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Astronave
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 Oggetto del messaggio: Gnosticismo - Una fede di un futuro passato
MessaggioInviato: 03/08/2022, 07:29 
GNOSTICISMO – UNA FEDE DI UN FUTURO PASSATO
Articolo di Ezio Albrile

Lo spirito sacrificale è il coa­gulante di ogni psicologia di massa, dove la Vita viene schiacciata impunemente in nome della causa suprema. Tanto vale per i totalitarismi quanto per le masse guidate dai pareri degli epi­demiologi. E certo è che il sacrificio si radica nella pulsione di morte che domina il Super-Io, come vorrebbe Freud. Si radica, cioè, nell’aggressività della Legge, quella del “Bene comune”. Una Reli­gio mortis. L’Uomo non ha solo inven­tato il sacrificio cruento - e il connesso inganno culinario di Prometeo - ma ha anche sacrificato se stesso ad una morale sublime e mostruosa, che ha infine immolato milioni di vite nelle varie guerre. Sante e non. C’è poi l’agnello che va volontariamente al sacri­ficio. Ognuno di noi si sente “vittima” quando accetta d’andare incontro al proprio destino.

Ribellarsi al Sistema
Nel mondo antico, dove si affermava il messaggio positivo di un cristianesimo trionfante, qualcuno si ribellava a tale etica del massacro. Una fede alternativa andava catturando gli archetipi più nascosti, era lo Gnosticismo: il mondo non era la creazione di un Dio buo­no e generoso, era un inferno, un penitenziario per anime esiliate. Gli Gnostici rifuggivano la dialettica sacrificale. Per gli Gnostici il vero Dio non esisteva. Un messaggio molto attuale. Un mondo a pezzi - nichilisticamente post-moderno - che si rinchiude in un convento dismesso per rifondare un partito che non c’è. Gli Gnostici, come Nietzsche e poi Heidegger, fanno di Yahweh un despota folle, crudele. E del cristianesimo l’espressione di un pensie­ro schiavo, fatto per schiavi che si sacrifica­no. La prassi sacrificale ebraica è fondata in forma narrativa dai capitoli 4 (Caino e Abele), 8 (Noè), 18-19 e 22 (Abramo) della Genesi. Il morire deve por­tare frutti, non essere sterile come nella sto­ria di Lot. Dopodiché il sacrificio diventa funzionale al Sistema: non possiamo fare a meno della religione, pena il disordine delle masse. Il popolo ha bisogno di obbedire ad una legge religiosa, o mascherata tale. Il potere politico non basta. Forse, però, è solo a partire dal messaggio gnostico che sarà possibile ricostruire il nesso profondo tra la violenza e il sacro, gettando le basi per un sapere de-sacra­lizzato. Cioè, senza più prede sacrificate. Perciò, il Gesù gnostico è un Salvatore che non muore realmente sulla croce. ‘Ciò che nasce merita di morire’, secondo il detto di Anassimandro commentato da Heidegger. Si tratta di una circolarità che richiama la spietatezza dell’equivalen­za del tributo di sangue, della struttura vendicativa di una legge (nomos) che è partizione (nemein) con cui si dà a ciascuno il suo, secondo la nemesi, la vendetta della morte. Occhio per occhio, dente per dente, è la ripetizione natu­rale che riporta all’equilibrio. La vita stessa vive della morte. Nel suo ciclo sacrificale sanguinario, nel grande mas­sacro che il ciclo biologico è, l’Umanità ha cercato per millenni la propria legge. Non a caso, il tema della vita che sorge dalla morte - e in particolare dello smembramento portatore di vita - è co­mune a molte tradizioni. Il cristianesimo ci fa pensare al tema del martirio, del legionario, del crociato, della “guerra giusta”, alla Croce con il suo orrore. Che dovrebbe liberare l’uomo dalla paura della morte. Liberarlo da ogni Religio mortis, dunque. Un inganno che lo Gnostici­smo ha svelato e cancellato.

Una fede antica
L’apostolo Paolo non potendo fondare la sua autorità sul Gesù terreno la fondò su di una visione estatica (ai Ga­lati). Come dire che le realtà alternative servivano a capire meglio la realtà ‘reale’, e a potenziare lo sguardo. In ciò, a suo modo, era già “gnostico”. Ma di cosa stiamo parlando? Alla base del pensiero gnostico c’è un dualismo tra l’Uomo e il mondo, e nel medesimo tempo tra il mondo e Dio, che si risolve in un ritorno dell’Uo­mo o - meglio - della parte divina che sta nell’Uomo, nella dimensione originaria, paradisiaca. C’è un mito che racconta un ritorno alle origini, un desiderio pre-co­smico dal quale si sviluppa una colpa an­teriore che porta alla creazione dell’Uomo e del mondo, intesi entrambi quali carceri dell’anima di luce. La mitologia gnostica è ben espressa da uno dei principali esponenti del mo­vimento, Valentino: teologo, raffinato esegeta, filosofo d’avanguardia e anche poeta. Nacque in Egitto verso l’anno 100, in un borgo del delta del Nilo. Raggiunta la maggiore età si recò ad Alessandria per perfezionare la sua educazione e compiere un ci­clo di studi. Nei primi secoli dell’era cristiana la città fondata da Alessandro il Grande era un centro importante di cultura, dov’era già configurato un insegnamento delle discipline teologiche e filosofiche unitamente all’esegesi delle Sacre Scritture. Siamo sotto l’impero di Adriano (117- 138 d.C.). L’Egitto è una provincia prospera, le sue Scuole filosofiche e le sue Accademie sono rette da maestri di grido. Alessandria è un crocevia intel­lettuale e commerciale straordinario: vi si trovano i personaggi più strani, le razze più diverse, le teorie più audaci, provenienti da Oriente quanto da Occidente. I mercanti riversano sul le sue piazze le merci più disparate, rari prodotti esotici, e con esse nuove idee, importate da terre lontane. In questo ambiente così ricco di fasci­nazioni culturali Valentino frequenta l’élite intellettuale dell’epoca, e inizia ad elaborare il suo sistema dualistico. Si proclama cristiano, ma erede di un insegnamento segreto di Gesù, giunto a lui - sostiene - attraverso Paolo e il suo discepolo Teoda. Verso il 140 è a Roma, dove fonda una Scuola. Il suo insegnamento riscuote un tale suc­cesso da farlo ritenere un possibile candidato al soglio di Pietro, ‘speraverat episcopatum’, dice Tertulliano (Adv. Val. 4, 1). Ma gli viene preferito Pio, elet­to Papa nel 143. L’evento segnò la rottura con la co­munità cristiana, e la scelta scismatica ne fu la logica conseguenza.

Gli insegnamenti del Maestro
L’attività di Valentino nel mon­do romano durò ancora un ventennio, sino all’episcopato di Aniceto (154-165 d.C.). Poi probabilmente ritornò in Egitto, oppure secondo altri si diresse verso Cipro dove avrebbe aperto un’altra Scuola. Dei suoi inse­gnamenti sono sopravvissuti un nugolo di frammenti, le notizie eresiologiche e il Vangelo di Verità, un significativo scritto ritrovato a Nag Hammadi nelle sabbie del deserto egiziano. Il Vangelo di Verità concorda con il sistema va­lentiniano confutato da Ireneo. Un’attenta lettura rivela - adombrato da uno stile sofisti­cato e allusivo - il mito fondante del credo valentiniano: l’“ignoranza” (agnoia), inconscia, ha generato l’“errore” (planē). Queste parole si legano alla trasgressione di Sophia e all’origine di una generazione irregolare, la nascita del di lei figlio abortivo Yahweh, il Dio dell’Antico Testamento, il Demiurgo responsabile dell’“oblio” (in greco lēthē, in copto ebše) in cui vive Adamo. Il Demiurgo ha agito sulla materia in modo folle, sconsiderato, senza conoscere il vero: l’esito è una cre­azione di una bellezza fittizia, l’equiva­lente deficitario della Verità, una realtà illusoria. Il tema del Demiurgo omicida e ignorante è ben noto in testi gnostici quali l’Apokryphon Johannis (Alessandria, ca. 120 d.C.), dove Yahweh è chiamato Ialdabaōth, “Padre del Caos”, oppure Saklas, dall’aramaico Sakla, “folle, paz­zo”: il Demiurgo ignora il mondo della luce, non sa che c’è un Dio oltre dio. Il primo frammento attribuito a Va­lentino, e tramandato da Clemente Ales­sandrino, parla degli Angeli atterriti dopo aver plasmato il corpo di Adamo. Spaven­tati nel comprendere come quella creazione nasconda un seme spirituale. Una scintilla divina, quindi, rivelava come nel mondo superiore preesi­steva un Anthrōpos, un Uomo di Luce. Ovviamente questi Angeli ignoravano l’e­sistenza di un Dio oltre dio. Uno di loro, infatti, era il creatore di quest’Uni­verso, un Angelo, come sostenevano Simon Mago, Carpocrate e i Valentiniani. Questi ultimi fecero della distinzione fra il Demiurgo e il vero Dio, il fondamento della loro dottrina. Valentino stesso inse­gnava come la “pazzia” (mōria) fosse la potenza del Demiurgo, poiché egli era un dio “folle” (mōros). Con un gioco di parole tra il nome aramaico del Demiurgo e la sua dissennata essenza, Valentino ha probabilmente mediato un’arcaica tradizione sapienziale alessan­drina che speculava sulla natura folle del creatore di questo mondo. Il Vangelo di Verità è ben più radicale, spinge alle estreme conseguenze il nichilismo gnostico: il Demiurgo combat­teva Gesù. L’“errore” - cioè Yahweh - gli era ostile, lo perseguitò e lo seviziò, umiliandolo in ogni modo e con ogni mezzo. Così Gesù fu inchiodato alla cro­ce, si trasformò nel frutto della Gnōsis del Padre. La croce diventò un albero, un arbusto veritiero il cui frutto non è letale - com’era invece, in Paradiso, il frutto dell’albero della conoscenza - ma divenne fonte di appagamento e gio­ia. Chi ha scritto questi versi aveva in mente l’epistolario paolino e il “miste­ro” che esso racchiudeva. I dominatori di questo mondo, i “Princìpi di questo eone” (Archontes tou aiōnos), nulla sanno della Sapienza divina, la Sophia è nascosta ai loro occhi. “Se l’a­vessero conosciuta non avrebbero crocefisso il Signore della Gloria che ne è l’incarna­zione”, dice l’apostolo Paolo (I Cor. 2, 8). Ma l’autore del Vangelo di Verità va oltre: l’“errore” è cattivo e uccide Gesù. In perfetta sintonia con quanto dice il quarto frammento attribuito a Valentino: “l’origine della morte è opera del creatore del mondo” (Clem. Alex. Strom. 4, 89, 1-4). Ma gli gnostici vogliono annientare la morte: per un tempo limitato si uni­scono ad essa, ne accettano le leggi legandosi al mondo della materia, sicuri della liberazione e del ritorno alla pura realtà luminosa da cui provengono. Così Valentino interpreta il passo di Esodo 32, 20, nel quale è scritto: “Nessuno contemplerà il volto di Dio e vivrà”. Ma questo dio è un altro dio, è il dio responsabile della morte. Matrimoni di luce Secondo Clemente Alessandrino (Strom. 3, 1, 1), Valentino e i suoi seguaci rite­nevano il “congiungimento” (syzygia) tra uomo e donna immagine dell’unione mistica conseguita dalle “emanazioni divine” (theiai probolai) del plērōma, il mondo in cui albergano la perfezio­ne e la pienezza originarie. Per tale ragione giudicavano in modo estre­mamente positivo il matrimonio. Secondo gli gnostici, sia il plērōma, la “pienezza” originaria, sia il mondo visibile sgorgarono da Dio, l’uno direttamente, l’altro a causa di un “errore”. Il mito valentiniano riproduce l’ambiguità dell’esistenza: luce e cosmo provengono da Dio, ma la luce è esiliata nel mondo. L’origine del processo teogonico si configura, quindi, nei modi di un’epifania luminosa in cui la vita nascosta nel divino esce dalla sua segretezza per dispiegarsi come una “sorgente di acqua luminosa”, come direbbe l’Apokryphon Johannis. L’idea non è specificamente gnostica, ma è parte di un sentire neo­platonico nel quale il primo principio si trova al centro di un processo d’emanazione luminosa da cui origi­nano la creazione del mondo luminoso e la purificazione del mondo inferiore. Valentino aggiunge a questo sfondo neoplatonico un qualcosa di nuovo, e di religiosamente egizio: dal pianto di Iside nasce il fiume Nilo, l’“Uomo” (in copto, rome) è una “lacrima” (rime) del divino Ra (= il Sole). Quest’immagi­ne è ripresa dal mondo misterico: nel rituale d’iniziazione ai segreti di Aiōn, contenuto nel Papiro Magico di Leida J 395, meglio noto come “Cosmolo­gia dell’Ottavo Libro di Mosè” o “Co­smogonia di Leida”, si prospetta uno scenario affine. Psychē, l’Anima, nasce dalla risata e dal dolore di Dio: “Quando Dio rise per la settima volta, Psychē venne all’esistenza, ed egli [Dio] proruppe in una fragorosa risata colma di lacrime (kanchazōn edakryse)” (PGM XIII, 192-193). L’Universo di Valentino è sofferenza mista a gioia, il sorriso e una lacrima della Sapienza: dal pianto di Sophia “è nata l’intera sostanza umida, dal suo riso quella luminosa, dal dolore e dall’afflizione le parti corporee del mondo”. Ma Sophia è al centro del mito va­lentiniano trasmesso da Ireneo (Adv. haer. 1, 11, 1), un mito sconcertante e complesso. Si tratta della parte più esoterica dell’insegnamento di Valen­tino. Esso è riservato a quella stretta cerchia di adepti che hanno già assi­milato i fondamenti della dottrina e sono ormai pronti a ricevere la rivelazione.

Il mito di Sophia
Tale rivelazione riguarda il mondo superiore, il plērōma, la pienezza. Al culmine del plērōma c’è una diade, cop­pia di “eoni” i cui due poli sono l’inesprimibile “Abisso” (Bythos) e il “Silenzio” (Sigē). Essi formano una coppia an­drogina, maschile-femminile, una syzygia. Questo è il punto da cui sorge il tutto, il germe fondante l’intera realtà: da qui emana una seconda syzygia, sempre scissa in un eone femmi­nile e in uno maschile, e così via. L’ultimo di questi “eoni” è donna. Si chiama Sophia, e la sua presenza segna il mo­mento di crisi del plērōma. Sophia si sottrae all’abbraccio del proprio compagno, presa com’è da una violenta pas­sione di conoscere l’incono­scibile, di afferrare il Padre ineffabile. Ella sconvolge in tal modo la perfezione statica che contraddistingue il plērōma. È una “colpa antecedente”, un gesto di fol­le tracotanza, l’antica hybris, che per essere contenuto necessita dell’in­tervento di un nuovo eone, il “Limite” (Horos), il custode dell’ordine del plērōma. È lui a ricondurre Sophia al proprio posto. Ma il desiderio che ella ha con­cepito non scompare, si concretizza in qualcosa di abortivo che precipita verso il basso. Nel desiderio e nella “passione” d’af­ferrare l’inconoscibile “centro”, Sophia produce una lacerazione tra mondo superiore, il plērōma, e mondo inferiore, il kenōma, il “vuoto”, il nostro Universo. È l’origine di una generazione irre­golare da cui sorge il Demiurgo inferiore, un essere abnorme, ignaro che al di sopra di lui c’è il plērōma e superbo nella sua fittizia unicità. Egli crea gli Arconti, demoni planetari con l’aiuto dei quali plasma il mondo e l’Uomo. Ma l’Uomo riceve, all’insaputa del Demiurgo inferiore ed omicida, una “scintilla” luminosa della vera divinità. Nata dal desiderio, la creazione si evol­ve all’insegna dell’imperfezione e del disordine. In essa l’anima è in­trappolata. Tuttavia, l’inarrestabile moto conoscitivo che ha provocato la ribellione di Sophia resta come un segno indelebile impressa nell’ani­ma, una traccia incancellabile: tale desiderio di conoscere, una sete di gnōsis, sarà il primo passo del lungo cammi­no verso la libertà e il ritorno alla patria celeste. Il mito di Sophia è il mito gnostico per eccellenza. Esso fu ripreso, studiato e analizzato nelle Scuole di Valentino dove, nel tempo, si arricchì di nume­rose aggiunte e varianti.

Prigioni cosmiche
Nelle sue parti “psichica” e “carna­le”, l’Uomo è in balia del Demiurgo e degli Arconti, intrappolato nella prigione del Destino, la Heimarmenē. Solo l’intervento di un Sōtēr, un Salvatore che è al medesimo tempo rivelatore di “conoscenza” - cioè di gnōsis - può porre rimedio a tale ingiuria. La gnosi, così rivelata, consiste nella comprensione ultima del “senso” da attribuire all’esi­stenza, e interpreta il mondo nella propria “vacuità”: l’unica realtà è la scintilla divina proveniente dal mondo della luce, il resto è solo un’illusione fabbricata dal Demiurgo e dagli Arconti. Il Salvatore è Cristo-Gesù recepito secondo una logica “docetica”, cioè è un fantasma, dal greco dokein, “ap­parire”. L’apparizione di Gesù è fittizia, è un ologramma proiettato in una realtà tridimensionale. Un modo, condiviso dalla maggior parte degli autori gnostici, di comprendere la per­sona di Cristo, cui viene negato ogni attributo umano: Cristo è un “Eone” divino sceso in una persona umana che funge da “contenitore”, redime l’Uomo rendendolo cosciente della propria origine divina e insegnan­dogli la via attraverso la quale potrà sfuggire alla tirannia degli Arconti e ritrovare il vero Dio, lo sconosciuto abitatore del plērōma. La gnosi non è una conoscenza derivante da questo mondo, il suo raggiungimento implica una trasformazione che non è intellettuale. L’uomo vive nell’inco­scienza, in un sonno cosmico, reso ubriaco delle potenze creatrici del mondo: se l’atto noetico della “gno­si” non sarà accompagnato da un esercizio e un’esperienza concreti - indispensabili per conseguire la “se­parazione” dalla presente modalità di esistenza - verrà a mancare ogni presupposto per giungere ad una Vita consapevole e cosciente.

Realtà della conoscenza
La riscoperta della vera dimensione spiri­tuale nello Gnosticismo coincide quindi con la “conoscenza” accurata delle facoltà noe­tiche in cui si esteriorizza il nostro pensiero. Un movimento conoscitivo che dal “silenzio” dell’Uno porta all’“abisso” della molteplicità. È il dispiegarsi del mythos, una realtà vissuta in un tempo delle origini - fuori e prima del tempo - al di là di ogni possibile datazione. Poiché rievoca le origini delle forze primordiali e divine, il racconto mitico è sentito come unico, veritiero “luogo” e “tempo” in cui è sorto l’Universo. La Sophia gnostica, la “Sapienza” de­caduta, implica la nozione di un ritorno ad una situazione originaria d’integrità, di non commistione, di unità. Il ritorno del molteplice all’Uno. Tale prospettiva è estendibile dalle Upaniṣad al Ta­oismo. Quando questa molteplicità è vista come illusoria, e viene considerata come deviazione e caduta e quindi in stato di opposizione negativa e antagonistica rispetto all’unità, quando l’ātman umano e individuale è visto come parte del grande Ātman e identico al Brahman, e quando si ritiene che la salvezza coincide con l’aver coscienza di tutto questo, allora si è in una condizione mentale che presuppone un’apertura verso i conseguimenti offerti dalla “gnosi”. Ciò che manca però nelle Upaniṣad è un accentuato dualismo, caratteristica che segna invece profondamente lo Gnosticismo ellenistico e tardoantico. Nelle Upaniṣad il mondo e l’esistenza corporea appartengono sì alla “morte” (mṛtyu), cioè ad una modalità di esistenza inautentica, di non-essere, ma al contrario della classica visione gnostico-dualistica, non sono dominati tirannicamente da un essere malvagio, da un Demiurgo omicida e ignorante che crea ed estende la sua signoria sul cosmo e sul divenire.

Un’antica biblioteca
Grazie alla scoperta nel 1945 dei testi copti della biblioteca di Nag Hammadi, gli studi sulle origini dello Gnosticismo hanno avuto una svolta decisiva. I nuovi testi hanno mostrato che gli apologisti cristiani conoscevano direttamente le fonti gnostiche. I trattati di Nag Hammadi rivelano la grande varietà di dottrine riscontrabili nel generale movimento gnostico, e l’intreccio assai complicato cui esse davano luogo all’interno delle singole cerchie o correnti, con apporti da Scuole anche lontane (ermetismo, giudaismo, iranismo). Su questo si è aperto un ampio dibattito sulle possibili “origini” del fenomeno gnostico, luogo di incontro di molteplici culture e religiosità del tempo. Quella degli gnostici è una ribellione metafisica, una critica violenta contro il cosmo e chi lo governa, una discendenza illegittima regge il mondo e dev’essere in qualche modo rivelata e combattuta. Tutta la storia della filosofia moderna è travagliata nel profondo dall’impostura, una tremenda verità: nei secoli pensatori e filosofi si sono rifatti allo gnosticismo per contestare la società e l’ordine che mal tolleravano. Anche Adorno, il guru della Scuola di Francoforte, vedeva di buon occhio il dualismo gnostico: in una lettera egli tentò di convincere l’amico Hans Jonas, profondo conoscitore di arcani gnostici, a tenere una conferenza sullo gnostico Marcione (lettera del 12 ottobre 1959). Per Adorno la negatività del dio creatore, il Demiurgo, è un tutt’uno con la negatività della società capitalistica. La ribellione contro la società autoritaria e disciplinare, è la ribellione contro gli Arconti facitori del mondo. L’alienazione è, pertanto, merce antica, e data sin dalla fondazione della realtà.


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