
Roma, 29 ago – Del senno di poi ne son piene le fosse. Poi, senza mondiali e con la crisi di governo a ferragosto, da 60 milioni di commissari tecnici siamo passati a 60 milioni di politologi e/o spin doctor. Tra ieri e l’altro ieri, con lo spettro del governo 5 Stelle-Pd che si è sempre più concreto fino a materializzarsi, il tiro al bersaglio contro Matteo Salvini “che ha sbagliato tutto consegnando l’Italia alla sinistra”, si è fatto sempre più incessante. Del resto quando giochi una partita, quando azzardi e poi perdi, la paghi. Totti si è fatto conoscere al mondo con il “cucchiaio” a Van der Sar, ma, se il portiere olandese fosse rimasto in piedi parando il rigore, l’ex pupone avrebbe fatto la figura del ******** come un Pellè qualsiasi.
Salvini non è più infallibile
Salvini ha perso dunque la sua aura di infallibilità e la rabbia di tutti quelli che vivono come un incubo l’avvento del governo giallofucsia è in parte giustificata. Ma quando tra il 7 e l’8 agosto Salvini ha aperto la crisi di governo, lo scenario più probabile erano proprio le elezioni in autunno. E non solo per quanto sostenuto su questo giornale; un po’ ovunque quasi tutte le ricostruzioni (basta fare una ricerca su google cercando gli articoli tra l’8 e il 10 agosto) vertevano sul capire “quando” si sarebbe andati al voto e non “se”. Al massimo le divergenze riguardavano l’ipotesi del voto in autunno o in primavera e le tempistiche della manovra. Un ribaltone per un accordo politico tra Pd e 5 Stelle, mantenendo Conte premier pure con una maggioranza diversa (fatto inedito nella storia italiana), per un esecutivo di legislatura con l’obiettivo di durare fino al 2023, non era stato ipotizzato praticamente da nessuno nei primi giorni della crisi. Né sulla stampa, né nelle discussioni da bar sui social network. Si parlava al massimo di “governo del presidente”.
Questa è una crisi di sistema
Quello che a molti non è chiaro è che questa non è una solo crisi di governo, ma una crisi strutturale della politica parlamentare: lascerà strascichi pesanti e rappresenta un’accelerazione di un processo che ci porterà alla post democrazia, o in ogni caso alla fine anche formale di un dato sistema politico. Non serve nemmeno più l’intervento esterno per ribaltare il consenso. Niente spread, titoli dei giornali con scritto “fate presto”, niente narrazioni basate sulla bravura dei tecnici con il loden come nel 2011. Quasi dieci anni dopo sono gli stessi partiti, sia di potere come il Pd, sia in balia del potere come il Movimento 5 Stelle, che pur di assecondare le élite e conservare il posto ai propri parlamentari, sconfessano quanto urlato fino a due giorni fa e rendono possibili in poche ore accordi che fino a un minuto prima sembravano fantapolitica.
Salvini fregato dal “sor tentenna” Zingaretti
Qui sta l’errore di Salvini. Nel non comprendere fino in fondo la natura e la forza delle élite ed aver sopravvalutato la leadership e l’importanza del consenso per Di Maio e Zingaretti. E che gli schemi ormai sono saltati e vale tutto, anche andare contro il volere dell’80% dei propri elettori come nel caso dei pentastellati. I leader dei due partiti che daranno vita al nuovo governo avrebbero avuto tutto l’interesse ad andare al voto in autunno come ipotizzato dal segretario leghista. Di Maio è il volto 5 Stelle legato all’esperienza di governo con la Lega e nel nuovo esecutivo giallofucsia non potrà che finire marginalizzato. Zingaretti avrebbe potuto finalmente derenzizzare i suoi parlamentari, mentre per il Pd uscire dalle urne come prima forza di opposizione al destra-centro a guida salviniana, avrebbe rappresentato un’occasione di rilancio politico sul lungo periodo.
L’iniziativa di Renzi e l’incoerenza di Salvini
Proprio la debolezza di Zingaretti (e in parte di Di Maio) è stata il tallone d’Achille di Salvini. Dopo un paio di giorni in cui tutti sembravano pronti al voto, l’11 agosto le dichiarazioni di Renzi e Grillo hanno cambiato tutto. L’ex premier in particolare ha schierato le sue truppe parlamentari sul fronte del non voto, trovando terreno fertile tra i colonnelli del Pd. Da Prodi a Bettini, da Franceschini a Delrio, in poche ore hanno costretto Zingaretti a riposizionarsi e ad aprire ai 5 Stelle. E’ qui che Salvini si è incartato, iniziando ad organizzare un’improbabile marcia indietro. Dalla proposta di votare il taglio dei parlamentari chiesto dai 5 Stelle, ai messaggi di amicizia inviati a Di Maio, fino ad arrivare in modo disperato ad offrire al capo politico dei 5 Stelle il ruolo di premier in un nuovo esecutivo gialloverde, Salvini ha rinunciato ad una delle caratteristiche principali della sua comunicazione politica: la coerenza. Gli italiani hanno capito che era pentito di aver aperto la crisi di governo. Passare in pochi giorni dal condannare senza appello i “no” grillini chiedendo urne e “pieni poteri”, al supplicare Di Maio di tornare insieme, è stato un errore grave. Forse il solo veramente ascrivibile a Salvini.
Salvini doveva staccare la spina
Tutti da tempo chiedevano al segretario leghista di staccare la spina. A detta di Giorgetti (il “Richelieu” della Lega) avrebbe dovuto farlo prima, subito dopo le elezioni europee. E cosa sarebbe cambiato? Senza la scusa della legge di bilancio da fare in fretta, con la crisi di governo aperta a giugno, non avrebbero fatto ugualmente l’inciucio giallofucsia? Senza contare che l’apertura della crisi sarebbe risultata ancora più immotivata, mentre in questi ultimi mesi Salvini ha quantomeno provato ad accentuare le tensioni con i 5 Stelle per giustificare la fine dell’esecutivo. E allora perché non proseguire con l’esperienza di governo gialloverde? Sarebbe probabilmente stato nell’interesse dell’Italia, ma non in quello di Salvini.
Il leader leghista ha vissuto questi 14 mesi di governo come una prosecuzione della campagna elettorale, riuscendo a raggiungere ad inizio agosto quasi il 40% dei consensi da sondaggio. Un limite strutturale in Italia su un singolo leader politico, come ben sanno Berlusconi e Renzi. Dopo il primo anno di luna di miele con gli elettori inoltre, stare al governo inizia a far perdere sempre consensi: l’effetto novità svanisce e alcuni punti di forza, come il braccio di ferro con le navi Ong sullo sbarco degli immigrati, iniziano a perdere il loro effetto moltiplicatore di consensi, se poi non si affiancano operazioni più concrete e di lungo periodo (tipo le centinaia di migliaia di rimpatri promessi…). C’è poi la questione della legge di bilancio, dove solo per scongiurare l’aumento dell’Iva servono 30 miliardi: dove trovare dunque le coperture per la Flat Tax e quanto deficit sarebbe riuscito a fare per ulteriori manovre espansive? Provare a passare all’incasso con il voto, pur con il rischio ormai concreto di un lungo periodo all’opposizione sembra comunque la scelta migliore per le ambizioni di Salvini (diventare premier, più che salvare l’Italia).
E’ probabile inoltre che il segretario leghista non sia dotato di una visione a lungo termine della politica, dimostrando poco interesse nel contrastare (ed eventualmente sostituire dove possibile) tutto quel deep state che l’ha sempre combattuto.
L’opposto invece di quanto fatto dal Partito Democratico, partito dell’establishment per eccellenza, che all’ipotesi delle elezioni ha invece preferito l’idea di andare per tre anni e mezzo al governo, gestire le nomine di Csm, Corte Costituzionale etc e puntare ad un ruolo decisivo per l’elezione del presidente della Repubblica nel 2022. E il consenso? Poi si vedrà, tre anni e mezzo (se l’accrocco di governo coi 5 Stelle reggerà) sono lunghissimi al tempo dei social network. E ancora più lunghi risulteranno a Salvini, re della comunicazione veloce, che dovrà dimostrare di saper reggere una probabile lunga traversata del deserto.
Davide Di Stefano
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