, ecc.

Prima di esercitarci a calcolare quante lirette il ministero del Tesoro potrebbe ottenere dalla svendita dell'ENI, dell'IRI ecc., cerchiamo di mettere in luce i presupposti filosofici dei banchieri londinesi e dei loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers e dei loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell'OCSE e nel mondo dei mass media. Queste grandi finanziarie di New York e Londra su cui si fonda il potere anglo-americano gestiscono il gioco della liberalizzazione dei mercati internazionali. Ne scrivono e riscrivono le regole per massimizzare di volta in volta i profitti.

A Bruxelles contano su sir Leon Brittan, fratello del Samuel Brittan direttore del Financial Times. Fino al gennaio 1993 Leon Brittan è stato Commissario della CEE per la Politica di Concorrenza ed è l'autore delle regole bancarie ed assicurative che hanno favorito Londra, tanto criticate sia dalla Germania che dagli altri paesi membri della CEE. Sir Leon era un esponente del governo della Thatcher quando improvvisamente, nel gennaio del 1986, si dimise per andare a Bruxelles.

Nonostante le illusioni di grandeur, Parigi è un centro finanziario che non può tener testa alla prepotenza anglo-americana, e lo stesso discorso vale per i finanzieri di Francoforte, così come quelli del Sol Levante. Pur disponendo delle maggiori istituzioni bancarie e assicurative, il Giappone non è in grado di offrire una valida resistenza alle manipolazioni finanziarie anglo-americane.

La globalizzazione e il "Big Bang" londinese

La formula che gli anglo-americani tentano oggi di spacciare ai governi di tutto il mondo, convincerli cioè a svendere i patrimoni dello stato per ottenere qualche liquido con cui far fronte al dissesto del bilancio ed al tempo stesso "promuovere la competitività", fu collaudata dalla finanza londinese alla fine del 1979, in particolare dalla N.M. Rothschild & Co., che coordinò la svendita generale per conto del governo della "Lady di Ferro".

Così un ristretto gruppo di finanzieri ha dominato per quasi 12 anni l'economia inglese. Principalmente si tratta di esponenti della Società Mont Pelerin, come i consiglieri della Tatcher Karl Brunner, sir Alan Walters, lord Harris of High Cross ed altri ancora. La Società Mont Pelerin è stata presieduta internazionalmente fino a poco tempo fa dall'economista arciliberista Milton Friedman, ascoltatissimo dal Presidente Ronald Reagan.

Friedman è l'architetto della politica economica imposta al Cile dalla dittatura di Augusto Pinochet. Essa si riduce all'idea di tenere il governo fuori da ogni intervento e lasciare che gli interessi privati facciano il bello e cattivo tempo. Friedman fece scalpore quando propose che l'eroina e gli altri stupefacenti venissero considerati alla stregua di una "merce" normale, in modo da permettere al consumatore di "scegliere liberamente" se acquistarla o meno.

Sotto la rivoluzione "liberistica" imposta dalla Thatcher sono state messe all'asta le imprese migliori dell'Inghilterra, dalla British Petroleum alle compagnie del gas e dell'acqua, fino alla industria militare Vickers. Da quando la Thatcher è stata costretta ad andarsene vengono pian piano alla luce informazioni sempre più precise di come ad arricchirsi spudoratamente in quella "privatizzazione" furono principalmente gli amici della Lady di Ferro.

D'altro canto quel "collaudo" dimostra come non sia affatto vero che l'industria, una volta privatizzata, diventi più efficiente. Dopo 13 anni di thatcherismo, quella britannica è la più arretrata tra le grandi economie europee. Negli investimenti per la Ricerca e Sviluppo del settore macchine industriali ed automobile, l'Inghilterra è stata superata anche dall'Italia. L'essenza del "liberismo" thatcheriano è dare la priorità assoluta alla finanza, a scapito dello sviluppo industriale dell'economia nazionale.

Questa degenerazione britannica toccò il fondo nell'ottobre del 1986, quando il governo decretò la completa deregolamentazione finanziaria della City di Londra, che fu chiamata il "Big Bang". Poco meno di un anno dopo, la borsa di Londra crollò insieme a tutte le altre, travolte dalla frenetica spirale di speculazioni e truffe da essa iniziata.

In Inghilterra il “problema” delle ditte di proprietà statale, come la British Leyland o la Jaguar, non era il fatto che esse fossero di proprietà dello stato, ma piuttosto che questo stato, amministrato dal governo della Thatcher, non volle impegnarsi in una oculata politica di pianificazione degli investimenti industriali, cosa caratteristica ad esempio del MITI in Giappone, perché quel governo esprimeva gli interessi dell'alta finanza e non quelli delle capacità produttive del paese. Oggi però dovrebbe essere chiaro anche ai non addetti che la deregolamentazione finanziaria londinese ha inesorabilmente portato alla rovina economica nazionale. L'Inghilterra versa nella peggiore crisi economica dagli anni Trenta, con la disoccupazione che è tornata ai livelli del 1979, quando si insediò la Thatcher. Il deficit del bilancio lievita ad un tasso annuale del 7% del PNL.

Però, contrariamente alla situazione del 1979, oggi il governo britannico non dispone più di una propria base industriale con cui mettere in moto tutta una serie di investimenti nel settore industriale.

Ma, a prescindere dal saccheggio compiuto da sir Jimmy Goldsmith, Jacob Rothschild, lord Hanson e compagnia dietro il paravento del "liberismo ad oltranza", la privatizzazione decisa della Thatcher va collocata nel contesto della strategia anglo-americana per aprire altre regioni economiche a forme molto sofisticate di saccheggio neo-coloniale, perpetrato con la "mano invisibile" tanto cara alle teorie liberistiche. Questa "mano invisibile" anglo-americana regola i meccanismi di fusioni ed acquisizioni operate da altri governi nella misura in cui questi sono così stupidi e sprovveduti da richiedere e pagare profumatamente "consulenze finanziarie" proprio a quella cricca di finanzieri.

Alla fine degli anni Settanta, quando a Londra la Thatcher cominciò lo scontro col sindacato per ridurre i salari e cominciò a svendere le imprese statali ai suoi amici, a Wall Street gente come Donald Reagan, presidente della Merrill Lynch, e Walter Wriston, capo della Citicorp, si impegnarono a lanciare una "rivoluzione finanziaria" sulla stessa falsariga che in America fu chiamata "deregolamentazione dei mercati finanziari".

Quando Ronald Reagan diventò presidente nel 1981, e prestò ascolto a Milton Friedman, la deregulation fece innumerevoli proseliti a Washington. Nei 12 anni che seguirono, fino alla sconfitta di George Bush nel novembre del 1992, Washington voltò le spalle ad una ben dosata politica di supervisione e regolamentazione governativa di attività particolarmente importanti come quella delle compagnie aree e degli autotrasporti, per non parlare dell'economia in generale. Le leggi che erano state escogitate negli anni della Grande Depressione per proteggere la proprietà di piccoli risparmiatori e azionisti furono abrogate o ignorate negli anni Ottanta per fare spazio alla "legge del Far West" che prevede la sopravvivenza del più cattivo.

Negli anni ruggenti della deregulation la filosofia negli USA era "tutto è ammesso, dillo con i soldi". Così al crimine organizzato fu permesso di reinvestire i proventi illeciti nei regolari flussi finanziari, per poterli così usare nelle scalate speculative a Wall Street condotte da gente come Mike Milken, Ivan Boesky ed altri. Grazie al proliferare delle "obbligazioni spazzatura", o altre tecniche speculative, si potevano acquisire imprese sane i cui nuovi proprietari trascuravano la politica di sviluppo a lungo termine su cui cresceva l'impresa, cercando solo di realizzare profitti a breve termine.

Fu così che la TWA Airlines finì in mano a Carl Icahn, uno speculatore della banca Drexel. In questi anni Ottanta, i principali istituti finanziari di Londra e New York, come la S.G. Warburg, la Barclays, la Midland Bank, la Citicorp, la Chase Manhattan, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch, la Salomon Bros., lanciarono la "globalizzazione dei mercati finanziari".

Il presupposto di partenza era che se tutti i paesi avessero abolito i controlli sui flussi di capitali ed altri meccanismi, la nuova finanza anglo-americana avrebbe potuto accedere a nuovi, grandi spazi economici, altamente profittevoli. I grandi nomi della finanza erano alla caccia di nuovi organismi sani su cui esercitare la propria distruttiva opera parassitaria, e così sedussero molti ambienti bancari, sia europei che giapponesi, a rinunciare alla naturale diffidenza per unirsi al gioco speculativo anglo-americano e "vincere".

Uno dei sofismi utilizzati a questo proposito era quello che descriveva il sistema finanziario del paese preso di mira come "superato", "obsoleto", "non abbastanza dinamico"; insomma, da riformare per promuovere la nuova ondata di finanza creativa. Così l'intera Europa fu accusata di soffrire di "Eurosclerosi". Tutti i trucchi sono buoni per costringere le economie nazionali a sollevare le barriere protettive e permettere alla finanza anglo-americana di dilagare su ciò che essa definiva mercati "arretrati" o "provinciali" e sfruttare la maggiore scaltrezza finanziaria per saccheggiarli.

La grande speculazione e la finanza angloamericana

Il vero e proprio inizio di questa dissennata corsa alla deregulation e alla "globalizzazione" dei mercati finanziari in stile thatcheriano, a cui assistiamo attualmente in Italia, risale alla fine degli anni '60, inizio anni '70. A partire da quel periodo, le grandi banche internazionali americane, come la Chase Manhattan e la Citicorp, iniziarono a cercare nuovi impieghi del capitale che fruttassero alti profitti, in quanto gli investimenti nell'economia interna americana non erano così profittevoli come quelli all'estero.

Nel 1971, decine di miliardi di dollari avevano già abbandonato gli Stati Uniti ed erano approdati in Europa. L'astuto Sir Siegmund Warburg, presidente della omonima e celebre banca britannica (la stessa a cui il ministro del Tesoro Barucci si è recentemente rivolto per stimare il valore immobiliare dell'IMI), si recò allora a Washington per convincere il Tesoro e il Dipartimento di Stato USA a far rimanere all'estero quei capitali, in modo che Londra potesse usarli per ripristinare il ruolo di "banchiere mondiale" che la City aveva svolto fino al 1914. È ironico che il primo prestito in "Eurobbligazioni" sottoscritto da Siegmund Warburg fosse quello di 15 milioni di dollari lanciato dalla Società Autostrade dell'IRI.

La vera trovata di Warburg fu però l'uso dei dollari espatriati in Europa, i cosiddetti "Eurodollari", che si rivelarono l'innovazione finanziaria più destabilizzante degli anni settanta. Il Presidente Nixon, seguendo il consiglio di George Shultz e Paul Volcker, annunciò il 15 agosto 1971 che da quel momento in poi Washington e la Federal Reserve, la banca centrale USA, si sarebbero rifiutate di riscattare in oro i dollari posseduti dalle altre banche centrali. Washington stracciò, con atto unilaterale, gli accordi di Bretton Woods del 1944 che stabilivano l'ordine monetario postbellico. Di colpo, il mondo si ritrovò ostaggio di un regime di "tassi di cambio fluttuanti" che trasformò il sistema monetario basato sul dollaro in una gigantesca arena speculativa.

Nel maggio 1973, sei mesi prima che scoppiasse la "crisi petrolifera", l'oligarchia politico-finanziaria angloamericana si riunì segretamente nella località svedese di Saltsjoebaden per discutere la fase successiva del "ricatto" esercitato per mezzo del dollaro sull'economia mondiale.

Tra gli ospiti di quel ristretto gruppo di potenti, riuniti sotto l'egida del Club Bilderberg, c'era il Presidente della FIAT Gianni Agnelli. Si discusse che bisognava persuadere l'OPEC ad aumentare il prezzo del petrolio del 400%. Dato che dal 1945 il petrolio si acquistava solo con dollari, la mossa avrebbe automaticamente quadruplicato la domanda di dollari sul mercato internazionale.

Henry Kissinger, un altro ospite della riunione segreta del Bilderberg, battezzò l'idea col nome di "riciclaggio dei petrodollari". I suoi interlocutori, come Lord Richardson della British Petroleum, Robert O. Anderson dell'americana Atlantic Ritchfield Corporation (ARCO) o lo svedese Marcus Wallenberg, non erano interessati a discutere come impedire i catastrofici effetti sull'economia mondiale derivanti da un quadruplicamento del prezzo del petrolio, ma, piuttosto, l'intera discussione in quella sperduta località della Svezia ruotò attorno all'idea di come assicurare che poche, scelte banche americane controllassero la nuova ricchezza dei "petrodollari" in mano araba. Si trattava quindi di come aumentare il potere nelle mani delle banche di Londra e New York, del cartello petrolifero e dei loro amici europei, alle spese del resto del mondo.

Negli anni '80, dopo due crisi petrolifere e l'equivalente shock della stretta creditizia pilotata da Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (1979-1982), la deregulation finanziaria di Thatcher e Reagan creò, nel contesto di un valore "fluttuante" del dollaro e del riciclaggio di prestiti in petrodollari che rifinanziavano il deficit dei paesi del Terzo Mondo, la cornice per un nuovo riciclaggio, quello dei narco-dollari. La liberalizzazione delle transazioni finanziarie in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni è servita infatti ad aprire le porte al riciclaggio dei proventi illeciti della droga, che nel 1990 si stimava in un valore tra i 600 e i 1000 miliardi di dollari.

La Lugano connection

A questo punto occorre dedicare qualche riga alle finanziarie di Wall Street che svolgono un ruolo decisivo nella "privatizzazione" delle imprese pubbliche italiane. Sono tre le ditte impiegate all'uopo come "consulenti" del governo Amato: Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers. Lo stesso ministro dell'Industria Giuseppe Guarino, contrario a una "svendita" del patrimonio industriale raccolto nelle ex Partecipazioni Statali, sembra riporre fiducia in queste tre finanziarie, i cui dirigenti incontrò il 17 settembre scorso nel corso di un viaggio a New York.

Sono molti attualmente a ritenere la Goldman Sachs la più potente finanziaria di Wall Street, posizione conquistata almeno a partire dal 1991, quando scoppiarono gli scandali di "insider trading" che la coinvolgevano assieme alla Salomon Brothers. Il presidente della Goldman Sachs, Robert Rubin, sarà il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del Presidente Clinton. Quel posto dovrà essere un "ufficio di guerra economica" in stile britannico, per fronteggiare quelli che l'ex capo della CIA William Webster chiamò "gli alleati politici e militari dell'America che sono i suoi rivali economici".

Rubin non è il primo dirigente della Goldman Sachs che ricopre una carica nel governo americano. Prima di lui l'attuale vicepresidente, Robert Hormats, fu consigliere di Henry Kissinger al Dipartimento di Stato e un altro "senior partner", John Whitehead, fu sottosegretario di Stato con Ronald Reagan. La Goldman Sachs é uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore delle monete, che determina tramite la sussidiaria J. Aron & CO., che opera sul mercato delle merci e dei "futures". La Goldman Sachs ha rafforzato la sua presenza in Italia aprendo nel 1992 un "ufficio operativo" a Milano. Più avanti vedremo il ruolo cruciale che essa ha svolto nella crisi della lira e nella partita delle privatizzazioni.

La Salomon Brothers domina, assieme alla Goldman Sachs, il commercio di greggio mondiale. La Salomon possiede anche la svizzera Phibro (Philipp Brothers), che opera nel settore delle materie prime. Nel 1989 la Phibro fu coinvolta in un caso di riciclaggio di milioni di dollari ricavati dalla vendita di cocaina negli Stati Uniti. I soldi venivano riciclati dalla banda chiamata "La Mina", che lavorava per il cartello della coca colombiano, nella Phibro Precious Metal Certificates.

Dopo gli scandali di "insider trading" e speculazione su Buoni del Tesoro USA scoppiati nel 1991, a cui abbiamo accennato sopra, ci fu un completo rinnovo dei vertici della finanziaria. Il nuovo presidente, attuale azionista di maggioranza, è Warren Buffett, originario di Omaha, Nebraska.

Buffett, oltre ad essere amico intimo di George Bush, è anche il principale azionista del Washington Post e della rete televisiva ABC. Egli possiede vasti interessi anche nell'American Express (del cui consiglio di amministrazione fa parte Henry Kissinger) e nella Wells Fargo Bank.

Lo stesso Buffett si dice sia implicato in uno scandalo di pedofili del Nebraska che facevano capo, fino alla fine degli anni '80, al finanziere repubblicano Larry King, della banca Franklin Credit Union. Buffett era il patrocinatore e il sostenitore di King. La Warren Buffett Foundation, la fondazione intestata a suo nome, finanzia cause antidemografiche, come quelle lanciate da organizzazioni americane come Negative Population Growth, Planned Parenthood, l'Associazione per la Sterilizzazione Volontaria e il Population Council.

La Merrill Lynch è famosa per il ruolo che svolse in una sensazionale operazione di riciclaggio del denaro tra l'Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano. Si tratta della "Pizza connection", che portò al processo in cui la famiglia mafiosa newyorchese dei Bonanno fu accusata di aver riciclato circa 3,5 miliardi di dollari fino a quando fu arrestata, nel 1984.

I Bonanno avevano usato, per i loro traffici, la sede centrale di New York e gli uffici di Lugano della Merrill Lynch. L'aspetto più sconcertante del processo sulla “Pizza connection” in Svizzera e a New York è che essi ignorarono completamente la complicità dei vertici della Merrill Lynch. All'epoca del processo il ministro del Tesoro americano, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era l'ex presidente della Merrill Lynch Donald Reagan.

Il processo si concluse con alcune multe nei confronti di funzionari minori della sede luganese della finanziaria americana, e la storia finì lì. Come è noto, la Merrill Lynch é stata incaricata dall'IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano.

Abbiamo fin qui identificato alcuni fatti poco noti che riguardano le tre finanziarie di Wall Street chiamate a svolgere un ruolo decisivo nella valutazione e nella stessa privatizzazione delle imprese pubbliche italiane. Queste finanziarie accedono a dati di grande importanza e delicatezza che riguardano alcune delle più valide imprese europee e si posizionano in assoluto vantaggio come "consiglieri per la privatizzazione". Naturalmente, tutto secondo una rigida etica professionale e senza conflitti di interesse!

Moody's e la guerra della lira

Quasi in contemporanea con la nomina del governo Amato, l'agenzia di "rating" newyorchese Moody's annunciò, con la sorpresa di molti, che avrebbe retrocesso l'Italia in serie C dal punto di vista della credibilità finanziaria. Questo, senza che le cifre del debito italiano fossero cambiate drasticamente (la tendenza al deficit era nota almeno da due anni) e senza alcun rischio di insolvenza da parte dello stato.

La giustificazione di Moody's fu che il nuovo governo non dava sufficienti garanzie di voler apportare seri tagli al bilancio dello stato. Negli ambienti finanziari internazionali, Moody's è famosa perché usa come arma "politica" la sua valutazione di rischio, tale che beneficia interessi angloamericani a svantaggio di banche rivali o, come nel caso dell'Italia, di intere nazioni. Il presidente della Moody's, John Bohn, ha ricoperto un'alta carica nel ministero del Tesoro USA sotto George Bush.

La mossa di Moody's costrinse il governo Amato ad alzare i tassi d'interesse sui BOT per non perdere gli investitori. Essa segnalò anche l'inizio di una guerra finanziaria contro la lira. Secondo fonti ben informate, i più aggressivi speculatori contro la lira, nell'attacco del luglio scorso, furono la Goldman Sachs e la S.G. Warburg di Londra. Ribadiamo che la speculazione ebbe un movente principalmente politico, non finanziario, e che, purtroppo, ebbe successo. L'Italia fu costretta ad abbandonare lo SME e il governo varò un piano di tagli e annunciate privatizzazioni per ridurre il deficit.

Ciò che Amato non ha mai detto è che la svalutazione della lira nei confronti del dollaro ha dato agli avventurieri della Goldman Sachs e delle altre finanziarie di Wall Street un grande "vantaggio". Calcolato in dollari, l'acquisto delle imprese da privatizzare è diventato, per gli acquirenti americani, circa il 30% meno costoso. Lentamente, specialmente dopo l'ultimo attacco speculativo dell'inizio dell'anno, la lira si va assestando sul valore "politico" di circa 1000 lire a marco, esattamente il valore indicato dalla Goldman Sachs nel luglio scorso come “valore reale” della moneta italiana.

Come mai questa "coincidenza"? Come mai la finanziaria newyorchese ha appena aperto un ufficio operativo in un paese che secondo i suoi criteri sprofonda nella crisi? Come mai un economista come Romano Prodi, "senior adviser" della Goldman Sachs, suggerisce di privatizzare alla grande, vendendo tutte e tre le banche d'interesse nazionale (Banca Commerciale, Credito italiano, Banca di Roma), più il San Paolo di Torino, il Monte dei Paschi di Siena e l'Ina (Convegno presso l'Assolombarda il 30 settembre 1992)?

Lo stesso Prodi, che nel passato è stato a capo dell'IRI, oggi sembra aver sposato completamente la causa neoliberista angloamericana, tanto da aver proposto, a metà novembre, che l'Europa applichi verso i paesi dell'est una politica simile a quella dell'accordo di libero scambio siglato tra Stati Uniti, Messico e Canada (NAFTA). Un tale trattato darebbe il via libera alle grandi imprese per trasferire le loro attività all'est, dove la forza lavoro costa meno (è quanto è avvenuto ai confini tra Stati Uniti e Messico). Ciò aggraverebbe la crisi all'ovest e condurrebbe, nel medio-lungo termine, ad un abbassamento della produttività anche all'est, dato che la manodopera sottopagata è anche meno qualificata.

Il governo italiano deve scartare una simile politica, così come deve abbandonare il circolo vizioso dei tassi d'interesse alti che, per difendere la moneta, alimentano lo stesso deficit che si dichiara di voler combattere. Tra il giugno e il settembre scorso, i tassi sono aumentati paurosamente, da circa l'11% al 20% prima che la lira abbandonasse lo SME. Tuttora la Banca d'Italia mantiene il tasso d'interesse al 13%. Tenuto conto che ogni punto di aumento degli interessi si traduce in 15.000 miliardi in più sul debito dello stato a breve termine, il governo italiano è stato messo alle corde dagli speculatori angloamericani (e dai loro complici italiani) aumentando la pressione per privatizzare a prezzi di svendita.

Andando avanti su questa strada, l'Italia commetterà un suicidio economico. La sola via d'uscita è l'adozione di una politica creditizia nazionale del tipo che ai tempi di Enrico Mattei si sarebbe considerata ovvia. Occorre ripristinare il controllo sui cambi, congelare una parte del debito con una moratoria di 10-15 anni (salvaguardando naturalmente gli interessi dei piccoli risparmiatori), parallelamente all'avvio di una aggressiva politica di investimenti, favorita da crediti agevolati, nelle infrastrutture moderne, in concerto con i partner europei.

Per far ciò, occorre che lo stato si riappropri della piena sovranità monetaria, il che significa che per finanziare gli investimenti esso non debba bussare alla porta della Banca d'Italia, la quale ha finora, incostituzionalmente, battuto moneta a nome dello stato per poi rivendergliela a tassi "di mercato", cioè da usura. I motivi che hanno portato al "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia, e cioè l'improduttivo finanziamento del debito, esistono, ma combattere il malgoverno non significa eliminare il governo. Perciò occorre porre fine al "divorzio" tra Bankitalia e Tesoro.

Una efficace repressione dell'attività di riciclaggio del denaro da parte della mafia, compreso quello investito nei BOT, accompagnata da un astuto cambio della moneta (la famosa “lira pesante”), darebbe alle istituzioni dello stato una posizione di forza e la credibilità e la fiducia popolare.

L'alternativa è il caos e la guerra civile.

Come difendere l’industria nazionale dalla speculazione e dalle svendite indiscriminate

Il Movimento Solidarietà e la Executive Intelligence Review hanno tenuto il 28 giugno 1993 a Milano, presso la sala FAST, una conferenza sul tema dell'economia, affrontando in particolare aspetti come le moderne tecniche di speculazione finanziaria, le privatizzazioni ed i grandi programmi di sviluppo.

La caratteristica forse più singolare della conferenza è stata la partecipazione dei rappresentanti di numerose forze politiche, anche disparate o divergenti, animati dal comune interesse di approfondire la conoscenza del pensiero economico dell'economista americano Lyndon LaRouche e di misurarsi con questo.

Da qui l'opportunità di dedicare il primo numero del bollettino della nuova associazione alla pubblicazione degli atti del convegno, per mettere a disposizione di un più vasto pubblico le analisi e le documentazioni che gli specialisti dell'EIR William Engdahl e Claudio Celani hanno esposto nelle loro relazioni, come pure gran parte dei numerosi contributi con i quali parlamentari, giornalisti e altri partecipanti hanno arricchito e animato il convegno.

"La speculazione selvaggia sui mercati internazionali e la «geopolitica» britannica sono le due facce della stessa medaglia oligarchica", ha affermato nella sua breve introduzione ai lavori il giornalista dell'EIR Paolo Vitali, moderatore della conferenza.

Vitali ha sottolineato che le speranze di milioni e milioni di persone, a seguito della caduta dei regimi comunisti del 1989, non sono state tradite dal fatale sprigionarsi di eventi e forze che non subivano più le strettoie della divisione del mondo in rigide sfere d'influenza, come asseriscono certe teorie sociologiche, ma sono state negate da un preciso piano di destabilizzazione "geopolitico", che è partito ancor prima del crollo del muro di Berlino, e dalla incapacità e codardia delle forze politiche ed élite europee di reagire a questa nuova e precisa minaccia.

"L'economista e politico americano Lyndon LaRouche, che sconta innocente in un carcere del Minnesota da quasi cinque anni una montatura giudiziaria orchestrata dall'amministrazione Bush" - ha continuato Vitali - "ha tracciato tempo fa il paragone tra le situazione post 1989 con il periodo che precedette la Prima Guerra mondiale. A quel tempo l'oligarchia imperiale britannica sviluppò il concetto della «geopolitica» per far fronte alla minaccia rappresentata dalla potenzialità di sviluppo economico e sociale in tutta l'Europa continentale, l'«Eurasia». Due guerre mondiali, il Trattato di Versailles e l'accordo di Yalta, furono le dirette conseguenze di questa strategia «geopolitica»".

"Con l'avvicinarsi del crollo della Cortina di Ferro nel 1989, i circoli oligarchici anglo-americani decisero che bisognava a tutti i costi impedire che la riunificazione tedesca costituisse un trampolino di lancio per una nuova politica di indipendenza, integrazione e sviluppo economico per tutto il continente, ripristinando il progetto de Gaulle di «un'Europa dall'Atlantico agli Urali».

Gli attacchi alla Germania come «Quarto Reich», partiti dalle più alte sfere londinesi, e fatti propri dai nazi-comunisti serbi, l'aggressione del Panama, la guerra del Golfo, le atrocità interminabili nell'ex Jugoslavia, la destabilizzazione economica dell'Est europeo con le folli «terapie d'urto» dei liberisti, l'eliminazione fisica di chi proponeva un piano alternativo di sviluppo, come il Presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen, sono tutti aspetti di questa complessa e articolata strategia di destabilizzazione".

"Questa è la stessa trama destabilizzatrice che in Italia, soprattutto con gli eventi dell'ultimo anno, mira a frantumare le fondamenta stesse del nostro essere nazione sovrana indipendente. Guerre e destabilizzazioni, politiche economiche super liberiste, una speculazione selvaggia che ha trasformato i mercati finanziari internazionali in un'unica casa da gioco d'azzardo, sono elementi solidali di una strategia oligarchica, come contiamo di dimostrare, che o è fermata e sconfitta o può farci sprofondare, in un futuro tutt'altro che lontano, in un altro catastrofico conflitto".

La piaga della "finanza derivata" e l'economia dell'illusione

Discorso di William Engdahl, esperto economico dell'EIR di Wiesbaden, autore di «A Century of War», un libro che descrive il ruolo del petrolio come un'arma fondamentale nella politica anglo-americana dei Nuovo Ordine Mondiale.

L'Italia è vittima di una destabilizzazione sistematica ad opera di forze coordinate interne ed estere. La componente solitamente meno compresa è quella estera, rappresentata da un cartello di speculatori stranieri impegnati a distruggere il paese con denaro preso a prestito.

Nel 1948 l'Italia era considerata di importanza strategica nella NATO per arginare il diffondersi del comunismo in Europa, in particolare nei Balcani e nel Mediterraneo. In questo contesto di strategia geopolitica una crescita economica del Paese era ritenuta una componente essenziale.

Un discorso differente è invece quello che riguarda l' indipendenza dell'Italia. Howard K. Smith, un "insider" americano, parlò apertamente della spartizione del bottino della seconda guerra mondiale nel 1949 affermando: "Fino al 1946 le potenze vittoriose si sono disputate gran parte del vuoto lasciato da Hitler (...) l'Italia, occupata dalle potenze occidentali, sarebbe diventata un'area in cui avrebbe predominato l' influenza britannica".

Questo predominio fu rappresentato principalmente dall'influenza che la Mediobanca avrebbe assunto sotto Enrico Cuccia. La Mediobanca fu posta sotto il controllo di fatto della Lazard Freres di Londra, una banca che è proprietà di un raggruppamento estremamente influente dell'establishment britannico, il Pearson Group PLC. Il Pearson Group controlla anche la rivista «Economist» ed il quotidiano «Financial Times», che si sono recentemente distinti nella campagna di attacchi alle istituzioni economiche e politiche italiane.

Dal 1989 però, e dalla fine del regime comunista di Mosca, l'establishment anglo-americano si è reso conto del fatto che un'Italia economicamente stabile e collegata ad un'Europa continentale che si rafforza attorno ad una Germania riunificata e pro- spera non serviva più agli scopi di un'egemonia globale atlanticista, anzi, rappresentava una minaccia.

La crisi finanziaria in cui sia l'America che l'Inghilterra versavano nel 1989 si avvicinava alle dimensioni della Grande Depressione degli anni Trenta. Per far fronte all'erosione della propria egemonia gli anglo-americani adottarono ulna dottrina tanto semplice quanto folle: cercare in ogni modo di distruggere la stabilità dell'Europa continentale per impedire che essa potesse fungere da polo antagonista all'egemonia globale anglosassone.

Questo è il contesto in cui si colloca tutto ciò che viene fatto contro l'Italia ed il resto dell'Europa.

George Soros e la finanza derivata

Il crac della borsa di Wall Street, nell'ottobre del 1987, coincise con il lancio di una strategia radicalmente nuova da parte delle grandi finanziarie, quali la Salomon Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e di grandi banche americane quali la Citicorp, Bankers' Trust, J.P. Morgan & Co. Il crollo record di 508 punti dell'Indice Dow Jones, verificatosi il 19 ottobre 1987, fu causato da un'incredibile innovazione introdotta nelle transazioni finanziarie.

Le grandi finanziarie acquistavano contratti a termine, i "futures", non di ditte specifiche, ma su interi indici delle azioni borsistiche. Le finanziarie di Wall Street ricorsero ad un trucco, acquistando le "futures" ad un costo inferiore del 10% rispetto alle azioni stesse, ed influenzando così un rialzo del prezzo delle azioni sul mercato di New York. Ma poteva funzionare anche nel- la direzione opposta.

Questo portò alla bolla speculativa che esplose il 19 ottobre, con l'effetto acceleratore dei sistemi computerizzati. I computer di Wall Street erano stati preprogrammati in modo da vendere automaticamente al verificarsi di una caduta dei mercati. Fu un gioco che spinse i mercati finanziari verso una paralisi irreversibile, ma a quella paralisi non ci si arrivò solo grazie al precipitoso intervento stabilizzatore da parte delle Banche Centrali. Proprio qui stava il trucco escogitato a Wall Street: avevano inventato un sistema di gioco d' azzardo in cui non si rischia di perdere! Molto meno rischioso della gestione di un casinò a Las Vegas.

Il gruppo di Wall Street cominciò allora a sperimentare quest'arma terribile sulla borsa di Tokio. Nel novembre del 1989 l'Indice Nikkei Dow toccava i record storici di 39 mila Yen. Ma all'inizio dell'estate successiva quel valore era già dimezzato. A scatenare il tracollo furono le stesse case americane: Salomon Bros. Morgan Stanley, Merrill Lynch, Bankers Trust, Goldman Sachs, con un nuovo apporto dei brokers londinesi.

Una conseguenza delle operazioni per approfittare del drastico ribasso della borsa di Tokio (le cosiddette "put options" o "short-selling") fu il ritiro pressoché completo degli investimenti giapponesi nel resto del mondo, mentre le banche del Sol Levante versavano nella crisi peggiore del dopoguerra.

Nel frattempo Washington e Londra esercitavano notevoli pressioni sulle altre capitali del Gruppo dei Sette perché favorissero la "liberalizzazione" dei mercati finanziari e la partecipazione al "gioco globale". All'Uruguay Round dei negoziati GATT per la prima volta si discusse il libero scambio dei servizi finanziari.

Parallelamente alla "globalizzazione" dei mercati finanziari mondiali si verificò senza chiasso uno sviluppo estremamente importante.

Il direttore della Central Intelligence Agency William Webster decise di istituire una nuova sezione della CIA, il Directorate V. Annunciando la decisione a Los Angeles, Webster sottolineò l' importanza della tendenza alla "globalizzazione dei mercati finanziari internazionali" come un'area d'interesse per la nuova CIA. Finita l'era della guerra fredda, Webster vedeva una nuova missione per la CIA nello spionaggio contro "gli alleati politici e militari dell'America che al tempo stesso sono nostri concorrenti economici".

Dopo cinque anni di collaudi e affinamenti condotti a Tokio ed a Wall Street le tecniche innovative di Wall Street venivano sottoposte alla prova più ambiziosa: far crollare le valute nazionali, ad onta delle più autorevoli autorità bancarie centrali, mettendo i governi con le spalle al muro. A Wall Street furono introdotti nuovi strumenti finanziari che non avevano alcun collegamento concreto con il flusso reale di scambi commerciali e di investimenti. A questi strumenti fu dato il nome di "derivatives", o finanza derivata.

A Wall Street svilupparono le operazioni nel regno dei tutto astratto dei contratti finanziari a termine, che poi furono estese anche alle valute; si stabilì così un mercato di "futures" tra vari paesi e non solo nell'ambito di una sola borsa. Si scommette sul prezzo futuro di una valuta rispetto ad un'altra, ad esempio il marco rispetto al dollaro, oppure sul valore di un titolo di stato di un paese rispetto a quello di un altro, ad esempio entro una scadenza di 90 giorni.

Si tenga ben presente però che l'oggetto della compravendita non è un Buono del Tesoro italiano e un qualsiasi altro corrispettivo straniero, ma si scommette, così come si fa alle corse, sul loro valore entro una data scadenza.

Le grandi finanziarie di Londra e di Wall Street si attrezzarono con i sistemi di Contrattazione computerizzata che collegarono con le principali piazze finanziarie internazionali realizzando così la globalizzazione finanziaria di cui parlava Webster.

I nuovi contratti furono chiamati "derivati" in quanto il loro prezzo deriva da un titolo azionario o finanziario reale, o da una merce, ma non esiste un collegamento con la sua diretta proprietà. A Chicago, ad esempio, iniziarono la contrattazione di contratti a termine dell'indice del Nikkei Dow di Tokio, e lo stesso fecero da re. A Tokio non svolgevano contrattazioni simili e non ne capivano l'importanza. Gli sforzi del ministero delle Finanze nipponico per ottenere la cooperazione di Singapore a sospendere tali scambi fallirono in blocco. Gli organi d'informazione statunitensi e britannici criticarono quell'iniziativa giapponese come "passata di moda".

La Moody's crea l'ambiente controllato

Nei giorni successivi al "no" danese nel referendum del 2 giugno 1992 sul Trattato di Maastricht gli "insider" di Wall Street prepararono il grande attacco. Nel luglio 1992 gli operatori più importanti furono messi al corrente del fatto che "entro la fine dell'anno ciascuna moneta dello SME in Europa avrebbe cominciato a fluttuare liberamente". I manager delle finanziarie decisero pertanto di sbarazzarsi dei titoli e delle valute europee. Tra i candidati più ovvi per tale svendita spiccavano l'Italia, come pure l'Inghilterra.

Ciò di per sé però non bastava. Il rischio era troppo alto e bisognava andare invece sul sicuro, perché sullo SME vegliava uno schieramento di alcune tra le più potenti banche centrali del mondo, a partire dalla Bundesbank, legate da un patto di reciproca difesa. A questo punto si ricorse ai servigi della Moody's Investor Service, una ditta che stabilisce il "rating" a Wall Street, stabilisce cioè il grado di affidabilità dei titoli.

Anni addietro l'Italia aprì le porte agli investimenti stranieri, e vi fu costretta per finanziare il deficit, dando anche agli stranieri l'opportunità di acquistare Buoni dei Tesoro. Bastava allora convincere questi investitori stranieri che il debito statale italiano valesse poco più di quello di un paese come la Bolivia, ed essi si sarebbero precipitati a liquidare quei titoli, costringendo così la Banca d'Italia ad offrire tassi di interesse sostanzialmente più alti per i nuovi Bot.

Questo è il compito che la Moody's ha assolto a partire dal giugno dello scorso anno. Iniziò annunciando di aver posto il debito italiano nella lista del "credit watch", cioè sotto osservazione per una probabile retrocessione, benché non si stesse verificando alcuna crisi di solvibilità. Poi ci fu la serie di retrocessioni del debito italiano decretate dalla Moody's seguite ogni volta da un rialzo dei tassi di interesse che il Tesoro era costretto ad offrire agli acquirenti dei suoi titoli.

Ogni aumento dell'l% del tasso d'interesse sul vasto debito pubblico italiano significa un aumento medio del deficit governativo di circa 17 mila miliardi di lire, che in pochi minuti brucia i disperati tagli effettuati sulla spesa pubblica. Le nuove emissioni a tassi maggiorati erano interpretati dalla Moody's come un nuovo segnale di "inaffidabilità", e giù un altro votaccio sulla pagella dell'Italia. Si tratta evidentemente di un circolo vizioso deliberatamene messo in moto dalla Moody's che culminò nel settembre scorso!

Ma cos'è questa Moody's, questo ente privato che ha finito col decidere il destino di nazioni e governi sovrani? Chi gli conferisce tanta autorità? Perché ad esempio non ha dato pollice verso anche agli Stati Uniti, visto che il debito pubblico di quel paese ha superato i 4 mila miliardi di dollari?

Nel mondo finanziario la Moody's è famosa come "la più politica" agenzia di "rating". È presieduta da John Bohn, che nell'amministrazione di Bush era un funzionario ad alto livello del Tesoro. Mentre votava una retrocessione dopo l'altra dell'Italia l'estate scorsa la Moody's dava un rapporto molto positivo sulle grandi banche, come la Citicorp, che avevano esteso prestiti all'impero immobiliare canadese Olimpia & York di Paul Reichmann finito in una bancarotta clamorosa. I Reichmann erano legati politicamente ad Henry Kissinger, a lord Carrington ed all'oggi famoso George Soros. La Moody's e premurosa con gli amici.

La cosa è persino più palese. Proprietaria della Moody's è la Dun & Bradstreet Inc. che è anche proprietaria del Wall Street Journal. Nel consiglio d'amministrazione della Dun & Bradstreet figurano i principali direttori delle più importanti finanziarie di Wall Street che hanno condotto la speculazione contro la lira, e che sono anche quelle che al tempo stesso "prestavano consulenze" al governo italiano su come condurre il delicato processo di privatizzazione delle imprese di stato. II conflitto d'interessi è ovvio.

Nel consiglio d'amministrazione della M.J. Evans, strettamente legata alla Moody's, figura un personaggio che al tempo stesso è nel consiglio di amministrazione della Morgan Stanley ed un altro ancora, R.A. Hansen, figura nella direzione della ,J.P. Morgan e della Merrill Lynch! Un altro ancora è Charles Raikes, che è stato consigliere della Federal Reserve dal 1958.

George Leung, amministratore delegato della Moody's Investors Service, dichiarava su Financial World del 18 febbraio: "La gente è sempre più disillusa nei confronti del governi, sempre più preoccupata degli imbrogli e problemi che vede nei governi e finisce col cercare qualcuno che possa indipendentemente far luce su tanta confusione. Questo è il nostro ruolo". Questa dichiarazione d'intenti è anteriore alla campagna della Moody's contro l'Italia. Chi ha affidato alla Moody's il potere di decidere sulle nazioni? Nessuno. Moody's ha colmato il vuoto creatosi con la paralisi dei governi, costringendo ad accettare i propri diktat con la minaccia di voti sfavorevoli sul debito. La Moody's però ha solo preparato il terreno. L'attacco alla lira è stato sferrato dalla speculazione della finanza derivata, diretta a colpire il "fianco debole" dello SME.

George Soros ed i suoi amici

Con l'avvicinarsi in Francia della scadenza referendaria su Maastricht del 19 settembre,un raggruppamento di banche e speculatori di Wall Street, diretto da George Soros, uno strano personaggio di origine ungherese, lanciò una formidabile ondata speculativa per costringere la lira a svalutare ed uscire di conseguenza dallo SME.

Ecco come funzionò.

La finanza derivata, teniamolo presente, consiste in scambi in cui non si cedono o acquistano azioni o titoli reali, ma che rappresentano solo un accordo tra le due parti a compiere pagamenti ad una futura scadenza in rapporto al rendimento di una merce o una valuta. L'esempio tipico è dato da una banca che compie un'operazione commerciale "derivata" mettendo a disposizione soltanto il 10% dei valore nominale del contratto, cioè il deposito di garanzia.

Grazie ai collegamenti personali con banche come la Citicorp di New York, George Soros è stato capace di far crollare la lira e la sterlina, come pure la corona svedese, il tutto soltanto con denaro preso a prestito, senza versare più del 5% per il margine di garanzia collaterale!

In sostanza Soros ha dato come garanzia soltanto 50 milioni di dollari di titoli per ottenere una linea di credito, dalla Citicorp ed altre banche, di un miliardo di dollari. Un prestito a tempi brevissimi, per scommettere sulla svalutazione forzata della lira nei giorni in cui in Francia si teneva il referendum!

Il rapporto speculativo del suo denaro è stato di 20:1.

Dal canto loro la Bundesbank, la Banca d'Italia e le altre banche per difendere la propria valuta hanno invece dovuto sborsare il prezzo completo degli acquisti. Si stima che la Bundesbank abbia speso a settembre 60 miliardi di dollari nelle varie operazioni di difesa delle monete dello SME. Utilizzando i "derivatives", Soros e Wall Street hanno potuto spuntarla sulla Bundesbank con soli 3 milioni di dollari (20:1) !

In una tipica operazione di swap con i "derivatives" condotta da Soros lo scorso autunno si sono acquistate lire con i dollari, le lire sono poi state convertite in marchi tedeschi al tasso fisso di cambio dello SME. Poi è stata la volta della Moody's a declassare l'Italia, mentre gli organi di informazione internazionali si davano da fare a descrivere la gravità della crisi economica e politica del paese. Le corporation hanno avuto paura ed hanno cominciato a vendere lire. La valuta italiana è così passata da 765 lire contro il marco all'inizio di settembre alle 980 lire solo quattro settimane più tardi.

A quel punto Soros poteva acquistare lire fortemente scontate (il 28% in meno) e ripagare il suo debito iniziale, prima che scadesse la data del suo contratto, per il quale aveva inizialmente versato solo il 5%. II profitto che ne ha ricavato si calcola sul 560%, cioè circa 280 milioni di dollari. Ma nessuna autorità di vigilanza sarebbe potuta intervenire perché l'operazione è stata condotta "fuori registro", o come si suoi dire "Over-the-Counter", direttamente tra le due parti interessate senza altre formalità.

Naturalmente, se la lira si fosse rivalutata del 5% l'impero di Soros sarebbe stato spazzato via all'istante. Soros però non è soltanto un giocatore d'azzardo "fortunato".

Intendo infatti spiegare che Soros è riuscito a condurre le sue recenti operazioni speculative in grande stile perché ha accesso alle informazioni più riservate dei centri di potere. Nel caso della crisi dello SME, come poteva sapere Soros quale delle 12 valute sarebbe stata colpita in quale giorno preciso?

Ex funzionari della Federal Reserve USA spiegano privatamente che Soros ha ricevuto informazioni riservate da parte di un amico che nella Federal Resene di New York lavora nel settore delle valute internazionali. La Fed di New York dispone, minuto per minuto, delle informazioni sull'andamento delle monete direttamente dalle banche centrali europee. Se Soros può disporre di tali informazioni il suo gioco è garantito.

Ma chi c'è dietro questo personaggio misterioso? Soros opera attraverso la Quantum Fund NV, una compagnia off-shore registrata nelle Antille Olandesi.

Opera insieme ad un raggruppamento internazionale che potrebbe essere chiamato il gruppo dei Rothschild. Nel consiglio di amministrazione della Quantum Fund figura Nils Taube, socio d'affari di lord Rothschild, e sir James Goldsmith, imparentato ai Rothschild. Altro membro del Quantum è Richard Katz che a Milano dirige la Rothschild Italia, S.p.A.

Altri esponenti del Quantum sono Isidore Albertini della ditta di brocheraggio milanese Albertini & Co.; Alberto Foglia, capo della Banca del Ceresio di Lugano; e Edgar Picciotto, un socio di affari di Carlo de Benedetti. Picciotto dirige inoltre la CBITDB Union Bancaire Privée di Ginevra.

Si dice poi che al Quantum partecipino segretamente anche Marc Rich, uno svizzero latitante che operava nel settore dei metalli preziosi e del petrolio, ed il mercante di armi israeliano Shaul Eisenberg. Soros inoltre è colui che ha introdotto in Polonia ed in Russia il professore di Harward Jeffrey Sachs, il guru della terapia d'urto che causa il caos economico incontrollabile e profitti astronomici per gruppi ristretti di potere. Degno di nota è il fatto che Marc Rich ed Eisenberg sono stati tra gli investitori più attivi nell'Europa orientale e nel CSI a partire dal 1990.

Torniamo alla "Dottrina Webster" della CIA, promulgata nel 1989. All'epoca di Bush Washington era impegnata a sabotare l'unità economica europea. L'estate scorsa il governo USA fece strane dichiarazioni che ebbero l'effetto di scuotere le parità delle monete europee in rapporto al dollaro, come fase preliminare della crisi di settembre.

Responsabile di quella operazione fu l'allora viceministro del Tesoro David Mulford, che oggi presiede la Credit Suisse First Boston di Wall Street. Prima di andare a Washington nel 1982 Mulford era uno dei direttori della Merrill Lynch, quando allora era presieduta da Donald Reagan, che andò anche lui a Washington come ministro del Tesoro sotto il Presidente Reagan.

Degno di nota è che una delle primissime nomine fatte dal Presidente Clinton riguarda Robert Rubin, presidente della Goldman Sachs, finanziaria più prestigiosa di Wall Street. Oggi Rubin è il Direttore dei nuovo Consiglio di Sicurezza Economica Nazionale della Casa Bianca. Esperti osservatori di Washington ritengono che il nuovo consiglio sia stato creato per coordinare l'applicazione della Dottrina Webster direttamente dalla Casa Bianca.

Le alte sfere della CIA, magari attraverso ex funzionari, hanno fatto opera di reclutamento nei consigli di amministrazione delle grandi finanziarie di Wall Street. Ai dirigenti delle finanziarie che accettano, la CIA impartisce un particolare addestramento ed essi tornano poi al loro mondo di Wall Street.

Conosco personalmente un banchiere svedese che è stato invitato a Washington il novembre scorso ad un seminario dove l'ex capo della CIA William Colby teneva un discorso sul tema della nuova missione di spionaggio economico dei servizi segreti USA. Colby è personalmente impegnato a reclutare i dirigenti delle grandi finanziarie spiegando loro che adesso i mercati finanziari globali sono considerati un "area di interesse della sicurezza nazionale USA". Il seminario era sponsorizzato dalla Merrill Lynch e dalla Borsa di New York.

L'esplosione della finanza derivata

"Senza la crescita enorme delle operazioni speculative della finanza derivata la crisi dello SME non si sarebbe mai verificata", ha affermato recentemente un esperto banchiere europeo. Mentre nel 1987 le banche centrali furono in grado di difendere la stabilità dello SME a costi minimi, nel 1992 esse sono state ridotte all'impotenza dai meccanismi della finanza derivata.

Invece di svolgere una regolare attività di compravendita nei mercati a termine regolari, come quello di Chicago, dove le banche sono costrette a versare un deposito di garanzia ed a rendere nota quotidianamente la propria esposizione creditizia, i grandi di Wall Street eludono la sorveglianza del governo trattando direttamente, "Over the Counter", tra banca e banca o tra banca e finanziarie straniere. La transazione non figura nel bilancio della banca cosicché gli investitori non possono sapere quanto è il rischio che l'istituto in questione corre di fronte ad un crollo del già enorme mercato dei "derivatives".

La classifica dei grandi speculatori in "derivatives" era guidata lo scorso anno dalla Citicorp, che vantava operazioni per circa 1400 miliardi di dollari. Seconda era la Chemical Bank con 1300 miliardi di dollari, terze a pari merito la J.P. Morgan e la Bankers Trust, con mille miliardi di dollari ciascuna. Sono contratti che riguardano azioni, petrolio, obbligazioni come pure gli swap internazionali di valuta e gli swap dei tassi d'interesse. Per quanto riguarda queste ultime due voci, i contratti "derivati" oltre confine hanno già raggiunto l'astronomico ammontare di 4 mila miliardi di dollari.

La graduatoria dell'esposizione su questo mercato dei contratti "derivati" continua con la Merrill Lynch, per 720 miliardi di dollari, la Salomon Bros., con 730 miliardi di dollari e la Morgan Stanley con 300 miliardi di dollari. Queste attività hanno aperto tutto un vasto settore di informatica bancaria sofisticatissima, che impiega i supercomputer CRAY per processare i dati in parallelo, necessari per gestire la contrattazione automatica senza frontiere che avviene grazie a programmi capaci di far fronte ai complessi problemi di calcolo del rischio a variabile multipla.

Ma, a parte questi aspetti pittoreschi, a fare profitti con la speculazione "derivata" so- no solo gli "insider traders" di New York. Il gioco d'azzardo è truccato, con la complicità di Washington. Cercare di capire gli aspetti "tecnici" della manovra con la quale Soros è riuscito ad intascare un miliardo di dollari di profitti speculando sulla sterlina a settembre è fatica sprecata. Certo è però che giornali finanziari quali il Wall Stret Journal ed il Financial Times fanno il possibile per destare l'impressione opposta.

Il che fare

Governi e banche centrali dell' Europa continentale hanno sin ora respinto le nuove tecniche speculative della finanza derivata. Alcuni banchieri svizzeri e tedeschi sono convinti che l'offensiva condotta dagli anglo-americani con la finanza derivata sia “più pericolosa di una guerra nucleare con la Russia”. Il 24 novembre, poco dopo la crisi dello SME, il direttore generale della Banca per i Regolamenti Internazionali di Basilea Alexander Lamfalussy ha dichiarato ad un gruppo di banchieri a Londra: "Volete sapere perché molti colleghi delle banche centrali nutrono le mie stesse preoccupazioni che queste attività possano rappresenta- re problemi di natura sistemica nel sistema finanziario internazionale?" Lamfalussy teme il ripetersi del fenomeno verificatosi col crac borsistico del 1987: "l'attività sui mercati derivati potrebbe avere notevoli ripercussioni nei sotto- stanti mercati a pronti, al punto da accentuare proprio quella instabilità dei prezzi contro la quale si pensava di dare un'assicurazione con alcuni strumenti derivati".

Lamfalussy ha inoltre spiegato che la grande esposizione negli strumenti fuori bi- lancio da parte delle banche "ha reso più opaca la natura e la distribuzione del rischio nelle operazioni sul mercato finanziario". Ha infine prospettato lo scenario peggiore: "Qualora si verificasse un problema in un istituto le altre ditte reagirebbero immediatamente e drasticamente. Potrebbero ritirare improvvisamente ed indiscriminatamente linee di credito, e persino disimpegnarsi da operazioni in corso. Il tutto aumenterebbe la possibilità del verificarsi improvviso di un blocco globale di liquidità".

Anche un personaggio di spicco a Wall Street come Henry Kaufman, che è stato il primo economista della Salomon Brothers, si è detto preoccupato perché la speculazione "derivata" fa intravedere "una prossima catastrofe colossale perle banche americane". Altri così bollano queste novità nel sistema finanziario: "ventiseienni con il computer stanno costruendo la bomba all'idrogeno finanziaria." Tuttavia non fanno nulla per controllare la situazione. La primavera scorsa Lamberto Dini condusse uno studio per il Fondo Monetario Internazionale, ma il suo rapporto è stato praticamente censurato, la stampa non ha ottenuto delle copie. Ad una mia domanda nel corso di una conferenza a febbraio, Lamberto Dini ha risposto: "Le banche americane e londinesi svolgono il grosso delle attività in questo processo. Dobbiamo determinare innanzitutto cosa stia effettivamente accadendo.

Alcuni segni di resistenza

Più recentemente il Presidente della Commissione Finanza e Banche del Congresso USA, l'on. Henry Gonzalez, ha richiesto alla Federal Reserve ed alla Commissione "Securities & Exchange" del governo di condurre un'indagine approfondita sulle attività all'estero del Quantum Fund di George Soros. Gonzalez ha chiesto di sapere come Soros possa fare profitti astronomici come quelli di settembre, quanto del suo capitale provenga dalle banche americane, in che misure le banche USA siano coinvolte nelle speculazioni di quel fondo, ed il ruolo specifico degli strumenti finanziari derivati nelle grandi manovre speculative di Soros. Questa è solo la superficie dei fatti.

Dietro le quinte infuria uno scontro tra le autorità bancarie europee e quelle americane. Le autorità d'oltre oceano sono radicali, ritengono che le banche statunitensi abbiano il diritto di non imporre alcuna restrizione alla finanza derivata. Ritengono infatti che questo sia il modo migliore di allentare la pressione sulle grandi banche USA, che disporrebbero in questo modo di maggiori capitali. Praticamente permettono che venga assicurato solo il margine netto di rischio, e non tutto il contratto. Le autorità di vigilanza europee non permettono una cosa del genere. Ritengono che sia dovere della banca assumersi al completo il rischio di un'insolvenza su tutto il valore nominale di un contratto.

Lo scorso ottobre il Congresso degli USA approvò la Futures Trading Practives Act of 1992, una legge che prevede che gli swap Over the Counter, cioè i contratti a pronti e termine di valuta o sui tassi di interesse che avvengono tra le due parti senza essere registrati, non rientrino più nella categoria dei "futures", dei contratti a termine, dando vita in tal modo ad una proliferazione cancerosa di carta finanziaria fuori dal controllo di qualsiasi autorità.

L'economista americano Lyndon LaRouche ha recentemente lanciato la proposta di imporre una tassa globale e ben coordinata su queste attività speculative, perché tassarle sarebbe il modo migliore di renderle meno attraenti per gli speculatori e quindi sgonfiare la pericolosa bolla. LaRouche ha proposto una tassa dello 0,1 % sul valore nominale, non sul valore "netto", di ciascuna transazione derivativa. "Questa è la bolla di John Law (nella Francia del 18mo secolo) all'ennesima potenza. La vulnerabilità di tutto il sistema finanziario, il caos e la distruzione delle strutture di produzione fisica sono potenzialmente incalcolabili, pertanto occorre mettere sotto controllo il fenomeno". La settimana scorsa intanto George Soros ha fatto sapere che tornerà alla carica. Questa volta è deciso a spezzare uno degli elementi portanti della coesione europea: il suo nuovo obiettivo è quello di spezzare il legame che unisce il marco tedesco al franco francese.

I protagonisti della destabilizzazione italiana

Discorso di Claudio Celani, italian desk dell'EIR di Wiesbaden.

All'inizio dei gennaio scorso, l'EIR pubblicò un documento intitolato "La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un'economia nazionale". In quello studio, inviato ad alcuni organi di stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all'economia italiana nel contesto della cosiddetta "globalizzazione dei mercati", cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali.

In quel documento si riferiva un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992, a pochi giorni dalla morte del giudice Falcone, si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani, rappresentanti del governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri nel governo Amato. Oggetto di discussione: le privatizzazioni. La cosa più grave è che questa riunione si svolse sul panfilo Britannia, di proprietà della regina Elisabetta II, la quale fu presente ai colloqui.

Il Britannia, dopo aver imbarcato gli ospiti italiani a Civitavecchia, prese il largo ed uscì dalle acque territoriali. Avvenne dunque che i potenziali venditori delle aziende da privatizzare (governo e manager pubblici) discussero di ciò con i potenziali acquirenti, i banchieri londinesi, a casa di questi ultimi. Non sappiamo che cosa si siano detti questi signori, sappiamo solo che il direttore del Tesoro Mario Draghi provò tale imbarazzo che chiese di poter leggere il suo discorso quando il panfilo era ancora in porto, per poter scendere subito ed evitare di rimanerci quando questo prese il largo.

Sappiamo dell'imbarazzo di Draghi perché un settimanale, L'Italia, riprese l'articolo dell'EIR, citando la fonte, ed un parlamentare missino, Antonio Parlato, che lo lesse, presentò un'interrogazione parlamentare, anzi, poté rivolgere una domanda allo stesso Draghi, che quel giorno riferiva su altre questioni in Commissione Bilancio. In seguito, la notizia fu ripresa da numerosi organi di stampa, anche grazie al fatto che l'ex segretario del PSI Bettino Craxi aveva diffuso il documento dell'EIR alla Camera. Ci furono quindi numerose interrogazioni parlamentari (a Parlato, che ne fece mi sembra tre, si aggiunsero l'on. Tiscar, qui presente, e gli on. Pillitteri e Bottini) e altre sollecitazioni ufficiali (la senatrice Edda Fagni citò questo fatto nel discorso al Senato il giorno del voto di fiducia al governo Ciampi), ma né il governo di allora, guidato da Giuliano Amato, né quello attuale si sono sentiti in obbligo di fornire un chiarimento all'opinione pubblica ed al Parlamento.

Insisto su questo fatto perché mi sembra emblematico del modo in cui vengono prese le decisioni che determinano il futuro del nostro paese, cioè di milioni di cittadini che lavorano e pagano le tasse, ed hanno bisogno di avere fiducia in coloro che li rappresentano, che devono compiere scelte riguardanti il loro futuro, il loro posto di lavoro, i loro risparmi, i loro figli ecc.

Ebbene, il fatto del Britannia mostra che scelte decisive, come quelle delle privatizzazioni, vengono fatte al di fuori del Parlamento e addirittura in sedi così lesive dell'onore e della dignità nazionale come il panfilo della regina Elisabetta d'Inghilterra!

Su quel panfilo, siamo venuti a sapere, c'era anche l'attuale ministro degli Esteri Beniamino Andreatta, un personaggio che, benché non diriga personalmente un dicastero economico, entrò nel governo Amato proprio per accelerare il processo di privatizzazioni e tuttora, ne siamo certi, quando partecipa alle riunioni di gabinetto certamente dirà la sua in materia economica, anche per- ché di politica estera sembra capire ben poco.

Ebbene, Andreatta dovrebbe come minimo chiari- re dinanzi al Parlamento che cosa disse e che cosa fece quel giorno sul Britannia e, nel caso emergano elementi compromettenti, dare le di- missioni. Noi siamo sicuri che Andreatta abbia qualcosa da raccontare, anche perché, analizzando il suo comportamento da ministro degli Esteri, si riscontrano evidenti coincidenze.

Guarda caso, infatti, l'ospite illustre della regina Elisabetta è anche quello che non appena messo piede alla Farnesina accoglie entusiasticamente la proposta britannica di mandare gli eserciti in Bosnia, a farsi massacrare dalle artiglierie serbe.

Andreatta, infatti, noncurante delle dichiarazioni dei nostri capi militari sul fatto che sarà una carneficina (non abbiamo nemmeno le corazze adatte sui nostri carri) afferma con disinvoltura che se è necessario si rivedrà il bilancio, quello stesso bilancio che fino ad un momento prima era una vacca sacra, intoccabile.

Preciso: non si tratta di essere contrari ad un intervento militare risolutore, ma esso va fatto senza mandare truppe coloniali sul territorio, bensì riarmando i bosniaci in modo che possano difendersi ed assistendoli cori l'aviazione.

Invece il comportamento di Andreatta è la prova che esiste un legame, come è stato detto nella introduzione, tra la strategia liberista, della "terapia d'urto" e delle privatizzazioni, e la geopolitica applicata nei Balcani per intrappolare l'Europa in uno scenario di conflitti. Quel documento dell'EIR, comunque, inquadrava l'episodio del Britannia in uno scenario più ampio, di vera e propria destabilizzazione politico-economica del paese. Come abbiamo sentito prima, la strategia geopolitica anglo-americana considera l' Italia, assieme ai Balcani, il fianco sud, il "ventre molle" di un potenziale blocco di sviluppo euroasiatico, e per questo l'Italia viene colpita.

Che la destabilizzazione fosse in arrivo lo si sapeva da quando l'allora capo della CIA sotto Bush, William Webster, annunciò che, come conseguenza del crollo del comunismo, l'apparato di spionaggio USA avrebbe impegnato le sue risorse in una strategia volta a contrastare i rivali economici: l'Europa ed il Giappone. Webster enunciò la nuova dottrina proprio mentre il Muro stava cadendo, il 19 settembre 1989, di fronte al World Affairs Council di Los Angeles. La Dottrina Webster è uno dei pilastri del "nuovo ordine mondiale" inaugurato sotto la presidenza Bush. L'altro pilastro, più concepito per le nazioni del Terzo Mondo, è la cosiddetta "Dottrina Thornburgh", secondo cui la legge americana è al di sopra del diritto internazionale. La Dottrina Thornburgh, dal nome dell'ex ministro della Giustizia USA, è quella che ha giustificato l'invasione del Panama.

Ed abbiamo, in coincidenza con questi sviluppi, l'apertura di una sede italiana della Bishop International, un'agenzia di informazioni operante nel mondo dell'economia, affiliata ad un altro ente simile, più noto, che si chiama Kroll International. Kroll è un ex agente della CIA che si è dato una copertura da "businessman" ma continua a lavorare per i vecchi padroni. Fu la Kroll, infatti, a raccogliere e divulgare informazioni sulle imprese europee che avevano fornito all'Irak materiale e tecnologia ritenuti "indesiderati" dall' amministrazione Bush. Ebbene, Bishop è un ex agente di Scotland Yard che ha lavorato per anni con Kroll e poi si è messo in proprio a raccogliere "informazioni economiche". Bishop ha aperto una filiale a Milano l'estate scorsa.

Ma l'iniziativa su scala più vasta sinora intrapresa nell' ambito della Dottrina Webster ci sembra quella di Robert McNamara, il quale ha fondato nel maggio scorso un organismo internazionale chiamato "Transparency International", il cui scopo sarebbe quello di combattere la corruzione su scala mondiale. Ora, è bene che noi italiani guardiamo con attenzione a ciò, perché dobbiamo evitare che nella sacrosanta lotta alla corruzione intrapresa a casa nostra (grazie a inquirenti che si sono svegliati dopo quarant'anni di letargo) ci affidiamo a metodi e "consigli" d'oltreoceano, se non addirittura a strutture investigative che sfuggono al controllo nazionale o sono influenzate da centri occulti. Questo vale sia per i reati amministrativi che per la lotta alla mafia.

Osserviamo da vicino l'iniziativa di McNamara. Innanzi tutto sorprende che un personaggio del genere scopra la vocazione per la giustizia. McNamara divenne famoso col nomignolo di "bodycount" (contacadaveri) quando era ministro della Difesa, durante la guerra del Vietnam. Quel nomignolo gli fu affibbiato perché compariva quasi ogni sera in televisione per vantarsi delle migliaia di nemici uccisi. Poi fece una famosa riforma al Pentagono, introducendo la dittatura dei ragionieri. Lui è fautore di una concezione economica di tipo assolutamente contabile, cioè non importa che cosa si produce ed a quale scopo, basta che il bilancio quadri. Andrebbe molto d'accordo col nostro Barucci o Andreatta. E' il modo di pensare tipico dei banchieri usurai, i veri padroni di questo "tecnico" che ha rivestito posizioni di potere senza essere mai eletto.

Transparency International esibisce alcuni nomi famosi come fiore all'occhiello, come l'ex ambasciatore di Carter alle Nazioni Unite, Andrew Young, o l'ex presidente dei Costarica Arias (su quest'ultimo ci sarebbe da ridire), ma non saranno costoro a combattere la "corruzione". Il compito sarà svolto dallo staff di funzionari, tutti provenienti dalla Banca Mondiale e dal Dipartimento di Stato americano. Transparency si occuperà di "consigliare" i paesi del Terzo Mondo e del settore in via di sviluppo, nonché quelli dell' Europa dell'est, su quali contratti stipulare con le nazioni dell'OCSE, e quali no.

Al proposito è istruttivo leggere un articolo apparso sul quotidiano di Berlino Tageszaitung il 7 maggio scorso, articolo in cui veniva intervistato il direttore di Transparency, l'ex manager della Banca Mondiale Peter Eigen. Il vero obiettivo di Transparency sembra quello di impedire il trasferimento di tecnologia dall'Europa ai paesi in via di sviluppo. Gli acquisti di impianti ad alta tecnologia, macchine ecc., comportano infatti transazioni finanziarie elevate, all'interno delle quali, dichiarano quelli di Transparency, possono facilmente celarsi tangenti e bustarelle. I crociati della lotta alla corruzione si tradiscono quando parlano di "progetti superflui": questa è la tradizionale politica malthusiana della Banca Mondiale, che ha sempre elargito i suoi scarsi finanziamenti a progetti di bassa produttività.

Non a caso l'organismo di McNamara ha scelto come sede Berlino ed ha annunciato che per il 1993 si prefigge l'obiettivo di stipulare contratti di consulenza con sei nazioni dell'Europa orientale. Sarà dunque l'ex carnefice del Vietnam a decidere che cosa i paesi dell'Europa dell'est acquisteranno dalla CEE e che cosa non acquisteranno. Naturalmente, c'è sempre lo zio Sam a fornire gli stessi beni senza bustarelle, cioè con tangenti "legali" del 5%.

Un altro protagonista della destabilizzazione economica è la più grande finanziaria di Wall Street, la Goldman Sachs. Nel nostro documento indicavamo come la G. Sachs avesse svolto un ruolo nel crollo della lira, dapprima annunciandone la sopravvalutazione ed indicando nel livello di 1000 lire al marco il tasso di cambio che essa riteneva realistico, poi buttandosi a vendere lire per contribuire a ottenere quel risultato.

La Goldman Sachs si è posizionata sul mercato italiano aprendo l'anno scorso un ufficio "operativo" a Milano. Sorge quindi lecito il sospetto che la svalutazione della lira di circa il 30% serva tra l'altro a rendere più appetibili i pezzi delle ex PPSS che lo Stato ha deciso di mettere in vendita, e che andranno sicuramente ad acquirenti stranieri visto che nessuno in Italia ha i capitali a sufficienza. Il comportamento di un personaggio come Romano Prodi, nominato dall'ex governatore Ciampi a presidente dell'IRI, conferma questi sospetti. Già un anno fa Prodi aveva esposto le sue idee in materia di privatizzazioni: privatizzare tutte le banche d'interesse nazionale, più il San Paolo di Torino, il Monte dei Paschi di Siena e l'Ina.

Ora, se crediamo ai resoconti di una sua intervista al Wall Street Journal, dichiara che non solo tutto delle ex PPSS si può vendere, ma anzi, le aziende vanno prima risanate e poi vendute. Quindi, prima le risaniamo con i soldi dei contribuenti italiani, poi le vendiamo a chi, ai soliti stranieri? Romano Prodi era fino a qualche tempo "senior adviser" della Goldman Sachs, e non ci risulta che si sia dimesso dalla carica. Allora deve decidere se fa gli interessi di Wall Strect o quelli dell'Italia. Oppure quelli del finanziere speculatore Soros, con cui collabora nei progetti di saccheggio dell'Europa orientale. Infatti, Prodi faceva parte del pool di economisti, assieme al famoso Jeffrey Sachs, che mise a punto il cosiddetto Piano Shatalin, un piano per la riconversione economica dell'ex URSS ideato da Soros, così radicale che fu respinto a suo tempo da Gorbaciov 1990-91).

Prodi è dunque collegato agli ambienti che speculano contro la lira, che saccheggiano l'economia dell'Europa dell'est ed hanno permesso in quei paesi un saldo insediamento della mafia. E' legittimo, quindi, il sospetto che la liquidazione dell'IRI, col passaggio in mano straniera delle migliori aziende, ad alto contenuto tecnologico, sia stata già decisa e che Prodi sia un semplice esecutore delle volontà degli ambienti internazionali a cui è legato.

Non si tratta di sostenere il "socialismo reale" se si dubita che, per definizione, il privato sia meglio del pubblico.

In generale, la presenza dello stato dovrebbe limitarsi alle infrastrutture, in primis l'energia, ma anche i trasporti, la scuola e la sanità. Ma proprio il caso italiano mostra che, laddove essa è guidata da manager onesti e competenti, l'impresa pubblica è in grado di competere in quanto ad efficienza e risultati con quella privata. Se ciò non avviene è solo dovuto al fatto che non abbiamo più dirigenti del calibro di un Enrico Mattei. Ricordiamo che ai tempi di Mattei l'IRI, un complesso che ci era invidiato all'estero perché era in grado di fare tutto, moltiplicava ogni lira investita per sei-sette volte. Solo il Progetto Apollo della NASA ha saputo fare di meglio.

Dai pochi elementi qui presentati, potrebbe concludersi che c'è una destabilizzazione voluta dell'economia italiana? Certamente, anche se qualcuno potrebbe ribattere su ogni singolo punto offrendo una spiegazione diversa. Ciò che ci fa affermare con sicurezza che la destabilizzazione esiste, non è tanto un ragionamento di tipo deduttivo, cioè un'ipotesi desunta solo dagli elementi fattuali, come farebbe Sherlock Holmes o la FBI. Il fatto da cui bisogna partire è che coloro che oggi propongono la ricetta liberistica, privatizzazione più tagli, sanno benissimo che questa ricetta non funziona (basta vedere lo stato in cui è ridotta l'economia inglese) e che, anzi, essa ha effetti distruttivi sull'economia nazionale a cui viene applicata. Esiste, dunque, una mens rea a monte di tutto ciò, di cui sono complici coloro che per ingenuità o per stupidità se ne fanno i portavoce in Italia.

Il liberismo è una truffa sin dalla nascita: quando Adam Smith scrisse il suo libro "La ricchezza delle Nazioni" lo fece per convincere gli Stati Uniti a non diventare una nazione industriale, e rimanere un paese agricolo. Cosa che l'America si guardò bene dal fare. Oggi lo stesso trucco viene riproposto in forma moderna e su scala mondiale o, come dicono gli angloamericani, globale.

Mr. Britannia colpisce ancora

Alla riunione dei ministri finanziari del G7 tenutasi a Washington il 19 ottobre 2007, è stata ascoltata la relazione di Mario Draghi, che oltre ad essere il governatore di Bankitalia è anche, dal 2006, capo del Global Financial Stability Forum, e cioè la squadra di salvataggio del sistema finanziario mondiale. Stando al testo distribuito, non si vedono minacce mortali al sistema, né attualmente né all'orizzonte. Addirittura, la parte finale della relazione consiste in una totale assoluzione del ruolo degli hedge funds: il settore degli hedge funds di per sé non si è rivelato come uno dei principali elementi problematici per l'intero sistema come pure ci si sarebbe potuti aspettare.

Un'assoluzione normale per chi, fino ad un anno fa, era vicecapo europeo di Goldman Sachs, uno dei principali gestori di hedge funds, ma strabiliante per chi, nelle vesti di banchiere centrale, dovrebbe sapere bene che proprio gli hedge fund sono stati i veicoli del collasso del sistema.

In privato, i partecipanti al G7 hanno ammesso ben altre verità, come si desume dalle dichiarazioni del ministro delle Finanze tedesco Steinbrück, che ha paventato il rischio di crollo di una grossa banca internazionale proprio come conseguenza del mancato rifinanziamento della "spazzatura" degli hedge funds.

Ci si chiede se l'operato del governatore sarà messo mai sotto scrutinio: difficile nell'attuale clima politico italiano, sotto scacco dagli stessi "poteri forti" che hanno sponsorizzato la carriera dell'illustre governatore. Draghi, che va sporgendo denuncia contro chi lo chiama "Mr. Britannia" (ricordando il suo exploit sul panfilo della Regina Elisabetta il 2 giugno 1992), viene addirittura candidato alla successione di Prodi nel caso che la spinta del suo ex compagno di scuola, Luca Cordero di Montezemolo, riuscisse a rovesciare il governo Prodi. Sarebbe il colmo.

Marzo 2008 - La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni-privatizzazioni in Italia

Il Movimento Solidarietà pubblica un nuovo dossier per dimostrare che il processo di liberalizzazioni e privatizzazioni attuato in Italia dall'inizio degli anni Novanta non ha portato nessun beneficio al paese. Lo scritto iniziale, elaborato da Claudio Giudici, dimostra che:

- le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
- le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e dei fatturati delle piccole imprese;
- la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza dell’inefficienza economica;
- i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato finanziario italiano.

Attraverso una serie di esempi lampanti, diventa sempre più evidente che questo processo di "modernizzazione" del paese in realtà rappresenta un grave attacco al suo tessuto produttivo, accelerando il processo di disintegrazione economica e finanziaria che sta già mettendo in ginocchio l’economia mondiale.

http://www.movisol.org/09news177.htm



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 17/04/2015, 09:13 
Fu davvero BlackRock a ispirare il "cambio di scena" del 2011 in Italia? La RocciaNera negli opachi intrecci fra fondi di investimento e megabanche che si stanno comprando tutto.

Il nuovo Limes su Chi ha paura del Califfo? è in edicola, puntualissimo e subito ripreso da tv e social media. Meno attenzione è stata data al numero precedente dedicato a Moneta e Impero(l’impero del dollaro, naturalmente) che proponeva, fra gli altri, un pregevole pezzo su “BlackRock, il Moloch della finanza globale”: un “fondo di fondi” americano con 30mila portafogli e $4,100 miliardi di asset ($4,652 secondo l’ultimo dato SEC, dic 2014) che non solo non ha rivali al mondo, ma è una delle 4-5 ‘istituzioni’ che ricorrono tra i maggiori azionisti delle principali megabanche americane, come vedremo. E non solo di queste: era anche il maggior azionista di DeutscheBank - la banca tedesca che nel 2011 ritirò per prima i suoi capitali investiti in titoli italiani, spingendo il nostro paese sull’orlo del ‘baratro’ e nelle braccia del governo Monti - rivela Limes – nonché grande azionista delle prime banche italiane, e di altre imprese. Sull’ influenza politica della RocciaNera non solo a Wall Street ma nella stessa politica di Washington insiste del resto l’articolo (di Germano Dottori, cultore di studi strategici alla Luiss).

Ma chi è, cos’è BlackRock, a cui l 'Economist ha dedicato una copertina? Come si colloca nel paesaggio finanziario globale?

IL CONTESTO. E’ quello della finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia.

Il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil globale dal 1970 al 2010, raggiungendo i $280mila miliardi – solo il 25% del quale legato agli scambi di merci. Mentre il valore nozionale dei ‘derivati’ negoziati fuori dalle Borse ( Over The Counter) a fine giugno 2013 aveva raggiunto i 693mila miliardi di dollari. Una gran parte sono legati al mercato delle valute. E al Foreign Exchange Market o Forex, si scambiano mediamente 1.900 miliardi di dollari al giorno. Fin qui Limes.

La deregolamentazione galoppa, cominciata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, spinta dalle megabanche che inventano nuovi prodotti finanziari e puntano a eliminare ogni barriera così da rafforzare il loro primato e dilatare il loro dominio sul mondo, dove nuovi paesi stanno velocemente emergendo. Nascono e prosperano gli hedge fund, i fondi a rischio speculativi, società di investimento, spesso collegati alle banche, innanzitutto anglosassoni. Nel 1986 la City londinese è del tutto deregolamentata.

Due gli atti fondamentali, entrambi sotto la presidenza del Democratico Bill Clinton alla fine degli anni ’90 che portano a compimento la deregolamentazione neoliberista della finanza. Il secondo meno noto del primo.

A. L’abolizione del Glass -Steagall Act che dagli anni ’30 separava le banche commerciali dalle banche d’affari, voluto dal presidente F.D.Roosevelt per ridimensionare lo strapotere di Wall Street all’origine della Grande Crisi del 1929. La sua abolizione “Fu come sostituire i forzieri delle banche con delle roulettes”, ironizza il giornalista investigativo Greg Palast.

B. La cancellazione simultanea da parte del WTOdelle norme che in ogni paese potevano ostacolare il trading dei derivati, il nuovo gioco ad alto rischio a cui le megabanche volevano assolutamente giocare, la gallina dalle uova d’oro. L’abolizione di ogni controllo sui derivati che aprì i mercati a quei prodotti contrattati ‘fuori Borsa’, compresi gli asset tossici, la decise per tutti il World Tradig Organization– egemonizzata dagli Usa, che di solito si occupa di scambi di merci – su impulso dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e delle principali megabanche, che vennero persino invitate a fare lobby in vista del voto decisivo ( qui Palast con l’appunto dell’assistente di Summers, il futuro segretario al Tesoro Tim Geithner).

BLACKROCK NASCE E CRESCE in questo clima. (Torniamo a Limes). Basata a New York comincia a operare nel 1988, autonoma nel 1992, subito protagonista nella finanza internazionale. Passo dopo passo. Con “una sapiente strategia di dilatazione delle attività che l’ha portata ad acquisire posizioni ovunque le interessasse, comprando piccoli quantitativi di azioni in banche e imprese”. Piccoli ma crescenti. “Entrando nel mercato sia dei venditori di assets sia degli acquirenti di attività, fino a gestire $4100 miliardi – $4652 è l’ultima cifra ufficiale – di azioni, obbligazioni, titoli pubblici, proprietà: pari al Pil di Francia+Spagna”. Più del doppio del Pil italiano.

E ‘fa politica’.

A. Entra nel capitale di due delle maggiori agenzie di rating, Standard & Poors (5,44%) e Moodys (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni, e obbligazioni private e di poter incidere su prezzo e valore delle attività che essa stessa acquista o vende.

B. Comincia a operare nell’analisi del rischio, la vendita di ‘soluzioni informatiche’ per la gestione di dati economici e finanziari diventa il comparto n. 1 del suo business, elaborando dati che - a differenza di quelli delle agenzie di rating - “incorporano anche pesanti elementi politici”, scrive Limes.

C. Sfrutta la crisi del 2007-8 sia per rafforzarsi sia per accreditarsi presso il potere politico americano. Nel 2009 il Segretario al Tesoro Geithner prima consulta la Roccia Nera, poi le chiede di valutare e prezzare gli asset tossici di una serie di istituti come Bear Stearns, AIG, Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, “agendo alla stregua di una sorta di Iri privato”. Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistandoBarclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali, vedi oltre.

D. “Sviluppa la capacità di informare, formare e se nel caso manipolare i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla NSA per sondare gli umori della gente”. Si serve della piattaforma Aladdin, almeno 6000

computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezioni, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo”.

E.Crea un centro studi d’eccellenza, il BlackRock Investment Institute, che elabora analisi qualitative che tengono in considerazione anche variabili politico-strategiche (esempi). Sempre più “grande fondo di investimento interessato al profitto ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti”, sottolinea Limes. Spende in lobbying $1milione l’anno, aggiungiamo.

Il fondatore e leader Larry Fink “non fa mistero di essere un fervente democratico” e in buoni rapporti col presidente Obama, scrive il post, ma secondo altre fonti in realtà Fink frequenterebbe’ circoli prediletti da repubblicani neoconservatori. E’ ‘Il più importante personaggio della finanza mondiale’ ma, nonostante questo, ‘virtualmente uno sconosciuto a Manhattan’ “( Vanity Fair citato da Europa quotidiano).

BLACKROCK E GLI EVENTI ITALIANI DEL 2011. Il super-fondo “svolse probabilmente un ruolo molto importante nel precipitare la crisi del debito sovrano italiano che travolse nel 2011 il governo presieduto dal governo Berlusconi. Lo spread fra Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò infatti a dilatarsi non appena il Financial Times rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro”. Così Limes. “Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte, aggiunge”, citando articoli di allora.

Probabilmente non era così.

L’articolo rivela infatti che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1% .

(Peraltro oggi la Roccia Nera detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore, il 6,62% - è il maggior azionista seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche, al 5,8% - dati ufficiali dic.2014 Alla pari con una fondazione di Panama e l’ex primo ministro del Qatar riferiva la SEC americana ma a giugno vedi qui. E qui un quadro più aggiornato e articolato ma che sembra coincidere solo in parte).

“Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’UE? Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania” sostiene il post, sottolineando l’opacità dei mercati finanziari.

“E’ un fatto – continua - che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio Standard& Poors e Moodys, piuttosto che Fitch (la terza agenzia di rating)”.

Un’ipotesi interessante, quella di Limes. Che getta una luce nuova su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l'Europa e i PIIGS, a partire dalle polemiche di quell'agosto bollente, con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul Sole24Ore - Amato che in quel 2011 era fra l'altro senior advisor proprio di Deutsche Bank (e chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata).

Un'ipotesi realistica, che apre altri interrogativi, sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli stati, anche della potente Germania. E sulla composizione azionaria di questi istituti - banche varie, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali? Proviamo solo ad aprire qualche spiraglio qua e là. Cominciando dalla banca tedesca.

L’ANGLO-AMERICANIZZAZIONE DI DEUTSCHE BANK e la trasformazione dell' istituto nato nel 1870, da banca che storicamente ha per missione il finanziamento dell’industria a banca che genera metà dei suoi profitti dal trading di derivati , valute, titoli, cartolarizzazioni, è storia non troppo lontana. Risale a quando, col crollo dell’URSS, l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi.

Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Khol aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia. Andò persino parlarne a Wall Street. Venne improvvisamente freddato fuori dalla sua villa, a fine 1989. Si disse dalla RAF, magari invece dalla Stasi, come qualcuno scrisse, o da altri.

Stessa sorte tocca al suo successore, un altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.

Dopo di lui a Deutsche Bank - alla sua sede londinese - arriva uno squadrone di ex Merril Linch, compreso il capo che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso ‘moderno’, anche troppo? La banca che deve portare sfortuna, perché anch’egli muore, a soli 47 anni in uno strano incidente del suo aereo privato. Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano, jainista, passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando JPMorgan: è esposta per 55.000 miliardi, 20 volte il Pil tedesco, a fronte di depositi per 522 miliardi.

LO SCONTRO COL POTERE POLITICO. “Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?” Se lo chiedeva due anni fa lo Spiegelriportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’ Economia Wolfgang Schauble. Scriveva il settimanale: “Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, JP Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valute: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e UBS.

BLACKROCK COMPRA IN ITALIA (o l’Italia?) “Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla Roccia Nera è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese”, scrive Limes. “Che si sta comprando l’Italia”, titolava più spiccio Europa quotidiano , quando un certo allarme si spargeva nel Bel Paese ( qui l'Espresso).

A fine 2011 la Roccia aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia(che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi.

E oggi? Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit col 5,2%, il secondo azionista di Intesa-SanPaolo, col 5%. Al 5% anche la partecipazione di Atlantia, al 9,4% sarebbe quella di Telecom. “Presidi strategici che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti ‘per far scendere il debito’” scrive Limes.

La nuova ondata, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo, seguita alla brutale speculazione sulla lira che ne aveva tagliato il valore del 30%? La Grecia c’è già dentro, ma resiste. La crisi dei PIIGS a che altro serve se no?

NON E’ IL SOLO. Aggiungiamo che State Street Corporations, un altro colosso americano, non un fondo di investimenti ma una storica ‘banca di custodia’ basata a Boston che nel 2003 aveva acquistato la divisione Securities di Deutsche Bank, nel 2010 ha comprato l’ attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo(custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote dei fondi e di servizi ausiliari come gestione dei cambi e del prestito di titoli, qui Sole24Ore ).

BLACKROCK E GLI INTRECCI CON LE MEGABANCHE. La Roccia Nera di chi è, chi sono i suoi azionisti principali? Cercando nel web ci si ritrova in un labirinto di scatole cinesi, un terreno opaco e cangiante.

Azionista n. 1 di BlackRock, nel prospetto di Yahoo finanza (il più chiaro, dic.2014) col 21,7% è PNC Financial Services Group Inc. , antica banca di Pittsburg, la 5°per grandezza negli Usa, pur meno nota. PNC era proprietaria della RocciaNera fino al 1999, racconta Bloomberg (nov 2010, parla di PNC e Bank of America che ne vendono quote). Azionisti n. 2 e 3 sono Norges Bank, la Banca Centrale di Norvegia, e Wellington ManagementCo., altro fondo di investimenti, di Boston (2100 investitori istituzionali in 50 paesi, $869 miliardi di asset, investimento minimo $5 milioni, per dire).

Poi però tra gli azionisti ‘istituzionali’ - i più rilevanti - troviamo State Street Corporation, FMR-Fidelitye Vanguard Group (ancora una società di investimenti, gestisce $3000 miliardi di assets), fondata nel 1977 dal presidente di quella Wellington a cui appare legata in varie combinazioni. Le stesse quattro società Vanguard, BlackRock, State Street e FMR-Fidelity con Wellington sono gli unici azionisti istituzionali di PNC! Non solo.

I magnifici quattro. Queste quattro società si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche. I “Big Four” li chiamava un post in cui ci siamo imbattuti tempo fa, riproposto negli ultimi anni da vari blog. Un titolo di sapore complottista (“Le grandi famiglie che governano il mondo”) e la scoperta che era apparso nel 2011 anche su Pravda.ru, induceva ai peggiori sospetti. Scansando i pregiudizi abbiamo fatto delle verifiche.

Ebbene, i Big Four effettivamente costituiscono un nucleo sempre presente nelle maggiori banche ‘sistemiche’. Non solo le prime quattro – JP Morgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo - ma anche in banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of NY Mellon.

Le stesse State Street, Vanguard e BlackRock, FMR-Fidelity che non sono propriamente banche tranne la prima, sembrano possedersi a vicenda.

A ricorrere nell’azionariato istituzionale di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i magnifici quattro non mancano mai. Neppure nella compagine azionaria di Moodyse di Standard& Poors ( del gruppo Mc GrawHill che la controlla, dove tra i 4 spicca FMR-Fidelity, vedi anche qui).

In America e anche in Europa, a quanto pare.

BARCLAYS, PER ESEMPIO. Prendiamo Barclays, la megabanca britannica che risale al 1690.

( trai suoi azionisti, accanto ai soliti BlackRock, Vanguard, e a Capital Research & Management ce n’è uno speciale, col 6,18%, : Qatar Holding LLC, sussidiaria del fondo sovrano qatarino specializzata in investimenti strategici . La stessa holding qatarina è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’ Olayan Group dell' Arabia Saudita che ha partecipazioni in una caterva di società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, UBS , si ritrova BlackRock, una sussidiaria di JPMorgan, una di Singapore e la Banca di Norvegia di cui sopra, ma non divaghiamo troppo).

Ebbene Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma PRIMA della crisi del 2008. Dopo, non più, almeno in apparenza. Così racconta un post di Global Research(di Matthias Chang), che propone tabelle interessanti che mostrano come nel 2006 ‘Barclays Octopus'- come la chiamava il post - fosse davvero la piovra che allarga i suoi tentacoli ovunque . Insieme alla sua alleata State Street.

Barclays IG era tra i maggiori azionisti di 10 grandi banche (n.1 di Bank of America, n.2 di Wells Fargo, n.3 di Wachovia, e poi JP Morgan Bank of New York Mellon ecc), mentre State Street era in buona posizione in 7 di queste). Presente poi nell’azionariato di banche d’affari (da Goldman Sachs a Merril Linch, Morgan Stanley, più Lehman e Bear Sterns poi stritolate dalla crisi). Nonché presente in un lungo elenco di multinazionali di ogni genere americane ed europee, compresi i grandi contractors della Difesa , senza dimenticare le miniere, di ogni genere.

DOPO la crisi, che ha parecchio rimescolato le carte dell’élite finanziaria dell’1%, concentrandola ulteriormente, il paesaggio muta. Barclays Global Investors, comprata nel 2009 da BlackRock (questo post indica la RocciaNera come salvatore di un fondo in fallimento -SIV- dietro il quale allude ci fosse BGI ) sparisce dalle tabelle.

Ricorrono invece i “Magnifici Quattro”- come abbiamo verificato anche noi. In ascesa in particolare State Street – segnala il post - che ha scalzato l’alleato con $19.000 miliardi di assets in custodia e amministrati, e $1,9 in gestione. BlackRock che nel 2006 aveva appena svoltato il trilione di $ di assets, dal 2010 al 2014 cresce ancora fino a $4600 miliardi. In ascesa anche Vanguard Group (anche in Deutsche Bank).

E’ solo un pezzetto del mosaico, la punta dell’iceberg, avvisa il post. E invita a riflettere sugli spostamenti, a “seguire i soldi”, come si dice in gergo poliziesco, e a “esaminare i giocatori”. Chi c’è dietro? “Scopritelo voi, se lo scrivessi io passerei per un cospirazionista”.

PRIVATIZZARE/ACQUISIRE I BENI DEGLI INDEBITATI. Senza dilungarci ulteriormente, segnaliamo che attraverso il crescente indebitamento degli Stati queste megabanche e/o superfondi collegati già azionisti di multinazionali stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche.

Solo per bilanciare l’espansione dei Cinesi?

Un processo che va avanti da anni, accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica. Evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti, come segnalato a varie riprese dal blogger Matt Taibbi ( es qui) e dall’economista americano (‘di sinistra’) Michael Hudson - titolo di un post/intervista del 2011 "Greece now, US soon", ultimo Greece: Austerity for the bankers”, un'intervista.

("Non è la Germania contro la Grecia. E’ la guerra delle banche nei confronti del lavoro. La continuazione del Thatcherismo e del neoliberismo")

Del resto nel 2011 la rivista scientifica New Scientist traendo spunto da un vasto e serissimo studio svizzero sulla concentrazione dell’economia globale (con dati del 2007 però) raccontava che 147 corporations controllano il 40% dell’economia globale ed elencava le prime 50, la maggioranza delle 20 al top erano banche.

http://www.lastampa.it/2015/04/13/blogs ... 0229672960



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 25/04/2015, 15:49 
Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?

Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero.

La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles.

Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.

Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno.

Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni.

Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.

A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna.

BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».

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Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali.

Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo».

Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.

Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro.

«Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».

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«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank.

«E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci frapotere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?

La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa.

E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989.

Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.

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Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi.

«Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.

Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs».

Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.

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A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi.

E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».

Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc.

Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.

Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici.

La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza.

Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.

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Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank.

Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?».

E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica».

Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.

http://www.morasta.it/fa-crollare-lital ... blackrock/



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 27/04/2015, 16:12 
Derivati... lo sterco del demonio (o meglio della finanza... che poi non c'è differenza)

[}:)]

IMPICCARSI DA SOLI – L’ITALIA HA SPESO 17 MILIARDI DI EURO DAL 2011 A OGGI PER I DERIVATI – IN UN ANNO, IL LORO COSTO SI MANGIA IL RISPARMIO SULLA SPESA PER INTERESSI – BRUNETTA: IL MINISTRO PADOAN DEVE DIMETTERSI

Secondo Eurostat in quattro anni l’Italia per i derivati ha sborsato più di tutta l’Eurozona. I grillini chiedono di vedere tutti i contratti, ma il sottosegretario Baretta risponde: “Forniremo più dati, ma ci sono rischi speculativi se pubblichiamo gli atti”…

Più del tesoretto di Matteo Renzi. Più della minore spesa 2014 sul debito pubblico. Il tesoretto vero lo vanno incassando 19 banche d’affari controparti della Repubblica e degli enti locali sui derivati: 17 miliardi dal 2011, tra esborsi reali e aggravi del fabbisogno. Nel solo 2014 l’impatto negativo per il Paese è 5,46 miliardi, più dei 4,14 risparmiati per il minor costo del debito che quei contratti dovrebbero coprire da rischi su tassi e cambi, come sostiene il Tesoro.

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L’Italia è la nazione europea che paga di più alto per i derivati: da sola supera il totale delle 19 dell’eurozona, fermo a 16 miliardi grazie agli incassi di Francia (+2,7 miliardi), Grecia (un miliardo), Belgio (un miliardo), Finlandia e Portogallo sulle scommesse finanziarie. Dietro l’Italia a pagare di più sono Olanda e Austria, ma con soli 2 miliardi a testa.

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La nuova serie di dati l’ha pubblicata Eurostat, che conteggia le finanze pubbliche dell’eurozona. Il dato è duplice: ci sono i flussi di cassa negativi, per Roma 12,41 miliardi dal 2011 (3,63 l’anno scorso) e gli aggiustamenti operati per rispettare le regole Ue su ristrutturazioni e novazioni di derivati, che come chiarito da via XX settembre «non corrispondono a esborsi anche se aumentano il debito». Quest’altra voce dal 2011 ha pesato per 4,54 miliardi.

Limitandosi al governo centrale, l’impatto cala a 11,91 miliardi di flussi negativi, mentre il fabbisogno per ristrutturare certi contratti (l’effettiva riuscita si vedrà in futuro) resta a 4,54. Sono numeri capaci di cancellare l’austerity dei governi Monti e Letta, la voglia di ripresa del governo Renzi, e soprattutto l’inondazione monetaria della Bce di Mario Draghi che ha piallato il tasso del Btp decennale all’1,43%. Infatti, confrontando le stime del dicastero (Def), i risparmi complessivi per minori oneri sul debito (pari a 2.130 miliardi, costo stimato 79,15 miliardi) ammontano a 14,38 miliardi in tre anni.

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Tra l’altro i tassi bassi sul lato derivati non sono d’aiuto. «È molto probabile che anche nei prossimi anni perdite e maggiori fabbisogni collegati ai derivati superino i cosiddetti risparmi portati dal calo dei costi di finanziamento », ha detto a Bloomberg Nicola Benini, vice presidente di Assofinance.

Negli ultimi dati forniti dal Tesoro, che ha aumentato negli ultimi mesi l’informazione in materia, c’erano a dicembre 163 miliardi in derivati, con un mark to market (valutazione di mercato) negativo per 42,65 miliardi. L’80% di queste perdite potenziali riguardano quelli che sono stati definiti “Irs di duration”, ovvero contratti che scambiano tassi fissi con variabili per allungare le scadenze. Come ha detto Marcello Minenna, docente di Finanza matematica della Bocconi, sentito alla Camera durante l’indagine conoscitiva sul tema, «non c’è una definizione in letteratura di Irs di duration, ma andando per esclusione si può ipotizzare che siano swap collegati a Btp, cioè a tasso fisso».

Con il crollo dell’Euribor però tale operazione raddoppia gli impegni finanziari statali: «Dal momento che il mercato dal 2011 è radicalmente cambiato, se gli Irs sono legati ai Btp che rappresentano il 67% dei titoli in circolazione, forse c’è una prima spiegazione dei 33 miliardi di mark to market negativo », ha aggiunto.

Altro salasso in arrivo riguarda la vendita di swaption, opzioni che danno diritto a entrare in uno swap (ma molto più rischiose), e in essere per 19,5 miliardi con minusvalenze di quasi la metà. «La swaption incorpora un elemento di discrezionalità in capo alla controparte acquirente che gioca chiaramente a sfavore del venditore», ha detto in commissione Finanze Minenna.

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Meno tecnicamente, le opposizioni in Parlamento hanno chiesto le dimissioni del ministro. «Di fronte a questi dati e al silenzio colpevole del Tesoro chiediamo le dimissioni di Padoan - ha detto Renato Brunetta di Forza Italia - e un azzeramento dei vertici della direzione che in questi anni ha gestito con opacità e incompetenza uno dei settori più delicati per la vita del Paese». Mentre M5s ha presentato un’interpellanza urgente: «Il governo non può più nascondere le macerie sotto il tappeto, serve trasparenza piena». Il sottosegretario Pier Paolo Baretta ha risposto che «è allo studio una nuova e più efficiente metodologia di informativa periodica», ma il governo continua a negare quei contratti «per il rischio speculativo che la pubblicazione comporterebbe».

http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... -99276.htm



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 Oggetto del messaggio: Re: Banche e Private Equity: scacco all'economia
MessaggioInviato: 28/04/2015, 00:02 
ma chi si occupa tecnicamente di sottoscrivere questi contratti? Chi son i consulenti? Chi materialmente può decidere che un paese debba investire i suoi soldi (quindi quelli dei cittadini) in derivati speculativi e non in strade, poni, gallerie, ferrovie, treni, sicurezza territoriale, polizia ecc ecc? Io rimangi davvero basito...

Questi vanno veramente impiccati poi bruciati e le loro ceneri buttare in una cloaca a cielo aperto...



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