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10/08/2012, 14:25

Atlanticus81 ha scritto:

Articolo uscito sulla Repubblica relativamente alla MMT
Fonte: http://rampini.blogautore.repubblica.it ... ntrazione/

La Teoria Monetaria Moderna ci salverà dalla Grande Contrazione?

L’America entrò nel XX secolo con un debito pubblico inferiore al 10% del Pil. Era salito appena al 16% nel 1929. Ma era balzato al 120% del Pil durante la seconda guerra mondiale. Per poi scendere al 32% nel 1974 alla vigilia del primo shock petrolifero. Trovare un nesso causale fra questi livelli di debito pubblico così disparati e la performance economica – in termini di sviluppo, lavoro, benessere – è impossibile. Perché allora il debito pubblico è diventato (vedi Grecia) l’oggetto di culto prediletto nel “feticismo delle cifre” che ci soggioga?

Le grandi crisi partoriscono grandi idee. Così fu dopo il crac del 1929 e la Depressione. Per uscirne, l’Occidente usò il pensiero di John Maynard Keynes, scoprì un ruolo nuovo per lo Stato nell’economia, inventò le politiche sociali del New Deal e la costruzione del moderno Welfare State. Oggi siamo daccapo. L’eurozona sprofonda nella sua seconda recessione in tre anni. Gli Stati Uniti malgrado la ripresa in atto pagano ancora i prezzi sociali elevatissimi della Grande Contrazione iniziata nel 2008 (almeno 15 milioni di disoccupati). Ma dall’America una nuova teoria s’impone all’attenzione. Si chiama Modern Monetary Theory, ha l’ambizione di essere la vera erede del pensiero di Keynes, adattato alle sfide del XXI secolo. Ha la certezza di poter trainare l’Occidente fuori da questa crisi. A patto che i governi si liberino di ideologie vetuste, inadeguate e distruttive. E’ una rivoluzione copernicana, il cui alfiere porta un cognome celebre: James K.Galbraith, docente di Public Policy all’università del Texas e consigliere “eretico” di Barack Obama, è figlio di uno dei più celebri economisti americani, quel John Kenneth Galbraith che fu grande studioso della Depressione e consulente di John Kennedy.

Il nuovo Verbo che sconvolge i dogmi degli economisti, assegna un ruolo benefico al deficit e al debito pubblico. E’ un attacco frontale all’ortodossia vigente. Sfida l’ideologia imperante in Europa, che i “rivoluzionari” della Modern Monetary Theory (o Mmt) considerano alla stregua di un vero oscurantismo. Quel che accade in questi giorni a Roma e Atene, l’austerity imposta dalla Germania, per i teorici della Mmt non è soltanto sbagliata nei tempi (è pro-ciclica: perché taglia potere d’acquisto nel bel mezzo di una recessione), ma è concettualmente assurda.

Un semplice esercizio mette a nudo quanto ci sia di “religioso” nella cosiddetta saggezza convenzionale degli economisti. Qualcuno ha provato a interrogare i tecnocrati del Fmi, della Commissione Ue e della Banca centrale europea, per capire da quali Tavole della Legge abbiano tratto alcuni numeri “magici”. Perché il deficit pubblico nel Trattato di Maastricht non doveva superare il 3% del Pil? Perché nel nuovo patto fiscale dell’eurozona lo stesso limite è stato ridotto a 0,5% del Pil? Chi ha stabilito che il debito pubblico totale diventa insostenibile sotto una soglia del 60% oppure (a seconda delle fonti) del 120% del Pil? Quali prove empiriche stanno dietro l’imposizione di questa cabala di cifre? Le risposte dei tecnocrati sono evasive, o confuse.

La Teoria Monetaria Moderna fa a pezzi questa bardatura di vincoli calati dall’alto, la considera ciarpame ideologico. La sua affermazione più sconvolgente, ai fini pratici, è questa: non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E non solo questo è possibile, ma soprattutto è necessario. La via della crescita, passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora.

Se è così, stiamo sbagliando tutto. Proprio come il presidente americano Herbert Hoover sbagliò drammaticamente la risposta alla Grande Depressione, quando cercò di rimettere il bilancio in pareggio a colpi di tagli (stesso errore che fece Franklin Roosevelt nel 1937 con esiti nefasti). Il “nuovo Keynes” oggi non è un profeta isolato. Galbraith Jr. è solo il più celebre dei cognomi, ma la Mmt è una vera scuola di pensiero, ricca di cervelli e di think tank. Così come la destra reaganiana ebbe il suo pensatoio nell’Università di Chicago (dove regnava negli anni Settanta il Nobel dell’economia Milton Friedman), oggi l’equivalente “a sinistra” sono la University of Missouri a Kansas City, il Bard College nello Stato di New York, il Roosevelt Institute di Washington.

Oltre a Galbraith Jr., tra gli esponenti più autorevoli di questa dottrina figura il “depositario” storico dell’eredità keynesiana, Lord Robert Skidelsky, grande economista inglese di origine russa nonché biografo di Keynes. Fra gli altri teorici della Mmt ci sono Randall Wray, Stephanie Kelton, l’australiano Bill Mitchell. Non sono una corrente marginale; tra i loro “genitori” spirituali annoverano Joan Robinson e Hyman Minsky. Per quanto eterodossi, questi economisti sono riusciti a conquistarsi un accesso alla Casa Bianca. Barack Obama consultò Galbraith Jr. prima di mettere a punto la sua manovra di spesa pubblica pro-crescita, così come fece la democratica Nancy Pelosi quando era presidente della Camera. Ma la vera forza della nuova dottrina viene dai blog. The Daily Beast, New Deal 2.0, Naked Capitalism, Firedoglake, sono tra i blog che ospitano l’elaborazione del pensiero alternativo. Hanno conquistato milioni di lettori: è una conferma di quanto ci sia sete di terapie nuove, e quanto sia screditato il “pensiero unico”.

La Teoria Monetaria Moderna è ben più radicale del pensiero “keynesiano di sinistra” al quale siamo abituati. Perfino due economisti noti nel mondo intero come l’ala radicale che critica Obama da sinistra, cioè i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, vengono scavalcati dalla Mmt. Stephanie Kelton, la più giovane nella squadra, ha battezzato una nuova metafora…ornitologica. Da una parte ci sono i “falchi” del deficit: come Angela Merkel, le tecnocrazie (Fmi, Ue), e tutti quegli economisti schierati a destra con il partito repubblicano negli Stati Uniti, decisi a ridurre ferocemente le spese.

Per loro vale la falsa equivalenza tra il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia, che non deve vivere al di sopra dei propri mezzi: un paragone che non regge, una vera assurdità dalle conseguenze tragiche secondo la Mmt. Poi ci sono le “colombe” del deficit, i keynesiani come Krugman e Stiglitz. Questi ultimi contestano l’austerity perché la giudicano intempestiva (i tagli provocano recessione, la recessione peggiora i debiti), però hanno un punto in comune con i “falchi”: anche loro pensano che a lungo andare il debito crea inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e quindi andrà ridotto appena possibile. Il terzo protagonista sono i “gufi” del deficit. Negli Stati Uniti come nell’antica Grecia il gufo è sinonimo di saggezza. I “gufi”, la nuova scuola della Mmt, ritengono che il pericolo dell’inflazione sia inesistente.

Secondo Galbraith Jr. “l’inflazione è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale”. Di certo non oggi. Il deficit pubblico nello scenario odierno è soltanto benefico, a condizione che venga finanziato dalle banche centrali: comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ben più di quanto hanno iniziato a fare Ben Bernanke (Fed) e Mario Draghi (Bce), questa leva monetaria va usata in modo innovativo, spregiudicato: l’esatto contrario di quanto sta avvenendo in Europa.


Da non perdere questo video..... [;)]
http://www.ufoforum.it/topic.asp?whichp ... _ID=240991

13/08/2012, 12:25

Paradigma della Crescita Infinita

13/08/2012, 12:32

Crisi della democrazia e trionfo della tecnocrazia

Aldo Di Benedetto, medico epistemologo, già Direttore Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

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http://www.greenreport.it/_new/index.ph ... t&id=16340

Premetto che questo mio intervento non riguarda il Governo Monti e le sue scelte di politica economica, anche se bisogna dare atto agli sforzi diplomatici del premier, finalizzati a migliorare la comprensione tra gli Stati dell'Unione Europea. Un Governo di tecnici invocato da molti, al posto di un governo politico, per salvare l'Italia dal baratro finanziario, sebbene negli ultimi trent'anni abbiamo assistito inermi alla debacle della politica e della democrazia, condizionate dai colossi della finanza mondiale, i cui effetti hanno condotto le società occidentali verso una crisi eco sistemica, sociale e culturale, non solo economica. Una crisi provocata da un modello culturale consumistico supportato da uno sviluppo scientifico e tecnologico, che ha condizionato il nostro pensiero, nostri stili di vita e tutte le nostre azioni. Come sostiene Fritjof Capra nel saggio Il punto di svolta, «La crescita economica, nella nostra cultura, è inestricabilmente legata con la crescita tecnologica. Individui e istituzioni sono affascinati dai miracoli della tecnologia moderna e si sono convinti che ogni problema abbia una soluzione tecnologica. Sia che la natura del problema sia politica, psicologica o ecologica, la prima reazione, quasi automaticamente, consiste nel far fronte ad esso applicando e sviluppando una qualche nuova tecnologia».

Da cosa nasce questa concezione apparentemente liberatoria? Come ha scritto Marcel Proust in Sodoma e Gomorra «Le società come le folle sono dominate dall'istinto d'imitazione e dalla mancanza di coraggio». Oggi siamo al punto di affidare persino i nostri sentimenti e le nostre passioni nelle mani della tecnologia informatica, per cui crediamo di trovare amici nel mondo virtuale dei social network, oppure attraverso l'inestricabile reticolo elettromagnetico fatto di wireless, wi-fi, telefonini e iPad. In una delle sue più recenti opere "I sette saperi necessari all'educazione del futuro" Edgar Morin così scrive «La situazione della nostra terra è paradossale. La comunicazione trionfa, il pianeta è attraversato da reti, fax telefoni cellulari, modem, internet. La coscienza di essere solidali nella vita e nella morte dovrebbe ormai legare gli umani gli uni agli altri. Tuttavia l'incomprensione rimane generale».

«La comunicazione - prosegue Morin - non produce comprensione ... Vi è il rumore che parassita la trasmissione dell'informazione che crea il malinteso e il non inteso». E allora da dove proviene questo "rumore"? Esso è prodotto da uno sviluppo industriale e tecnologico che non considera affatto la complessità dei sistemi viventi, che non tiene conto delle interrelazioni biologiche e sociali, delle necessità di sopravvivenza , delle relazioni e delle passioni umane. Uno sviluppo tecnologico che guarda solo al profitto fine a se stesso, sfruttando in modo massiccio le risorse del pianeta a favore di una minuta percentuale di popolazione. «Le attuali tecniche - ha scritto il medico igienista, Aldo Sacchetti - interferendo nella biosfera anche a livello microscopico, lacerano, sconvolgono, falsificano, in profondo il continuum informativo tessuto dalla vita nel tempo e nello spazio».

A questo punto dobbiamo precisare che la moderna tecnologica, dalla rivoluzione industriale fino a quella della microelettronica e delle nanotecnologie, affonda le sue radici nei paradigmi della scienza galileiana e newtoniana, una visione dove prevale il pensiero lineare, dove trionfa una concezione meccanicistica e deterministica della natura, dove l'intelleggibilità dei fenomeni passa attraverso i principi di causalità, di riduzione e di separazione, dove l'ordine è concepito come una macchina perfetta, paragonabile all'assolutezza di Dio. Questo paradigma e questi principi, insieme al metodo sperimentale, che considera il tempo, e quindi la storia, semplici variabili numeriche, sono ancora alla base dello sviluppo scientifico e tecnologico. Tale paradigma ha suggellato il trionfo prometeico del potere della ragione, rendendo l'uomo, con le sue esperienze e le sue passioni, un alieno dal suo contesto biologico, storico e culturale. Tale concezione della scienza ha disconosciuto negli ultimi trecento anni la totalità complessa fisica, biologica, antropologica, economica del Pianeta, «in cui la vita è un'emergenza della storia della terra e l'uomo un'emergenza della storia della vita terrestre».

La visione separatrice e riduttiva della natura ha consegnato agli specialisti e tecnocrati il potere della conoscenza alimentando la frammentazione delle discipline, la creazione delle iperspecializzazioni, l'appropriazione da parte di esperti e scienziati, arroccati dietro il baluardo dei loro linguaggi esoterici , di un numero crescente di problemi vitali. Anche l'ordinamento delle pubbliche amministrazioni ha subito la stessa sorte con la creazione di una miriade di nuovi enti e di aziende pubbliche, con l'idea di migliorare la gestione della cosa pubblica attraverso una specializzazione e suddivisione delle funzioni, ma con l'effetto di sovrapporre le competenze e di moltiplicare i centri di spesa. Pensate a cosa accade nel campo dei sistemi sanitari dove impazza il mercato degli esami strumentali e la corsa agli specialisti, perdendo molto spesso di vista l'integrità complessa dell'organismo umano. Il biologo austriaco Ervin Chargaff, che fra l'altro è stato lo scopritore delle regole di accoppiamento delle basi del DNA, così si esprime a proposito dello specialismo «Nella nostra caccia ai frammenti abbiamo smarrito le sublimi fattezze della vita. Adesso addirittura non si tratta più di numerare i frammenti, ma anche di individuarne la composizione. Non percepiamo più figure viventi, ma solo componenti delle quali, però, vogliamo sapere sempre di più: ne è dovuta passare di acqua sotto i ponti prima che potessimo arrivare a questo punto. All'inizio c'erano più stregoni che apprendisti, poi sono rimasti gli apprendisti, e alla fine le scope». Orbene, la separazione delle discipline rende incapaci di comprendere la complessità, di cogliere "ciò che è tessuto insieme", come gli ecosistemi, le organizzazioni sociali, le culture, la stessa democrazia, con l'effetto di espandere a dismisura i costi del sistema. Tuttavia, molti altri scienziati, consapevoli della crisi del paradigma deterministico e riduzionistico, a partire dal secolo scorso hanno proposto una revisione epistemologica. Secondo il noto filosofo della scienza Karl Popper, la concezione di una natura passiva e manipolabile, soggetta a leggi deterministiche, non solo rende impossibile l'incontro con la realtà, che è la vocazione della nostra conoscenza, ma mette in discussione la libertà umana. Il premio Nobel Ylia Prigogine , nella sua fondamentale opera La nuova Alleanza, afferma che la scienza ha l'obbligo di impostare un nuovo metodo fondato su un dialogo con la natura, con la sua inestricabile complessità, nella consapevolezza della nostra appartenenza. «Capire la natura - scrive Prigogine - è uno dei grandi progetti del mondo occidentale. Esso non va confuso con quello di controllarla. La conoscenza non solo comporta un legame tra chi conosce e ciò che è conosciuto, bensì esige che questo legame crei una differenza tra passato e futuro». Un dialogo che presuppone il superamento della ragione scientifica contrapposta alla dimensione umanistica. Più recentemente lo stesso Prigogine, nel suo saggio La fine delle certezze, evidenzia che la scienza classica con il suo meccanicismo rigido, entra in collisione con una cultura politica fondata sulla democrazia; citiamo le sue parole «democrazia e scienze moderne sono eredi della stessa storia, la quale condurrebbe però a una contraddizione se le scienze facessero trionfare una concezione deterministica della natura, mentre la democrazia incarna l'ideale di una società libera»; poi aggiunge «come si può concepire la creatività umana, o come si può pensare l'etica in un mondo deterministico?» Citando Richard Tarnas, Prigogine richiama la passione per l'intellegibilità del mondo occidentale che è quella di «ritrovare la propria unità con le radici del proprio essere».

Allora, l'emergere di un nuovo paradigma, fondato sulla cultura e sulla gestione della complessità, deve contaminare anche il campo della scienza economica, il cui compito è migliorare il benessere della società. Purtroppo nell'economia aziendale prevale ancora la ricerca ossessiva di produttività, con l'unico obiettivo di incrementare il valore per gli azionisti, scaricandone i costi sulla collettività. Anche questa cultura è figlia di quel paradigma meccanicistico e riduzionistico, che si rivela nell'equazione sviluppo economico = crescita del benessere e che alimenta una corsa irrefrenabile verso la crescita infinita del PIL. La nascita di un nuovo paradigma, come sostiene l'economista Alessandro Cravera, «significa, abbattere i confini delle discipline, i muri delle funzioni, gli steccati dei potentati del pensiero, gli iperspecialismi a favore di un pensiero contaminato, complesso, in grado di generare strategie economiche e aziendali sostenibili e prive di ripercussioni negative future».

30/08/2012, 13:25

Ricevuto tramite mail....

Pensiamo che la finanza, senza etica, ha fatto deragliare l'economia reale. I dati drammatici e peculiari della nostra realtà italiana:

· Quasi 2000 miliardi di euro di debito pubblico, incremento negli ultimi tre anni di 100 miliardi annui (il 20% circa), uno dei più alti del mondo per un paese di 60 milioni di abitanti;

· La disoccupazione, a livelli record;

· La stagnazione economica con contrazione del Prodotto Interno Lordo avviata al 3%;

· Il livello di tassazione ha superato ampiamente il 55% del reddito pro-capite;

Siamo ormai, come paese, pericolosamente sull’orlo della bancarotta, con ancora al potere l’influenza determinante di chi ci ha portato in questa situazione e che candidamente si ripropone come se non avesse nessuna responsabilità.

Di fronte a questo inquietante pericolo di restaurazione (almeno per altri 30 anni!?) della stessa Classe dirigente che in due fasi della Repubblica ha portato questi evidenti risultati di grave insuccesso, che danneggiano sia chi è già in sofferenza economica ma soprattutto chi potrebbe entrarci presto, abbiamo bisogno di creare un argine al ritorno dei “soliti noti” con una profonda, speriamo condivisa, riflessione:

siamo certi che noi, con il nostro impegno di uomini liberi, con la nostra sensibilità, esperienza, capacità e onestà non siamo in grado di studiare e proporre dei correttivi ad un sistema creato artatamente per far consumare a “pochi” tutte le risorse prodotte da “molti”?

Vogliamo proprio lasciare, in un momento come questo, alle generazioni che ci seguono questo sistema senza aver valutato neanche minimamente se esistesse la possibilità di impegnarsi per modificare il nostro futuro?

Oggi riteniamo doveroso per quelli che verranno, per quanto il nostro sistema di vita e di lavoro ci consentirà, valutare e, se ritenuto utile promuovere, con le nostre risorse intellettive, fisiche ecc… un processo di cambiamento vero e di assoluta discontinuità con il passato nell’amministrazione della cosa pubblica.

Per saperne di piu'..CLICCA.
http://www.privilegizero.it/index.php?o ... &Itemid=54

08/09/2012, 20:43

La fase distruttiva di ciò che auspico come Rinascita Sociale Globale, non necessariamente passa per le armi... anzi!

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08/09/2012, 20:59

Ottimo... ma il coordinamento chi lo fa? [:)]

Io sottoscrivo.

08/09/2012, 21:06

Bello sarebbe che il tutto nascesse e venisse coordinato da una sorta di "coscienza consapevole collettiva".

In assenza di una coscienza auto-regolamentante, alla base peraltro del concetto di 'anarchia costruttiva' di cui al thread "Arcadia" (http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=13502) risulta necessario rimettersi nelle mani di un leader, con tutti i rischi che questo comporta.

Essendo il leader espressione dell'Uomo, incarna in se stesso tutti i limiti dell'essere umano e per questo corruttibile dal Potere, e da chi il Potere è in grado di maneggiarlo, [vedi "Rettiliani"].

08/09/2012, 21:29

Atlanticus81 ha scritto:

La fase distruttiva di ciò che auspico come Rinascita Sociale Globale, non necessariamente passa per le armi... anzi!

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Intanto è meglio che questo appello si espanda in rete anche sfruttando Google.

Facciamo una prova e cliccate qui:
http://urloid.com/lmgtfy5
Ora ci sono circa 164 risultati.
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Tra poco siccome ho trascritto qui sotto il contenuto dell'immagine ne avremo 165. Il chè significa che qualcuno si è aggiunto ai conoscitori (cioè noi in questo caso)

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VOLETE DICHIARARE GUERRA ALLO STATO? COMINCIAMO A NON GIOCARE PIÙ A SUPERENALOTTO, LOTTERIE, SCOMMESSE, GIOCHI VARI. A COMINCIARE DALLE PROSSIME ESTRAZIONI E CONCORSI.
CHIUDETE I CONTI CORRENTI BANCARI, RITIRATE I VOSTRI SOLDI E BUTTATE VIA LE CARTE DI CREDITO; PER UN MESE, IL CARBURANTE COMPRIAMOLO TUTTI DALLA STESSA COMPAGNIA PETROLIFERA, POI UN ALTRO MESE SOLO DA UN'ALTRA.... VEDRETE COME LE .............................. COMPAGNIE, CHE SI RITROVANO PER UN MESE SENZA CLIENTI, ABBASSERANNO I PREZZI!
ANDIAMO A FARE LA SPESA DAI PICCOLI COMMERCIANTI, ELIMINIAMO PER UN MESE I GRANDI MAGAZZINI, SVUOTIAMOLI, SCOMMETTIAMO CHE ABBASSERANNO I PREZZI?
VOGLIONO LA GUERRA? TUTTI INSIEME LA POSSIAMO FARE SENZA VIOLENZA, SOLO UNITI SI PUÒ VINCERE.
FATELA GIRARE... QUESTA SI CHIAMA RIVOLUZIONE PACIFICA CI VORREBBE PIÙ DEL 50% DELLA POPOLAZIONE PER ATTUARLA... PER QUESTO DEVE VENIRE PRIMA L'INFORMAZIONE....
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Quando tutti ne saranno a conoscenza un coordinamento dell'azione sarà d'obbligo perchè tutti si aspetteranno che avvenga
Ultima modifica di Wolframio il 08/09/2012, 21:42, modificato 1 volta in totale.

20/09/2012, 15:07

L’ECONOMIA DELLA FELICITA’ – UNA RISPOSTA
ALLA CRISI GLOBALE -doc. completo ita




http://www.economiadellafelicita.it/
http://goodnews.ws/

Fonte: http://ilfattaccio.org/2012/09/20/lecon ... pleto-ita/

PRODOTTO E PRESENTATO DA HELENA NORDBERT – HODGE

analista economica e autrice de “Il futuro nel passato”, il documentario pone in luce la crisi economica, ambientale e sociale in cui ci troviamo e allo stesso tempo indica una via d’uscita che mi appare ben più efficace dei tagli, dei prestiti e degli accordi che ora vengono decisi da non si sa chi, al chiuso delle stanze del potere.Il documentario si divide in due parti: la prima mostra i disagi dell’attuale situazione, la seconda le soluzioni.Il paradigma è rappresentato dalle vicende del Ladakh, paese che per secoli si è retto sui propri prodotti e dove la povertà e la disoccupazione sono stati a lungo inesistenti. A metà degli anni ‘70 l’apertura ai mercati fece sì che le multinazionali si inserissero nel commercio locale. Attraverso la pubblicità furono instillate nuove necessità, trasformando così il paese in una nuova fonte di profitti. I costi di tutto questo sono stati enormi: rottura dei legami sociali, disoccupazione, povertà acquisita, conflitti interreligiosi, senso di arretratezza e invidia nei confronti del modello occidentale.Tutto ciò non è accaduto solo in Ladakh, ma anche in altri paesi detti “in via di sviluppo”. Ed è quello che è accaduto anche a noi.Tale processo economico viene detto “globalizzazione”, ovvero “la deregolamentazione del commercio e della finanza che consente agli affari e alle banche di operare globalmente” e “l’emergere di un solo mercato mondiale dominato da compagnie transnazionali”.Gli effetti di questo processo vanno oltre il semplice fatto monetario. In primo luogo abbiamo l’inquinamento. Le merci infatti vengono fatte viaggiare di paese in paese in modo davvero folle, portando al paradosso secondo cui in Ladakh il burro importato costa la metà del burro locale. Abbiamo poi la diminuzione della biodiversità nelle colture, l’indigenza, il disagio sociale, l’insoddisfazione.La soluzione proposta dal documentario è il passaggio dalla grande alla piccola scala, ovvero la localizzazione. Localizzare significa consumare ciò che viene prodotto vicino casa, seguire il processo di produzione dall’inizio alla fine, e questo con un impatto ambientale drasticamente ridotto (meno spostamento di merci), una ricchezza che viene reinvestita nella comunità stessa, maggiori contatti sociali e infine maggiore serenità. Questo non significa isolazionismo o mancanza di collaborazione internazionale. Significa semplicemente quello che l’uomo ha fatto per millenni. Senza bisogno di tornare ai tempi della pietra, certo. Grazie alle più avanzate tecnologie possiamo unire la sostenibilità all’utilizzo di energie rinnovabili e decentralizzate.Insomma, se dobbiamo essere infelici per produrre il tipo di società che abbiamo, e che crediamo essere la sola possibile, forse dovremmo riconsiderare qualche assunto. Che cos’è il PIL, in fondo? È davvero ciò di cui dovremmo preoccuparci? O forse è solo un acronimo utile a chi ha bisogno di continuare a giocare con enormi quantità di denaro, una divinità composta da tre lettere al quale stiamo sacrificando troppe cose?

VANANDA SHIVA

Quello che ho apprezzato del documentario non è solamente il messaggio, ma anche il fatto che tra le maggiori promotrici di questa economia della felicità vi siano delle donne. Tra di esse abbiamo non solo Helena Nordberg-Hodge , ma anche la scrittrice Vandana Shiva e la dottoressa Mohau Pheko. Qualcosa mi dice che le donne stiano avendo e avranno un ruolo di primo piano nei cambiamenti che, volenti o nolenti, ci troveremo ad affrontare. Vedo infatti in questo ritorno a uno stile di vita meno competitivo una mano femminile. Come dice Vandana Shiva, è “la conoscenza delle nonne”.Credo che questo documentario presenti una soluzione logica e naturale ai problemi che ci troviamo ad affrontare, e soprattutto credo sia un invito a non aspettare sempre che un “grande della terra” arrivi a sistemare le cose. Le multinazionali sono grandi, ma hanno la goffaggine dell’elefante. I singoli sono piccoli come formiche, ma come le formiche arrivano dappertutto.

26/09/2012, 00:39

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Fonte: http://www.iconicon.it/blog/2012/09/sme ... evitabile/

Questo tempo è il tempo che impone cambiamenti radicali del pensiero, del costume, delle abitudini. Impone lo sviluppo di capacità che ci consentano di avere una visione allargata, quanto meno in termini di possibilità, dell’universo e della sua multidimensionalità, delle nostre latenti capacità intellettive e spirituali. È il tempo che impone una rivisitazione degli schemi sociali, economici ma soprattutto è il tempo in cui urge la nascita di una potente pretesa della nostra libertà.

L’evoluzione, nella sua manifestazione, contraddistingue un individuo (o un piccolo numero) dalla moltitudine.

Non è mai il contrario. Tutte le volte che accade, questo individuo è costretto a lottare con le idee e il costume diffuso e la moltitudine pretende da lui che si conformi e che soprattutto non comprometta, con le sue azioni o propagande, le loro”verità “ sulle quali arroccano le loro false certezze e le loro “comodità”, fatte spesso di ingiustizie. Ma in lui fermenta e si agita una forza oscura che lo spinge inesorabilmente in avanti, talora procurandosi terribili sofferenze ma alla fine accade qualcosa che sembra sospinto da una forza soprannaturale: l’individuo riesce in qualche modo a stimolare l’attenzione della massa che lentamente passa da un torpore caratterizzato da scetticismo e incredulità, divenendo infine capace di innalzare la percezione necessaria a comprendere e ad accogliere la nuova visione.

Il folle, l’eretico, l’anticonformista, il ribelle e il rivoluzionario, improvvisamente viene considerato un eroe, un apripista, molto spesso solo dopo la sua morte. La storia è zeppa di simili esempi ma, nonostante questo, mi chiedo come faccia ancora la moltitudine a non ascoltare, quanto meno, chi canta fuori dal coro. Da qualche tempo si sta facendo strada un pensiero che insinua un contenuto che è lungi dall’essere anche solo avvicinato dalle masse. Soprattutto, incredibilmente, fa fatica tra quelli che più di tutti soffrono l’oggetto in questione. Il lavoro. In Italia, credo, il più grande esponente di tale pensiero sia Silvano Agosti con la sua teoria delle “3 ore lavorative” e il suo libro: “Lettere dalla Kirghisia”.

Qui suggerisco un mio punto di vista e un’analisi di questa realtà: Se improvvisamente smettessimo di lavorare, cosa accadrebbe?

Il lavoro è diviso in due grandi parti: nella prima vengono prodotti beni e servizi utili nella seconda vengono prodotti beni e servizi inutili. Nella prima annoveriamo cibo, vestiti, abitazioni, utensili ecc. però dobbiamo specificare che non tutto ciò che è cibo, vestiti, abitazioni e utensili, è veramente utile. Molto fra queste cose è concepito in modo e in numero che diventa superfluo. Beni e servizi inutili sono tutto il resto. Certo che per arrivare a fare questa distinzione a livello unanime, in tutto il pianeta, è necessario che l’intera coscienza collettiva si innalzi al punto da capire davvero, nel suo profondo, il valore spirituale ed esoterico della materia.

È chiaro che ad una umanità così evoluta nascerebbero bisogni e desideri che prima, quando era meno evoluta, non sentiva o fingeva di non sentire o peggio ancora li classificava secondari o poco importanti. Questi valori sono: la solidarietà, lo scambio, la condivisione, lo stare insieme, imparare, costruire, scoprire, inventare, creare, giocare e fare l’amore. Tutto nel rispetto della natura, di sé e degli altri. All’interno di una coscienza simile, molti dei beni materiali che oggi consideriamo utili e indispensabili, automaticamente diventerebbero inutili, superflui e addirittura potremmo accorgerci che potrebbero essere dannosi, perché per produrli si inquina e si toglie tempo, energie e risorse sia a chi materialmente li produce che al pianeta stesso.

Quindi, supponiamo che a lavorare siano 3 miliardi di persone e che di queste soltanto 1 milione al mondo sia impegnato nella produzione di beni e servizi veramente utili. A smettere di lavorare, ovviamente, non dovrebbero essere questi ultimi ma la moltitudine impegnata alla produzione di beni e servizi inutili e dannosi. Se allo stato attuale, questo milione di persone, impiega 8 ore al giorno per produrre ciò che è davvero necessario all’umanità intera (in una visione molto più spirituale) quando e se la moltitudine di lavoratori smettesse di lavorare, potrebbe affiancare e aiutare il primo milione ottenendo il fantastico risultato che ogni individuo potrebbe lavorare un’ora sola alla settimana e non si intaccherebbe la produzione del fabbisogno mondiale (Non ho fatto calcoli, i parametri potrebbero essere sproporzionati anche perché la visione è ovviamente molto semplificata: quello che conta è il concetto).

È chiaro che a tutto questo discorso si affiancano inevitabilmente altri argomenti come l’etica, l’ecologia, l’evoluzione intesa in termini spirituali, la pace, l’amore incondizionato per la terra e gli animali, la capacita e lo sforzo di dissolvere l’ego e la competizione, limacciose fermentazione nelle quali germina l’odio, l’intolleranza e infine la guerra. Spesso, a chi rivolgo questi pensieri, si insinua la paura di una vita priva di tecnologia perché probabilmente è facile per loro associare una visione così semplice del mondo al ricordo arcaico dello stile di vita nei secoli passati fatto di candele, acqua ghiacciata per lavarsi e carri trainati da animali e quindi ristrettezze, limitazioni e sofferenze.

Ma voglio ricordare a tutti quanti che verso la fine del 1800, un certo Nikola Tesla scoprì un modo per produrre energia elettrica pulita ed illimitata dal…nulla o vuoto (che poi sembra appunto che proprio “vuoto” non sia).

Certo, i suoi studi e i suoi lavori sono stati ripresi con fatiche e scarsissimi mezzi da altri scienziati in seguito e, ad oggi, sembra che la tecnica sia ampiamente disponibile, ma allora perché, vi chiederete voi, continuiamo ad usare il petrolio, a pagarlo caro e soprattutto ad inquinare e forse ancora di più continuiamo a sopportare l’odiosa presenza della guerra che è strettamente legata al petrolio? Semplicemente perché chi detiene il potere ha tutto l’interesse ad occultare il più possibile tali tecnologie per poter continuare a sfruttare l’umanità. Come? Aprire fabbriche, produrre prodotti inutili e rivenderceli.

Ma un’umanità LIBERA ha tutte le possibilità di rendersi ancora più libera anche dalle fatiche potendo usare energia pulita e tecnologia quando questa migliora la vita senza inquinare. Approverebbe anche una tecnologia utile a permettere agli individui di viaggiare. Se solo fossimo tanto coraggiosi da pretenderla dai nostri governanti e pretendere che lascino liberi e che vengano peraltro finanziati quegli scienziati, ispirati ed illuminati, che sono pronti a varcare i confini delle utopie.

Chissà quali sorprese ci riserverebbe una realtà simile. Come anticipato da messaggi canalizzati, un’umanità così liberata, avrebbe tempo per continuare ad evolvere spiritualmente, attraverso un’introspezione che porterebbe a sviluppare tecniche come l’intuizione e la telepatia (dal film “Il pianeta verde”). Un altro punto importante da sviluppare è la possibilità che verrebbe data ad ogni individuo di esprimere totalmente e profondamente le sue naturali capacità e talenti. Come taluni fortunati ragazzini che, privi di forti influenze esterne, che sovente hanno la pretesa di educare e instradare il giovane ad un modello considerato sano e giusto dalla società, si ritrovano così liberi di esercitare la loro intelligenza e capacità in qualche campo della scienza o della tecnologia e diventano già da giovanissimi molto competenti se non addirittura capaci di apportare innovazioni e scoperte al punto da permettere un balzo in avanti alla scienza stessa.

Questi ragazzini devono farci da esempio, non sono solo dei geni, ma dobbiamo felicemente accettare che ognuno di noi ha le stesse possibilità, quanto meno di divenire altamente competente in quegli ambiti nei quali la natura ci farebbe scoprire profondamente inclini. Quando proviamo un immenso piacere in quello che facciamo, quando anche a beneficiarne sia la collettività, non abbiamo bisogno di essere pagati con il denaro per farlo. Lo faremmo gratuitamente. Il problema del denaro è una condizione che tristemente affianca la dimensione delle espressioni umane ma la relazione tra le due realtà è oltremodo sorpassabile e dissolvibile.

Tanto più se la nostra sopravvivenza e sostentamento non sono legate alla nostra produttività ma ritorna ad essere un diritto sacrosanto di ogni individuo, indipendentemente dal ruolo che riveste nella collettività. In un mondo così delineato, il denaro sarebbe vittoriosamente e felicemente sorpassato. In quel mondo, ad ogni bambino che nasce, si potrebbe dire: “Non ti dovrai mai preoccupare di nulla. La nostra civiltà prospera, è ricca e ovunque c’è abbondanza. Tu sarai amato, rispettato e aiutato da tutti e non ti mancherà mai il sostentamento. Come tutti noi anche tu hai dei talenti che sono per te fonte di grande piacere e per la collettività una grande ricchezza. Prenditi tutto il tempo necessario per cercarli e svilupparli, affinché presto anche tu possa avere la gioia di cooperare e condividere con noi la nostra meravigliosa esistenza. Hai a disposizione i migliori maestri e tutta la sapienza delle nostre biblioteche. Va e sperimenta te stesso.”

Credete che questo bimbo possa crescere con dei traumi che molto presto riverserebbe nella società sotto forma di arroganza, aggressività e violenza? NO!!!

Questo bimbo sperimenterebbe da subito gioia, felicità e soprattutto fiducia nei suoi simili e in se stesso. Tutte le sue azioni sarebbero tradotte nella pura energia dell’amore. Dunque, smettere di lavorare, tutti e tutti nello stesso momento, rappresenterebbe di fatto la prima vera rivoluzione pacifica nella storia dell’umanità. La terra (humus) non ha bisogno di soldi per dare i suoi frutti. La terra ha bisogno di acqua, sole e una vanga di buona volontà. Smettere di lavorare segnerebbe senza dubbio la caduta del sistema finanziario, ma la terra i suoi frutti li darebbe indipendentemente dalla presenza o meno dell’economia e i cervelli si esprimerebbero ugualmente e più liberamente.

La parola “lavoro” verrebbe definitivamente sostituita con: “cooperazione”.

La differenza la faremo quando capiremo che un’utopia è l’unica strada possibile.

Di Davide Ragozzini


E noi? Quanta fiducia riponiamo nel genere umano? [8]

14/10/2012, 02:00

«Per quanto complesse possano sembrare le questioni a livello globale, non dobbiamo dimenticare che siamo noi ad averle create. Dunque è impossibile che la loro soluzione sia al di là del nostro potere di esseri umani. Dobbiamo ripartire dalla nostra umanità, riformando e facendo emergere le nostre capacità: questo tipo di rivoluzione umana individuale può portare a un’effettiva riforma su scala globale.» Daisaku Ikeda

Crescita infelice o DECRESCITA FELICE?

Visto che la ripresa economica non arriva mai e che per raggiungerla è necessario versare "lacrime e sangue", forse la soluzione sta nel concetto di 'decrescita' illustrato qui

http://www.movimentozero.org/index.php? ... &Itemid=53

e approfondito nel sito

http://decrescitafelice.it/

14/10/2012, 12:08

Evitiamo di alimentare un economia fondata sul debito, paghiamo in contanti quanto possibile. Inneschiamo un meccanismo virtuoso che ci riporti ad un economia reale, fatta di scambi e non di rate. Ovviamente escludendo i mutui, anche perchè non credo che tutti abbiano soldi per pagarsi in contanti una casa.

26/10/2012, 11:02

In questo topic abbiamo parlato dei temi più disparati, ma non ci siamo mai focalizzati su uno in particolare... la fiscalità. Ci provo io, partendo dal presupposto che una Rinascita Sociale Globale concreta debba partire anche da un fisco davvero equo e improntato sulla giustizia sociale.

Da Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Progressivit%C3%A0

La progressività è la caratteristica di un'imposta la cui aliquota aumenta all'aumentare dell'imponibile. L'imposta da pagare aumenta quindi più che proporzionalmente rispetto all'aumento dell'imponibile. La progressività è una caratteristica del nostro ordinamento tributario; l'art. 53 della Costituzione dispone in tal senso: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività".

Ovviamente non tutte le imposte nel nostro ordinamento rispettano tale principio: la progressività del sistema tributario italiano è garantita dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), che è la nostra imposta principale, da cui si ricava il maggior gettito fiscale. Essa è una imposta progressiva per scaglioni

Il criterio della progressività dell’imposizione fiscale costituisce un effettivo meccanismo di redistribuzione della ricchezza che, dall’Istituzione dell’Irpef nel 1974 ad oggi, accanto alla perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni inversamente proporzionale alla crescita dei redditi medio-alti, è stato completamente sovvertito. Anche le politiche dei governi di centro-sinistra ne portano la responsabilità, insieme alla progressiva limitazione del conflitto sociale dovuta alla scelta della concertazione da parte dei sindacati confederali, avviata negli anni ’80, che ha permesso la perdita di tante conquiste di maggiore giustizia sociale.

“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” - Art. 53 della Costituzione italiana

Dal dopoguerra la prima radicale riforma fiscale, che istituisce l’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), e il cui impianto rispettava il carattere costituzionale della progressività, avviene nel 1974. La progressività consiste in un meccanismo matematico con il quale non solo aumenta l’importo delle tasse da pagare con l’aumentare del reddito (aumento proporzionale), ma soprattutto l’aumento cresce perché aumenta la percentuale (aliquota) delle imposte da pagare.

Per fare degli esempi, attualizzando la situazione dell’Irpef nel 1974, si otterrebbero i seguenti dati:
- un reddito di 42 milioni di lire pagherebbe un’imposta di lire 4.957.665, pari al 11.8% del reddito
- per i redditi di 1,2 miliardi l’imposta sarebbe del 42.3%
- per i redditi da 6 miliardi di lire l’imposta sarebbe del 58.7%
che conferma come la progressività faccia effettivamente pagare una quota maggiore a chi guadagna di più.

Da allora, 1974, ad oggi è stato un percorso continuo per aggirare e deformare il dettato costituzionale e per attenuare in tutti i modi il carattere progressivo della tassazione diretta.

- Anno 1974, 32 aliquote, aliquota minima 10% (fino a 5000 euro), aliquota massima 72% (da 258.000 euro in su)
- Anno 1988, 9 aliquote, aliquota minima 12% (fino a 6000 euro), aliquota massima 62% (da 258.000 euro in su)
- Anno 1989, 7 aliquote, aliquota minima 10% (fino a 3000 euro), aliquota massima 50% (da 154.000 euro in su)
- Anno 1998, 5 aliquote, aliquota minima 18% (fino a 7500 euro), aliquota massima 45% (da 70.000 euro in su)
- Anno 2005, 4 aliquote, aliquota minima 23% (fino a 26.000 euro, ridotti a 15.000 nel 2007), aliquota massima 43% (da 100.000 euro in su, ridotti a 70.000 nel 2007)

Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas

Il carattere progressivo di un sistema fiscale è dato prima di tutto e soprattutto dal rapporto delle aliquote (percentuali) con le classi di importo dei redditi. Le eventuali deduzioni-detrazioni sono dei correttivi, spesso indispensabili, ma essi non caratterizzano il sistema.

Come si evince dalla tabella, le aliquote e quindi le classi di importo dei redditi sono passate da 32, nell’anno del varo della legge, fino alle attuali 5.

La tabella documenta come i redditi più elevati abbiano goduto dal 1983 in poi di una costante decrescita delle tasse, l’aliquota massima per essi passa dal 72% al 43% realizzando il dimezzamento, senza contare che chi ha goduto di redditi più elevati in assoluto ha goduto anche del maggior abbassamento delle tasse: ben 29 punti percentuali in meno. La tabella conferma per paradosso il criterio che stiamo denunciando, perché evidenzia la progressività del privilegio con l’aumentare del reddito, che l’ultimo dato riferito all’anno 2007 mostra chiaramente: si è quasi dimezzata l’aliquota e si è abbassato il reddito massimo a 75 mila euro, ovvero si è allargata la platea, ma redditi esponenzialmente superiori oggi pagano lo stesso 43%.

La tabella mostra come il ridursi del numero delle aliquote evidenziato nella prima riga (stesso parametro della tab 1) testimonia come in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007, seconda riga) in proporzione al reddito basso mostrato dalla terza riga, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta. Un dato che rimane tale nonostante negli anni siano stati introdotti sistemi di deduzioni e detrazioni (vedi note 1 e 2), che hanno reso il meccanismo poco trasparente senza cambiare la sostanza: la crescita delle aliquote colpisce sempre più le fasce più basse di reddito e il sistema delle detrazioni serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al disotto della soglia della povertà assoluta.

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (…)”. - Art. 36 della Costituzione italiana

Fonti:
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... =undefined
http://it.wikipedia.org/wiki/Progressivit%C3%A0

Ora, io non dico di tornare alle più di 30 aliquote del 1974 nè al 72% di aliquota massima che è di per sè una assurdità. Credo altrettanto sia giunto il momento di ripensare a una diversa classificazione delle aliquote, anche aggiungendone un paio, se necessario, che garantiscano una maggior progressività dell'IRPEF e quindi una più equa distribuzione della ricchezza prodotta dal sistema paese.

Il tema, anche se apparentemente legato alla situazione Italia, è realmente oggetto di Rinascita Sociale Globale, poichè il concetto di "progressività" può e deve secondo me essere calato anche in altri sistemi economici fiscali nazionali... e forse non solo nazionali, considerando che la "ridistribuzione della ricchezza" potrebbe essere, a più ampio spretto, finalizzato alla riduzione del gap tra primo e terzo mondo.

22/11/2012, 19:01

Era il 1992....

28/11/2012, 22:20

Quando pensate che non è possibile sappiate che state sbagliando...

L'esperimento di Guernsey

Nel canale della Manica, fra il 1816 ed il 1836, qualcosa ando’ fuori controllo, e quindi funziono’.

Si tratta di un esperimento economico noto come “Market House” e consistette piu’ o meno in quanto segue (il virgolettato e’ tratto da Schiavi del Sistema):

“[...] il commercio di Guernsey era praticamente estinto e la gente era in preda alla disperazione. La disoccupazione era diffusa, le difese dal mare erano state abbattute, non vi erano praticamente strade, gli edifici pubblici erano in rovina e, soprattutto, c’era il bisogno urgente di una nuova piazza del mercato [...]“.

Dall’Inghilterra non si riuscivano ad ottenere prestiti. Gli unici finanziatori disposti, proponevano tassi di interesse del 17%, e quindi il piccolo stato era bloccato nella crisi.

Ma le materie prime per iniziare i lavori c’erano, e la gente per la monodopera pure! L’unica cosa che mancava, era il denaro. A Guernsey non si lavorava perche’ non si sapeva come pagare la gente. Quindi? Quindi il piccolo stato prese una decisione: “Ci stampiamo dei soldi nostri”.

“[...] il governo autorizzò note nella misura di 80.000£, che furono utilizzate per la costruzione della piazza del nuovo mercato, per le scuole in ogni comune, per le strade di tutta l’isola, per il St. Cottage di Elisabetta, ecc. [...]”

“[...] l’aspetto dell’isola cambiò dal giorno alla notte. Dal suo stato di arretratezza e depressione l’isola divenne, nel giro di 20 anni, famosa per il suo benessere [...]”

Perche’ venne interrotto questo esperimento? Beh, aprirono due banche Inglesi sull’isola dei miracoli, e nel giro di pochi mesi crearono una pesante inflazione (fino ad allora assente sull’isola), chaos politico ed economico, e ripristino della regola del debito.

La morale della favola e’:

“[...] Se esistono braccia per lavorare e materiale per costruire, affermare che una determinata opera (socialmente necessaria) non possa venir costruita per mancanza di denaro è una idiozia bella e buona [...]”

http://www.noeconomy.com/wp/?p=1517
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