Ipotesi e congetture sulla Sindone “fabbricata”
Il ritrovamento del medaglione di piombo nei pressi del Pont des Changes costituisce un punto fermo nella ricostruzione delle tappe del tragitto sindonico da Costantinopoli all’Occidente. Come illustrato nel precedente paragrafo, la lastra fornisce la dimostrazione probatoria dell’appartenenza della Sindone alla coppia degli Charny nell’arco temporale compreso tra il 1350 ed il 1356 che corrisponde precisamente alla durata del matrimonio tra Goffredo I di Charny e Jeanne de Vergy.
Il medaglione, con ogni probabilità un souvenir portato con sé e poi smarrito da qualche pellegrino reduce da Lirey, contribuisce a certificare la localizzazione francese della Sindone alla metà del Trecento confermando l’attendibilità delle testimonianze documentali che ne registrano la presenza presso la collegiata di Lirey, feudo dei Vergy e piccolo centro della Champagne a poca distanza dalla città di Troyes.
Il fatto che il lenzuolo funebre sia ricomparso a Lirey attorno al 1350 destituisce completamente di fondamento la tesi di chi, reputando la Sindone un falso medievale, ne identifica l’autore in Leonardo da Vinci, alimentando con il carburante della fantasia le illazioni e le congetture del filone romanzesco reso popolare dalla penna controversa di Dan Brown.
La Soprintendente ai Beni Artistici e Storici del Piemonte, Noemi Gabrielli, nel 1976 rinfoltì con la sua presa di posizione la schiera degli scettici dichiarando che la sagoma impressa sulla superficie del telo sindonico non sarebbe altro che una pittura eseguita tra l’ultimo scorcio del Quattrocento e gli albori del Cinquecento e asserendo che la tecnica applicata per delineare la figura corrisponderebbe a quella dello sfumato leonardesco.
L’ipotesi che riconduce la Sindone al talento artistico di un falsario medievale e, precisamente, alla poliedrica personalità di Leonardo è stata rielaborata in forma letteraria da Lynn Picknett e Clive Prince.
I due investigatori del mistero fanno risalire l’iniziativa a papa Innocenzo VIII, autore della bolla Summis Desiderantes contro la stregoneria, precisando che il pontefice avrebbe commissionato nel 1492 a Leonardo la realizzazione di una copia conforme della Sindone che sarebbe poi stata sostituita all’originale disperso o irrimediabilmente danneggiato a causa dell’incendio che colpì la cattedrale di Santo Stefano a Besançon nel 1349.
Altri congetturano, invece, che la sostituzione della copia leonardesca all’originale sarebbe stata architettata dopo che le fiamme divamparono all’interno della cappella ducale di Chambery, nella notte tra il 2 ed il 3 dicembre del 1532, intaccando in modo irreparabile il telo.
In effetti, l’incendio lambì la cassa reliquiario contenente la Sindone causando la fusione del materiale di rivestimento che, colando sul lenzuolo, provocò danni certamente estesi ma non di entità tale da impedirne la riparazione. Infatti, gli strappi determinati dalle bruciature furono prontamente ricuciti dall’opera riparatrice delle Clarisse di Chambery incaricate dal Duca.
L’ipotesi della sostituzione, indipendentemente dalla collocazione cronologica dopo l’incendio di Besançon o quello di Chambery, si fonda naturalmente sul presupposto che il telo sia stato distrutto dalle fiamme mentre la tesi che responsabilizza Innocenzo VIII, additandolo quale committente della Sindone falsificata da Leonardo, trova la propria ratio giustificatrice nell’idea che il Papa intendesse rinsaldare la fede cristiana,
compromessa dall’effetto destabilizzante delle pratiche magiche contro cui era indirizzata la Summis Desiderantes e dall’opera diabolica della predicazione ereticale, attraverso la valorizzazione delle reliquie promossa anche a costo di immettere sul mercato falsi clamorosi come quello sindonico.
La tesi dei due autori trova curiosa eco nelle accuse lanciate da Calvino, dalla sua sede ginevrina, all’indirizzo di Carlo III di Savoia detto il Buono, padre di Testa d’Fer, il quale avrebbe architettato una spregiudicata macchinazione per sostituire la Sindone, incenerita dalle fiamme che avvolsero la cappella ducale di Chambery nel dicembre 1532, con una copia fatta eseguire su commissione e talmente fedele all’originale da risultare inattaccabile anche dai più attenti osservatori.
Il Duca avrebbe escogitato questo escamotage per evitare che l’incendio privasse la dinastia, già indebolita dalla crisi istituzionale che attanagliava il Piemonte e dalle mire espansionistiche francesi, della forma di prestigio assicurata dal possesso e dall’esibizione della Sindone, a maggior ragione in un periodo storico nel quale i principati occidentali si mostravano particolarmente sensibili alla fascinazione del concetto di reliquia santificata dal contatto con Cristo o con i Santi.
L’accusa, completamente destituita di fondamento e, oltretutto, incoerente con il temperamento mite e trasparente di Carlo il Buono, incapace di tessere trame e ordire macchinazioni al solo scopo di trarre in inganno con trucchi da falsario i principi occidentali e l’intera Cristianità, era stata abbozzata da Calvino nel contesto delle lotte religiose cinquecentesche che vedevano i movimenti protestanti contrapporsi a quella forme di religiosità emotiva, alimentate dal culto delle reliquie, che sconfinavano nel terreno della superstizione configurandosi come pratiche equipollenti, quanto ad effetti, all’atteggiamento idolatrico di matrice pagana.
Onorare e riverire una reliquia, credendo che da essa promanassero effetti taumaturgici e apotropaici, implicava il rischio della riemersione di riti paganeggianti inconciliabili con la Fede razionale, depurata dagli orpelli emotivi e dalla “creduloneria” popolare, di cui si facevano portatori i calvinisti.
L’anelito di razionalizzazione della Fede, evidente nelle venature iconoclaste e cromoclaste di cui era intrisa la predicazione protestante e che conformava l’atteggiarsi esteriore dei riformati persino nella maniera di abbigliarsi che prediligeva le tinte scure evocanti l’umiltà e la morigeratezza nei costumi, non è estraneo anche ad una certa cultura cattolica che tentò, influenzata dall’egemonia positivistica di fine Ottocento, di attaccare la credenza nell’autenticità della Sindone attraverso gli scritti polemici del canonico Charles Lalore poi ripresi da Ulysse Chevalier.
I prelati basavano in larga misura le proprie argomentazioni critiche sull’interpretazione tendenziosa del memorandum redatto dal vescovo di Troyes Pierre d’Arcis che rendeva conto della controversia che oppose nella seconda metà del Trecento i canonici di Lirey, depositari della Sindone per conto di Goffredo II di Charny, allo scetticismo apertamente manifestato dal predecessore di Pierre d’Arcis sullo scranno episcopale della città francese, Henry de Poitiers, in merito alla vexata quaestio dell’autenticità sindonica.
La presa di posizione del vescovo, dettata più da contrasti interni all’organizzazione ecclesiastica e da attriti di natura finanziaria che non dal rispettabile desiderio di servire la verità, si fondava sui risultati della commissione d’inchiesta che sarebbe stata istituita da Henry de Poitiers con il proposito di fugare qualsiasi dubbio attorno all’autenticità della Sindone di Lirey.
La tesi del vescovo, contrario all’identificazione della Sindone di Lirey con il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo, poggiava sia sulla discutibile constatazione che l’impronta gloriosa di Gesù non potesse essere appena accennata come invece apparve agli occhi degli emissari del presule, che esaminarono superficialmente il telo sindonico, sia sulla confessione del misterioso artista che ammise di fronte alla commissione di averla falsificata.
Il punto è che il vescovo non visionò mai di persona la Sindone di Lirey, basò il proprio giudizio su semplici illazioni e, inoltre, non è stato rintracciato alcun documento prodotto dalla commissione che abbia registrato la confessione del falsario, senza tenere conto dei dissidi e dell’accesa conflittualità tra canonici di Lirey e curia episcopale, che compromettono la credibilità dei vescovi di Troyes, ingelositi dal continuo afflusso di pellegrini che accorrevano in massa a Lirey.
Il falso leonardesco, le visioni mistiche e l’ossuario di Giacomo
Tornando alla tesi leonardesca, occorre premettere che la sua attendibilità è irrimediabilmente incrinata dall’analisi cronologica dei fatti e, precisamente, dal raffronto tra la data di conio del medaglione in piombo restituito dalle acque della Senna, che attesta la localizzazione della Sindone torinese a Lirey tra il 1350 ed il 1356, e la data di nascita di Leonardo. Il fortuito ritrovamento rafforza la tesi favorevole all’identificazione della Sindone torinese con la reliquia esposta a Lirey a partire dal 1353 rendendo nel contempo del tutto inverosimile l’ipotesi che riconduce l’opera di falsificazione a Leonardo che vide la luce a Vinci nel 1452, cioè circa un centinaio d’anni più tardi rispetto ai fatti considerati.
L’incoerenza delle date è un fattore determinante nel destituire di fondamento la tesi del falso leonardesco ma concorrono a rafforzare il quadro probatorio anche altre tracce materiali, cioè dati di carattere fisico-chimico, raccolte grazie all’applicazione delle moderne metodologie scientifiche all’analisi del telo sindonico. La Sindone non può essere una pittura perché la figura martoriata che vi compare non mostra contorni e i segni che la compongono non sono direzionali come nella realizzazioni pittoriche.
Questa considerazione potrebbe avvalorare la tesi della Gabrielli che propende per lo sfumato leonardesco come tecnica esecutiva messa in atto dal falsario, il che spiegherebbe l’assenza dei contorni, ma dall’esame della Sindone non sono emerse tracce di colore in misura sufficiente da essere percepite dall’occhio umano, fatta eccezione per il superficiale ingiallimento dei fili che compongono il tessuto.
Contro la tesi che attribuisce alla Sindone i caratteri di una pittura è decisiva una considerazione di ordine anatomico: l’immagine sindonica mostra una riproduzione fedele e perfetta della conformazione della muscolatura facciale dalla quale dipende la motilità dell’espressione umana e l’aspetto fisiognomico.
Ebbene, le classificazione scientifica dei muscoli che disegnano i nostri lineamenti e che determinano le espressioni del volto è stata definita in tempi ben più recenti rispetto a quelli in cui operò il presunto falsario medievale, risalendo al Cinque-Seicento e anche oltre. Per vincere le obiezioni dei detrattori della tesi leonardesca, Picknett e Clive elaborarono una contro-replica, ai limiti dell’epopea fantascientifica, che tra l’altro teneva conto della fondamentale scoperta del fotografo piemontese Secondo Pia, il quale nel 1898 accertò con stupore che l’immagine fissata sul telo presenta la natura di un negativo fotografico, come se una fonte misteriosa di energia interiore sia esplosa
determinando la fissazione della sagoma sulla Sindone attraverso l’interazione con altri componenti chimici e secrezioni corporee delle quali si è rinvenuta traccia, quali il sangue che era stato intossicato dall’urea a causa dei colpi della flagellazione che fransero le reni di Gesù impedendo loro di funzionare correttamente e di filtrare.
La coppia, sfruttando per i propri fini la fama della genialità leonardesca, inventò la tesi che tratteggia Leonardo come un falsario precursore delle moderne tecniche fotografiche il quale, chiuso nella sua camera oscura ante-litteram e avvalendosi di sostanze quali albume d’uovo e sale di cromo, ricrea sul telo le caratteristiche tipiche del negativo fotografico traendo in inganno gli studiosi contemporanei.
Le ricerche condotte sul telo hanno rinvenuto tracce riconducibili a due cause scatenanti diverse: le macchie di sangue cadaverico, arterioso e venoso, che si formarono prima che comparisse la sagoma corporea, quando il cadavere deposto fu avvolto nel telo, e l’impronta umana che non presenta tracce di colore di entità tale da impressionare l’occhio e la cui produzione non è derivata dal contatto del corpo con la sindone monda.
Infatti, la figura umana appare come l’esito determinato da una irradiazione di energia di tale potenza da fissare l’immagine di Cristo sul telo. I credenti la identificano con l’esplosione di energia irraggiatasi in occasione della Resurrezione. La mistica Maria Valtorta, registrando la natura delle sue visioni nel memoriale “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, messo all’indice dal Sant’Uffizio nel 1950, fornì alcuni dettagli che potrebbero essere illuminanti circa il procedimento di formazione dell’immagine.
Cristo, constatando il crescente condizionamento esercitato dal sapere scientifico sulla saldezza della Fede, avrebbe rivelato alla Valtorta come sia stata proprio l’intossicazione uremica, determinata dalla compromissione dei reni impossibilitati a filtrare il sangue dopo i colpi della flagellazione, a fornire il reagente chimico che, in concomitanza con l’esplosione di energia della Resurrezione, avrebbe contribuito a delineare e fissare l’immagine sul telo. La visione troverebbe conferma, secondo Baima Bollone, nelle recenti analisi che hanno rinvenuto tracce di intossicazione nel sangue.
L’interesse per l’autenticità della Sindone non si limita alla raccolta di tracce materiali e funzionali ma si estende anche alla valutazione della corrispondenza delle informazioni rilevate con la testimonianza dei Vangeli sinottici e dei testi apocrifi.
Nel 2002 causò clamore la notizia che rendeva di pubblico dominio l’esistenza di un ossuario in calcare, databile al periodo della prima occupazione romana della Giudea, tra il 20 a C. (conquista di Pomepo) ed il 70 d.C., sulla cui faccia esterna era riportata una scritta, incisa con un puntello acuminato, che recitava “Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù”. Il pezzo apparteneva alla collezione privata di un ingegnere israeliano che ne sosteneva l’autenticità lasciando presagire risvolti traumatici che avrebbero potuto confermare la credibilità di certe dicerie mai comprovate, alle quali ha però ampiamente attinto il filone romanzesco che propone continuamente rivisitazioni dei Vangeli, che attribuiscono a Gesù un fratello di nome Giacomo.
Dalla lettura delle fonti emergono almeno due discepoli che portavano questo nome: il primo era fratello minore di Giovanni, figlio di Zebedeo, mentre il secondo sembra identificabile con il Giacomo d’Alfeo proclamato primo vescovo della comunità cristiana di Gerusalemme. Questi, cadendo vittima del clima discriminatorio anti-cristiano creatosi negli anni successivi alla morte del Messia, fu martirizzato nel 62 d.C., come narra Flavio, venendo gettato dalla sommità del Tempio e lapidato.
Occorre precisare che l’uso dell’ossuario, cioè di casse di calcare adoperate come raccoglitori di ossa, era conforme ai costumi funerari praticati dai Giudei in ossequio alle norme prescrittive del Deutoronomio e dei trattati disciplinanti le modalità di sepoltura che non furono mai contaminate dal contatto con la cultura romana.
Tali regole imponevano che il cadavere fosse deposto all’interno di loculi, realizzati all’interno di camere sepolcrali ricavate nella roccia, sino a che non si fosse completato il procedimento di colliquazione, ovverosia di degradazione delle parti molli. Terminato il processo, allo scopo di far posto ad altri morti, il loculo veniva liberato dalle ossa che venivano riposte all’interno di teche calcaree dette ossuari dopo essere state intinte in impiastri di oli profumati e colorati.
Appurata la corrispondenza dell’ossuario in questione alle usanze funerarie ebraiche del I secolo, occorre accertare l’autenticità della scritta che sembrerebbe identificare le ossa con i resti mortali di un tale Giacomo, presunto fratello di Gesù. L’ossuario è vuoto, quindi è impossibile praticare l’esame del DNA ai frammenti ossei.
Nel 2004 una commissione governativa israeliana fu incaricata di accertare la datazione dell’ossuario e di verificare l’autenticità della scritta. Gli esperti conclusero che l’ossuario risale effettivamente al I secolo d.C. mentre l’epigrafe formulata in aramaico, senza spazi tra una parola e l’altra, è stata aggiunta in un secondo tempo da un falsario che l’avrebbe riprodotta, antichizzandola tramite l’applicazione di una mistura di acqua e polvere che ricreasse la patina e attribuisse una parvenza di autenticità alla scritta.
Aldilà dell’esito delle analisi che hanno sconfessato l’ardita tesi del raccoglitore di antichità, i nomi Giuseppe, Gesù e Giacomo appaiono come i più diffusi nella Palestina del I secolo d.C., quindi è comunque probabile che sia esistito nel primo secolo dell’era cristiana un certo numero di persone rispondenti alla situazione parentale descritta sull’ossuario.
I risultati della ricerca scientifica: la polinologia e le monete di Pilato
Che la Sindone sia stata trasportata dall’Oriente in Occidente è comprovato dalle indagini del criminalista svizzero Max Frei il quale, negli anni Settanta, applicò la tecnica dello stripping al telo sindonico al fine di isolare le tipologie di pollini, cioè di frammenti vegetali riconducibili a determinate specie botaniche, rimaste intrappolate tra le maglie del tessuto.
L’esperimento si fondava sul presupposto che certe tipologie di pollini appartengono a specie botaniche diffuse soltanto in determinate aree del pianeta acquisendo il valore probatorio espresso dal termine tecnico di “indice botanico”. Laddove, inoltre, il polline sia stato prodotto da una specie localizzata esclusivamente entro i limiti territoriali di una regione circoscritta e non se ne trovi traccia alcuna aldilà dei suoi confini, tale dato è ricondotto alla categoria degli “indici botanici a distribuzione limitata”.
Dall’analisi sono stati individuati 58 tipi di polline, tra i quali ben 45 appartengono a specie botaniche che crescono, in questa particolare combinazione, soltanto nell’area circostante Gerusalemme. Due tipologie si riferiscono a piante tipiche delle steppe anatoliche dove sorge Edessa e una alla regione di Costantinopoli.
L’accuratezza del metodo di ricostruzione del tragitto sindonico tramite la rilevazione delle tipologie di pollini e l’identificazione delle specie botaniche diffuse nelle aree geografiche lambite dalla Sindone è comprovata dal fatto che sul telo sono state rinvenute tracce di pollini tipici del Piemonte risicolo, il che rappresenta l’orma botanica lasciata dalle ostensioni sindoniche che si tennero sul ponte levatoio del castello di Vercelli tra Quattrocento e Cinquecento.
E’ come se i pollini avessero impresso sul telo sindonico il tracciato percorso dalla Sindone durante le sue peregrinazioni. Anche la maggiore concentrazione quantitativa di pollini orientali rispetto a quelli occidentali riflette la vicenda storica della Sindone, rispecchiando la prassi invalsa in Oriente di esporre la reliquia alla venerazione dei fedeli, e dunque all’aria aperta, con frequenza ben superiore rispetto a quanto avveniva in Occidente, dove si scelse di tenere il lenzuolo riparato all’interno di teche e cassette reliquiario, esibendolo soltanto in circostanze particolari.
Le analisi hanno anche accertato la presenza di tracce funzionali che richiamano la forma di foglie e piante tipiche dell’area di Gerusalemme: non si tratta in questo caso di dati fisici o biologici ma di impronte lasciate da oggetti venuti a contatto con la Sindone che perpetuano la memoria di antiche ritualità funerarie correlate all’uso di foglie e fiori posati sul cadavere.
Altro risvolto dell’indagine sindonica è legato all’impronta delle monete romane che si delineerebbe in corrispondenza della palpebra destra e dell’arcata sopraccigliare sinistra. L’apposizione di monete sugli occhi del defunto è una pratica assai diffusa nelle culture pagane di matrice greca e latina perché connessa alla credenza che si dovesse attrezzare lo spirito del morto per la traversata dal mondo terreno al regno delle anime, dotandolo anche di una somma di denaro sufficiente a pagare il traghettatore Caronte incaricato di trasportare le anime aldilà dello Stige,
il fiume che separa il mondo dei vivi dagli inferi. La matrice greco-romana della pratica fa ritenere che sia stata introdotta in Giudea in età ellenistica e, soprattutto, a seguito della romanizzazione del territorio dopo la conquista di Pompeo. Il gesuita Francis Filas nel 1979 analizzò la forma e le figure impresse sulla prima delle monete scoperte, quella posata sull’occhio destro, identificandola con lo spicciolo maggiormente diffuso nella Giudea del tempo di Gesù, detto popolarmente leptòn, fatto coniare dal governatore Pilato.
Questi vi fece apporre l’immagine del lituo, il bastone usato dagli auguri, presumibilmente con intenti dileggiatori nei confronti dei Giudei costretti a maneggiare monete che riportavano segni grafici “impuri” in quanto tratti dalla simbologia pagana.
La moneta mostra anche la scritta “Anno 16 di Tiberio” che consente di datarla con precisione facendone risalire il conio al sedicesimo anno dall’ascesa di Tiberio al trono imperiale. Dato che Tiberio approdò al titolo di imperatore nel 14 è verosimile ritenere che la moneta sia stata coniata nel 29 o 30 d.C.. il che è del tutto coerente con la datazione della morte di Cristo.
L’identificazione dell’altra moneta, quella apposta secondo l’uso in corrispondenza dell’occhio sinistro, compete al merito di una commissione di studiosi torinesi che nel 1996 ne hanno fatto risalire la datazione al tempo di Pilato precisando nel contempo che si tratta di una tipologia diversa di leptòs. Infatti, la faccia visibile della moneta riporta la sagoma del simpulum, il recipiente adoperato nei sacrifici per versare il vino sull’ara.
Il nodo problematico sollevato dalla presenza delle monetine è determinato dalla constatazione che tale prassi risponde ad usanze romane che non furono mai adottate dai Giudei se non in casi estremamente circoscritti e motivati da particolari legami di parentela o dalla posizione di potere del defunto, legato a Roma.
Ciò premesso, è stato quindi ipotizzato che le impronte lasciate dalle monete attestino l’intervento di mani romane nelle cerimonie funebri che seguirono la morte di Gesù. E’ plausibile pensare a qualche soldato romano che, colpito dal carisma di Cristo e dalla sua predicazione, abbia inteso onorarne la memoria alla moda latina.
Le prove dell’autenticità della Sindone sono state raccolte grazie all’applicazione delle più moderne acquisizioni scientifiche e tecnologiche ma il bisogno di cercare continuamente riscontri non è proprio soltanto della nostra epoca. Le cronache riportano, infatti, di un episodio che non potrebbe essere interpretato correttamente se non ci si calasse nella mentalità del primo Cinquecento, ancora profondamente intrisa di superstizioni paganeggianti.
Era il maggio del 1502 quando la Sindone, esposta a Bourg-en-Bresse alla presenza di Filiberto II detto il Bello duca di Savoia e di altri notabili piemontesi e stranieri, fu sottoposta ad una prova di autenticazione che presentava i caratteri dell’ordalia cioè del giudizio divino di barbarica memoria. La mente di alcuni partecipanti, obnubilata dai fumi dell’alcool e dagli eccessi culinari, concepì un disegno che avrebbe potuto danneggiare seriamente la Sindone. Proposero di risolvere l’annosa questione relativa all’autenticità del lenzuolo affidando il responso all’esito di un esperimento pratico che avrebbe dovuto rivelare la volontà divina.
Si decise di sottoporre il telo sindonico ad una serie di prove di resistenza. Se l’immagine non avesse subito alterazioni e non fosse né scolorita né sbiadita, allora si sarebbe letto in quel risultato il responso di Dio che rivelava all’uomo l’autenticità della Sindone. In caso contrario, si sarebbe dovuto desumere che si trattava di una pittura.
La Sindone fu immersa all’interno di un pentolone ricolmo d’acqua e fatta bollire. Non soddisfatti della severità della prova, fu trasferita in un altro recipiente riempito con olio bollente. Al termine della procedura la si prelevò lasciandola asciugare al sole. L’immagine resistette e la Sindone superò la prova ma l’esperimento, condotto con criteri tutt’altro che scientifici, rischiò di danneggiare in modo permanente il telo sindonico.
Ultima modifica di barionu il 03/05/2010, 13:36, modificato 1 volta in totale.
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