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Giovanni dalla Teva: il giudizio finale http://www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=4654 |
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Autore: | Giovanni dalla Teva [ 14/12/2009, 21:30 ] |
Oggetto del messaggio: | Giovanni dalla Teva: il giudizio finale |
![]() In origine i popoli non conoscevano alcuna dottrina sulla fine del mondo. Insieme con le cause generali che hanno determinato il formarsi di un’escatologia collettiva, per lo più lo spunto alla formazione dei vari miti intorno alla fine del mondo è stato dato dalle grandi catastrofi prodotte dall’ improvviso scatenarsi delle forze elementari della natura: inondazioni, eruzioni di vulcani, incendi specie di boschi o praterie, terremoti, ecc. Le rovine particolari e locali hanno fatto credere possibile la rovina generale e finale, e hanno somministrato materia per la sua descrizione. L’idea del giudizio universale fu tipica del zoroastrismo, religione monoteistica fondata in Persia da Zoroastro, in epoca incerta ma anteriore alla prima metà del primo millennio a.c. . Dal bilancio delle opere compiute nel corso della vita terrena, delle quali si tiene un conto esatto nel cielo di Ahura Mazdàh, dipende la sentenza sulla sorte dell’anima dopo la morte, se cioè essa potrà passare il ponte di Cinvat e raggiungere il regno di Ahura Mazdàh, oppure dovrà cadere nel regno opposto. Questa concezione del giudizio ultraterreno in base alle opere terrene rimase inalterata, nella sostanza se non nei dettagli, in tutte le epoche dello zoroastrisrno. E' da sottolineare la sorte dell'anima dopo la morte, e non giustamente del corpo, perchè chiunque poteva verificare che il corpo rimaneva, senza ombra di dubbio, in questo mondo e non era soggetto quindi a resurrezione immediata. Alla fine dei tempi, poi, tutte le anime riprenderanno i loro corpi e parteciperanno, nei rispettivi campi, all’ultima battaglia tra Ahura Mazdlh e Angra Mainyu, che si concluderà con l’annientamento di quest’ultimo e con l’instaurazione definitiva del mondo illimitato e incondizionato del bene. Secondo Zoroastro, solo con la fine dei tempi, quando nessuno lo poteva verificare, avveniva la resurrezione dei corpi. Dallo zoroastrismo l'idea della resurrezione è passata ai Farisei, legata però, alla fede nel regno messianico, nell’età post-esiliaca, per affermarsi chiaramente al tempo delle persecuzioni di Antioco IV Epifane: ve ne è chiara testimonianza nel libro dei Maccabei, II Macc., 7, X 14; 12, 43 sgg.) e nella successiva letteratura apocalittica. Il primo a esporre con nitidezza un concetto di giudizio universale è Daniele. Ma, oltre che con la dottrina del regno messianico, la resurrezione appare strettamente legata a quella del giudizio finale sui giusti e sui peccatori: onde si trovano, l’una accanto all’altra, due concezioni della resurrezione diverse tra loro, una che ne fa l’appannaggio dei soli giusti Israeliti (soprattutto i martiri), l’altra che ammette una resurrezione anche dei malvagi, per essere puniti. Vi fu, più che una varietà di opinioni: poiché la dottrina della resurrezione, generalmente non accolta nel giudaismo alessandrino, costituì anche in Palestina uno dei punti controversi tra farisei e sadducei, i quali non l’ammettevano. In tutti i casi, la resurrezione del corpo veniva sempre rimandata nel futuro, constatato che dopo la morte terrena i corpi restavano su questa terra e non scomparivano. Con il cristianesimo, la resurrezione di Gesù Cristo può considerarsi il cardine di tutta la nuova religione: nei Vangeli e nella prima predicazione apostolica la resurrezione è presentata come fatto storico sul quale si basa la fede in ogni altro insegnamento: Se il Cristo non è risorto, la nostra predicazione è senza significato (I Cor., 55, 54). La resurrezione è considerata come la prova che Gesù è veramente Dio. Secondo il cristianesimo, come Dio Padre risuscitò il Figlio, così resusciterà ogni persona. Però, come nei casi precedenti, la resurrezione del corpo, tranne che per il Cristo, viene sempre rimandata nel futuro, constatato che dopo la morte terrena, i corpi restavano e restano su questa terra e non vanno nell'altro mondo. Anche in questo caso, si ricorre al Giudizio finale, dove non c'è la possibilità della verifica, per rimanere in un semplice atto di fede o di furbizia, a seconda di come uno lo vuol interpretare. Sicuramente, far sparire un cadavere, o inventarsi una resurrezione con relativa ascensione senza alcun controllo è stato facile, far sparire tutti i cadaveri della terra restava impossibile, meglio servirsi nuovamente, della furbizia di Zoroastro. Un saluto a tutti. |
Autore: | Emilio Salsi [ 15/12/2009, 12:10 ] |
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Caro Giovanni, salve! pur essendo poco incline all'escatologia, ho letto con interesse l'argomento postato, ma, essendo un semplice materialista (come tu sai), ho dovuto sorbirmi (è stata una gran seccatura) l'Antico Testamento riportato da Giuseppe Flavio. In esso non viene riportata la dottrina della resurrezione del corpo, sia in Daniele che nei Maccabbei. Sappiamo che lo storico è un fariseo conservatore e, quando riferisce delle "quattro filosofie" giudaiche, afferma che, al contrario dei Sadducei, i Farisei, gli Esseni e gli Zeloti credevano nella resurrezione dell'anima. Questo particolare mi ha colpito per un altro motivo. Una ventina di anni fa lessi un libro di paleoantropologia nel quale veniva riferito che da scavi effettuati in diversi siti umani, risalenti ad oltre 100.000 anni addietro, vennero alla luce sepolture di uomini, donne e bambini, in cui, accanto ai loro resti, erano stati posti oggetti personali come armi paleolitiche, collane di conchiglie ed altri manufatti tipo statuine o ninnoli di creta. I ritrovamenti fecero pensare agli archeologi che già allora esistesse la convinzione (una fede), da parte dell'uomo preistorico, di un viaggio dopo la morte durante il quale sarebbero servite le cose "care o utili" ... quindi una "resurrezione". E' evidente che, sin dal lontano passato, l'uomo era consapevole di morire ... ma, "razionalmente" (sic!), una realtà dura da accettare. E questo fece, e fa, la fortuna di sciamani, stregoni, maghi, fattucchiere, sacerdoti, sacerdotesse, preti, rabbini (non so se gli ebrei odierni credono nella resurrezione del corpo), imam e quant'altro. Tornando a Giuseppe, lui ci ha tramandato anche il lunghissimo discorso di Giairo fatto ai suoi seguaci a Masàda e lì si afferma, addirittura, che il corpo umano è un "fardello che con i suoi malanni tiene prigioniera l'anima impedendole di essere libera". In questo caso la "resurrezione" del corpo è addirittura respinta come nociva. Oltre all'Antico Testamento dello storico fariseo, ho dato una sbirciatina veloce (capisci che per me sono cose ridicole) anche a quello "cattolico". L'impressione ricavata (odio l'escatologia) è quella che la descrizione di Giuseppe Flavio è più "grezza" o più "ingenua", per questo, a mio parere, più genuina, e, in ultima analisi, veritiera. Per la precisione: i "Grandi Padri teologali" cristiani, ma penso (non ho alcuna intenzione di leggere ancora Antichi Testamenti) anche quelli ebraici e islamici, hanno ritenuto opportuno "spurgare" i racconti palesemente ridicoli per farli apparire più accettabili o credibili, o meno criticabili ... dai dolciotti credenti "poveri di spirito ma ... tanto beati". Emilio Salsi |
Autore: | Giovanni dalla Teva [ 18/12/2009, 06:48 ] |
Oggetto del messaggio: | |
![]() Il cristianesimo fu l'incontro della cultura Ebrea/Essena e parte della filosofia Greca elaborata in Egitto con un contributo speciale di Filone Alessandrino, applicata ad un'epopea Asmonea tardiva e distolta. Il cristianesimo venne quando Ebrei, Greci e Romani avevano persa la libertà e la felicità, e la speranza di riacquistarle nel mondo presente: esso venne quando la gioia del vivere, propria dell'antichità primitiva, che ebbe il suo apogeo in Grecia, fu distrutta dalla riflessione e dalla pratica dolorosa della vita, facendo luogo alla noia del vivere, alle disillusioni recate dalle continue sciagure, a quel dolore universale delle cose che rendeva l'esistenza inesplicabile e intollerabile, e forse soprattutto, perché con la coltura era cresciuto anche il sentimento della intollerabilità dei mali che affliggevano gli uomini ed i popoli. "Se non che — per servirci delle parole di Gaetano Negri,(Gaetano Negri, La Crisi Religiosa, p. 37-38. Milano, Dumolard, 1878.) l'impareggiabile filosofo artista — non potendo l'uomo rinunziare alla felicità, egli non ha che un modo di uscire dalla sua miseranda condizione, ed è quello di trasportarla, la sua felicità, dalla vita terrena a una vita trascendentale; ammettere la sciagura nel mondo presente; ma distruggerla, direi quasi, con la speranza della felicità nel mondo futuro. Fu questa precisamente la dottrina del cristianesimo" La scienza sperimentale non era ancor nata, e l'umanità sofferente non aveva allora altro rimedio contro i mali di questa vita, fuori che le speranze d'oltre tomba. Fu dunque, il cristianesimo, una dottrina nata dalla decadenza, e fu, conseguentemente, la religione della decadenza. La sorte del popolo ebreo, continuamente sbattuto fra una dominazione e l'altra, e deluso alfine nelle sue speranze di un ritorno dei tempi felici e della gloria, aveva di lunga mano preparato quella letteratura del dolore, che doveva consolare gli umili e gli afflitti, la famosa fonte "Quelle" dei vangeli, e servire di leva potente per la formazione e la diffusione di quello che fu poi chiamato il cristianesimo. Parimente in Grecia e a Roma alla nascita di questa filosofia del dolore, della rassegnazione e del distacco dalla vita presente avevano presieduto le più gravi sciagure pubbliche. Platone — il primo Padre precristiano della Chiesa — scriveva appunto quando i destini di Atene andavano visibilmente declinando. Le rovine morali della patria non fecero che dare maggior incremento alla filosofia di Platone, a quel misticismo che, distaccandosi dalla vita reale perché troppo brutta, senza libertà e senza giustizia, si racchiude in se stesso come in un ultimo luogo di rifugio. Incamminata per questa via, la filosofia greca arrivava da una parte ad Egesia, che consigliava la morte volontaria come il mezzo più spedito per raggiungere il riposo dell'anima, la pace senza inquietudini, l'atarassia; e dall'altra al libro sul Lutto, dell'accademico Crantore, modello delle Consolazioni. Né diversamente volgevano le cose in Roma nel secolo anteriore all'avvento del cristianesimo. Questo secolo che, dopo di aver ridotto tanti popoli sotto l'impero di Roma, ridusse Roma stessa sotto l'impero di uno solo, si aprì sotto gli auspici di una lunga guerra dei Cimbri e dei Teutoni; vide tutti i popoli d'Italia sollevarsi contro Roma; assisté alle guerre tra Mario e Silla; ammirò Spartaco che alla testa degli schiavi fece tremare i padroni; fu spaventato da una organizzazione generale e terribile dei pirati; in Africa, in Spagna, in Germania, nella Gallia, in Bretagna vide scene di ferocia e guerre; la guerra di Mitridate e dei Parti in Oriente; le fazioni di Pompeo, di Cesare, di Bruto, di Antonio e di Augusto che divisero e tennero in armi tutto il mondo dominato da Roma. Si è allora che nasce un vero disgusto della vita, non sperandosi più niente dalla libertà né dalla legge: il suicidio diventa uno scampo; e la morte viene oramai considerata non più come la fine, ma come il fine della vita; è la filosofia della desolazione che inspira le Tusculane di Cicerone. E come l'arte segna il termometro morale del tempo, così in Orazio noi vediamo allora anche l'arte diventare pessimista fin quasi all'ascetismo. Se questa era già la disposizione degli spiriti prima di Augusto, quale doveva diventare poi sotto gli imperatori successivi, sotto Tiberio e Nerone? Da quell'ambiente non potevano venir fuori che anime cristiane come Seneca: ecco perché è in quell'epoca che a Roma comincia ad apparire, misterioso, il nome cristiano, e col nome la cosa. La filosofia si tramuta in religione e diventa la religione del soffrire e del morire in questa vita per guadagnare il paradiso nell'altra. Giudicate se in quel ambiente non dovessero attecchire e prendere forma concreta le speranze messianiche degli primi cristiani, annuncianti la prossima fine del mondo e la risurrezione e la rinascita dopo la morte! La povera gente, abbandonata a sé, o nell'impossibilità di istruirsi, era completamente in balìa dei culti, vecchi del paese, o di nuova importazione. Celso Intorno al 180 questo filosofo già più volte citato, il primo grande avversario del Cristianesimo, pose acutamente in dubbio l'attendibilità storica delle scritture cristiane. Celso non era certo uno sprovveduto: dotato di una formazione culturale criticamente fondata e polivalente, come afferma il suo miglior conoscitore moderno, condusse la propria battaglia contro il Cristianesimo a un livello non attinto da altri critici del Cristianesimo quali Epitteto, Marc'Aurefio, Luciano e lo stesso Porfirio "Celso non mancava di sottolineare come i Cristiani provenissero dai ceti sociali più ignoranti e, perciò più facilmente attratti dai miracoli, come la loro dottrina, "elementare e destituita di qualsiasi fondamento scientifico", avesse conquistato soprattutto la "gente più semplice". In tal modo avevano adescato le persone più credulone, raccontando loro "cose grandiose" e spiegandogli che "non occorreva rispettare il padre o i maestri, bastava, piuttosto, credere in coloro che predicavano la religione cristiana. Mentre i primi, infatti, facevano unicamente discorsi stupidi e insensati... solo i Cristiani sapevano come fosse giusto vivere, e se i giovani li avessero seguiti, avrebbero conquistato la beatitudine... Così, dunque, parlavano. Se si accorgevano, tuttavia, che un maestro, o un padre o, semplicemente un uomo dotato di buon senso, era nelle vicinanze, i più accorti si allontanavano rapidamente; i più sfacciati, invece, facevano capire ai giovani che, in presenza del padre o del maestro, non avrebbero potuto parlare liberamente; li istigavano, dunque, alla disobbedienza, dicendo loro che, continuando a vivere con gente inetta e traviata, sarebbero finiti per cadere nella rovina più profonda. Pertanto, se non volevano incorrere nel castigo, dovevano abbandonare il padre e i maestri...". Nella disaggregazione politica e nello sconforto della perduta libertà per alcuni Esseni, quando né leggi, né potere né costumi più bastavano a rinfrancare la fede smarrita, questi ultimi l'umanità più sfortunata, si gettava a capo fitto nei sogni del soprannaturale, come per aggrapparsi ad un'ultima ancora di salvezza. L'universale impotenza sentiva il bisogno di un giogo nell'ordine spirituale come nell'ordine temporale, la ragione non era abbastanza matura per reggersi da sé nella libertà del pensiero. La religione cristiana /essena veniva quindi a dare una destinazione a questa credenza, eppertanto essa doveva tornare la più accetta a quell'ambiente esaltato, come quell'ambiente era il più disposto perché essa potesse attecchire e spandersi rapidamente, come una macchia d'olio su d'una superficie piana. Ma ciò che più doveva contribuire alla fortuna del cristianesimo era la tendenza eminentemente popolare del giudaismo, tendenza che tanto nella letteratura quanto nelle figure ideali dei suoi personaggi era siffattamente suggestiva per gli umili, gli oppressi ed i piccoli da convertirli in massa alla nuova fede. È questo elemento, venuto al cristianesimo dal giudaismo, che spiega come e perché quella medesima morale e quella medesima dottrina che la filosofia greco-romana già professava da secoli in modo tanto sublime e per forma letteraria e per virtù di esempi, non divennero popolari, non si generalizzarono che per il canale della nuova religione. Solo che, con la religione cristiana quella filosofia, in luogo di una redenzione, fu una illusione peggiore del male, fu una decadenza che ritardò la redenzione che prometteva di tanto ancora quanto sarebbe durato il cristianesimo,[size=175] perché la collocò nell'al di là, nella vita futura, predicando, in questa vita, la rassegnazione e la miseria come di diritto divino, e come un mezzo meritorio agli uni per esercitare la carità, agli altri per dar modo ai primi di esercitarla e rendersi degni del regno dei cieli. Sotto questo aspetto, morboso fu anzi il trionfo del cristianesimo, poiché prometteva la felicità con la sola speranza, usando la fede. Non c'e gioia migliore, che aspettare un evento piacevole, lo abbiamo sperimentato tutti.[/size] Bossi Emilio Nato il 31.12.1870 Bruzella,27.11.1920 Lugano, libero pensatore e affiliato alla massoneria, di Bruzella. Figlio di Francesco, architetto. #8734; Emilia Contestabile. Studiò al liceo di Lugano e conseguì la laurea in diritto a Ginevra. Avvocato e giornalista, ottenne grande notorietà come polemista con lo pseudonimo di Milesbo. |
Autore: | Iron Iko [ 07/01/2010, 17:32 ] |
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Carissimi Giovanni, Emilio, iscritti e visitatori tutti, il titolo di questo thread aperto da Giovanni della Teva è "Il giudizio finale" con si è soliti richiamarsi a un noto passo del Vangelo di Matteo, esattamente a Mt 25, 31-46. Le cose che dice Giovanni sono molto interessanti, così come le osservazioni di Emilio. Ma quando ho aperto la pagina ho pensato che il nostro instancabile studioso avesse fatto almeno un cenno a quanto riportato da Giancarlo Tranfo nella sua rubrica del sito yeshua.it "il bestiario incensato". Andate dunque su http://www.yeshua.it/il%20Bestiario%20I ... Matteo.htm e leggerete una simpatica chicca intitolata "Quel copione di Matteo" Per rispiarmiarvi fatica vi riporto le cose essenziali. Un dì del mese di giugno del 2008 un certo Ferruccio da Caserta, medico, in visita al Museo del Louvre, tra una "fatica" congressuale e un'altra, si sofferma nella sala egizia davanti ad una statua cubica che rappresenta Haroua. La grande base riporta un'iscrizione la cui parziale traduzione in francese è trascritta su una placchetta fissata alla vetrina. Immagine: ![]() 171,93 KB Il testo francese è il seguente: Traduction partielle : - "Le grand intendant de la divine adoratrice d'Amon, Haroua, dit : "Je vous le dis, à vous qui viendrez dans l'avenir dans des millions d'années : ma maîtresse m'a élevé dans ma petite enfance, elle m'a poussé dans mon adolescence, le roi m'a confié des missions dans ma jeunesse et je les ai accomplies au mieux ... J'ai donné à celui qui n'avait rien, j'ai enrichi l'orphelin dans sa ville, j'ai fait vr qu'aient les hommes et ce qui plaisaient aux dieux ... J'ai donné du pain à celui qui avait faim, des vêtements à celui qui était nu, j'ai chassé la souffrance et éloigné l'adversité."" Il congressista in relax legge e trasalisce: "Ma questo è... questo è... ma sì, è il Vengelo di Matteo... il Giudizio Finale!" Immediatamente si attacca al cellulare e chiama l'amico Giancarlo Tranfo per comunicargli la sensazionale scoperta. "Giancarlo, qui siamo al 7mo secolo a.c.!!!" - "Peccato che La croce di Spine è già in stampa", gli risponde Giancarlo, "altrimenti come minimo gli dedicherei un paragrafo". E così la cosa è finita sul suo sito. Ebbene sì l'avete capito: quel Ferruccio da Caserta è.... Iron (ferro) Iko Ma la mia grande soddisfazione però l'ho avuta quando, rientrato in postazione stabile su internet, ho capito che nessuno aveva mai messo in relazione quel famoso passo evangelico con l'iscrizione egizia in bella esposizione nientepopodimeno che a Parigi al museo del Louvre. Se infatti si provava a incrociare i milioni di risultati di Mt 35 con le centinaia di haroua oppure haroua + amon si otteneva <zero risultati>. Solo recentemente è comparso in rete uno studio intitolato "L'enigma di Harwa" a cura di Silvia Einaudi e Francesco Tiradritti di cui si legge l'estratto che interessa a noi qui http://www.scribd.com/doc/12331444/LEnigma-Di-Harwa ma sentite cosa scrivono (il copia-incolla non si può fare): E' possibile che il concetto della protezione del debole, ben presente anche nelle culture ebraica e mesopotamica, sia confluito nel Vangelo di Matteo da dirette influenze orientali ed egizie nella prima stesura di questo testo, scritto in Palestina o in Siria in lingua aramaica attorno al 60 d.C., e che andò presto perduto. Sul materiale di questa redazione si basa il Vangelo tramandatoci, scritto in greco verso l'80 d.C., di cui però non è l'apostolo Matteo l'autore. Rimangono i miei interrogativi: Ma è possibile che in tanti secoli o decenni (non so a quando risale la scoperta della statuetta) nessun egittologo o paleografo o storico delle religioni si sia mai accorto della spudorata somiglianza dei due passi? Possibile che chi se nè "ufficialmente accorto", come gli studiosi del saggio citato, trovi naturale pensare che quei concetti li abbia realmente espressi Gesù e che il testimone oculare Matteo li abbia registrati in aramaico? Ma si può essere così ingenui? Mi piacerebbe avere un vostro commento Grazie Un saluto di cuore a tutti. Iron - Ferruccio |
Autore: | Giovanni dalla Teva [ 07/01/2010, 20:39 ] |
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![]() Cita: Sig. Iron Iko scrive: Rimangono i miei interrogativi: Ma è possibile che in tanti secoli o decenni (non so a quando risale la scoperta della statuetta) nessun egittologo o paleografo o storico delle religioni si sia mai accorto della spudorata somiglianza dei due passi? Possibile che chi se nè "ufficialmente accorto", come gli studiosi del saggio citato, trovi naturale pensare che quei concetti li abbia realmente espressi Gesù e che il testimone oculare Matteo li abbia registrati in aramaico? Ma si può essere così ingenui? Mi piacerebbe avere un vostro commento Grazie Un saluto di cuore a tutti. Purtroppo, carissimo Ferruccio da Caserta, come dice il grande Emilio Salsi, Lei ha fatto centro. Il vangelo di Matteo, secondo i miei studi e deduzioni è stato scritto da un esseno/zelota o da un gruppo di esseni/zeloti riconvertiti al perdono appropriandosi della cultura Ebionita, in Alessandria, i cui parenti, o loro stessi erano riparati in Egitto dalla Giudea devastata dalla guerra contro i romani. Tali persone dovettero rifugiarsi in Egitto, e così scrissero pure del loro Signore appena nato. Tali persone si trovavano bisognose di beni terreni e di speranze e così scrissero il giudizio finale; infatti, tale scritto lo troviamo solo in Matteo. Tale persona o persone sapienti erano veramente, e presero ciò che a loro serviva, sia dalla cultura Ebraica, sia dalla cultura Egiziana, ripolpando secondo i propri interessi, il vangelo di Marco che rimaneva la struttura portante. Rispettando sempre tutti, la saluto con tanto affetto e stima. Comunque l'aiuto e l'amore, in qualsiasi forma, verso il mio prossimo, io lo condivido sempre e ovunque, indipendentemente da quale cultura lo proponga. |
Autore: | Veritas [ 08/01/2010, 18:27 ] |
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Cita: Iron-Iko ha scritto: Un dì del mese di giugno del 2008 un certo Ferruccio da Caserta, medico, in visita al Museo del Louvre, tra una "fatica" congressuale e un'altra, si sofferma nella sala egizia davanti ad una statua cubica che rappresenta Haroua. La grande base riporta un'iscrizione la cui parziale traduzione in francese è trascritta su una placchetta fissata alla vetrina. Il testo francese è il seguente: Traduction partielle : - "Le grand intendant de la divine adoratrice d'Amon, Haroua, dit : "Je vous le dis, à vous qui viendrez dans l'avenir dans des millions d'années : ma maîtresse m'a élevé dans ma petite enfance, elle m'a poussé dans mon adolescence, le roi m'a confié des missions dans ma jeunesse et je les ai accomplies au mieux ... J'ai donné à celui qui n'avait rien, j'ai enrichi l'orphelin dans sa ville, j'ai fait vr qu'aient les hommes et ce qui plaisaient aux dieux ... J'ai donné du pain à celui qui avait faim, des vêtements à celui qui était nu, j'ai chassé la souffrance et éloigné l'adversité."" Il congressista in relax legge e trasalisce: "Ma questo è... questo è... ma sì, è il Vengelo di Matteo... il Giudizio Finale!" Immediatamente si attacca al cellulare e chiama l'amico Giancarlo Tranfo per comunicargli la sensazionale scoperta. "Giancarlo, qui siamo al 7mo secolo a.c.!!!" - "Peccato che La croce di Spine è già in stampa", gli risponde Giancarlo, "altrimenti come minimo gli dedicherei un paragrafo". E così la cosa è finita sul suo sito. Ebbene sì l'avete capito: quel Ferruccio da Caserta è.... Iron (ferro) Iko "....Ma questo è... questo è... ma sì, è il Vangelo di Matteo... il Giudizio Finale!.." E' probabile che ciò che è riportato dal vangelo di Matteo sia materiale redazionale. Da tenere presente che una delle persone del 'team', a cui i poteri 'forti' dell'antica Roma avevano affidato il compito di costruire a 'tavolino' il culto catto-cristiano, fu il celebre Valentino di Alessandria, il quale, sicuramente, conosceva molto la mitologia e le tradizioni dell'antico Egitto, essendo stato egli un erudito di grande levatura per quei tempi. Tuttavia, non è neppure da escludere a priori che tale materiale potesse aver fatto parte della predicazione di Gesù, dal momento che anche quest'ultimo passò circa 3 anni in Egitto (ma NON da bambino, come vorrebbe il vangelo di Matteo, ma da adulto: v. Celso ed il Talmud) e proprio nella città di Alessandria, dove le possibilità di formarsi un'erudizione di prestigio erano immense, essendovi in questa città numerosissime scuole condotte da maestri di prestigio, oltre che la biblioteca più grande dell'impero. Saluti Veritas . |
Autore: | Emilio Salsi [ 08/01/2010, 18:49 ] |
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Caro Iron Iko, hai dimostrato che il principio morale contenuto nel passo di Matteo è stato ripreso da un concetto preesistente sette secoli prima di Cristo. Il condizionamento - indotto da chi pretende che la dottrina cristiana sia stata la promotrice di principi morali, individuali e collettivi, sino allora sconosciuti, divenuti poi “base” delle “radici cristiane” della nostra civiltà - è falso. Io e molti altri sappiamo che “il concetto della protezione del debole” era presente in tutte le culture; non solo in quella semita, o egizia, o greca … ma affonda nella notte dei tempi. Fu connaturale all’uomo primitivo, nudo e indifeso, che doveva sopravvivere in una realtà fatta di zanne, artigli e veleni. Solo l’aggregazione e la protezione reciproca ha permesso ai nostri progenitori di superare e vincere pericoli e difficoltà naturali, per poi espandersi, sempre di più … troppo: con tutte le conseguenze che conosciamo. Ad iniziare dalle guerre. E “l’avvento del Dio Gesù” non ha cambiato nulla: non è esistito. Lo sa bene il Vicario di Cristo. In barba ai concetti morali propagandati per illudere i “beati poveri di spirito umili e miti”, se ne sta assiso su un trono d’oro vestito della sacra veste, dorata anch’essa. E’ attorniato dalla corte di Episcopi e Cardinali, eminenti, eccellenti e … potenti. Indossano la veste color porpora a rimarcare la dignità règia: questa è la reale, ipocrita, “radice cristiana” della nostra civiltà. |
Autore: | Cecco [ 08/01/2010, 19:33 ] |
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Il materiale che faceva parte nella predicazione di Gesù, era anche la statua di Haroua, la portava con se sempre sottobraccio. Era parte del SUO vangelo, ce lo dice Matteo. Ad Alessandria ebbe così tanta erudizione, che riusciva persino a smaterializzarsi. Simultaneamente, apprendeva ad Alessandria, e predicava in tutta la Palestina, “a piedi si muoveva più veloce di Spidi Gonzales”. Questa è più bella, in Alessandria ebbe così tanta erudizione, che non seppe scrivere neanche una virgola, eccetto un paio di graffi sulla sabbia e sulla zucca dei nuovi esegeti VERITA’—S. Cecco |
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