In Giappone per far quadrare i conti si pensa ai casinò
By Edoardo Capuano - Posted on 30 aprile 2011
Crisi economica in GiapponeNel fare i conti con la crisi economica post-catastrofe, il Giappone guarda al Golfo del Messico, teatro di due delle maggiori emergenze degli ultimi anni: l'uragano Katrina e il disastro ambientale provocato dalla fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon.
Vi guarda in due modi.
Primo. Gli eventi americani aiutano a capire come recuperare le risorse economiche andate in fumo con la micidiale azione congiunta di terremoto, tsunami e crisi nucleare.
Per la ripresa della sola regione di Tohoku, quella colpita più direttamente, si calcola che ci vorranno tra i diecimila e i ventimila miliardi di yen (da 83 a 167 miliardi di euro). Il Paese ha già accumulato un grande deficit fiscale - il Fondo Monetario Internazionale l'aveva già definito “insostenibile” a febbraio - e di aumentare le tasse non se ne parla.
Come se non bastasse, i dati più recenti confermano un calo dell'export del 2,2 per cento a marzo, il primo da sedici mesi. Ha influito soprattutto la distruzione della catena di distribuzione e la chiusura di molte fabbriche che non hanno ricevuto materie prime, ma l'esportazione di auto era crollata da molto prima, con un meno 28 per cento anno su anno.
Secondo. Le vicende del Golfo del Messico offrono indicazioni sul futuro della Tepco, la compagnia energetica di Tokyo che gestisce la centrale nucleare di Fukushima e che è responsabile di ritardi, errori, omissioni che mettono ulteriormente a rischio la vita della popolazione delle aree afflitte.
Mentre nei sondaggi l'opinione pubblica si divide tra chi vorrebbe processare i vertici dell'azienda e chi li ritiene non colpevoli in quanto l'inettitudine non può essere considerata una colpa, la utility della capitale non riesce a controllare le perdite di materiale radioattivo a Fukushima e assiste al crollo del proprio valore azionario - già dell'80 per cento da quando è cominciata la crisi - mentre si prepara al bagno di sangue dei risarcimenti che dovrà prima o poi sborsare: potrebbero raggiungere i 120 miliardi di dollari.
Nel primo caso l'esempio arriva dallo Stato del Mississipi che, dopo l'uragano Katrina, ha legalizzato il gioco d'azzardo per fare cassa. Prima era lecito solo su speciali barconi che percorrevano il grande fiume, dal 2005 è stato anche portato a terra. Due milioni di persone afflitte dalla catastrofe hanno così potuto beneficiare dei soldi racimolati con le tasse sul gioco: una dello Stato, all'8 per cento, e una locale, al 3,2 per cento. La ricostruzione è stata così finanziata con 1,8 miliardi di dollari provenienti dalle tasse e 31,7 provenienti da investimenti collegati, che hanno creato oltre 25mila posti di lavoro.
Takashi Kiso, capo dell'International Casino Institute Ltd di Tokyo, la lobby del gioco d'azzardo in Giappone, ritiene che replicando lo stesso modello “non ci sarebbe bisogno di alcun esborso di fondi pubblici”.
Il problema è che l'articolo 185 del codice penale vieta il gioco e il parlamento nipponico si è sempre opposto a una legge che modifichi la situazione. Ora la lobby torna all'attacco in nome del supremo interesse nazionale dato che la stessa assemblea della prefettura di Miyagi - che confina a settentrione con Fukushima - ha creato un gruppo di lavoro per promuovere la creazione di un complesso del gioco e dell'intrattenimento. È all'opera fin dal dicembre scorso. Da prima del disastro, dunque, e non certo per finanziare la ricostruzione. Ma nell'emergenza odierna questi appaiono dettagli: azzardo e lotterie sono da sempre l'extrema ratio delle economie in crisi.
Crisi fa rima con Tepco, si diceva. Analizzando il parallelo caso della British Petroleum responsabile della catastrofe nel Golfo del Messico, si discute oggi il futuro del colosso nipponico dell'energia. Un paio di mesi dopo la fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon, la major britannica aveva già perso circa il 50 per cento del suo valore azionario. Voci di cessione al miglior offerente si sono inseguite per mesi.
A distanza di un anno e nonostante circa 41 miliardi di dollari di costi complessivi (diretti e indiretti), la Bp ha ripreso gli investimenti e addirittura le trivellazioni esplorative nello stesso Golfo teatro del disastro. Oltre ad avere di per sé notevoli risorse per tappare i buchi, la Bp è semplicemente “too big to fail”: troppo grande per fallire, definizione antica ma tornata in auge con la crisi finanziaria globale, quando i governi occidentali si dannarono l'anima per salvare le banche responsabili del collasso planetario. Questa condizione le ha permesso di accedere a prestiti privilegiati da parte delle banche, di fare nuove joint-venture e di incassare l'appoggio esplicito del governo Cameron, fondamentale per contenere il crollo del valore azionario.
La Tepco non è diversificata come la Bp, non ha asset all'estero da cui attingere risorse, ma nel dibattito pubblico giapponese si dà per certo che si salverà in qualche modo, anche perché fornisce energia a circa trenta milioni di persone, ha un quasi-monopolio ed è attualmente impossibile trovare un'alternativa a lei stessa medesima.
Può inoltre farsi scudo con un decreto parlamentare del 1961 - “sulla compensazione per i danni nucleari” - che consente agli operatori delle centrali di non pagare risarcimenti per incidenti causati da “un grave disastro naturale di natura eccezionale o da un'insurrezione”.
Si prospetta una soluzione mista: il governo potrebbe istituire un fondo pubblico-privato per coprire parte dei costi e concedere alla Tepco un prestito a interesse zero o quasi.
Dove trovare le risorse? Magari nelle slot-machine e al tavolo del poker.
http://www.ecplanet.com/node/2458