21/01/2011, 20:50
INTERCETTAZIONI UTILI E VIZI SPIATI
Una democrazia un po' malata
INTERCETTAZIONI UTILI E VIZI SPIATI
[color=blue]Una democrazia un po' malata
La nostra democrazia è malata. Di intercettazioni? Lo sostiene la maggioranza di governo, che vi intravede una «congiura » ai propri danni. Lo nega l’opposizione, che vi ravvisa (anche) un’opportunità per criticare la politica dell’avversario, e persino i «vizi privati» dei suoi rappresentanti. Che le intercettazioni siano utili per combattere il crimine è indiscutibile.
Ma è anche indiscutibile che siano pericolose se usate per denunciare l’immoralità (i vizi non sono reato). Circoscrivere la malattia all’utilizzo delle intercettazioni, da parte della magistratura, e alla loro divulgazione, da parte dei media, è, però, riduttivo. Il male oscuro di cui soffre la nostra democrazia è una «malattia dell’anima » degli italiani. Ne ha già contagiati molti; minaccia di contagiarne altri. Dice Antonio Di Pietro: «Chi non ha nulla da nascondere non deve temere le intercettazioni ». Non è sorprendente che lo pensi un ex poliziotto; è anomalo che ci creda un ex magistrato; è inquietante che lo dica un parlamentare della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
È la stessa sindrome della quale sono morte le democrazie, in Italia, in Spagna, in Germania, nel Ventesimo secolo. Si violano le libertà individuali, per il Bene comune; e si finisce con uccidere la democrazia. I cittadini della Germania comunista — come ha raccontato il film «Le vite degli altri» — erano preoccupati, e indignati, dell’intrusione delle intercettazioni telefoniche nella loro vita privata da parte della polizia politica (la Stasi). In Italia, gran parte degli intellettuali, dei media, della classe politica, dei cittadini comuni è entusiasta dell’idea di sapere che cosa pensano, e dicono al telefono, «gli altri ». Ma la divulgazione delle intercettazioni, anche in presenza di fumus criminis, è persino una violazione della sfera privata, nonché dei suoi diritti, anche dell’inquisito, per non parlare di chi ne è esente.
Da noi, si ritengono «utili» le intercettazioni e «giusta» la loro divulgazione in nome di una non meglio precisata Etica pubblica. I tedeschi orientali sognavano l’eliminazione delle intercettazioni, e l’hanno salutata come una liberazione alla caduta del Muro che aveva separato il mondo dell’oppressione da quello della libertà. Molti italiani ne auspicano l’aumento e plaudono alla loro divulgazione come una garanzia democratica. Nella loro testa non è ancora caduto il Muro che dovrebbe separare l’idea di libertà, e di moralità, individuali da quella di «Stato- papà-padrone» che veglia sui propri figli, ne punisce, e ne corregge, i difetti con le intercettazioni e la loro divulgazione.
Che, poi, la «malattia dell’anima » sia sintomatica di una malintesa idea di democrazia liberale, come utopico sistema di «perfezione» morale e politica, nulla toglie alla sua pericolosità. Tornano alla mente le profetiche parole di Karl Popper, che pochi italiani conoscono, forse, neppure apprezzano e sulle quali sarebbe bene, invece, meditare: «È un comportamento arrogante tentare di portare il paradiso sulla terra, giacché in tal modo riusciremo solo a trasformare la terra in un inferno. E, se non vogliamo che ciò accada, dobbiamo abbandonare i nostri sogni di un mondo perfetto».
Piero Ostellino
23 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_marzo_23/piero_ostellino_una_democrazia_un_po_malata_145b680a-3643-11df-95eb-00144f02aabe.shtml[/color]
21/01/2011, 20:52
LE INDAGINI SUL CASO RUBY
[color=blue]L'immagine e la dignità del Paese
Anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate
le conseguenze sarebbero inquietanti
Chi ha a cuore la dignità del Paese e delle sue istituzioni auspica che - a salvaguardia della presunzione di innocenza che deve presiedere a ogni vicenda giudiziaria e a tutela delle garanzie di cui deve godere ogni inquisito - Berlusconi si difenda davanti ai magistrati. È la sola sede in cui le accuse che gli sono contestate devono essere verificate. Non lo sono i media, sui quali la partita è giocata in funzione delle «delegittimazioni contrapposte»: della magistratura, da parte dei difensori del capo del governo; del capo del governo, da parte dei suoi avversari. Non lo può essere l'opinione pubblica, frastornata dalle troppe notizie, spesso non sufficientemente controllate.
È sulla base di tali considerazioni che mi chiedo, però, contemporaneamente, come ne usciranno le istituzioni quale sia l'esito della vicenda in sede giudiziaria. Nel caso in cui le accuse di natura penale si rivelassero fondate, le conseguenze, per il capo del governo, sarebbero devastanti. Ma anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate, le conseguenze sarebbero inquietanti. Su Berlusconi peserebbe pur sempre il giudizio politico e morale; sulla magistratura, l'interrogativo se spetti ad essa sollevare, con le proprie inchieste, questioni politiche e morali. Se al capo del governo è legittimo chiedere di fare il proprio mestiere in modo dignitoso per l'istituzione che rappresenta, alla magistratura è lecito chiedere di restare all'interno delle proprie funzioni, che non sono né politiche né morali. Quando, poi, ne sono coinvolte terze persone, la questione - non mi stancherò mai di ripeterlo - diventa non solo di Diritto pubblico, di Dottrina dello Stato, ma di Civiltà. Monitorare chiunque vada a cena ad Arcore - trasformandolo automaticamente in un complice del «vecchio porco» - non è cercare, ma «fare» giustizia.
Una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia - diciamo così - partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta. Il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l'indulgenza all'esame o al capo ufficio per fare carriera. Avere trasformato in prostitute - dopo averne intercettato le telefonate e fatto perquisire le abitazioni - le ragazze che frequentavano casa Berlusconi, non è stata (solo) un'operazione giudiziaria, bensì (anche) una violazione della dignità di donne la cui sola colpa era quella di aver fatto, eventualmente, uso del proprio corpo. La pubblicazione delle loro fotografie - che corredate di nomi e cognomi sono adesso vere e proprie foto segnaletiche - da parte dei media, non è stata (solo) un fatto di cronaca; è stata (anche) una barbarie. Non di quella di Berlusconi, ma «delle vite degli altri», che rischiano di fare le spese di questa guerra di tutti contro tutti, Berlusconi stesso, il Pdl, le opposizioni e, perché no?, il Consiglio superiore della magistratura, dovrebbero, ora, preoccuparsi. Sarebbe il solo modo di (ri)conferire alla politica e alle istituzioni quella dignità che hanno perduto.
Piero Ostellino
19 gennaio 2011(ultima modifica: 21 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA[/color]
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/l-immagine-e-la-dignita-del-paese-piero-ostellino_0d03ff40-23b4-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml
21/01/2011, 20:54
22/01/2011, 00:12
[color=blue]L'attacco alle libertà individuali
Qui sono in gioco persone la cui privacy e dignità
sono state violate due volte
Se la magistratura volesse intercettare il presidente del Consiglio dovrebbe chiederne l'autorizzazione al Parlamento; che (probabilmente) non la concederebbe. Così, gli inquirenti del «caso Ruby» - non potendo intercettare il presidente del Consiglio - hanno monitorato in vari modi le persone che ne frequentavano le abitazioni private e che perciò stesso sono finite sui giornali. Uomini che, nell'immaginario collettivo, sono, ora, l'archetipo del vecchio porcaccione; ragazze che una certa opinione pubblica immagina - diciamo così - disposte a concedersi a chiunque in cambio di una raccomandazione.
Qui, le (supposte) «distrazioni» di Berlusconi - delle quali, se passibili di sanzione giudiziaria, risponderà eventualmente in Tribunale - non c'entrano; qui sono in gioco persone le cui libertà individuali, fra le quali quella alla privatezza e alla dignità, sono state violate due volte: innanzi tutto, per essere state monitorate solo perché avevano frequentato le abitazioni private del presidente del Consiglio; in secondo luogo, per essere, adesso, segnate con un marchio morale di infamia agli occhi dell'opinione pubblica. Diciamola tutta: da che mondo è mondo, se si dovessero pubblicare le generalità di uomini e di donne dediti a certi esercizi non basterebbero le pagine degli elenchi telefonici, altro che le pruriginose cronache dei giornali! E, poi, a che pro? Mettiamola, allora, per un momento, sul paradosso. Personalmente, non ho alcuna familiarità con Silvio Berlusconi, non sono mai stato invitato in una della sue abitazioni; tanto meno in compagnia di ragazze di bella presenza. Ma, dopo quanto ho letto sui media, dico subito che se, per una qualsiasi ragione, il presidente del Consiglio mi volesse vedere, lo pregherei di incontrarci a Palazzo Chigi, magari in presenza del mio vecchio collega e amico Gianni Letta, o lo inviterei io stesso in qualche ristorante milanese dove vado con mia moglie e i miei nipotini. La prospettiva di finire sui giornali, dopo un incontro ad Arcore, come partecipe di un rito «bunga bunga» - che, a dire la verità, non ho neppure ancora capito che diavolo voglia dire; i lettori mi perdoneranno, sono un uomo all'antica - la trovo francamente surreale e inaccettabile.
Per essere ancora più chiaro. Di fronte a un'ipotesi di reato - e soprattutto un'ipotesi di reato che riguardi la prostituzione di una minorenne - è legittimo che la magistratura chiami Berlusconi a risponderne ed è, altresì, sperabile che lui vada a difendersi in un'aula di tribunale (invece di farne una questione politica) come ogni altro cittadino, fatte salve le prerogative proprie del suo ruolo, come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale. Non mi pare, invece, né consono a uno Stato di diritto né, tanto meno, a un Paese di democrazia liberale, diciamo pure, civile, che - per suffragare le accuse nei suoi confronti - si siano monitorate centinaia di altre persone, finendo con infangarne la reputazione, quale essa sia o si presuma che sia. L'idea che, d'ora in poi, sul bavero delle giacche di un certo numero di cittadini sia stato applicato, ancorché metaforicamente, un marchio quasi razzistico - ai maschi, il distintivo delle proprie senili debolezze; alle donne, quello della propria (supposta) disponibilità a soddisfarle - per il solo fatto di aver frequentato certe abitazioni, dovrebbe essere, per la coscienza di ciascun italiano, una mostruosità non solo giuridica, ma morale. Il Paese dovrebbe rifletterci se non vuole precipitare definitivamente nella barbarie.
L'agenzia inglese Reuters - si badi, inglese, un Paese dove la presunzione di innocenza è scritta nella tradizione, nel costume, nella storia, prima che nella legge - nel dare la notizia delle accuse a Berlusconi, ha rivelato anche la fonte dalla quale le aveva apprese: ambienti vicini agli stessi inquirenti. Anche qui non voglio entrare nel merito delle accuse. Mi limito a segnalare che, per ora, in attesa che la magistratura ne precisi la natura attraverso una serie di prove fattuali in sede di giudizio, tutto ciò che appare dai media è che anche al bavero della giacca dell'«inquisito» Silvio Berlusconi è stato applicato un marchio di infamia morale e che ciò, quale sia poi l'esito di un eventuale processo, è già sufficiente ad averne infangato l'immagine e la reputazione.
Questa non è una difesa del capo del governo, cui già provvedono lui stesso e i suoi avvocati, ma di alcuni principi che dovrebbero presiedere a ogni inchiesta giudiziaria e al giudizio di ciascuno di noi. Berlusconi ne risponda in un'aula di tribunale, dove, i suoi legali - che, finora, non hanno di certo goduto degli stessi mezzi di indagine, per non dire della complicità di certi media, di cui ha goduto la magistratura inquirente - sarebbero finalmente su un piano di parità con l'accusa.
Contemporaneamente, però, la domanda alla quale forze politiche, media, opinione pubblica, perché no, la stessa magistratura, mi piacerebbe volessero rispondere è se lo spettacolo cui stiamo assistendo sia quello di cui andare fieri come cittadini di un Paese appena normale. Tanto dovevo, non a Berlusconi, ma a quello straccio di verità cui dovrebbe sempre tendere ogni spirito libero.
Piero Ostellino
17 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA[/color]
http://www.corriere.it/politica/11_gennaio_17/attacco-alle-liberta-individuali-ostellino_25d57d18-2261-11e0-83ff-00144f02aabc.shtml
22/01/2011, 12:02
LE INTERCETTAZIONI
[color=blue]Il diritto collettivo di essere informati e quello individuale di evitare la gogna
I processi, in un Stato di diritto, si fanno in Tribunale,non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto.
Sul problema delle intercettazioni, in discussione in Parlamento, ho letto due articoli di fondo comparsi entrambi ieri sul Corriere della Sera (Fiorenza Sarzanini: «Le notizie fanno bene a tutti») e sul Riformista (Stefano Cappellini: «Difendere lo Stato di diritto è la prima legalità»). Scrive Sarzanini: «... con queste norme si vieta ai giornalisti di informare, ma soprattutto si impedisce ai cittadini di essere informati. E si lede il diritto fondamentale degli indagati di difendersi anche davanti all' opinione pubblica». Scrive Cappellini: «Quanti temono che il provvedimento in discussione sia incostituzionale dovrebbero tenere presente che, nelle tappe di cui si compone un' indagine, non è l' articolo 21 della Costituzione (libertà di stampa) il primo a essere chiamato in causa, bensì il 15, sul diritto alla segretezza della corrispondenza. Porsi solo il tema del rispetto dell' uno, e non dell' altro, non è un bel modo di impostare una battaglia di legalità». Dico subito - con la massima considerazione per la collega, ma anche nel rispetto della tradizione del giornale sul quale entrambi scriviamo - che mi è piaciuto più quello di Cappellini. Negare che le intercettazioni siano utili alle indagini giudiziarie sarebbe un nonsenso. Che le notizie facciano «bene» alla democrazia è un fatto incontrovertibile. Ma qui, in discussione, non è l' utilità delle intercettazioni, ma la loro diffusione. E ci sono notizie e notizie, che fanno tutta la differenza fra un' accusa - formulata da una Procura che, poi, magari «la soffia» ai giornali - e una sentenza emessa da un Tribunale dopo un pubblico dibattimento. Ammesso, e non concesso, siano in conflitto due diritti - quello collettivo, a informare e a essere informati, e quello individuale, a non essere esposti a una sorta di gogna medievale; il che, peraltro, configurerebbe una palese contraddizione in quanto tutti e due sono parte integrante dello Stato di diritto - chi è liberale dovrebbe propendere per il secondo.
È la tutela della Persona, anche dell' inquisito, nella presunzione della sua innocenza fino a prova contraria appurata in un dibattimento processuale. Si chiama Habeas corpus e fu approvato dal Parlamento inglese nella seconda metà del Seicento, prima della «gloriosa rivoluzione» del 1688, contro gli abusi del sovrano (e dei suoi inquisitori). Voglio sperare, a questo punto, che nessuno mi accusi di voler difendere i criminali o il provvedimento governativo, che per parte sua è tutt' altro che limpido. Lo dico senza mezzi termini, se così non fosse e se, per il solo fatto di aver difeso un elementare principio liberale - lo Stato di diritto nasce a difesa dell' Individuo, anche e soprattutto contro il dispotismo statuale - mi fossero rivolte tali accuse vorrebbe dire che il nostro non è più un Paese civile. Ciò che mi ha particolarmente colpito dell' articolo di Fiorenza Sarzanini è, dunque, la seconda parte della frase che ho citato all' inizio: «E si lede il diritto fondamentale degli indagati a difendersi anche davanti all' opinione pubblica». Credo di capire le (buone) intenzioni della collega - che è competente e so in buonafede - ma l' affermazione si presta a più di una (seria) obiezione. Innanzi tutto, pochi hanno i mezzi - «tecnici», accesso a giornali e Tv, e «finanziari», avvocati che si fanno sentire dai media - di difendersi davanti all' opinione pubblica; non ce la fa neppure il presidente del Consiglio, che pure è a capo di un impero mediatico, e al quale non mancano certo soldi e avvocati. In secondo luogo - e si tratta dell' obiezione più forte - «difendersi davanti all' opinione pubblica» vuol dire «difendersi in Piazza» e, spesso, davanti a una «Piazza» già prevenuta dalla conoscenza di accuse ancora tutte da provare in sede processuale. In altre parole, significa, che piaccia o no, andare incontro al linciaggio - da parte di un' opinione pubblica male informata anche se indignata dai troppi scandali - prima ancora del processo e, magari, di una successiva sentenza assolutoria, e persino di colpevolezza.
I processi, in un Stato di diritto, si fanno in Tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto. Non sono un giurista, non pretendo di sostituirmi al legislatore e non saprei proporre emendamenti al provvedimento governativo. Mi limito a denunciare un pericolo e a sollevare una questione di principio. Sono un giornalista che ha imparato, fin dal primo giorno che ha messo piede qui, in via Solferino, che il Corriere della Sera non è mai incline, neppure di fronte all' assedio editoriale di altri giornali assai meno liberali, a venir meno alla sua tradizione liberale. Anche centomila copie in più non la varrebbero. Perciò, cari colleghi, consentitemi, da collega «anziano» a colleghi più giovani, di dirvi: «Attenzione alle differenze fra notizia e notizia, e anche al linguaggio che usate, perché "le parole sono pietre"».
Piero Ostellino (23 maggio 2010)
08 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/speciali/2010/intercettazioni/notizie/ostellino-diritto-collettivo_f8c899f8-8a81-11df-966e-00144f02aabe.shtml[/color]
22/01/2011, 14:17