erotico – politici dispone di auto e di aerei militari; si comporta con sfrontatezza ed ostentazione del potere. Qualche volta ci dicono che presenzia, nello studio del padre, agli incontri politici di questi. C’è poi la vicenda giudiziaria, ancora da chiarire, con un noto settimanale156 per la storia dei due assegni Italcasse. Gli assegni petroliferi erano 100. Di 98 è stato possibile ricostruire la vera identità del beneficiario. Solo dei due che il settimanale in questione attribuiva ai familiari del presidente, è stato possibile sapere nulla. Per non parlare della signora. Esibizionista e sempre in cerca di pubblicità come chiunque è capitato in un posto troppo in alto senza averne la stoffa, circondata da compagnie da definire almeno troppo disinvolte. Riempie le cronache rosa dei giornali di feste e festini, cocktail e guardaroba rinnovati […]. La prima signora della repubblica dovrebbe pur dire qualcosa a tante donne tanto meno fortunate di lei. O sente solo il bisogno di parlare di messinpiega?157 Pecorelli non si risparmiò, pur sottolineando d’essere totalmente disinteressato alla vita privata dei tre ragazzi di Leone, segnalando ogni privilegio, ogni giro in privato con la scorta a sirene spiegate, ogni eccesso. Venerdì scorso uno dei Leone ha offerto in via delle Fornaci il consueto show delle ore venti. Giunto infatti con adeguata scorta di due motociclisti in divisa, pudicamente fatti fermare qualche centinaio di metri prima dell’abitazione di Mita Medici158, e con tre Giulie con targa civile e personale in borghese, il piccolo Leone ha reso visita e prelevato la sua amica mentre, per consentire una vietatissima conversione a U, una Giulia di «scorta» si è posta al centro della strada interrompendo il traffico. Una volta per tutte, desideriamo precisare che le affettuose relazioni di amicizia dei Leone non ci interessano: la segnalazione dell’episodio trae origine dal vivissimo malcontento che si è ancora manifestato tra gli abitanti della zona e gli amari e salaci commenti che ne sono seguiti nei bar e nei negozi. Leone, quale privato cittadino, può andare e incontrare chi vuole, dove vuole e quando vuole, ma deve farlo semplicemente senza mobilitazione di forze che rappresentano 156 Appunto «Osservatore politico». 157 Una famiglia come tante, «Osservatore politico», 27 gennaio 1974. 158 Mita Medici, nome d'arte di Patrizia Vistarini, è una cantante e attrice italiana, attiva fin dalla seconda metà degli anni sessanta. 64 una spesa per l’erario e quindi per il contribuente già al limite di ogni sopportazione159. In tutti questi articoli Carmine Pecorelli non mancò di aggiungere il suo tipico velo d’ironia giornalistica, quasi a voler ridicolizzare ancor di più i soggetti delle sue parole. Qualche cittadino, manifestando dubbi su un qualunque risultato dell’iniziativa, ha più realisticamente proposto l’acquisto di qualche chilogrammo di pomodoro da lanciare nel corso di una prossima visita del giovane Leone. E dal lancio non lo potranno certamente salvare gli uomini di scorta, ridotti anche ad aprire lo sportello dell’auto a cotanto personaggio ed accompagnatrice160. Ritroviamo le stesse modalità nell’articolo del 29 maggio 1975, in cui Pecorelli ironizzò sulla presunta motivazione di Mauro Leone a riguardo della scorta utilizzata per le sue uscite private. Noto per le sue molteplici attività che spaziano dalla pittura alla politica, dalla carriera universitaria alle consulenze legali, il “Principe Ereditario” Mauro Leone è giustamente conosciuto anche per la sua intensissima vita mondana. Faremmo volentieri a meno di occuparci del leoncino – dongiovanni, palpeggiatore di attrici e frequentatore di locali alla moda della Capitale se le sue scorribande notturne non coinvolgessero in estenuanti servizi di sorveglianza le forze di Pubblica Sicurezza. Il Leone si sarebbe giustificato di aver richiesto tale servizio preoccupato dalle voci di un suo probabile sequestro a scopo politico ad opera di gruppi extra – parlamentari, tendenti a colpire, in lui, le istituzioni democratiche della nostra Repubblica161. Il giornalista scrisse anche riguardo la moglie di Leone, di vent’anni più giovane del marito, lasciandosi andare spesso a battute sopra le righe e dallo scarso valore giornalistico162. Su di lei abbondarono le notizie riservate circa le sue frequentazioni; 159 Il solito show del piccolo Leone, «Osservatore politico», 12 dicembre 1973. 160 Ibidem. 161 Mauro Leone e la paura del rapimento, Ivi, 29 maggio 1975. 162 «Se ambasciator non porta pene… allora non piace a Vittoria!», Sette anni di guerra, Ivi, 27 giugno 1978. «Potrebbe anche essere che Giovanni Leone conoscesse poco o affatto l’avv. Ovidio Lefebvre: è 65 «Sulle montagne innevate di Roccaraso», scrisse Pecorelli, «i migliori maestri di sci facevano a gara nell’insegnarle i rudimenti dell’affascinate e rigida disciplina. I più intraprendenti furono ricambiati con infinito affetto. Da alcuni anni attendono invano il ritorno della bruna signora, pronti a ripetere le passate esperienze163». Ogni occasione sembrò buona per attaccare la famiglia Leone, dalla passione per le automobili Lancia164 ai viaggi diplomatici. Altra nota stonata sono i viaggi all’estero di Giovanni Leone. Con moglie, figli, parenti e amici a carico dell’erario. Vogliamo solo ricordare lo “spaghetti President165” di Washington dove si volle dare persino una saggio di napolitaneità canora […]. Donna Vittoria, sfavillava di gioielli e sfoggiava gli ultimi modelli di Valentino, mentre da un canto la signora Ford, con indosso gli abiti del supermercato, sorrideva imbarazzata166. Se non si dimette Leone, se Leone si dimettesse. Nel febbraio 1976 una commissione parlamentare americana indagò sulla Lockheed, un colosso dell'aviazione che pagò tangenti per vendere i suoi aerei. Nei Paesi Bassi venne coinvolta la stessa monarchia, mentre nella Repubblica Federale Tedesca, in Giappone e in Italia i corrotti dalla Lockheed furono le strutture preposte alle valutazioni tecnicomilitari dei Ministeri della Difesa, i Ministri della Difesa, e in Italia e Giappone anche i Primi Ministri. In tale vicenda risultarono coinvolti diversi politici italiani; A partire dal 1969, infatti, la società americana Lockheed si assicurò la vendita di aerei militari Hercules C-130 grazie alla corruzione di uomini del governo vicini al presidente, tra i quali vi sarebbe stato Antonio Lefebvre. certo, però, che Donna Vittoria conosceva bene la Fava», Ultimissime della notte da Montecavallo, Ivi, 3 marzo 1976. 163 Ibidem. 164 «Ieri, nei giardini del Quirinale sono stati presentati al Presidente Leone due nuovi ed eleganti modelli della Lancia: la Beta Montecarlo e la Beta HPE, auto “familiare” per benestanti della casa torinese […]. Non hanno precisato se alla presentazione era presente anche Mauro Leone. Com’è noto, infatti, nel dicembre scorso Mauro I provò a Vallelunga una Lancia Stratos, omaggiata appositamente da Torino. Dopo pochi giri di prova, però, la potente e robusta auto vittoriosa su tutti i rally è dovuta rientrare nei box per la fusione del motore. Difetto del motore o del manico?», C’è sempre una Lancia nel suo cuore, Ivi, 18 giugno 1974. 165 Pecorelli si riferì all’incontro con il Presidente USA Gerald Ford nel 1974. 166 I viaggi della carovana,«Osservatore politico», 27 maggio 1974. 66 Leone non ha più altra possibilità. Coinvolto fin troppo spesso in affari di regime – chi non ricorda le ville, gli alberghi, i residence a Capri, nel napoletano e sulla Cassia, le sue amicizie speciali per i Rovelli? -, criticato per le vertiginose carriere pubbliche dei suoi rampolli e per le loro vistose mondanità, il Presidente della Repubblica è scivolato sulla buccia di banana Lockheed. Quando il nome di Antonio Lefebvre167, squarciati i veli dell’omertà di regime dal quale proprio questa agenzia l’aveva sottratto, invase le pagine di tutti i giornali, fu molto chiaro che il grande protettore di Tannò non avrebbe più potuto nascondersi dietro ad un dito. Come mai e grazie a chi Lefebvre era potuto diventare nel giro di pochi anni il supermediatore di stato; grazie a chi può operare oggi quasi in regime di monopolio con i paesi arabi; grazie a chi ha potuto introdursi con autorevolezza fino ai vertici delle Forze Armate; grazie a chi ha potuto evitare tutte le rigide regole del Fisco? Fin dal suo primo apparire sulla ribalta nazionale, lo scandalo Lockheed ci ha fatto assistere ad un tragico tiro alla fune. Perché mentre la forza delle cose tirava tutto dalla parte dello studio Lefebvre, una ben robusta mano strattonava l’altro capo della corda verso centri di potere e fatti marginali. Questo braccio di ferro ha fatto così cadere più di una testa ai vertici della Repubblica168. Con lo scandalo della compravendita degli aerei, «Osservatore politico» passò ad attaccare direttamente il presidente Leone. Oggi è di scena il tenore… Tocca al Presidente dire la sua. Il Presidente che, guarda caso, è anche l’intimissimo del manutengolo della corruzione Lockheed in Italia, quell’Antonio Lefebvre per le mani del quale sono passati $ 1.760.000 di bustarelle rimaste presunte. Lo stesso Presidente che in una rosa di altri improbabili candidati, è indicato dal dossier di Church169 come quell’Antelope Cobbler che avrebbe ispirato tutto il malaffare degli Hercules. Certo, quel che finora sappiamo non basta a dire se Giovanni Leone è perseguibile a termini di legge. Basta e avanza però per far nascere più di una riserva 167 Antonio Lefebvre d'Ovidio, soprannominato Tannò, agente italiano della Lockheed. Coinvolto nello scandalo venne condannato nel 1979 a due anni e due mesi di reclusione. 168 Dimissioni, «Osservatore politico», 23 aprile 1976. 169 La Commissione Church è l'abbreviazione comune che denota la Commissione del Senato statunitense per esaminare le operazioni governative legate alle attività della CIA e dell'FBI. Durante lo scandalo, la commissione venne presieduta dal Senatore democratico Frank Church. 67 morale sulla figura che oggi siede al Quirinale. Basta e avanza per gettare ulteriore discredito, a livello internazionale, sulla nostra Italia. Giunto a questo punto, un uomo d’onore non ha più alternative: Giovanni Leone rassegni oggi stesso le sue dimissioni da Presidente170. Dalle carte dell'azienda americana emersero riferimenti al presunto destinatario delle tangenti il cui nome in codice sarebbe stato Antelope Cobbler. A distanza d’anni non vi sono prove certe sebbene i sospetti ricadano sulle figure di Mariano Rumor, Camillo Crociani, Giulio Andreotti o Aldo Moro. Alcuni giornali, tra i quali l’«Espresso», sostennero che Cobbler fosse stato trascritto in maniera erronea, scambiando una G per una C; la versione corretta sarebbe dunque stata Antelope Gobbler, ossia «mangiatore di antilopi», cioè Leone. Anche Pecorelli fu convinto del coinvolgimento di Leone, lo si legge nell’articolo del 24 aprile 1976 Indovina indovinello non è uomo non è uccello… A proposito dell’affare Lockheed, e in relazione al misterioso Antelope Cobbler, val forse la pena ricordare che lo stesso presidente della società statunitense riferì – dinnanzi alla sottocommissione Church – che fu «un senatore Dc a indirizzarlo verso lo studio d’Ovidio Lefebvre». È anche noto che «con quello di un’altra “premiata ditta romana”, il nome di Lefebvre era stato suggerito agli americani dalla sede italiana della First National City Banks». Quella stessa sede ove ha di recente trovato soddisfacente impiego proprio all’ufficio valuta uno dei giovani leoni della repubblica; figlio – caso strano – anche lui di un noto senatore Dc. Chi sarà mai?171 Il giornalista di «Op» tornò a parlare delle dimissioni del presidente, lo fece nel successivo articolo del 27 aprile 1976, la grande illusione di Giovanni Leone. Avrebbe potuto telefonare a Castelli172. Avrebbe potuto convocarlo al Quirinale o a Castelporziano. Avrebbe potuto spedirgli un emissario. Tutte cose che probabilmente sono anche avvenute. Leone invece ha inviato una lettera, e ha passato subito il testo alle agenzie. Ha ritenuto con quella lettera di sollecitare alla 170 Dimissioni, «Osservatore politico», 23 aprile 1976. 171 Indovina indovinello non è uomo non è uccello…, Ivi, 24 aprile 1976. 172 Pecorelli si riferì al senatore democristiano Angelo Castelli, che presiedette la Commissione Parlamentare Inquirente nel 1976. 68 Commissione Inquirente un giudizio immediato – come se fosse possibile – allo scopo precipuo di suscitare un coro di consensi e di solidarietà tra i presenti alla riunione Dc, tale cioè da sortire l’effetto d’ottenere una dichiarazione di sostegno, immediata e all’unanimità, da parte del massimo organo di partito. Povero illuso! C’è rimasto male, a tarda sera, quando ha appreso che a Piazza del Gesù aspettavano a braccia conserte le sue dimissioni173. Sempre nello stesso numero di «Op», Pecorelli descrisse i possibili scenari italiani nel caso fossero avvenute le immediate dimissioni di Leone o, come seconda ipotesi, se Leone avesse deciso di mantenere la carica. La prima riflessione politica, dal titolo Se Leone si dimettesse, esprime gli interessi di determinati gruppi politici a mantenere il Presidente della Repubblica in carica. Da questo articolo si evince come Carmine Pecorelli fosse convinto che l’Antilope fosse proprio il presidente Leone. Nell’ultima parte dello scritto infatti, il giornalista, passò direttamente a definirlo in questa maniera. Col Parlamento eletto nel ’72 cioè quello attuale – 256 Dc, 55 Msi, 20 Pli – l’elezione di un Presidente della Repubblica anticomunista o comunista sarebbe cosa possibile, dati i tempi e la fame, in tre sole sedute; cioè in ventiquattro ore. Perciò il Pci dorme sullo scottante problema e non ha trasmesso ordini alla piazza […]. Se Leone si dimettesse, sarebbe non solo difficile l’elezione di De Martino, ma anche quella di Moro o di Zac. Senza voler far ricorso al solito nome di Fanfani, che si mette sempre avanti senza essere invitato, l’elezione invece di uno Scalfaro o di uno Spagnolli sarebbe gioco da ragazzi. Per queste ragioni Moro non si appassiona alla vicenda Lockheed, e le sinistre interne non fanno chiasso […]. Se si dimettesse Leone, salterebbero in aria per altri sette anni la promessa fatta da Berlinguer a De Martino di portarlo in Quirinale. E morirebbe pure la speranzella di La Malfa di poter essere l’uomo di risulta al posto di De Martino. E quella di Moro di poter battere la concorrenza di De Martino e La Malfa. Ecco i veri alleati, in questo momento, di Antilope Cobbler174! 173 La grande illusione di Giovanni Leone, «Osservatore politico», 27 aprile 1976. 174 Se Leone si dimettesse, Ibidem. 69 Al contrario, se Leone non si fosse dimesso: Se Leone non si dimette, per Berlinguer il gioco è fatto. In settimana lo scioglimento delle Camere e poi via alla conquista dell’Italia. Se Leone non si dimette, Moro è provvisoriamente salvo insieme al suo governo sgangherato e screditato. Se Leone non si dimette, Zac e compagni possono continuare ad illudersi in una campagna elettorale basata sulla paura borghese […]. Se Leone non si dimette, De Martino tira un sospiro di sollievo. Il Psi nel dopo elezioni potrà essere l’ago della bilancia per fare maggioranze con i comunisti o con gli altri. Se Leone non si dimette, il destino del paese è segnato. La campagna elettorale rappresenterà un inutile massacro dei partiti anticomunisti ed a luglio Berlinguer sarà il vero arbitro dello Stato175. Hic sunt Antilopes. La caccia all’Antilope di Stato è appena agli inizi, ma l’Inquirente marcia già spedita verso una ben determinata direzione. Agisce insomma, come se le fosse già noto il traguardo da raggiungere (il nome del principe della corruzione da smascherare); e le mancassero invece solo le prove probanti, atte a dar seguito alle sue rivelazioni. Ha pertanto dato mandato alla Guardia di Finanza di procedere alla perquisizione di alcuni istituti di credito della capitale176. «Osservatore politico» descrisse in maniera positiva, con l’articolo Safari di Stato del 28 aprile 1976, la ricerca svolta dalla Commissione Inquirente per scoprire l’identità del destinatario delle tangenti Lockheed. Entusiasmo destinato a spegnersi pochi mesi dopo. La nuova Commissione, presieduta dal senatore democristiano Mino Martinazzoli, dichiarò ufficialmente aperta l'inchiesta nei confronti dei deputati Rumor, Gui e Tanassi. Nel numero di «Osservatore politico» Lockheed: la traccia c’è, solo che Martinazzoli volesse scavare del novembre 1976, Pecorelli continuò a sostenere la sua linea accusatoria contro Antonio Lefebvre. 175 Se non si dimette Leone, «Osservatore politico», 27 aprile 1976. 176 Safari di Stato, Ivi, 28 aprile 1976. 70 Piuttosto che menar tanto il can per l’aia, l’Inquirente farebbe meglio a porre l’attenzione sulle verità palpabili che ha a portata di mano. Per esempio i prelievi effettuati sui conti della First National Bank e trasmessi a vari istituti di credito su conti utilizzati da uomini di Antonio Lefebvre – la medaglia d’oro della Pubblica Istruzione italiana – per provare operazioni di carattere speculativo […]. Va inoltre considerato che all’epoca della corruzione, Antonio Lefebvre aveva estremo bisogno d’enormi quantità di denaro177. Per tutta la durata del processo della Corte Costituzionale, che si svolse tra il 1977 e il 1979, Pecorelli mantenne l’idea dell’esistenza d’altri personaggi all’interno dello scandalo; il giornalista li definì come gli innominati. Secondo «Osservatore politico», inoltre, non vi sarebbe stata la reale intenzione di scoprire l’identità del maggior beneficiario delle tangenti dell’azienda americana. L’hanno chiamato il processo del secolo, per la prima volta nella storia della Repubblica la Corte Costituzionale s’è trasformata in alta corte di giustizia, ma dopo due anni di istruttoria e sei mesi di processo, nonostante costosissime trasferte di deputati, magistrati ed esperti in America e in Svizzera, dopo due anni di aspre polemiche, di tribolatissime dimissioni, pattuizioni e ricatti, il paese riuscirà a sapere tutta la verità su Lockheed? Leone è stato costretto a lasciare il Quirinale anzitempo, ma si saprà mai chi è l’Antilope? I commissari d’accusa della Consulta stanno concludendo le requisitorie, ma sul banco degli imputati siedono solo Antonio e Ovidio Lefebvre; Gui, Tanassi, Olivi ed altri minori. Dove sono l’Innominato n. 1, il n. 2 e il terzo, dov’è l’Antilope Cobbler che dell’imbroglio è il vero artefice e il maggior beneficiario?178 Lamentando la lentezza delle indagini italiane in contrasto con l’efficienza dei tribunali esteri, in particolar modo i tribunali olandesi e giapponesi nella vicenda delle tangenti aeree, descrisse il processo come viziato dalle origini. 177 Lockheed: la traccia c’è, solo che Martinazzoli volesse scavare, «Osservatore politico», 26 novembre 1976. 178 Hic sunt Antilopes, Ivi, 3 ottobre 1978. 71 A seguire i lavori della Consulta, sembra quasi che la maggiore preoccupazione sia quella di non trovarsi all’improvviso tutta la verità in aula. Quasi che il vero processo o la sentenza fossero già stati pronunciati nella famosa seduta congiunta del Parlamento, e che ormai non si trattasse più che di espletare la formalità di condannare Gui e Tanassi179. Nell’articolo Hic sunt Hantilopes, del 3 ottobre 1978, Carmine Pecorelli dichiarò d’avere utili informazioni per sviluppare le indagini. Si tratta di tre assegni versati dalla società Lockheed in conti svizzeri protetti dai controlli fiscali italiani. Il giornalista li pubblicò su «Osservatore politico», chiedendosi per quale motivo, vista la disponibilità della polizia di Berna, la Corte Costituzionale non avesse ancora vagliato tali documenti. Che dire infatti dei due documenti che pubblichiamo qui affianco? Nel primo, il 21 marzo di quest’anno il dipartimento di polizia di Berna faceva sapere alle nostre autorità di non poter rivelare i nomi del beneficiario di tre assegni Lockheed finiti in banche svizzere […]. A questo punto il lettore imprecherà contro le autorità elvetiche: al solito, pur di lucrare sui depositi bancari, impediscono il corso della giustizia, pur di guadagnare un franco, preferiscono ingannare un intero popolo. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Perché nello stesso documento la polizia di Berna aggiungeva cortesemente: «se la Corte Costituzionale giudica che la conoscenza dell’identità di questa persona è indispensabile per poter giudicare i fatti sui quali si basa la commissione rogatoria, le è consentito di rivolgere una seconda richiesta a questa divisione». Non ci risulta che dal 21 marzo ad oggi la Corte Costituzionale abbia osato tanto. Forse perché, escluso che potesse essere l’imputato Gui o l’imputato Tanassi, esclusi persino i due fratellini di Napoli, si trattava di ricercare il titolare di quel conto troppo scottante nel ristrettissimo novero di quelle persone da sempre sospette che si è avuto gran cura di non tirare in ballo180. Gli sviluppi dell’indagine vennero narrati nel numero del 14 novembre 1978, Gli assegni della vergogna. «Osservatore politico» si attribuì una parte del merito, 179 Hic sunt Antilopes, Osservatore politico, 3 ottobre 1978. 180 Ibidem. 72 riguardante la scoperta degli assegni svizzeri e la rivelazione dei beneficiari di tali conti. Carmine Pecorelli dimostrò il suo ottimismo e si auspicò una rapida e risolutiva fine della vicenda. I difensori degli imputati minori stavano concludendo le loro arringhe ma il processo non riusciva a scrollarsi dal triste cammino segnato dai giudici parlamentari dell’Inquirente, quando la settimana scorsa è giunto dalla Svizzera il colpo della grande svolta: le autorità elvetiche hanno comunicato ai giudici della Consulta il nominativo dei titolari e i movimenti dei conti cifrati sui quali sono confluite le tangenti Lookheed. Ovidio ed Antonio Lefebvre non possono più farsi beffa della nostra giustizia, il processo dismette i panni e toni della sceneggiata napoletana per assumere quelli asciutti e nordici delle cifre. Era ora: Op aveva rivelato che la Svizzera era disposta a fare i nomi dei corrotti fin dal 21 marzo scorso, purché qualcuno in forma ufficiale glielo avesse chiesto. A quel punto diventava impossibile impedire che tutte le verità elvetiche giungessero sui tavoli dei giudici ed avvocati della consulta. Così è stato infatti e ora, anche grazie al nostro intervento, si può parlare di cose serie, smetterla di ciurlare nel manico con Innominati e piuttosto passare a fare i conti in tasca ai Lefebvre e agli altri corrotti. A ripercorrere il cammino delle tangenti: fino all’Antilope, con un po’ di fortuna e molto coraggio181. 181 Gli assegni della vergogna: Lockheed, «Osservatore politico», 14 novembre 1978. 73 «Osservatore politico», 2 Maggio 1978. 74
Capitolo IV
«Osservatore politico» ed il caso Moro.
Il viaggio in Usa di Aldo Moro e l’avvicinamento al Pci. Il 12 ed il 13 maggio del 1974 si tenne il referendum sul divorzio, il cui risultato segnò la sconfitta della Chiesa e della Democrazia cristiana. Si avvertì un segnale di un cambiamento politico e culturale della società italiana verso sinistra182, mentre la scena politica attraversava una fase che sembrò preludere a grandi cambiamenti. La formula di centro-sinistra era in crisi, ma non vi furono le condizioni politiche per alternative centriste o di centro destra. Aldo Moro si convinse della necessità di una nuova politica italiana che, dopo gli anni del centrismo e delle alleanze con il Psi o altri partiti del centro-sinistra, avrebbe dovuto affrontare il Partito comunista ed il rapporto con le masse popolari che in esso si riconoscevano.
Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del partito comunista verificando con il maggior impegno la validità delle sue proposte e delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e nell’esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l’azione del governo, una doverosa attenzione e conversazione183.
Le parole di Moro, sebbene prudenti, accrebbero gli allarmi nel Dipartimento di Stato americano, dal quale venne la richiesta di un più incisivo anticomunismo184 in Italia. «Osservatore politico» cominciò a dedicarsi con particolare attenzione ad Aldo Moro dal 1974, in occasione del viaggio ufficiale a Washington del ministro degli Esteri e del capo dello Stato Giovanni Leone. Un’importante missione date le crescenti difficoltà economiche italiane e l’urgenza d’ottenere aiuti finanziari dall’alleato statunitense. 182 «Se ne ebbe conferma il successivo 16 – 17 giugno, con le elezioni regionali in Sardegna: il Pci aumentò i propri voti del 7%, il Psi li aumento del 5,7%, mentre la Dc arretrò del 6,2%», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006, p. 35. 183 Aldo Moro su «Il Popolo» del 20 luglio 1974. Ivi, p. 37.
184 «Noi seguiamo gli avvenimenti dell’Italia con simpatia ed affetto. Potete contare sul fatto che in qualsiasi momento l’Italia debba affrontare difficoltà, faremo tutto il possibile per assicurarle stabilità e progresso». Discorso di Henry Kissinger durante la colazione offerta da Leone al Quirinale il 5 luglio 1974, MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981, pag. 167. 75 Il presidente americano Gerald Ford ha dato incarico al suo ambasciatore a Roma John Volpe di fare un sondaggio tra i vari partiti politici italiani, compreso il Pci, per avere un quadro quanto più possibile esatto della situazione italiana in vista della imminente visita del presidente Leone a Washington. A quanto apprende “Op”, l’ambasciatore Volpe avrebbe incontrato alcuni tra i massimi esponenti del Pci, ai quali avrebbe detto senza mezzi termini che eventuali aiuti americani al nostro paese (nuovo piano Marshall) sono legati al non ingresso dei comunisti nell’area di governo. I Comunisti, avrebbe detto Volpe, possono continuare a pilotare il movimento sindacale o monopolizzare l’opposizione, ma non debbono assumere dirette responsabilità di governo. Una eventualità del genere porterebbe ad un graduale sganciamento dell’Italia dalla Nato185.
Le rivelazioni del direttore della Cia William Colby, fatte alla sottocommissione Forze armate del Congresso, vennero pubblicate dal New York Times a due settimane dall’arrivo in America della delegazione italiana. Colby descriveva l’attività Usa in Cile, dalla corruzione dei deputati per evitare la ratifica della elezione di Allende da parte del parlamento, al finanziamento di scioperi che bloccarono economicamente il paese per settimane186. L’attività dell’agenzia sarebbe stata approvata dal «Comitato 40187», un sottocomitato nell’ambito del Consiglio nazionale della sicurezza con funzione di controllo verso le attività clandestine della Cia, al tempo presieduto da Kissinger. Le manovre illegali compiute dall’agenzia in Cile contro il presidente socialista Salvador Alliende non furono dunque fenomeni devianti, ma azioni volute dal presidente degli Stati Uniti e dal suo consigliere per la sicurezza. La situazione cilena divenne quindi un test per osservare il possibile ribaltamento di un regime di sinistra mediante la creazione di caos al suo interno188. Pochi giorni dopo, il 16 settembre 1974, il presidente Gerald 185 Per gli aiuti Usa il Pci all’opposizione, «Osservatore politico», 23 settembre 1974. 186 «Nel settembre 1970 Allende vinse le elezioni presidenziali.
Nixon era furioso e convocò Helms, il direttore della Cia di allora, a una riunione nello studio ovale con Henry Kissinger. Nixon ordinò chiaramente d’impedire che Allende entrasse in carica. La Cia si mise d’impegno ed inviò in Cile, per sei settimane di attività frenetica, una speciale Task Force di suoi operatori indipendenti dalla «stazione» e che rispondevano solo alla sede centrale di Washington». La mia vita nella Cia, WILLIAM COLBY, Mursia, Milano 1981, pag 224. 187 RODOLFO BRANCOLI, Gli Usa e il Pci, Garzanti, Milano 1976, p. 128. 188 «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un paese diventare comunista per l’irresponsabilità del suo popolo», Henry Kissinger al «Washington Post» del 10 settembre 1974. 76 Ford ammise ufficialmente che l’Amministrazione Usa era intervenuta in Cile, tra il 1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet189. La tematica, a pochi giorni dall’arrivo della delegazione italiana, fu un chiaro messaggio: gli Stati uniti attendevano da Leone assicurazioni che non ci sarebbero stati né indebolimenti delle alleanze postbelliche, né rilanci del Pci all’interno. Durante i colloqui Kissinger ribadì con durezza, al ministro degli esteri Moro, l’assoluta contrarietà dell’Amministrazione a qualsiasi apertura democristiana al Pci, minacciando il ritiro di qualsiasi aiuto all’economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla chiusura anticomunista. Il segretario di Stato, inoltre, minacciò per l’Italia uno sbocco di tipo cileno, mentre lo stesso Moro subì intimidazioni dirette al punto che lo stress nervoso gli provocò un malore poche ore dopo190. Nella sua deposizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta la moglie di Aldo Moro dichiarerà: È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza dirmi il nome della persona. Provo a ripeterla come la ricordo: Onorevole Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o Lei smette di fare questa cosa o Lei la pagherà cara191.
Henry Kissinger non nascose mai la sua personale ostilità nei confronti di Moro, che considerava il possibile Allende dell’Italia. Il segretario di stato fu ostile alla strategia di apertura a sinistra attuata in Italia dagli inizi degli anni Sessanta, un grave errore dell’amministrazione democratica di John Kennedy. Secondo Kissinger, l’alleanza governativa della Democrazia cristiana con il Partito socialista lasciò ai comunisti il monopolio dell’opposizione192. L’Italia rappresentava una nazione strategicamente 189 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 39. 190«Mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere quando in Italia si era alla vigilia di una certa evoluzione politica all’interno della Democrazia cristiana che avrebbe portato l’onorevole Moro alla nomina di presidente del Consiglio. Egli comunque insisteva nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell’esigenza di informare i giornalisti». Guerzoni Corrado in Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, volume II, Resoconti stenografici, pag. 745. 191 Eleonora Moro in Commissione Moro, volume V, p. 6.
192 «Nel 1963 gli Stati Uniti decisero di sostenere la cosiddetta “apertura a sinistra”, il cui obbiettivo si identificava in una coalizione fra socialisti di sinistra e democristiani; la cosa avrebbe, almeno così si sperava, isolato i comunisti. Gli esiti ultimi della coalizione si rivelarono diametralmente opposti a quelli 77 importante per l’alleanza atlantica nell’ambito della guerra fredda, un satellite degli Usa, caratterizzato dal più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Il 28 ottobre 1974 Aldo Moro venne incaricato dal presidente Leone di formare il nuovo governo. Il leader si pronunciò contro il compromesso storico, sebbene teorizzò la necessità di collaborazione con il Pci per risolvere alcuni grandi problemi del paese. Il successo delle sinistre alle elezioni amministrative del giugno del 1975 fu un terremoto politico di livello internazionale. «Osservatore politico» attribuì le colpe «alla fazione democristiana senza coraggio, senza iniziative e senza chiarezza di idee di Moro193», continuando a sostenere la richiesta di Kissinger di rivitalizzare la Dc. Il Dipartimento di Stato Usa cominciò ad elaborare una nuova strategia facendo nuovamente leva sui socialisti, potenziati e schierati sul fronte anticomunista. Carmine Pecorelli fu tra i primi a scrivere del nuovo atteggiamento americano, a partire dal 19 luglio 1975194, prevedendo l’ascesa del milanese Bettino Craxi verso la segreteria del partito. Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un Psi e una Dc tutti rinnovati. Che magari potranno giovarsi dell’estemporaneo appoggio esterno di un Pci che vorrà far confluire su qualche disegno di legge anche i suoi voti. Ma che resterà rigorosamente escluso dall’area del governo. Pena la nascita, con l’appoggio degli Usa, di nuove formazioni politiche, gemelle e parallele a Dc e Psi195.
«Osservatore politico» scrisse di quanto la politica italiana venisse influenzata dal volere del dipartimento di stato americano, decidendo il nuovo potere politico; una santa alleanza fra un Psi ed una Dc rinnovati. Quello che avverrà dopo l’uccisione di Aldo Moro. Carmine Pecorelli colse tutta l’ostilità nei confronti della politica di Moro e la scrisse nei suoi articoli. Ore 13: Il ministro deve morire del 19 giugno 1975, una nota pubblicata da «Op» successivamente alle elezioni amministrative in Italia. Risultati ritenuti catastrofici per l’atlantismo e gli Stati Uniti, che attribuivano le colpe a Moro. In sperati. L’apertura a sinistra li fece diventare l’unico partito di opposizione vero e proprio. L’influenza comunista era anzi così forte che l’acuto Moro aveva deciso di sfruttarla per togliere potere ai socialisti», HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, Sugarco, Milano 1980, p. 95. 193 Carmine Pecorelli cit. in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 50. 194 Sarà Craxi il nostro Soares?, «Osservatore politico», 19 luglio 1975. 195 La grande virata della barca socialista, Ivi, 25 ottobre 1975. 78
Moro-bondo del 2 luglio 1975 o L’America, esperta, scherza e prevede del 13 settembre 1975: «Un funzionario, al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: «Vedo nero. C’è una Jaqueline nel futuro della vostra penisola»196. I riferimenti al possibile omicidio dell’uomo politico furono presenti in diversi articoli197 del giornalista e raggiunsero il culmine in tale nota, in cui il direttore di «Osservatore politico» menzionò la moglie di John Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, ipotizzando un futuro delitto di natura politica anche in Italia. Gli articoli di Pecorelli su Aldo Moro furono caratterizzati da diverse allusioni di morte, sebbene il politico fosse tra i bersagli democristiani più risparmiati di «Op». Probabilmente Moro, da ministro degli Esteri, lavorò diverse volte in stretta collaborazione con il generale Miceli, amico del giornalista. Inoltre tra il materiale sequestrato nella sede di «Osservatore politico» si trovarono alcune fotografie che ritraevano Moro insieme a Pecorelli198. Il 7 gennaio 1976, il Psi revocò la fiducia al governo Moro che si dimise. I socialisti mirarono ad un’alternativa di sinistra con un governo di emergenza nazionale. La copertina di «Osservatore politico» presentava dunque una caricatura di Moro intitolata Il santo del compromesso: vergine, martire e…dismesso.
Il compromesso storico è nato come appoggio esterno al centrosinistra. Oggi, assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme al leader pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie di Berlinguer199. Pecorelli scrisse, in un articolo successivo, riguardo la possibilità che il segretario del Psi De Martino avesse revocato la fiducia al governo in seguito a pressioni dei Servizi statunitensi. C’è perfino chi insinua che la decisione di De Martino sia legata alla visita avuta dal segretario socialista da parte di un personaggio (alcuni dicono turco, altri lasciano 196 «Osservatore politico», 13 settembre 1975. 197 Il primo accenno venne da «Mondo d’oggi» nel novembre 1967. In un articolo Carmine Pecorelli scrisse di un possibile rapimento dello statista, già in piano dal 1964, ad opera del tenente colonnello Roberto Podestà, DI GIOVACCHINO, Scoop mortale, p. 200. 198 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 58. 199 Dopo Moro: la crisi oltre i suoi promotori, «Osservatore politico», 9 gennaio 1976. 79 intendere che sia tedesco): quelli che ne sono al corrente interrompono subito il dialogo quando si domanda loro se per caso il personaggio misterioso sia un agente della Cia200. Sottolineando le preoccupazioni, sia a livello nazionale che internazionale, per l’ipotesi di un’intesa governativa tra la Dc e il Pci, Carmine Pecorelli disapprovò l’incarico di Leone affidato a Moro per formare il nuovo governo. Il male oscuro del nostro paese è che vuol alimentare, a dispetto di Yalta, un’opposizione che significa alterazione degli equilibri mondiali. E’ per questo che basta che un sindaco Dc ceda le chiavi ad un collega comunista che entrano subito in allarme i servizi segreti dei cinque continenti201. Il 12 febbraio Moro varerà il suo quinto governo, un monocolore votato da Dc e Psdi, che durò fino al 30 aprile. Sebbene la Democrazia cristiana confermò il suo primato, con il terzo governo Andreotti, il pericolo del sorpasso e del primato comunista in Italia restò forte. Il 14 aprile 1976 Aldo Moro diventò presidente del partito, la strada verso il compromesso storico sembrò sempre più vicina.
Carmine Pecorelli contro il Governo: Il rapimento Moro.
Il 16 marzo 1978 il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti si sarebbe dovuto presentare alla Camera per il voto di fiducia. Il giorno precedente «Osservatore politico» ironizzò sulla coincidenza di tale data di formazione del governo e le Idi di marzo202del 44 a.C. Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita Sera” pubblica in seconda pagina un necrologio sibillino: «A 2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora Cesare 44 a.C. – 1978 d.C.». Proprio alle Idi di marzo del 1978 il governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo 200 Che relazione c’è tra il furto a Moro e la crisi governativa?, «Osservatore politico», 13 gennaio 1976. 201 Il saggio Ulisse, le sirene e la cera alle orecchie, Ivi, 15 gennaio 1976. 202 Data dell'assassinio di Giulio Cesare ad opera di Decimo Giunio Bruto, Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e altri cospiratori. 80 attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi?203 Erano le nove del mattino del 16 marzo quando Aldo Moro venne rapito dalle Brigate rosse. La Fiat 130 di Moro, scortata da altre due auto, percorreva via Fani. All’incrocio con via Stresa una Fiat 128 targata Corpo Diplomatico, rubata all’ambasciata venezuelana, bloccò la strada alle tre vetture. Appostati dietro ad alcune siepi laterali altri brigatisti, vestiti da steward Alitalia, iniziarono un conflitto a fuoco in cui morirono tutti gli uomini della scorta204. Il comunicato numero uno delle Br venne fatto trovare a Roma ad un giornalista del Messaggero avvertito telefonicamente sabato 18 marzo. In una busta, abbandonata sulla parte superiore di un apparecchio per fotografie formato tessera in un sottopassaggio di largo Argentina, vennero trovate cinque copie del comunicato e una foto Polaroid che ritraeva Moro seduto sotto una bandiera con la stella a cinque punte. I brigatisti dichiararono che il presidente della Democrazia cristiana sarebbe stato sottoposto ad un processo del popolo e che sarebbero seguiti ulteriori comunicati.
Qui Brigate rosse. Abbiamo rapito noi il servo dello stato Aldo Moro. Abbiamo ucciso Leonardi e tutti gli altri della scorta. Le nostre richieste sono due: la liberazione di tutti i compagni detenuti a Torino e i compagni di Azione rivoluzionaria, tutti quanti. Entro quarantotto ore questo comunicato dovrà essere letto su tutte le reti nazionali e ad un certo punto attendiamo una risposta. Se la risposta non sarà valida faremo fuori anche Aldo Moro205. Nei giorni successivi alla strage di via Fani, il bollettino ciclostilato «Op» si trasformò in un settimanale distribuito nelle edicole di tutta Italia. Il primo numero, distribuito tra il 203 Le Idi di marzo, «Osservatore politico», 15 marzo 1978. 204 Le vittime della strage di via Fani: Oreste Leonardi, uomo scorta di Aldo Moro da quindici anni che fece scudo con il proprio corpo per proteggere dai proiettili lo statista; Domenico Ricci, Autista di Moro da oltre vent’anni; Francesco Zizzi, uno dei suoi primi giorni di scorta, morto durante il trasporto all'ospedale Gemelli di Roma; Giulio Rivera, alla guida dell’auto di scorta che precede quella del presidente della Dc; Raffaele Jozzino, l’unico che uscì dalla vettura e che esplose colpi d’arma da fuoco. GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea triennale in Storia, rel. Prof. G. Romanato, a.a 2007 – 2008, p. 18. 205 AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, p. 91. 81 20 e il 21 marzo, portò la data posticipata al 28 marzo 1978206, mentre due giorni prima venne ritrovato il secondo comunicato della Br. Carmine Pecorelli analizzò la situazione in numerosi articoli, il primo, Abbiamo svoltato l’angolo, analizzò l’inadeguatezza dello Stato nei confronti del Terrorismo.
Non illudiamoci: il rapimento Moro è una tappa, non il culmine della guerra civile in Italia. Colpito al cuore lo Stato, i commandos brigatisti passeranno ad altri la mano per operazioni più ampie. È la tragica escalation di tutte le rivoluzioni: ad un certo punto si passa da azioni individuali a sollevazioni di massa. Da anni nel nostro paese si sta sviluppando una minirivoluzione di tipo sudamericano. Sparuti gruppi di guerriglieri sabotano l’economia, turbano l’ordine pubblico e la pace sociale, attentano alle istituzioni e alla sicurezza. A fronte di tutto ciò, nessuna reazione adeguata da parte dello Stato. Mentre pochi guerriglieri seminano morte e disperazione nelle strade della penisola, Parlamenti e governi che si sono succeduti in rara abbondanza hanno puntualmente smobilitato la macchina della difesa delle istituzioni democratiche […] . Il Parlamento ed il Governo italiano hanno curato uno stato ammalato di broncopolmonite doppia, somministrando solo aspirine. E con estrema parsimonia. I terroristi hanno dichiarato guerra ad uno stato che, evangelicamente, ha offerto l’altra guancia. Anche oggi, mentre tengono in ostaggio il massimo statista italiano, presunti statisti ci fanno assistere al solito balletto di sepolcri imbiancati: Zaccagnini piange e tremita, Leone si leva sdegnato, commemora i defunti e torna a sedersi. A Montecitorio, a Palazzo Madama, deputati e senatori, le facce della paura e gli occhi fuori dalle orbite, affrettano i tempi di fiducia al governo. Nasce su cinque cadaveri, nasce sul sequestro del presidente della Democrazia cristiana il primo governo italiano di segno eurocomunista207.
L’analisi di Pecorelli riassunse i massimi luoghi comuni della reazione, la guerra civile che lo Stato non represse e le istituzioni che smobilitarono l’apparato della difesa. In questo articolo mutò anche l’atteggiamento del giornalista nei confronti del leader democristiano; definito dal giornale, in diverse riprese, «lentocrate208» o «monarca 206 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 246. 207 Abbiamo svoltato L’angolo, «Osservatore politico», 28 marzo 1978. 208 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 247. 82 assoluto», si passò a scrivere di Moro come fosse il simbolo del più grave attentato della storia repubblicana definendolo «il massimo statista italiano». Pecorelli descrisse lo sgomento degli uomini del partito e del IV governo Andreotti, un monocolore sostenuto da Pci, Psi, Psdi e Pri, che ricevette la fiducia quasi unanime dalla Camera e dal Senato il 16 marzo 1978209.
Che ne sarebbe della Dc se Moro non dovesse essere restituito al più presto alla vita politica? Andreotti è troppo poco uomo di partito e troppo uomo di potere del governo; Fanfani è logoro d’anni e di sconfitte, Forlani se ne avesse la forza non ne avrebbe la voglia, Bisaglia ha atteso troppo all’ombra d’altri per poter oggi improvvisamente balzare alla ribalta. Colpiscine uno, educane cento: è lo slogan delle Brigate rosse. Mai come colpendo Moro i terroristi sono stati fedeli al loro programma. Chi in questi giorni ha potuto vedere da vicino qualche parlamentare Dc, ha visto uomini distrutti, insicuri del proprio futuro fisico oltre che politico. A Piazza del Gesù l’ufficio di Moro è deserto, né si sa quando il presidente potrà riprenderne pieno possesso. Nella stanza accanto c’è Zaccagnini, ma è una bussola impazzita senza più punto magnetico di riferimento. I terroristi hanno sequestrato gli equilibri politici, hanno sequestrato i tempi e i modi previsti per l’allunaggio morbido degli astronauti democristiani sul pianeta rosso210.
Sottolineando come il sequestro di Moro abbia colpito il solo leader democristiano capace di mantenere unione nel partito e l’unico interlocutore della strategia berlingueriana del compromesso storico. Quanto alle prospettive, sono terribili. I terroristi hanno tutto l’interesse a tirare per le lunghe, tenere per giorni e giorni il paese nell’angoscia. Ricordiamo il precedente di Mario Sossi. Rimase nelle mani delle Brigate rosse per quaranta lunghissimi giorni211. Anche a Moro, come a Sossi, i “carcerieri del popolo” celebreranno un macabro processo. Lo sottoporranno ad ogni sevizie psicologica, 209 Per la Camera il governo ottenne 545, 30 no e 3 astenuti. Al Senato 267 si e 5 no. Data l’emergenza il Pci accantonò le riserve su Andreotti e votò la fiducia. Ivi, p. 248. 210 Il caso Moro: il partito, «Osservatore politico», 28 marzo 1978. 211 Le Br avevano sequestrato a Genova il sostituto procuratore Mario Sossi il 18 aprile 1974. Durante i quaranta giorni di prigionia, il magistrato era stato lungamente interrogato dai brigatisti, ai quali aveva fatto importanti e gravi ammissioni relative alla magistratura ed alla questura genovese, FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse, p. 108. 83 lo ridurranno ad ecce homo, gli somministreranno sostanze chimiche e lo faranno parlare. Gli faranno dire ciò che vogliono sulla Dc, sulla Nato, sugli Stati Uniti, sulle più scabrose vicende politiche degli ultimi trent’anni è […]. Come sarà ridotto al termine di questa vicenda Aldo Moro, l’orologiaio del nostro sistema politico?212 Pecorelli arricchì il numero del 28 marzo con alcune notizie riservate, sebbene imprecise, riguardo il rapimento di via Fani. Si trattò dell’articolo Il caso Moro: l’inchiesta, dove il giornalista ricostruì le dinamiche del rapimento del 16 marzo: Gli investigatori sono riusciti a ricostruire qualche particolare di rilievo. Dopo l’agguato in via Mario Fani alle 9.10 di giovedì mattina, la 132 con a bordo Moro, preceduta e seguita dalle due 128 del commando del terrore, ha imboccato via Stresa, percorso un tratto di via Trionfale, superato l’incrocio di via Igea e girato a destra per una via privata, via Carlo Belli. In fondo a questa strada, dove inizia via Casale de’Bustis, c’è un ostacolo naturale: un cancelletto metallico chiuso da una pesante catena. La 132 si ferma, scende una donna che con un paio di cesoie recide la catena, apre il cancello e consente il passaggio del convoglio delle brigate. A quel punto Moro era ancora nella 132. Lo ha visto distintamente un testimone, coperto da un plaid di lana scozzese. Pochi minuti dopo la 132 si ferma per una seconda volta, è in via Licinio Calvo. Anche qui un testimone può guardare, ed è pronto a giurare che Moro non è più all’interno della vettura. La zona è stata setacciata metro per metro: Moro non è stato ritrovato. I terroristi devono averlo trasferito in un altro mezzo di locomozione fermandosi una terza volta nel tratto Casale de’Bustis – Licinio Calvo. Su quale mezzo è stato trasportato il Presidente della Dc? Escluso l’elicottero, su qualsiasi altro veicolo213.
L’ipotesi dell’elicottero tornerà ad essere citata diverse volte negli articoli214, sfruttando le parole di un testimone che giurò d’aver udito il rombo di un elicottero poco dopo la strage. Nei successivi articoli «Osservatore politico» attribuì la strage di via Fani alle sinistre, non solo per l’ideologia politica dei terroristi, ma anche perché le sinistre stesse 212 Il caso Moro: le prospettive, «Osservatore politico», 28 marzo 1978. 213 Il caso Moro: l’inchiesta, Ivi, 28 marzo 1978. 214 «Non saranno infatti andati appunto in elicottero a deporre Moro?», Ivi, 25 aprile 1978. 84 contribuirono allo smantellamento dei servizi segreti215. Sbilanciandosi portavoce dell’atlantismo, sottolineò l’obbiettivo politico che sarebbe dovuto scaturire da tale vicenda: Una svolta moderata di tipo autoritario contro la sinistra ed il sistema dei partiti, una Repubblica presidenziale. È ciò che scrisse nell’articolo del 4 aprile 1978, Alla riscoperta dello Stato.
Giovedì 16 marzo è diventato certezza il dubbio che da tempo covava nella mente di gran parte del Paese: per uscire dalla crisi, innanzitutto è necessario rifondare questo Stato, incapace di difendere persino i suoi uomini più prestigiosi […]. Il Paese si è reso conto del fallimento dei modelli del permissivismo sinistroide, ha compreso che partono di qui l’anarchia, il caos, l’insicurezza che fanno da scenario alla guerra civile. E che se si vuole uscire dalla crisi economica e sociale è necessaria una vera e propria rivoluzione morale che restituisca credibilità e significato alle istituzioni216. Nell’articolo Attenzione ai falsi profeti, il giornalista prese di mira i parlamentari comunisti e socialisti che si occuparono della riforma della polizia e dei Servizi segreti217 e gli organi di stampa che fino al giorno del rapimento Moro sembrarono d’accordo a queste modifiche. Inoltre Pecorelli si sbilanciò dimostrandosi contrario a riforme e processi di democratizzazione degli apparati statali218.
Tanto per fare un esempio vistoso, “L’Espresso” della scorsa settimana denunciando l’inefficenza dell’attuale struttura di sicurezza dello Stato, invocava i fantasmi dei Maletti219, dei D’Amato, dei Dalla Chiesa, dei Santilli. Cioè proprio degli ufficiali e degli alti funzionari di polizia che quel settimanale negli scorsi anni ha additato all’odio del Paese, ha fatto allontanare con infamia o con dolore dai posti di 215 «In realtà, la sinistra assunse iniziative legislative per affrontare i cosiddetti “Corpi separati dello Stato” e per adeguare l’ordinamento delle istituzioni militari e di sicurezza alla Costituzione repubblicana», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 257. 216 Alla riscoperta dello Stato, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 217 Ugo Pecchioli, Sergio Flamigni, Arrido Boldrini del Pci; Vincenzo Balzamo, Giacomo Mancini, Silvano Signori del Psi, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258. 218 Ibidem. 219 «Op dimentica, come per incanto, la sua lunga campagna contro il generale Gianadelio Maletti, conclusa solo quando l’ufficiale del Sid venne arrestato ed incarcerato per le deviazioni del Servizio», Ivi, p. 257. 85
responsabilità e di comando. Ma nemmeno un cenno di autocritica nell’articolo in questione, quasi “L’Espresso” fosse giunto ieri da un altro pianeta220. Si continuò a sottolineare la superficialità del gruppo politico dinnanzi la drammatica vicenda, riferendosi al tentativo d’oscurare la gravità della situazione alla stampa ed al popolo italiano. Pecorelli si riferì in particolar modo alla questione della foto di Moro scattata dal covo brigatista, che sollevò quesiti sulla vera autenticità e sul terzo comunicato delle Br con la lettera di Moro a Cossiga. Diffuso il 29 marzo 1978, con allegata una lettera segreta destinata al ministro dell’Interno che le Br resero pubblica221. Il messaggio n. 3 delle Brigate rosse, lo scritto autografo di Aldo Moro che è stato recapitato alle 21.10 di mercoledì a Francesco Cossiga, ha fatto cadere nel vuoto l’ipotesi che fosse un fotomontaggio l’immagine del presidente della Dc prigioniero che ha angosciato l’Italia dalle pagine dei giornali. Il particolare rivela la pericolosa superficialità, l’avventurosità, con la quale i politici hanno affrontato e stanno affrontando la più drammatica vicenda nazionale. Ancora una volta, invece di affrontare da uomini tutti i problemi proposti dalla difficilissima situazione, hanno cercato d’imbrogliare le carte, d’imbrogliare il paese. Ci è stato detto, contro ogni evidenza ci è stato fatto dire, che la foto di Moro prigioniero era una falsificazione, con l’evidente scopo d’invalidare ogni futuro messaggio del presidente democristiano. Senza battere ciglio, senza alcuno scrupolo morale, è stato fatto pensare al paese persino che Moro non fosse più in vita.
Il terrorismo non si batte con questi mezzucci buoni solo per manipolare qualche assemblea condominiale. Oggi infatti, con sadica puntualità, i brigatisti hanno smascherato gli apprendisti stregoni agli occhi di tutto il paese. Speriamo che lo choc dia qualche risultato222. Nello stesso numero Carmine Pecorelli citò il documento delle Br che rivendicò il sequestro dell’armatore Costa nel 1977223, pubblicato in esclusiva da «Op» e caduto 220 Attenzione ai falsi profeti, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 221 «Moro ha chiesto di scriverle una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente dev’essere nascosto al popolo, ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica», Comunicato n. 3 delle Brigate rosse, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258. 222 Di fronte alla lettera di Moro, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 223 «L’armatore genovese Pietro Costa venne sequestrato da un commando brigatista la sera del 12 gennaio 1977. L’ingente riscatto di un miliardo e mezzo di lire venne pagato a Roma dalla famiglia, alla 86 nell’indifferenza. Secondo il giornalista lo Stato avrebbe dovuto capire la pericolosità e le intenzioni dei terroristi invece che sottovalutarne il fenomeno. Si trattò dell’ennesima critica del giornalista al Governo.
Quando un anno or sono l’agenzia Op ne dette pubblicazione integrale, il documento cadde nell’indifferenza quasi assoluta. Oggi assume un valore particolare: con il sequestro Costa i terroristi hanno finanziato il sequestro Moro; la colonna del terrore che ha stilato il documento è la stessa colonna che sta processando Aldo Moro. Ma il documento è importante anche per un secondo motivo. Esso rivela che fin dallo scorso anno avrebbe dovuto essere chiaro che con le Br lo stato si trovava a che fare con una organizzazione estremamente estesa ed agguerrita che per preparazione, determinazione e livello d’informazione costituisce un formidabile nemico. Ciò avrebbe dovuto provocare la mobilitazione immediata di tutti gli apparati di sicurezza del paese. Così non è stato. I politici continuando nei loro compromessi e nelle loro parole hanno allegramente continuato a smantellare i servizi segreti e ad avvilire il personale militare. Oggi le Brigate rosse hanno collocato una bomba ad orologeria nel cuore dello Stato. C’è solo da augurarsi che esista ancora un artificiere in grado di disinnescarla224.
Precedentemente ai fatti avvenuti il 16 marzo 1978, a più riprese Aldo Moro sembrò preoccuparsi di una possibile situazione o evento che avrebbe potuto colpire il mondo politico. Il leader democristiano disse di temere gesti clamorosi che le Br avrebbero potuto compiere a danno di qualificati esponenti della Democrazia cristiana. Emersero inoltre le inquietudini dello statista verso le azioni dei Servizi segreti occidentali e della Cia. Il dirigente democristiano Giovanni Galloni testimonierà di un dialogo avuto con Moro due mesi prima del suo rapimento.
La cosa di cui sono molto preoccupato è questa: io so che i Servizi Segreti americano ed israeliano hanno degli infiltrati nelle Brigate rosse, però questi servizi fine di marzo senza alcun intervento dello Stato. Costa venne liberato il 3 aprile, con in tasca il comunicato con il quale le Br rivendicarono il rapimento. L’ingente somma di denaro ottenuta permise a Moretti di consolidarsi come capo – padrone delle Br e di dotare l’organizzazione di una disponibilità finanziaria quale mai ha avuto prima. Denaro che verrà utilizzato per acquistare armi, appartamenti e per preparare l’operazione Moro», FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse, p. 189. 224 Il documento che annunciò la guerra, «Osservatore politico», 4 aprile 197 non ci hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi o allo Stato, perché certamente le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi225. Inoltre Moro ricevette diverse minacce scritte dalle Brigate rosse, sia nella sua abitazione che nel suo ufficio di via Savoia. Ne parlò Pecorelli nell’articolo Moro era stato minacciato dalle Brigate rosse, sottolineando come tutti, compreso le guardie del corpo del politico, fossero preoccupati. Secondo il giornalista tutti tranne lo Stato. Aldo Moro aveva informato dell’arrivo di questi messaggi intimidatori gli uffici competenti. Ma, a quanto risulta, all’informazione non è stata data alcuna importanza. I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Chi invece si era preoccupato dei messaggi delle Br è stato il povero Oreste Leonardi, il sottoufficiale che da quindici anni tutelava l’incolumità di Aldo Moro. Quasi mosso da un oscuro presentimento, il Leonardi, la mattina del 16 marzo, aveva raddoppiato l’abituale dotazione di proiettili per la sua pistola. Purtroppo le Br non gli hanno dato il tempo di servirsene226.
«Osservatore politico» per la trattativa.
Nella fase iniziale del rapimento Moro, Carmine Pecorelli si pronunciò in favore della fermezza di Stato ma, dall’inizio dell’aprile 1978, cominciò a scrivere numerosi articoli in favore della possibile trattativa con i terroristi. Con l’articolo In nome del popolo: trattare… infatti, il giornalista aprì la strada al partito della trattativa. Questo cambio di posizione sarebbe avvenuto successivamente alla lettera dello statista a Cossiga227. Al termine di affannose consultazioni, la segreteria democristiana ha deciso di non trattare con le Brigate rosse lo scambio del presidente Moro […]. Aldo Moro sarà sacrificato sull’altare della ragion di Stato. Di quale Stato? Incapace di amministrare la giustizia, incapace di difendere i cittadini, incapace di punire i disonesti e speculatori, incapace di offrire prospettive al Paese, privo di 225 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 264. 226 Moro era stato minacciato dalle Brigate rosse, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 227 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 265. 88 autorità di ordine e di morale, questo Stato oggi si tiene in piedi solo rinnovando il macabro rituale del sacrificio umano228.
Pecorelli si domandò per quale ragione, gli stessi uomini politici che si congratularono con la Dc tedesca per aver trattato con il «Movimento 2 giugno» riguardo il rapimento Peter Lorenz e gli stessi che si indignarono nei confronti della Repubblica Federale Tedesca per non aver voluto trattare con i terroristi palestinesi nell’attentato di Palma De Maiorca229, fossero assolutamente contrari alla trattativa per Moro. Quelli stessi che oggi hanno rifiutato di salvare la vita a Moro, sono gli stessi che ieri inveivano contro la Germania e contro Israele rei di non voler trattare con i terroristi palestinesi; sono gli stessi che hanno plaudito alla Dc tedesca disposta a trattare per Lorenz. Perché allora non trattare per Moro? A chi giova non trattare? La decisione di non trattare è iniqua e inopportuna, ispirata da una logica perversa e suicida. Non accettando le trattative, la Dc s’è detta indifferente alla sorte di Moro. Che succederà se le Br non dovessero restituire il loro legittimo capo ai democristiani?230 Nell’articolo del 18 aprile 1978 «Osservatore politico» scrisse riguardo alla lettera del prigioniero per la moglie Eleonora, intercettata dalla polizia l’8 aprile e consegnata alla signora Moro. Pecorelli precisò d’aver preso visione di questa lettera prima del Viminale e della Procura, dimostrandolo in tale articolo. Sebbene il testo integrale venne pubblicato da «Op» solo il 13 giugno 1978, fu chiaro che il giornalista ne prese visione ben prima, probabilmente grazie ai numerosi contatti con la P2, i servizi segreti ed il Viminale231.
228 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 229 In questo articolo Pecorelli si riferisce al rapimento del politico Peter Lorenz, dell’Unione Cristiano Democratica, rapito nel 1975 e dell’attentato ad opera del gruppo terroristico tedesco Rote Armee Fraktion del 13 ottobre 1977 a Palma di Maiorca, dove un gruppo di quattro terroristi palestinesi dirottò un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio novantuno persone. La RAF pretese la liberazione dei propri capi in cambio della vita degli ostaggi dell'aereo e dell'industriale tedesco Schleyer. Il governo tedesco non si piegò al ricatto dei terroristi ed il 17 ottobre, con un'azione di forza, assaltò l'aereo uccidendo 3 terroristi e liberando gli ostaggi. 230 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978. 231 «Pecorelli aveva contatti con il sostituto procuratore Luciano Infelisi, titolare dell’inchiesta», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272. 89 Innanzitutto dobbiamo precisare che le lettere di Moro alla famiglia sono quattro, perché se è vero che il postino delle Br ha bussato solo tre volte alla porta del prof. Rana, l’ultima ha recapitato due messaggi di Moro. La lettera più importante è proprio questa. È scritta con una penna a biro su due fogli, con qualche cancellatura e qualche ripetizione. Sul suo contenuto nulla è trapelato, perché il prof. Rana non l’ha mostrata a nessuno, recapitandola personalmente alla moglie di Moro. Ciò significa che il testo non è ancora stato visto né al Viminale né alla Procura. Per un doveroso rispetto per il dolore dei familiari, evitiamo di riferire particolari che riguardano un dramma tutto loro. Ma il nostro dovere professionale ci obbliga a sottolineare le parti politiche della lettera di Moro, quelle relative alle accuse all’interno del gruppo dirigente democristiano232.
Dunque il giornalista visionò la lettera prima del dovuto e lo ammise tacitamente continuando a rivelarne i contenuti del prigioniero riguardo le soluzioni politiche. La necessità della trattativa, lo scambio di prigionieri, ma soprattutto citando la frase «il mio sangue ricadrà sulle teste di Cossiga e Zaccagnini»233. Noi, unica vera voce controcorrente nel coro della stampa italiana, abbiamo detto subito che bisognava trattare. Ci risulta che la nostra tesi è stata discussa a lungo nel corso di un vertice del Viminale. Poi, chissà perché, è stata lasciata cadere. Si fosse almeno cominciato a trattare, il presidente Moro non si sarebbe sentito abbandonato al suo destino, il Paese non avrebbe dovuto assistere al reciproco crucifige dei suoi massimi rappresentanti istituzionali. Che succederà adesso? Si sente ripetere dal solito coro dei giornalisti che c’è il pericolo che Moro riveli alle Br segreti si stato. Non prendiamoci in giro. Questo non è uno Stato che ha segreti da custodire. Il pericolo vero è che Moro riveli segreti di uomini politici e partiti. Il processo Lockheed è appena cominciato: che potrebbe accadere se rivelasse alle Br l’identità 232 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico», 18 aprile 1978.
233 «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272. 90 dell’Antilope nazionale234? O l’elenco dei 554 conti svizzeri degli amici di Michele Sindona?235 Nell’articolo Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e dopo? del 18 aprile 1978 Pecorelli analizzò l’accusa rivolta da Moro nei confronti del collega Emilio Taviani, considerandola un atto di viltà verso un uomo ormai privo di potere. Moro ha definito Taviani un «teppista di Stato». Taviani è da tempo un pezzo da museo, un cadavere nell’armadio politico italiano, prendersela con lui significa voler fare il maramaldo. In passato, quando era ancora un uomo di potere, dalle pagine dell’agenzia Op, abbiamo più volte duramente polemizzato con il ministro genovese, rimproverandogli d’essere stato il primo affossatore dell’ordine pubblico sostenendo che in Italia esiste un solo terrorismo: quello nero236. L’articolo fu in riferimento al comunicato numero cinque, recapitato dalle Brigate rosse intorno alle 17.20 del 10 aprile 1978, con allegato ad esso un una fotocopia del manoscritto di Moro su Emilio Taviani.
L’interrogatorio del prigioniero prosegue e, come abbiamo già detto, ci aiuta validamente a capire le linee antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche che si sono dipanate nel nostro paese, ad individuare con esattezza le responsabilità dei vari boss democristiani, le loro complicità, i loro protettori internazionali, gli equilibri di potere che sono stati alla base trent’anni di regime Dc. L’informazione e la memoria di Aldo Moro non fanno certo difetto ora che deve rispondere davanti a un tribunale del popolo. Mentre confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo e al movimento rivoluzionario che saprà utilizzarlo opportunamente, anticipiamo le dichiarazioni che il prigioniero Moro sta facendo, quella parziale ed incompleta, che riguarda il teppista di Stato Emilio Taviani237. 234 Il politico italiano primo beneficiario delle tangenti nello scandalo Lockheed era coperto da pseudonimo «Antelope Cobbler», Ibidem. 235 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico», 18 aprile 1978.
236 Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e poi?, Ibidem. 237 Comunicato numero cinque, GOTOR, Il memoriale della repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 6. 91 Attraverso il documento Taviani, Aldo Moro sviluppò delle motivazioni atte a giustificare una trattativa con le Brigate rosse attraverso lo scambio di prigionieri politici e mosse una forte critica nei confronti del politico Taviani attraverso la ricostruzione della sua carriera. Moro accusava il collega d’essere «andato in giro» per tutte le correnti, portandovi la sua indubbia efficienza ed una grande spregiudicatezza; d’aver avuto una condotta poco lineare, per le sue alleanze con il Msi e successivamente con il Pci; per essere sempre stato influenzato dagli ambienti americani e per aver avuto forti contatti con essi, ma soprattutto per la sua amicizia con l’ex direttore del Sid, Eugenio Henke. Il documento oltre ad avere un valore rilevante dal punto di vista storico, considerato parte del memoriale Moro, rivela dei possibili messaggi tra le righe lanciati dal prigioniero al partito ed al mondo politico. Soltanto al termine della guerra fredda, infatti, si sarebbe venuto a sapere che Taviani, nel suo periodo al ministero della Difesa e quando il suo capo di gabinetto fu proprio Henke, fu il fondatore dell’organizzazione segreta Stay-behind.
Tale struttura venne costituita con l’unico scopo di difesa in caso d’invasione sovietica, o nell’eventuale possibilità che il comunismo dilagasse in Europa. L’appendice italiana di questa organizzazione, chiamata Gladio, era conosciuta solo da un manipolo di uomini ai vertici dello Stato238. Dunque il fatto che la prima pagina degli interrogatori di Moro divulgata attaccasse proprio il fondatore di Stay-behind, scosse notevolmente questi uomini politici. Pecorelli non poteva saperlo, non cogliendo la frase di Moro: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?». Cinque giorni dopo, il 15 aprile 1978, il comunicato numero sei delle Br rivelò la conclusione dell’interrogatorio e l’inevitabile condanna a morte del prigioniero. Le Brigate rosse, mediante il solito volantino, annunziano che il «processo» ad Aldo Moro è terminato e che «l’imputato» è stato condannato a morte. La stampa commenta in maniera pressoché uniforme, si fa quadrato intorno alle istituzioni in pericolo, si ribadisce la necessità del non cedimento – benché non appaia ben chiaro su cosa eventualmente si dovrebbe cedere, dal momento che a tutt’oggi il tribunale del popolo non adombra neppure l’alternativa alla condanna239. 238 Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa, Luigi Longo, Ivi, p. 22. 239 Diario dell’irreale assoluto. Sabato 15 aprile: la condanna, «Osservatore politico», 25 aprile 1978. 92
Il dossier di «Op» Diario dell’irreale assoluto del 25 aprile 1978, descrisse gli avvenimenti nei cinque giorni che intercorsero tra il sesto comunicato Br ed il settimo. Pecorelli dedicò ampio spazio anche al falso comunicato brigatista del 18 aprile 1978, contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione di Aldo Moro e le istruzioni per il ritrovamento del corpo presso il Lago della Duchessa, in provincia di Rieti240. Un enorme dispiegamento di forze alla ricerca del cadavere di Moro che lo stesso presidente democristiano, nel suo memoriale, definì «la macabra grande edizione sulla mia esecuzione»241. Un volantino anomalo, rachitico, frettoloso e recapitato in una sola città contrariamente ai precedenti, annuncia l’avvenuta esecuzione per suicidio di Aldo Moro, ed il suo seppellimento in un laghetto di montagna. I leader dei partiti, sempre più accasciati e con un che di ambiguo disorientamento, dispongono, pur nell’incertezza sull’attendibilità del messaggio, le ricerche. La via per il lago segnalata risulta impraticabile da terra a causa della neve e del gelo degli ultimi giorni. Si muovono elicotteri che depositano sciatori, esperti anti-valanghe e sommozzatori sul lago, il quale risulta oltre che coperto di neve fresca priva di impronte, anche totalmente ghiacciato. Non rimane che perforarlo, e senza alcun esito. Si dirottano le ricerche su un altro laghetto poco distante, che presenta caratteristiche meno ostiche e improbabili. Nulla242.
L’articolo collegò il falso comunicato con la scoperta del covo Br di via Gradoli, avvenuta lo stesso giorno. Per il giornalista si tratto di un’unica operazione accuratamente pilotata243. Il rifugio venne scoperto grazie ad una fuga d'acqua, che secondo i vigili del fuoco sembrò essere stata volutamente provocata: uno scopettone era 240 Il 18 aprile 1978 venne diffuso un falso comunicato, contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione di Aldo Moro. Venne indicato il luogo dove trovare il cadavere del presidente democristiano, nei fondali del Lago della Duchessa in provincia di Rieti. Un comunicato falso che il Viminale dichiarò autentico, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 281. 241 Ivi, p. 284. 242 Diario dell’irreale assoluto. Lunedì 17 e martedì 18 aprile: la presunta esecuzione e la troppo inequivocabile scoperta del covo, «Osservatore politico», 25 aprile 1978. 243 «L’infiltrazione d’acqua fu una manovra deliberatamente attuata per provocare la scoperta del covo Br di via Gradoli 96 senza che ciò provocasse l’arresto di alcun brigatista. La teatrale scoperta del covo venne sincronizzata con la diffusione del comunicato Br del Lago della Duchessa. E se la scoperta del covo era chiaramente pilotata, il comunicato numero sette era palesemente falso», FLAMIGNI, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos 1999, p. 49.
93 stato appoggiato sulla vasca, sopra ad esso qualcuno aveva posato il telefono della doccia in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro. Anche secondo Alberto Franceschini, ex Br, la vicenda del Lago della Duchessa e di via Gradoli andrebbero tenute insieme. Fu un messaggio preciso a chi deteneva Moro, per avvisare le Br che lo Stato avrebbe potuto catturarli in qualsiasi momento. Un’ulteriore ipotesi avvalorerebbe l’idea che il covo sia stato fatto scoprire appositamente da qualche brigatista contrario all'uccisione di Moro. Recentemente Steve Pieczenik, il consigliere americano chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere lo stato di crisi, nel libro Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra di Emmanuel Ammara244, ammise la sua responsabilità in accordo, con Cossiga, nella creazione di un falso comunicato. Si rileva il dubbio di Pecorelli sulla vicenda grazie all’articolo Le allucinanti avventure degli investigatori. Il giornalista, infatti, scrisse «Brigate rosse» e «terroristi» tra virgolette, quasi a voler insinuare il dubbio riguardo ai veri autori di tale scritto. Ricevuta la co
pia del volantino delle “Brigate rosse” con il quale “i terroristi”, comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro, gli inquirenti si precipitano agli elicotteri messi a disposizione della Polizia e dei Carabinieri per raggiungere nel più breve tempo possibile la zona della Duchessa245. Il 20 aprile 1978 le Brigate rosse annunciarono, nel vero comunicato numero sette, che la condanna di Moro sarebbe stata eseguita, lasciando uno specchio di ventiquattro ore per il possibile scambio di prigionieri. Pecorelli raccontò quelle ore di ultimatum nell’articolo del 25 aprile, La ventiquattresima ora. Siamo costretti a chiudere il numero mentre mancano ancora 24 ore alla scadenza dell’ultimatum delle Br. Trattare o non trattare? Sentiamo ripetere che lo Stato è in preda al dilemma. Ma il dilemma presuppone una scelta. In questo caso lo Stato, cioè la Dc e il Pci, si impediscono a vicenda di scegliere. La Dc vive un dramma nel 244 EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
245 Diario dell’irreale assoluto. Le allucinanti avventure degli investigatori, «Osservatore politico», 25 aprile 1978. 94 dramma. Partito di cattolici, dovrebbe anteporre il rispetto della vita alle ragioni della politica. Solo una minoranza di democristiani sembra decisa a non sacrificare la vita del suo presidente. Se la Dc è divisa, gli altri partiti lo sono altrettanto246. Il 2 maggio 1978, ad una settimana dal futuro ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, «Osservatore politico» offrì un’ampia analisi politica della situazione italiana nell’articolo Il Paese si può e si deve salvare, cercando di dare un significato al rapimento ed immaginando le possibili ripercussioni di tale vicenda sul Paese. L’Italia apparse disorientata: comprese di vivere un momento politico cruciale tuttavia, secondo il giornalista, non riuscì ad andare oltre questa accettazione. Offrì, inoltre, una nuova interpretazione dell’eurocomunismo d’un partito scomodo ad entrambe le superpotenze mondiali.
L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obbiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il Partito comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. È comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè del leader del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industriale. Ciò non è gradito agli americani, perché altererebbe non solo gli equilibri del potere economico nazionale ma ancor più i suoi riflessi nel sistema multinazionale. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a Palazzo Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla III Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperiale moscovita. Ancora una volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. È Yalta che ha deciso via Mario Fani247. 246 La ventiquattresima ora, «Osservatore politico», 25 aprile 1978. 247 Yalta in via Mario Fani, Ivi, 2 maggio 1978. 95
In previsione delle elezioni amministrative del 14 maggio, l’analisi politica continuò nei successivi articoli. Sebbene Pecorelli fosse convinto dell’imminente liberazione del leader democristiano248, descrisse le varie possibilità di governo nel caso della liberazione di Moro o dell’esecuzione della sentenza del carcere del popolo. In questi articoli Pecorelli si domandò quanto avrebbe potuto influire e che ruolo avrebbe avuto il sequestro sull’opinione pubblica, divisa tra gli schieramenti favorevoli alla trattativa, il Psi di Craxi in primis, e quelli contrari ad ogni dialogo come la Dc o lo stesso Pci. Se Moro dovesse morire prima delle elezioni del 14 maggio, il Psi potrebbe affermare che è stata l’intransigenza dei democristiani e dei comunisti ad aver provocato il drammatico epilogo. Quale sarà allora la reazione dell’elettore Dc medio? Egli sa che sono stati gli sforzi di Moro a permettere l’ingresso del Partito comunista al governo, da ciò potrà dedurre che la Democrazia cristiana ha pagato un prezzo troppo alto se poi questo governo non è riuscito a salvare il suo presidente249. Poniamo invece che moro possa uscire vivo dall’avventura del sequestro. A maggior ragione gli uomini della Dc, il Vaticano, gli osservatori esterni, porterebbero eterna riconoscenza a Craxi. L’unico leader che dicendosi disposto a trattare ha consentito alle istituzioni il superamento di un difficile scoglio250. Nel primo caso (Moro morto), sotto la spinta dell’elettorato medio, probabilmente gli attuali dirigenti Dc potrebbero essi stessi guidare il ritorno al rapporto preferenziale col Partito socialista. Nella seconda ipotesi ciò è escluso tassativamente: la Democrazia cristiana dovrà passare attraverso un travagliato e penoso processo di rinnovamento251.
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro venne ritrovato nel baule posteriore di una Renault4 rossa a Roma, in via Caetani. A pochi metri dalla sede della Democrazia cristiana di Piazza del Gesù e poco distante da quella del Partito comunista italiano in via delle Botteghe Oscure. I funerali di Stato si svolsero senza la presenza dei famigliari ed 248 «A questo punto è lecito, più che un’ipotesi, formulare una logica e razionale previsione. A nostro avviso, non solo Moro non sarà soppresso dai suoi rapitori, ma è da ritenersi imminente la sua liberazione che sarà seguita da cerimonie trionfali e festeggiamenti popolari paragonabili solo all’incoronazione di Napoleone», Brigate rosse, arcangeli sterminatori arcangeli purificatori, «Osservatore politico», 2 maggio 1978. 249 Se Moro muore, voti alle colombe, Ibidem. 250 Se Moro vive, voti alle colombe, Ibidem. 251 In entrambi i casi la Dc dovrà cambiare linea, Ibidem. 96 in mancanza del corpo dello statista, un segnale di protesta e di rifiuto nei confronti del mondo politico della famiglia Moro. Questa è la cronaca del giorno in cui Moro venne ucciso. A Roma, più che dolore la morte di Moro ha creato sdegno: contro le Brigate rosse che uccidendo il presidente Dc hanno deluso l’aspettativa popolare la quale, pur senza identificarsi con esse, sentiva di condividerne non pochi motivi di risentimento verso la classe politica. Ma sdegno soprattutto contro quest’ultima, accusata non di avere preferito lo Stato alla salvezza di Moro, ma di evidente e continua incapacità di salvare lo stesso Stato, alla cui ragione Moro è stato sacrificato252. In via Caetani Moro è tornato a noi. O fra i suoi. Con un’ironia atroce, le Brigate rosse l’hanno fatto ritrovare in questa strada, nel centro storico di Roma: a due passi dal Campidoglio, dal Milite Ignoto e da Palazzo Venezia. A pochissima distanza dalle sedi di ogni centro di potere, in una strada che corre alle spalle di Berlinguer, e di Zaccagnini […]253. E concluse: «E adesso a chi toccherà?», domanda un uomo vestito in un bellissimo completo di velluto verde. Un vicino alza le spalle e scoppia in una risata stridula. «A rigore», dice, «a rigore dovrebbe toccare a tutti gli altri. A Leone, ad Andreotti e a Cossiga, a Fanfani, e a La Malfa e anche a Berlinguer. Non perché hanno scelto di salvare lo Stato e far morire Moro. L’avrei fatto anch’io. Ma perché anche con Moro morto, lo Stato non lo salveranno. E allora a che cosa serviva la morte di Moro?254». 252 Il giorno del giudizio, «Osservatore politico», 23 maggio 1978. 253 In via Caetani, Ivi, 23 maggio 1978. 254 Ibidem. 97 «Osservatore politico», 13 giugno 1978. 98
Capitolo V
Il memoriale di Aldo Moro.
A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni. Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato 10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno. Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto, poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.
Le tre parti del memoriale
Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4 aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel 1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255. L’accusa destò 255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel 99 perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963, riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974. Secondo Salvi, in ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno “smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e 1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974. 256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia», MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32. 257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue.
258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25. 259 Ivi, p. 26. 100 commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili. Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate rosse260.
Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate. Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto aperto dalle imprevedibili conseguenze261».
In base alla versione ufficiale l’itinerario a noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente: nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna 260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331. 261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58. 101 valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di notizie262.
Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del 23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa. Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo, dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate. Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto. Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264. Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire verbalizzati.
Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa, 262 Ivi, p. 60. 263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414. 264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62. 102 ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale. Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati. Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte, oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso, cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere, la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel 1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi nascondigli. […
] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione. Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel nascondiglio266. 265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67. 266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993. 103 Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa l’indomani di Monte Nevoso. Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267. Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro. Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla Chiesa.
Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli l’avesse personalmente visionato268.
267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105. 268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97. 104 A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno successivo, il 7 ottobre 1978.
In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi, Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269. Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli. «Osservatore politico» contro lo Stato.
Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte politiche nei confronti delle Brigate rosse. 269 Ivi, p. 98. 105 Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid, con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272 «Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i 270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.
271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato. 272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978. 106 palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe potuta risultare scomoda per alcune strutture statali. Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273. Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978: Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br. Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il peggio274.
273 Ibidem. 274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978. 107 Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un immaginario botta risposta. Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?275
Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276. Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […] C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero 275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978. 276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370. 277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO – 108 quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279: Amen280.
Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva? Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero. Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281 Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi & Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29 settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155. 278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre 1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370. 279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem. 280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978. 281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978. 109 di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello “scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel 1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17 ottobre 1978 Pecorelli scriveva: Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284 Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere». In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del 17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze 282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977. 283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci, organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 225.
284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978. 110 che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina, contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente. Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:
- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione strategica dei brigatisti; - considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione degli sviluppi; - il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia; - gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere; - i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario; - alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285. Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17 ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata. Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a Miceli e De Lorenzo.
Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286.
Ciònonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che 285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978. 286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.
287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi. 111 coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico? La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo, ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa, polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De Lorenzo non possono che essere veritieri288.
Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo, ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi contraddizioni a riguardo.
La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi contraddizioni ancora da risolvere: - nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti, 288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978. 289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231. 112 senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e salvo dal carcere delle Br?290 A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa ipotesi è insostenibile. A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri – interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc. Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti segreti di Stato?292 Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel 1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale. La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […]. 290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978. 291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti. 292 Ibidem. 113 Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293. Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti, «Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti innocui.
Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294, sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva: «Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei 293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978. 294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008. 114 servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e dalla stampa extraparlamentare295. Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia, avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese. Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa. La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il peggio?
Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27 dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi era l’autore della macchinazione296.
295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978. 296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979. 115
Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la «mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel 1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della vicenda, annunciando di volerle rivelare.
Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato “Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il 297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234
. 298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977. 116 diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica
299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti? La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio? In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari infedeli»,
da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396. 117 campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio Maurizio301. L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel 1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979. Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri, 300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.
301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio 1979. 118 particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni sul memoriale. Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva dato notizie302. La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza. Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale, come e dove fossero entrati quei documenti.
Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303. 302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del 14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.
303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250. 119 In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che «il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose d’averlo dimenticato in redazione305». Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on. Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306. Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti. Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi d’accusa307. Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora. Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta. 304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251. 305 Ibidem. 306 Ivi, pag. 252.
307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112. 120 Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio, si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i ********! Sempre a patto naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308. 308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254. 121 Bibliografia. EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra, Cooper, Roma 2008. MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e l'uccisione di Aldo Moro, Besa, Lecce 2008. WILLIAM E. COLBY, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano 1981. MARCO CORRIAS – ROBERTO DUIZ, Mino Pecorelli un uomo che sapeva troppo, Sperling & Kupfer, Milano 1996. MAURIZIO DE LUCA, Sindona. Gli atti d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, Roma 1986. MAURIZIO DE LUCA - PAOLO PANERAI, Il crack. Sindona, la Dc, il Vaticano e gli altri amici, Mondadori, Milano 1975. RITA DI GIOVACCHINO, Scoop mortale. Mino Pecorelli, storia di un giornalista Kamikaze, Pironti, Napoli 1994. RITA DI GIOVACCHINO, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editori, Roma 2003. GIOVANNI FASANELLA – CLAUDIO SESTIERI – GIOVANNI PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000. SERGIO FLAMIGNI, La tela del ragno: il delitto Moro, Edizioni Associate, Roma 1988. SERGIO FLAMIGNI, Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2, Kaos, Milano 1996. SERGIO FLAMIGNI, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos, Milano 1999. SERGIO FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, Kaos, Milano 2004. SERGIO FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, Kaos, Milano 2005. 122 SERGIO FLAMIGNI, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006. LICIO GELLI, La verità, Demetra Edizioni, Bologna 1989. AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005. MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011. MARIO GUARINO, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006. VINCENZO IACOPINO, Pecorelli OP. Storia di una agenzia giornalistica, SugarCo, Milano 1991. HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo, Milano 1980. MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981. DOMÈNECH MATILLÓ ROSSEND, L’avventura delle finanze Vaticane, Tullio Pironti Editore, Napoli 1988. PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994. FRANCESCO PECORELLI – ROBERTO SOMMELLA, I veleni di «Op». Le notizie riservate di Mino Pecorelli, Kaos, Milano 1995. VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008. GIANNI SIMONI - GIULIANO TURONE, Il caffè di Sindona. Un finanziere d’avventura tra politica, Vaticano e Mafia, Garzanti, Milano 2009. MASSIMO TEODORI, La banda Sindona. Storia di un ricatto: Dc, Vaticano, Bankitalia, P2, Mafia, Servizi segreti, Gammalibri, Milano, 1982. NICK TOSCHES, Il mistero Sindona, SugarCo, Milano 1986. ANGELO VENTURA, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli, Roma 2010. ANNA VINCI, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere, Milano 2011. 123 Commissione parlamentare d' inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, Legge 23 novembre 1979, n. 597, Senato della Repubblica, Roma 1979. Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Legge 22 maggio 1980, n. 204 e legge 23 giugno 1981, n. 315, Senato della Repubblica, Roma 1983. Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, Leggi 23 settembre 1981, n. 527; 4 giugno 1982, n. 342; 28 febbraio 1983, n. 57; 1 ottobre 1983, n. 522; 6 aprile 1984, n. 59, Senato della Repubblica, Roma 1984. «Osserv
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