Parsi sulla Libia: "Una sciocchezza restare"
L'esperto a Tgcom: "Non trasformiamo l'area in una gigantesca Striscia di Gaza"
13:16 - "L'obiettivo della Nato, seppur non ufficialmente, era rovesciare il regime. Ora è necessario lasciare subito la Libia". Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano, svela a Tgcom cosa accadrà ora che il colonnello Gheddafi è uscito di scena.
Gheddafi è stato ucciso. Non poteva che finire così?
"Probabilmente poteva anche essere preso vivo ma forse le forze ribelli non avevano interesse a farlo oppure, più semplicemente, la situazione è scappata di mano".
Il Cnt appare pronto a raccogliere la guida del Paese?
"Il problema non si pone dal momento che non c’è nessun altro che possa prendere il potere. Il primo obiettivo deve essere quello di reintegrare quei pezzi di società libica, di tribù e di opinione pubblica che si sono schierati con Gheddafi e che ora non hanno più alcuna ragione per essere all’opposizione rispetto alla nuova autorità. I libici si devono muovere verso l’integrazione e noi occidentali prima ci togliamo di lì con gli assetti militari meglio è. Altrimenti rischiamo solo di creare pretesti per chi volesse affermare che questa operazione era finalizzata a mettere le mani sulla Libia. Siccome la ragione politica non è stata questa, evitiamo di fare sciocchezze".
Crede che il vero obiettivo dell’operazione Nato fosse il rovesciamento del regime?
"Fin dal primo momento, di fatto, l’obiettivo era mandare a casa Gheddafi. Ed è esattamente quello che è successo. Formalmente il mandato dell’Onu non presupponeva questa obiettivo. Ma fin da subito si era capito che solo la liquidazione o l’arresto di Gheddafi avrebbe consentito di chiudere l’operazione in Libia".
La guida anglo francese dell’operazione cambia gli equilibri nello scacchiere mondiale?
"In ambito Nato, Francia e Inghilterra sono i Paesi che hanno assetti militari degni di nota ma possono affrontare operazioni di questo tipo solo in un’area ristretta come quella del Mediterraneo. Questo intervento, piuttosto, mette in evidenza il fatto che per l'Europa la priorità è il Maghreb, per ragioni di approvvigionamento energetico e di immigrazione. Per gli Stati Uniti, invece, è il Golfo: non solo per l’interesse petrolifero ma anche per la questione israeliana sulla quale Washington è molto più sensibile rispetto a quanto non sia l’intera Europa".
La Libia, dopo l'Egitto e la Tunisia, volta pagina. Quale Paese concluderà la transizione più velocemente?
Difficile fare una previsione in questo senso. Tutti questi Paesi hanno le loro difficoltà. In Libia c’è stato sicuramente un cambiamento radicale del regime perché abbiamo avuto la guerra civile, l’eliminazione fisica del Rais e un intervento militare a sostegno di un sollevamento che era già in corso. In Egitto tutto questo non c’è stato: si è avuta una transizione soft dove la sovranità del Paese non è stata toccata e quindi le problematiche sono differenti. Al Cairo c’è semmai un rischio di continuità.
Ci sono punti in comune?
Su tutta l’area bisogna fare attenzione perché c’è una domanda di libertà espressa in modo quasi primitivo e naif da parte delle popolazioni e un’offerta politica articolata intorno a gruppi islamisti. Non dobbiamo farci prendere dal panico: quell’offerta, nel momento in cui si presenterà sul mercato politico, tenterà di strutturare la domanda. Possiamo fare due cose: da un lato cercare di mantenere il più possibile i contatti con le società che hanno espresso la spinta al cambiamento per continuare ad assisterle a mostrare loro che tutto questo avvicina il Mediterraneo e non lo allontana. Dall’altro non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio: in Egitto l’isteria nei confronti dei Fratelli musulmani non ci permette di vedere che, accanto, ci sono i salafiti che sono peggio. Dobbiamo prestare attenzione alle popolazioni rurali e questo vale anche per la Tunisia. Dobbiamo evitare di fare un pacco regalo con il fiocco della nostra paura consegnando questi Paesi ai più radicali degli islamisti presenti. Da queste situazioni abbiamo imparato che possiamo intervenire militarmente solo quando è assolutamente necessario e al fine di impedire le stragi. Per il resto la nostra capacità di influenza è molto limitata. Dobbiamo iniziare a capire che questi sono Paesi altri e che hanno tutto il diritto di muoversi come ritengono opportuno. Non possiamo permetterci di non dialogare con loro perché correremmo il rischio di trasformare l’intera area in una gigantesca Striscia di Gaza.
Cambierà qualcosa nel rapporto tra la Libia e l’Occidente?
Adesso che non c’è più Gheddafi temo inizierà davvero il gioco duro di tutti quelli che sperano di ottenere qualche cosa dal nuovo regime libico.
E tra la Libia e il mondo arabo?
Non cambierà nulla. La Libia è assolutamente ininfluente e non ha mai contato nulla in quella zona. Proprio questo era il più grande cruccio di Gheddafi. Con tutto il rispetto per la popolazione libica, si tratta di uno scatolone di sabbia con qualche milione di persone.
Quanto al capitolo migratorio, cambierà qualcosa?
Non credo. Il flusso di migranti è stato sospeso con lo scoppio della guerra. Ora riprenderà per la ricomparsa di quei problemi strutturali che spingono normalmente la gente ad attraversare il Mediterraneo su un peschereccio. Tuttavia, almeno in questa fase, non mi aspetto di vedere grandi esodi dalla Libia. La popolazione libica vorrà restare per contribuire, per la prima volta attivamente, a ricostruire un Paese che, comunque, è ricco. D’altro canto, non sarà facile per i neri, arruolati come mercenari da Gheddafi, passare indenni di fronte al rancore e alla voglia di vendetta dei ribelli.
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