http://www.sistemamusica.it/2009/maggio/24.htmdi Paolo Cairoli
Quando nel giugno del 1995 la Bbc Philharmonic di Manchester e il suo direttore principale Gianandrea Noseda si accinsero ad affrontare il ciclo completo delle Sinfonie di Beethoven, probabilmente non si resero conto di essere sul punto di cambiare per sempre le modalità di comunicazione della musica colta.
I concerti furono trasmessi in diretta radio. E fin qui si trattò di normale amministrazione per un ente radiofonico. Ma quando le nove Sinfonie furono messe in rete, la stampa di tutto il mondo dovette constatare con stupore che il milione e mezzo di utenti che avevano scaricato quelle esecuzioni erano una cifra sbalorditiva, senza precedenti, e non solo per la musica sinfonica.
Quella di Noseda, come constatò Norman Lebrecht, divenne “la” versione delle Sinfonie di Beethoven per milioni di navigatori della rete, dall’America all’Estremo Oriente.
Oggi Noseda propone a Torino, con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio, di cui è direttore musicale, l’ultimo capitolo di quel ciclo: la Nona sinfonia. L’opera forse più popolare del tardo stile di Beethoven, approdo e sintesi del suo pensiero artistico, e superamento in senso laico della Missa Solemnis con un messaggio realmente universale.
Fu proprio Beethoven a dirigerne la prima esecuzione, il 7 maggio 1824, al Teatro di Porta Carinzia di Vienna. Il rischio era enorme: il compositore era completamente sordo da più di dieci anni e le sue ultime prove sul podio si erano risolte con una notevole confusione in orchestra.
Gli organizzatori del concerto lo convinsero ugualmente a condurre il concerto, ma affidarono la preparazione ad altri due direttori, che consigliarono all’orchestra di non prestare troppa attenzione ai gesti di Beethoven. Fu un successo, ma il maestro dirigeva senza percepire minimamente ciò che accadeva dietro di lui.
Fu la cantante Caroline Unger a farlo voltare dopo il secondo movimento, per mostrargli lo straordinario entusiasmo del pubblico.
La ricezione della Nona era in realtà destinata a essere piuttosto controversa: l’accoglienza del pubblico tedesco, a Dresda e a Lipsia, fu tiepida; a Londra rimasero perplessi per l’inserimento del coro nel finale, mentre a Parigi l’opera sembrò troppo lunga.
E se Schumann la considerava un capolavoro irrinunciabile, Verdi al contrario scrisse: «Non mi sorprenderei affatto se qualcuno venisse a dirmi che la Nona sinfonia è scritta male», e quando Wagner la diresse per la prima volta, nel 1846, vi si accostò con l’idea di recuperare una composizione ormai dimenticata.
In Italia la Nona arrivò abbastanza tardi, nel 1878, a Milano; e a Torino non fu eseguita fino al 1888. Ma in quegli anni le incertezze erano ormai superate, e l’opera era considerata un vertice assoluto dell’arte di Beethoven.
Il finale in particolare, con la ricongiunzione di musica e parola, segna il raggiungimento di una soglia espressiva nuova in ambito sinfonico, foriera di enormi sviluppi.
In esso, l’estremo tentativo del suono strumentale di eguagliare il potere espressivo della musica vocale sembra spazzato via dai versi del baritono «Oh amici, non questi suoni! Piuttosto intoniamone altri, più piacevoli e gioiosi», e dall’inno An die Freude, al cui esempio si richiameranno il Wort-Ton-Drama di Wagner e alcuni momenti del grande sinfonismo tra Otto e Novecento.
Recentemente si sono registrati alcuni ulteriori tentativi di revisione del valore artistico della Nona, che non sembrano per ora aver scosso la granitica ammirazione che questa partitura riscuote universalmente. L’ultima Sinfonia di Beethoven resta, oggi più che mai, un esempio altissimo di libertà di pensiero artistico e di indipendenza intellettuale, nonché un banco di prova irrinunciabile per un direttore e per le compagini orchestrali e corali di un grande teatro.
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