La jihad in Italia
Loretta Napoleoni, l'intervista:
"Vi svelo l'equazione tra terrorismo islamico e i barconi dei migranti"
«Ne ho incontrati molti. I negoziatori sono individui che hanno sviluppato un distacco umano. Altrimenti non potrebbero fare questo mestiere: non è freddezza, ma autodifesa dalle conseguenze psicologiche di ciò che fanno. Essere troppo coinvolti non è un’opzione, metterebbero a repentaglio anche la vita dell’ostaggio». Loretta Napoleoni descrive così una figura brutale e affascinante, protagonista del suo ultimo libro, Mercanti di Uomini (Rizzoli, 2017, euro 18,50). Una loro stretta di mano, nel cuore del deserto, può muovere milioni di dollari. Nel libro si parla dei rapimenti e loro sono gli uomini che li risolvono. Si parla anche della tratta degli esseri umani, dei migranti. Due facce della stessa medaglia: il terrorismo. Le due fonti di sostentamento essenziali per la rete jihadista globale. Le persone sono merce. Soldi. Negli ultimi 15 anni, per intendersi, il pagamento di riscatti ha fruttato oltre 2 miliardi al terrorismo, mentre il traffico di esseri umani muove tra i 5 e i 6 miliardi l’anno soltanto in Europa. Denari con cui l’islam radicale costruisce la sua guerra contro l’Occidente.
Mi spiega nel caso di un riscatto come si movimentano queste cifre?
«Le modalità sono molteplici. La prima è quella dell’utilizzo delle ambasciate: hanno sempre a loro disposizioni importanti quantità di denaro. Altrimenti, per risolvere situazioni critiche, spesso intervengono paesi arabi amici: trasferiscono fondi che arrivano ai rapitori, poi questi soldi rientrano nel paese d’origine magari sotto forma di aiuti economici. Quando invece gli ostaggi sono legati a gruppi privati, hanno un ruolo società di assicurazioni. In altri e rarissimi casi intervengono anche le organizzazioni caritatevoli».
Come giudica le politiche del governo italiano sui riscatti?
«Demenziali. Siamo quelli che pagano di più al mondo. Lo Stato per definizione è quello che ha più soldi, dunque non dovrebbe pagare, mai».Soluzioni alternative?
«Le famiglie: dovrebbero pagare loro, hanno meno liquidità e i rapitori lo sanno benissimo. È il modello danese: la Danimarca non paga, semmai lo fanno le famiglie. Se decidono di farlo ballano centinaia di migliaia di euro, non milioni».
Recentemente ha parlato del caso di Greta e Vanessa: si riferisce a loro?
«È noto che per loro il governo abbia pagato un riscatto. Molto alto: ho conferme su una cifra pari a 16 milioni di euro, in parte trattenuta dagli intermediari, in parte sparita, in parte finita al gruppo che le aveva rapite».
E in Italia le famiglie che ruolo hanno?
«Sono ignare di tutto. Non vengono informate su nulla di ciò che accade a chi è in mano ai sequestratori. L’approccio, a mio avviso, è sbagliato».
Nel suo libro lei critica l’Unità di crisi poiché tratta i rapiti come «merce di propaganda politica». Suggerisce l’idea che per un governo, un rapimento, possa essere un’occasione buona per rifarsi l’immagine?
«Ovviamente ogni volta che un ostaggio torna a casa, per un governo, è una vittoria. Soprattutto perché lo stesso governo sostiene di non aver pagato una lira. È uno spot fantastico, a costo zero. Sarebbe tutt’altro discorso se il ministro degli Esteri si presentasse in conferenza stampa affermando di aver pagato 16 milioni di euro per riportare a casa qualcuno. Soldi dei contribuenti».
In Libia gli italiani sono “merce” pregiata a causa della nostra ragion di Stato economica. Sbagliamo anche lì?
«Assolutamente: qual è il pegno che paghiamo pur di fare affare in Libia? La situazione è fuori controllo e le infiltrazioni dello jihadismo internazionale sono altissime. I governi occidentali sono in una situazione di instabilità psicologica, non sanno cosa fare e si rendono ricattabili. In primis il nostro: in Libia gli italiani vengono rapiti e liberati grazie ai ricchi riscatti che paghiamo, sistematicamente».
Lei analizza come la società occidentale crei una sorta di «mito eroico» dell’ostaggio. Cita il caso di Jim Foley, il primo statunitense ad essere stato decapitato da Jihadi John. Ha raccolto diverse testimonianze su quanto l’atteggiamento di Foley in territori ostili fosse avventato, si era esposto a un rischio altissimo. Mi perdoni la brutalità e la possibile stupidata: ma a uno Stato, a quel punto, non converrebbe lasciar trapelare il messaggio che «se l’è cercata» pur di depotenziare la propaganda jihadista?
«
No, per motivi d’immagine. Ciò che lei afferma non è una stupidata, ma le chiedo: se un governo instilla quel tipo di messaggio, poi come potrebbe giustificare la notizia del pagamento di un riscatto, che potrebbe benissimo trapelare? Certo, questo non è stato il caso di Foley: lo avrebbero ucciso in ogni caso e non c’è stato movimento di denaro».
Lei conclude l’introduzione al libro scrivendo che «nessuno è al sicuro, neppure noi». Me lo spiega?
«Ciò che sta succedendo fuori dai nostri confini ha un impatto anche all’interno degli Stati. E qui mi riferisco all’immigrazione. I movimenti populisti, e penso alla Le Pen in Francia, potrebbero sfasciare l’Europa accelerando processi di transizione che dovrebbero essere lenti, ragionati. Un repentino cambio delle politiche, migratorie come monetarie, determinato da una risposta impulsiva dei popoli, potrebbe avere conseguenze catastrofiche».
In buona sostanza mi sta dicendo che l’Europa dei muri è sbagliata?
«La fortezza-Europa, dal punto di vista della sicurezza, nel breve periodo potrebbe anche funzionare. Ma è l’approccio ad essere sbagliato: i disperati continuerebbero ad arrivare».
Ricordo che però lei ha criticato anche le politiche di Prodi e Berlusconi.
«Bloccare i profughi alle porte dell’Europa, nei campi di concentramento in Turchia o gestiti dal dittatore di turno in Libia, è un enorme favore al terrorismo. È proprio in quei campi, dove gli uomini vengono trattati come merce, che si reclutano i futuri jihadisti».
Ma allora, mi corregga se sbaglio, da qualunque lato si affronti il problema l’equazione immigrazione uguale terrorismo non è poi così forzata.
«È espressa male. Chi afferma che i terroristi vengono in Europa con i barconi sbaglia: nessuna organizzazione metterebbe a rischio la vita di un soldato per farlo arrivare a Lampedusa. Quelle vite valgono. Il discorso è diverso quando si parla dei soldi che finanziano la tratta dei migranti: in questa accezione l’equazione è sensata. Le organizzazioni terroristiche prendono parte a questo commercio, magari non direttamente ma facilitando il passaggio attraverso i territori che controllano».
Eppure la cronaca degli ultimi mesi è zeppa di stragi che giocano a favore di chi sostiene che l’immigrazione sia correlata ad azioni terroristiche.
«L’immigrato e il rifugiato, questo è fondamentale, una volta arrivati in un’Europa che non li integra hanno un altissimo potenziale di reclutamento. Sono prede più semplici per i jihadisti. Ed è proprio in quest’ottica che l’ascesa di una Le Pen, per fare un esempio, mi preoccupa. Per dirla con parole spicce, spero che non si arrivi a una guerra».
L’Italia non è ancora stata colpita dal terrorismo: una fatalità? Oppure, poiché siamo un “cancello” verso il resto del continente, alla jihad conviene risparmiarci, tenerci cheti?
«Di sicuro non si tratta di un caso. Il punto è che non abbiamo ancora un’immigrazione radicata, dunque da noi il reclutamento è diverso, meno efficiente: la maggior parte degli attacchi si verificano dove c’è presenza massiccia di immigrati non integrati. Penso alla Francia, inutile dirlo».
La Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione sostiene che le dinamiche italiane siano indietro di 5-10 anni rispetto a quelle di altri Paesi europei: in soldoni il quadro non può che peggiorare.
«Preferisco dire che il fatto che da noi non ci siano ancora stati attacchi non significa che in futuro non potrebbero verificarsi».
Come ci si difende?
«Chi afferma che l’Italia non è stata colpita perché ha un fantastico sistema di sicurezza dice il falso. La maggior parte dei foreign fighters non appartiene a reti organizzate. È molto difficile infiltrarli: non c’è sicurezza che tenga contro questo tipo di attentati».
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