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meglio così direi, forse una cosa buona l'ha fatta...



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MessaggioInviato: 17/05/2014, 01:13 
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Dieci verità contro la retorica del declino italiano
Italia grande malata? Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison raccontano una storia diversa

Lo scrittore e poeta scozzese Andrew Lang sosteneva che le statistiche siano sovente usate come un ubriaco usa i lampioni: per sostenersi e non per esserne illuminati. Forse ha ragione, e forse noi italiani, in questi anni di crisi, siamo un po’ come degli ubriachi di ottimismo che hanno bisogno di appigli per evitare di cadere a terra e farsi prendere dallo sconforto. D’altra parte se il Washington Post, il Financial Times e tutte le agenzie di rating internazionali dicono che sei il «grande malato d’Europa» come fai a non credergli?

Eppure, ci sono dati che raccontano storie diverse. Dati come quelli presentati ieri da Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison nel loro evento intitolato, non a caso, “10 verità sulla competitività italiana”. Secondo loro, tanto per dirne quattro, l’Italia in questi anni di crisi ha fatto i compiti a casa, ha guadagnato posizioni nei mercati internazionali, ha uno dei debiti più sostenibili del mondo, o perlomeno dell’Europa, e soprattutto, ha una classe imprenditoriale tra le più competitive al mondo. Destinatari della missiva, non a caso, i giornalisti della stampa estera, nella cui «casa» si è tenuto l’evento. Ubriachi noi o distratti (se non peggio) loro? Giudicate voi.

La prima verità: esportiamo tanto

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La prima verità è già di per sé un bel biglietto da visita. Nel 2012, nonostante cinque anni spaventosi, l’Italia era – ed è tuttora - uno dei cinque Paesi al mondo che vantava un surplus commerciale di prodotti manifatturieri superiori ai cento miliardi di dollari. Per dire, non lo sono né la Francia, né il Regno Unito, né tantomeno gli Stati Uniti d’America, Paesi che da tempo hanno abdicato la loro vocazione manifatturiera (salvo poi pentirsene, soprattutto dalle parti di Washington). Non solo: tra i Paesi della cinquina di testa, l’Italia rappresenta una singolare eccezione, non annoverando realtà come Volkswagen, Toyota o Samsung in grado da sole di trainare una fetta consistente di esportazioni manifatturiere verso l’estero. In altre parole, abbiamo una ricetta originale per stare dove siamo. Ricetta dei cui ingredienti dice molto la seconda verità.

La seconda verità: sappiamo fare tutto

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In una parola: specializzazione. Nessun Paese al mondo, infatti, può vantare ben 935 differenti specializzazioni (su circa cinquemila complessive) in cui il surplus commerciale è tra i primi tre al mondo. Non è roba da poco: vuol dire essere l’eccellenza assoluta in poco meno del 20% tra tutti i settori economici presenti nell’economia globale. Merito, questo, dell’iperspecializzazione delle nostre imprese. Frutto, a sua volta, della nostra peculiare – e spesso inguistamente vituperata – struttura capitalistica, fatta di realtà medie, piccole e microbiche capaci di produrre saperi specialistici che non hanno uguali al mondo e di contaminarli vicendevolmente. Una biodiversità, questa, che fa del nostro Paese, peraltro, anche uno di quelli che sono in grado di cambiare pelle più velocemente al mutare delle condizioni di mercato, ricombinando saperi, specializzazioni e inventando cose nuove.

La terza verità: le tigri crescono l’Italia tiene

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I più scettici, di fronte all’ultima affermazione, avranno storto il naso di fronte alle saracinesche abbassate, ai numeri vertiginosi della cassa integrazione in deroga, all’impennarsi della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile: «Aggrappatevi a tutto – avranno pensato – ma non raccontateci storie». Cari i miei scettici, avete ragione, ma non su tutto: l’Italia, dal 1999 al 2012 è uno dei Paesi industrializzati che ha tenuto meglio sul mercato manifatturiero mondiale. Più precisamente, nonostante l’emergere di Cina, Russia, India, Brasile e tigrotti vari, è riuscita a tenersi stretta il 71% della sua quota di export, laddove il Giappone si è sceso al 67%, la Francia al 61%, il Regno Unito al 55 per cento. A sopravanzarci, c’è solo la Germania. Che tiene meglio di chiunque altro grazie alla forza della sua manifattura, certo, ma anche grazie alla sua forza politica nel imporre all’Unione Europea politiche di austerità, i cui effetti non collaterali sono la crescita della competitività estera e il crollo della domanda interna.

La quarta verità: la domanda interna è il problema

Non me ne vorranno gli amici di Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison se cambio l’ordine delle «verità», ma è qui che casca l’asino tricolore. La nostra crisi è infatti figlia, come già si era scritto in altre occasioni, di politiche che hanno depresso oltre ogni misura la nostra domanda interna. Rimanendo in ambito manifatturiero, il confronto con Germania e Francia è impietoso. Tra il 2008 e il 2013 il nostro fatturato estero è cresciuto di quasi cinque punti percentuali più di quello tedesco e di oltre dieci rispetto a quello francese. Tuttavia, la domanda interna francese e tedesca, come si può chiaramente evincere dal grafico, hanno retto molto meglio della nostra l’urto della crisi.

La quinta verità: il debito pubblico si è messo a dieta

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Come mai? La risposta è tanto scontata da essere ovvia. L’Italia sconta il peso del pachiderma seduto nel suo soggiorno, altrimenti detto debito pubblico. Un debito che oggi rappresenta una tale fonte di instabilità finanziaria – la tempesta perfetta di agosto 2011 ne è la prova più lampante – da condizionare ogni potenziale investimento pubblico o privato e da fare di noi la santabarbara del Vecchio Continente. Vero? In parte. O meglio: in fotografia, il debito pubblico italiano è talmente voluminoso da fare impressione. Tuttavia, nel 1995 rappresentava il 28,7% del debito pubblico complessivo dell’Unione Europea, nel 2007 era sceso al 26,8% e nel 2013 è arrivato addirittura al 22,1 per cento. Delle due, una: o noi siamo dimagriti o gli altri sono ingrassati.

La sesta verità: non chiamateci Pigs

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«La seconda che hai detto», risponderebbe Quelo, il mitico santone in accappatoio bianco interpretato da Corrado Guzzanti. Tra il 1995 e il 2012 il debito aggregato (pubblico e privato) è cresciuto, in percentuale al Pil, del 24% in Germania, dell’81% in Francia, del 93% nel Regno Unito, del 141% in Spagna e addirittura del 147% in Grecia. L’Italia - sorprendentemente, ma non troppo, ormai - ha avuto un andamento più teutonico che da Paese Pigs: il nostro debito è infatti cresciuto di «soli» 61 punti percentuali.

La settima verità: un avanzo da record

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Buona parte del merito di questo risultato è senza dubbio da attribuire alla relativa (e storica) esiguità del debito privato italiano, rispetto soprattutto a quelli anglosassoni e a quello spagnolo post bolla immobiliare. Tuttavia non è solo con noi stessi, micragnosi risparmiatori avversi al rischio, che dobbiamo complimentarci. Tra il 1996 e il 2013, infatti, l’Italia ha realizzato un avanzo di bilancio che, cumulato di anno in anno, arriva a 591 miliardi di euro, laddove Francia e Inghilterra hanno invece realizzato, nel medesimo periodo di tempo, un disavanzo cumulato rispettivamente di 311 e 364 miliardi di euro. Tradotto per chi non ha alle spalle un esame di scienza delle finanze all’università: noi abbiamo sforbiciato - e parecchio - la nostra spesa pubblica, ben prima del fiscal compact e delle lettere minacciose della trojka. Nello stesso periodo di tempo, al contrario, francesi e inglesi hanno allargato i cordoni della borsa.

L’ottava verità: grande malato a chi?

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Sommate il debito pubblico che cala e il debito privato che cresce meno che altrove e otterrete l’ottava verità: un debito aggregato che, in percentuale al Pil, pesa il 261%. Più di quello tedesco (195%), poco più di quello francese (255%), ma meno di quello americano, inglese, spagnolo, giapponese. Tradotto: se il problema dei problemi fosse il debito, la Spagna ha la polmonite, mentre l’Italia un brutto raffreddore. Però, vai a capire perché, il grande malato siamo noi.

La nona verità: l’erba del vicino è sempre meno verde

Dalla sostenibilità finanziaria a quella ambientale il passo è più breve di quel che sembra. Anche perché, pure in quest’ambito, l’Italia è in qualche modo vittima di una mistificazione o, perlomeno, di una scarsa capacità di comunicare l’innovazione. Prendete la Germania, il Paese delle case in legno, delle pale eoliche, di El Dorado dell’ecosostenibilità come Friburgo, delle pale eoliche nel Baltico. Ecco: quella Germania lì, la stessa, immette in atmosfera 143 tonnellate di anidride carbonica e 65 tonnellate di rifiuti ogni milione di euro prodotto dalla sua economia. L’Italia, quella dell’Ilva di Taranto e della «Terra dei fuochi», 104 e 41. Non solo: dei 163 milioni di tonnellate di rifiuti recuperati su scala europea, l’Italia ne ha recuperati 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i Paesi europei.

La decima verità: nonostante tutto

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Chiudiamo con l’ultima verità, la decima. Con 54 milioni di pernottamenti l’anno, siamo la meta preferita dei turisti extraeuropei, soprattutto per i giapponesi, gli australiani, gli statunitensi e i canadesi. E forse, in questo senso, la verità è che la distanza con gli altri Paesi è troppo poco marcata e che gran parte delle potenzialità paesaggistiche, storiche, culturali, gastronomiche sono ancora inespresse o scarsamente valorizzate e le infrastrutture - dagli aeroporti alle strade sino alle strutture ricettive - quantomeno migliorabili. A ben vedere, è proprio quest’ultima verità a dare il senso del lavoro di Symbola, Unioncamere e Fondazione Edisono: nonostante tutto, siamo ancora qui e siamo ancora competitivi, sembrano urlare tutte e dieci le loro verità.



http://www.linkiesta.it/dieci-verita-co ... o-italiano


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MessaggioInviato: 17/05/2014, 02:50 
abbiamo bisogno di gente che si senta italiana ed abbia in se un sano spirito nazionalistico. Ormai il nazionalismo viene considerato un insulto ma è ciò che tiene legate le persone al proprio paese e gli impedisce di far qualcosa contro gli interessi del paese stesso. Quanti anni sono che non siam governati da gente così?



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MessaggioInviato: 17/05/2014, 13:01 
Cita:
MaxpoweR ha scritto:

abbiamo bisogno di gente che si senta italiana ed abbia in se un sano spirito nazionalistico. Ormai il nazionalismo viene considerato un insulto ma è ciò che tiene legate le persone al proprio paese e gli impedisce di far qualcosa contro gli interessi del paese stesso. Quanti anni sono che non siam governati da gente così?


[BBvideo]http://www.youtube.com/watch?v=UVXb5w3cluI[/BBvideo]

Meno male che c'è qualcuno (e non importa il colore),
che ha le PALLE per dire in pubblico come stiano davvero le cose....



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"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo

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MessaggioInviato: 17/05/2014, 13:17 
si ho sentito l'intervento ma bisognerà vedere come si comporteranno quando e se avranno loro le redini in mano :) Parlare senza avere di fatto alcuna responsabilità diretta è facile.



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MessaggioInviato: 17/05/2014, 18:09 
Cita:
MaxpoweR ha scritto:

si ho sentito l'intervento ma bisognerà vedere come si comporteranno quando e se avranno loro le redini in mano :) Parlare senza avere di fatto alcuna responsabilità diretta è facile.

Caro Max..... a me sembra quasi inverosimile il solo fatto che SE NE PARLI nelll'aula del Parlamento. P2, Finanza Internazionale, Aspen, Gruppo Bilderberg, Rockefeller, Rothschild, FMI, Trilateral, democrazia questa sconosciuta, progetti europei per cancellare gli stati sovrani e per azzerare lo stato sociale, etc etc..... sino a poco tempo fa era IMPENSABILE ascoltare simili concetti nell'aula dei mistificatori. Cerco di vedere il mezzo bicchiere pieno....



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MessaggioInviato: 17/05/2014, 20:28 
beh se la metti così sono totalmente d'accordo, ma io ora mi ritengo un osservatore super partes;

quindi mi aspetto che alle parole seguano i fatti, nel limite del possibile, anche da parte dei 5 stelle come da parte dei partiti che sto "tenendo sotto osservazione" al momento ^_^

La mia fiducia d'ora in poi se la devono PRIMA GUADAGNARE ^_^



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MessaggioInviato: 23/05/2014, 09:25 
Moody’s ha dichiarato che è contenta del risultato ottenuto dal nuovo Governo italiano; vuol dire che la fine è vicina, che lo sporco lavoro a vantaggio delle banche è stato fatto, che l’industria è a terra e quindi cedibile a pochi soldi, che l’Italia è decotta ed è pronta per essere venduta, servita su un piatto d’argento, alle banche che Moody’s, Standard & Poors e gli altri compagni di merende rappresentano. Pardon: ad essere “privatizzata”, come ci si dice dando ad intendere che il Cittadino, il Privato, avrà la possibilità di comprare un’azienda che lo Stato non ha ben gestito per poi metterla a disposizione della Comunità con più efficienza, togliendo una perdita dal settore pubblico e scrivendo qualche cifra a nove zeri nel bilancio statale.

Scordatevelo: nessuno di noi mortali potrà mai comprare nulla: ci sono già le multinazionali e il cartello bancario pronti a mangiare: fà parte del piano di “salvataggio” Monti!

CONTINUA>>> http://www.informarexresistere.fr/2012/ ... tte-reato/



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MessaggioInviato: 04/08/2014, 09:10 
L'Italia è ormai dentro la bara.
Verrà ricordata come paese ricco e prospero


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Posted on 01 agosto 2014

http://www.ecplanet.com/node/4328

Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica.

L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. È quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi.

L’Italia in rosso, che sta precipitando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».

Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni.

Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.

Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.

Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese.

È la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.

«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». È un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».

Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».

Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «È povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.

Fonte: libreidee.org

LE CIFRE DEL DISASTRO ECONOMICO ITALIANO

I crudi numeri non ci consegnano le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l'Italia. Ma ci aiutano a comprenderlo, ed anche a capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l'euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro Paese.

- PIL: dal 2007 al 2013 -8,7% .

- PIL PRO-CAPITE: dal 2007 al 2013 - 9,1%.

- REDDITO REALE DISPONIBILE PER LE FAMIGLIE: dal 2007 al 2013 -10,2%.

- RICCHEZZA NAZIONALE: dal 2007 al 2013 persi 843 miliardi pari al -9%.

- PRODUZIONE INDUSTRIALE: dal 2007-2013 -25,5% .

Nello stesso periodo, a livello mondiale la produzione industriale è cresciuta del 10%.

- POTENZIALE INDUSTRIALE: dal 2007 al 2013 perso il 15%.


- NUMERO AZIENDE CHIUSE: nel periodo 2001-2013 perse 120mila fabbriche.

Nel periodo 2008-2013 hanno chiuso 75mila imprese artigiane. Il 2013 è stato l'anno record dei fallimenti: 111mila.

- DISOCCUPAZIONE: dal 2007 è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7% attuale.
I disoccupati ufficiali sono 3milioni e 300mila, ai quali vanno aggiunti altri 3 milioni di persone che non si rivolgono ai centri per l'impiego (i cd. "sfiduciati").
Nello stesso periodo la Germania ha conosciuto invece il record storico degli occupati.

- DISOCCUPAZIONE GIOVANILE: dal 2007 ad oggi è più che raddoppiata, passando dal 20,3% del 2007 al 43% attuale.

- TASSO DI OCCUPAZIONE: è passato dal 58,7% del 2007 al 55,5% del 2013.


- POSTI DI LAVORO PERSI NELL'INDUSTRIA: dal 2001 persi 1 milione e 160mila posti di lavoro.


- CONSUMI DELLE FAMIGLIE: dal 2007-2013 -9,5%. Negli ultimi due anni: -4,3% del 2012, -2,6% nel 2013.


- [b]POVERTÀ[/b]: secondo Eurostat gli "individui a rischio povertà o esclusione sociale" nel 2008 erano in Italia il 25,3%, 29,9% nel 2012. L' Istat è più preciso: Un italiano su dieci in povertà assoluta. Tra il 2012 e il 2013, l'incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8% al 7,9% (per effetto dell'aumento nel Mezzogiorno, dal 9,8 al 12,6%), coinvolgendo circa 303 mila famiglie e 1 milione 206 mila persone in più rispetto all'anno precedente. Povera o quasi una famiglia su cinque. Per quanto riguarda la povertà relativa in Italia 3 milioni e 230 mila famiglie sono sotto la soglia —si tratta dei nuclei composti di due persone che spendono meno di quanto avvenga nella media pro capite del Paese, cioè 972,52 euro mensili. Per la precisione, la loro spesa media nel 2013 è stata di 764 euro mensili, in calo dai 793,32 del 2012. Un dato che scende nel Mezzogiorno a 744 euro.

- DISUGUAGLIANZA: ne 2007 l'indice di Gini era di 0,31, nel 2013 era di 0,34. Per la cronaca nel 1992 era 0,27. Quel che possiamo dire è che la crisi ha accentuato le disuguaglianze. Con 0,34 l'Italia è risultata nel 2013 il paese più diseguale dell'Unione Europea dopo la Gran Bretagna.

- SALARI: con uno stipendio netto di 21.374 dollari l'anno, l'Italia si colloca al 23 posto nella classifica Ocse. Se la passano peggio degli italiani, in Europa, solo i portoghesi e gli abitanti dei Paesi dell'Europa orientale.

- RISPARMIO: a fronte dell'aumento dei cittadini sotto la soglia della povertà, sono cresciuti i denari lasciati in custodia alle banche: nel 2013 del + 5,7% sull'anno precedente, a 1.2016 miliardi di euro.

- DEBITO PUBBLICO: era al 103,3% del Pil nel 2007 nel 2013, ha raggiunto il 132,9% del 2013. L'ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un uovo record storico: quota 2.166,3 miliardi. Con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente.

- DEBITO PRIVATO qui possiamo fare i confronti con il 1998 (anno di ingresso nell'euro). Nel periodo 1998-2012 le variazioni sono state queste (in % sul Pil): imprese da 85 a 120%, banche e istituzioni finanziarie da 40 a 110%, famiglie da 30 a 50%. In questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico: dal 120 al 127% del 2012. In totale il debito (pubblico e privato) è passato dal 275% ad oltre il 400%.

- SOFFERENZE BANCARIE: dal 2007 al 2013 sono cresciute di +100 miliardi. Ad Ottobre 2013 le sofferenze lorde erano pari a 147,3 miliardi. In rapporto agli impieghi il 7,7%, il massimo dal 1999.

- FINANAZIAMENTI ALLE IMPRESE: malgrado i tassi della Bce siano prossimi allo zero, il tasso medio per i prestiti alle Pmi (dati ottobre 2013) è al 4,49%, mentre negli altri paesi dell'Eurozona una pmi a ottobre ha pagato in media un tasso del 3,83 per cento.

- TASSE: la tassazione ha raggiunto il 44% rispetto al Pil. Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012, soltanto l'Ungheria in Unione Europea ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell'Italia.

Fonte: sollevazione.blogspot.it

E NON E FINITA...

Italia sull’orlo della deflazione

La depressione economica fa collassare l’inflazione: a luglio cala allo 0,1% dallo 0,3% di giugno toccando il livello più basso da agosto 2009. Lo rileva l’Istat.

Su base mensile i prezzi al consumo scendono dello 0,1% trainati da alimentari e beni energetici.

E inflazione sempre giù nella zona euro:secondo la stima di Eurostat tasso a 0,4% a luglio contro lo 0,5% di giugno.

Il calo della crescita dei prezzi sarebbe positivo, se dipendesse dall’aumento della produttività. In questo caso è invece conseguenza dell’asfissia dell’economia causata da euro e globalizzazione.

Le sanzioni alla Russia saranno la campana a morto.

Stato estorsore: record mondiale di tasse

Nel 2013 l’Italia a guida PD ha sfondato il record mondiale di tassazione, e non era ancora arrivato Renzi: quota 53,2%.

Lo afferma l’Ufficio studi della Confcommercio.

prostitute, MAGNACCIA E SPACCIATORI IN SOCCORSO DI RENZI

Ma non temete, Ue e Renzi hanno il trucco pronto per far scendere – statisticamente – la percentuale di tassazione.

Il prossimo anno infatti, verrà aggiunto al Pil anche quello ‘presunto’ derivante da prostituzione, spaccio e altre attività illecite, in questo modo apparirà un Pil artificialmente più alto e quindi, per via matematica, la pressione fiscale come percentuale totale ‘scenderà’ al 44,1%. Visto che il “nero” è tassato allo ’0%’.

Fonte: voxnews.info



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MessaggioInviato: 09/11/2014, 14:08 
COME CI HANNO DISTRUTTO

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Nino Galloni

CIA, BILDERBERG, BR, BRITANNIA: ECCO A VOI LA VERA STORIA ITALIANA

di Nino Galloni

http://www.iconicon.it/blog/2014/11/ci-hanno-distrutto/

Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi, l’Italia.

A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

È la drammatica ricostruzione di Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato.

All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, finche potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.

Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli (facenti anche loro parte del gruppo Bilderberg) e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

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Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”.

E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima» (Kissinger è anche l’assassino di Salvador Allende).

Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provvedutola strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione» (il piano lo stà ultimando Renzi con il suo Job Acts). Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale».

Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici».

E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni.

Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti.

«Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.

L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia.

Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano.

[wbf]Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».


Fonte: http://fuorisubito.blogspot.it/2014/11/ ... oi-la.html[/wbf]



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"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo

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MessaggioInviato: 06/01/2015, 12:21 
Riporto qui un articolo postato da Atlanticus in "Povera Italia".....

Cita:
Atlanticus81 ha scritto:

IL DECLINO (INEVITABILE?) DELLA COLONIA ITALIA

Non fu certo nell’incontro tra membri della classe dirigente italiana ed esponenti della finanza anglosassone a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, che si decisero le sorti del nostro Paese, benché non si debba sottovalutare il significato politico di quel gentlemen’s agreement, che è diventato simbolo della politica antinazionale che da allora avrebbe caratterizzato la storia del nostro Paese.

Peraltro, fu proprio nel 1992 che si sarebbero create le condizioni per dare l’Italia in pasto ai pescecani della finanza internazionale, sacrificando, per così dire, l’interesse nazionale sull’altare della “geopolitica occidentale”. Nonostante ciò, la gioiosa macchina da guerra che avrebbe fatto a pezzi l’Italia si era già messa in moto perlomeno dal 1981, ossia allorquando c’era stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia.

Un divorzio che costrinse lo Stato italiano a finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse salatissimi, tanto che il debito pubblico, che nel 1982 era il 64% del Pil, nel 1992 era diventato il 105,2% del Pil (1).

Scrive Domenico Moro: «Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano?

Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%» (2).

Ma gli anni Ottanta del secolo scorso furono pure gli anni che videro i vertici del Pci condurre il “popolo comunista” verso l’altra sponda dell’Atlantico. Una traversata lunga e difficile, anche perché vi era il rischio per i “vertici rossi” di arrivare con un numero esiguo di passeggeri, anziché con un esercito pronto a combattere “al soldo” della Casa Bianca.

A tale proposito, è interessante ricordare quanto ebbe a dichiarare nel 2008 al “Corsera” il generale Jean riguardo alla presa di posizione del Pci contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, avvenuta nel 1985, anche se i lavori nella base siciliana erano cominciati due anni prima (lavori di cui il generale Jean era ben informato dato che all’epoca dirigeva il reparto del ministero della Difesa che controllava le infrastrutture della Nato in Italia).

Jean ricordò ai lettori del “Corsera” che il Pci sui missili Cruise non aveva fatto “marcia indietro” rispetto alla celebre affermazione di Enrico Berlinguer, secondo cui si era più sicuri sotto l’ombrello della Nato anziché sotto quello del Patto di Varsavia, dato che, come precisò Jean, «il Pci fu sostanzialmente d’accordo, non poteva dichiararlo apertamente, la sua base non avrebbe capito, ma non creò problemi eccessivi» (3).

Nondimeno, non si deve neppure trascurare che il Psi di Craxi intralciò non poco i piani del Pci, di modo che, quando cadde il Muro di Berlino, i “vertici rossi” erano ancora alla prese con la questione del nome da dare alla “nuova cosa” che avevano in mente da parecchi anni. Un ritardo che avrebbe potuto costare assai caro ai dirigenti di quello che si definiva ancora il più forte partito comunista occidentale.

Una volta crollato il Muro, il 9 novembre del 1989, però di tempo il Pci non ne perse più e solo tre giorni dopo ci fu la famosa “svolta della Bolognina”, che nel febbraio del 1991 portò allo scioglimento del “vecchio e glorioso” partito comunista italiano e alla nascita del Partito democratico della sinistra.

Qualche pezzo gli ex compagni lo persero, ma fu “roba” di poco conto. Sotto questo aspetto, fu davvero decisivo il lavoro di “MicroMega”, “L’Espresso “e “la Repubblica”, di fatto «i principali strumenti della rieducazione “liberalprogressista” e “antinazionalpopolare” del popolo comunista» (4).

D’altra parte, il Pci già negli anni Ottanta, più che il partito delle tute blu, era diventato il partito del ceto medio semicolto, formato in buona misura da colletti bianchi “nullafacenti”, da insegnanti senza nulla da insegnare e da “parassiti” vari, decisi a risolvere una volta per tutte la “questione morale” che affligge l’Italia da tempo immemorabile, benché in verità anch’essi “nati e cresciuti” nel ventre marcio della partitocrazia e indubbiamente non meno abili nell’appropriarsi del denaro pubblico dei tanto da loro detestati “ladri” socialisti e democristiani.

Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo).

Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro.

Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).

Lo stesso Mario Monti allora mise in evidenza che gli accordi di Maastricht comportavano non solo il risanamento della finanza pubblica, ma pure che “rivoltavano come un guanto” il modello di governo dell’economia italiana (6). Comunque, le conseguenze del trattato di Maastricht si capirono soltanto negli anni seguenti, quando sarebbe stato troppo tardi per porvi rimedio e non furono certo quelle previste da Carli.

Infatti, non furono solo gli economisti americani a scendere in campo per difendere gli interessi degli Usa. E i “circoli atlantisti” seppero lavorare così bene che l’euro si sarebbe rivelato ben altro che una moneta in grado di competere con il dollaro (7).

Ma, se i politici italiani non afferrarono immediatamente le possibili implicazioni del trattato di Maastricht né capirono quali “contromisure” i “circoli atlantisti” avrebbero preso, lo si deve pure al fatto che proprio nello stesso mese di febbraio di quell’anno ormai lontano veniva arrestato a Milano un “mariuolo”, ossia Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Psi milanese. Era cominciata l’operazione “Mani Pulite”.

Il pool di “Mani Pulite”, come si sa, concentrò tutta la sua “potenza di fuoco” solo contro una parte della “vecchia classe politica”, tanto che si sarebbe “sbarazzato” di Tiziana Parenti, che voleva invece “andare a fondo” pure sulla questione delle “tangenti rosse” al Pci/Pds e alla quale non era nemmeno sfuggito che l’input dell’inchiesta su “Tangentopoli” aveva “radici americane” (8).

D’altronde, i giornali italiani – volgari portavoce degli interessi di quella che Gianfranco La Grassa definisce la Id&Gf (cioè “Industria decotta e Grande finanza), subalterna agli interessi d’oltreoceano fin da quando (nel 1942) Enrico Cuccia si era recato a Lisbona per trattare la resa del grande capitale privato italiano agli angloamericani, e garantire così alla famiglia Agnelli e ai suoi “compagni di merende” un “buon posto a tavola” una volta finita la guerra – facevano credere ai “semplici” che fosse in corso addirittura una sorta di “moto rivoluzionario”.

Sicché, quando la politica cercò (con il “decreto Conso” del marzo 1993) di porre un freno ad una operazione giudiziaria che stava “liquidando” le uniche forze politiche che (pur corrotte quanto si vuole) erano contrarie a mettere il nostro Paese nelle mani dei “mercati”, i gazzettieri gridarono allo scandalo, il pool di “Mani Pulite” si ribellò e Luigi Scalfaro cestinò il “decreto Conso” ritenendolo incostituzionale. Ma l’Italia allora era già stata messa in ginocchio dalla finanza internazionale.

Com’è noto, poco dopo l’incontro a bordo del Britannia, ossia nella notte tra il 9 eil 10 luglio del 1992, Giuliano Amato penetrò come Diabolik nei forzieri delle banche italiane e prelevò il 6 per 1.000 da ogni deposito.

La manovra di luglio e una finanziaria “lacrime e sangue” di oltre 90.000 miliardi si giustificarono con la gravissima situazione del Paese, che rischiava di non riuscire a piazzare sul mercato i titoli di Stato, adesso che Bankitalia non era più obbligata ad acquistarli. Tanto è vero che il breve governo Amato va ricordato anche per le vicende che videro come protagonista la “vecchia lira”, dacché la nostra moneta, dall’estate all’autunno del 1992, fu oggetto di un durissimo attacco da parte di Soros, il famoso “filantropo” e sostenitore di rivoluzioni colorate in varie parti del mondo” (Ucraina compresa).

Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, decise di difendere la lira bruciando circa 48 miliardi di dollari, ovverosia dissipando le nostre riserve valutarie senza ottenere alcun risultato. Tale ostinata e inutile difesa della lira fu motivata affermando che, se si svalutava, il Paese sarebbe andato in rovina. A settembre però Amato dovette gettare la spugna e annunciò la svalutazione della lira. Un anno dopo avrebbe dichiarato: «La svalutazione ci ha fatto bene» (9). Le esportazioni tiravano e il peggio pareva passato. Tutto bene allora? Certamente no.

Invero, la tempesta giudiziaria e quella finanziaria spazzarono via ogni ostacolo alla (s)vendita del nostro patrimonio pubblico (comprare “merce” italiana, adesso che le lirette erano svalutate, non era un problema per il grande capitale straniero).

In ogni caso, anche Berlusconi, “sceso in campo” per difendere le proprie aziende dall’attacco da parte del Pds (che volle “strafare” offrendo la testa del “cavaliere nero” alla Id&Gf e così si “giocò” la vittoria nelle elezioni politiche del 1994), si guardò bene dal cercare di cambiare questo “stato delle cose”, quando tornò al potere nel giugno del 2001, dopo la sua prima “non esaltante” esperienza di governo (dal maggio 1994 al gennaio del 1995).

Le cifre parlano chiaro: dal 1992 al 1995 le privatizzazioni fruttarono allo Stato italiano poco meno di 17.000 miliardi di lire; dal 1996 al 2000 si raggiunse la cifra di 79.209,95 miliardi di lire, mentre dal 2000 al 2005 lo Stato incassò dalla vendita delle nostre aziende pubbliche circa 50.000 miliardi di lire (10). Ma gran parte di questo “tesoretto” andò ad arricchire quella rendita finanziaria per la quale da diversi lustri non pochi italiani lavorano, senza che ancora se ne siano pienamente resi conto. D’altra parte, lo spettacolo offerto dal “teatrino della politica” non poteva non “distrarre” il Paese, al punto che tutto il resto pareva non contasse più nulla.

Non solo passarono così “in secondo piano” il gigantesco terremoto geopolitico causato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e le conseguenze del cosiddetto Anschluss, ossia l’annessione della Germania Est da parte della Germania federale (annessione che avrebbe portato alla quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est e alla perdita di milioni di posti lavoro – non certo un buon segno per la futura “unione” europea) (11), ma non venne preso nemmeno in considerazione il fatto che si stava mettendo “in liquidazione” quel modello di economia mista che dopo la Seconda guerra mondiale aveva consentito ad un Paese a sovranità limitata come l’Italia di diventare un Paese industriale avanzato, garantendo “bene o male” benessere e sviluppo ad alcune generazioni di italiani.

In pratica, ci si limitò a privatizzare, senza varare alcun “piano industriale”, senza preoccuparsi di ridefinire gli obiettivi strategici della nazione, stravolgendo addirittura il sistema educativo per adeguarlo ai “modelli internazionali” (una scelta i cui effetti nefasti, in verità non solo per l’Italia, si cominciano a vedere solo adesso). In questo contesto, venne pure “internazionalizzato” il debito pubblico.

E ciò, si badi, proprio quando gli Usa, ormai unica superpotenza, si lanciavano alla conquista dell’intero pianeta, rimuovendo ogni ostacolo al “libero” movimento dei capitali, lasciandosi definitivamente alle spalle gli accordi di Bretton Woods e autorizzando qualunque crimine finanziario, purché funzionale al successo della nuova strategia statunitense.

Inutile dire che anche l’introduzione dell’euro non venne affrontata con la necessaria maturità politica e il senso di responsabilità che un tale passo richiedeva. Sotto questo profilo, si distinsero in particolare gli intellettuali per i quali contava solo “entrare in Europa”, quasi che l’Italia fosse un Paese africano. Non si tenne nemmeno conto che il Paese si teneva il proprio debito ma al tempo stesso cedeva la propria sovranità monetaria, non all’Europa, che politicamente non esisteva, ma ai tecnocrati di Bruxelles e agli “gnomi” della Bce.

Eppure quando i francesi e gli olandesi, nel 2005, bocciarono la costituzione europea, vi sarebbe stata la possibilità di rimettere in discussione l’intero progetto europeo, avendo presenti i gravi rischi che derivavano dalla “inconsistenza geopolitica” dell’Unione Europea e dalla dipendenza del vecchio continente da pericolose e perfino anacronistiche “logiche atlantiste”. Ma anche allora in Italia si prestò poca attenzione ai reali problemi posti da Eurolandia e dalla nuova architettura politica della Ue, anche perché i liberal-progressisti, secondo il solito schema concettuale assai caro alla nostra intellighenzia anglofila, addebitavano tutti i “guai” del nostro Paese al fatto che gli italiani anziché anglosassoni fossero latini (ossia fossero “brutti, sporchi e cattivi”), nonché al fatto che adesso in Italia oltre al papa ci fosse pure “Sua Emittenza”.

Ciò malgrado, anche per i liberal-progressisti era fuori discussione che la società italiana dovesse diventare una società di mercato sotto ogni punto di vista, ma a guidare questo processo di trasformazione avrebbero dovuto essere loro stessi (cioè i “ceti medi riflessivi”, come loro medesimi si autodefinivano), anziché i “cafoni della destra”, il cui americanismo era superficiale e non serio, ponderato e maturo come il loro.

I “destri”, autoproclamatisi difensori del “popolo delle partite Iva” (perlopiù commercianti, liberi professionisti e piccoli imprenditori) replicavano accusando i “sinistri” di essere ancora comunisti (una accusa che ancora spesso fanno, dimostrando di avere una capacità di comprendere la politica minore di quella degli avventori del “leggendario” bar dello sport). Entrambi gli schieramenti quindi si accusavano reciprocamente di non avere le competenze necessarie per modernizzare (leggi: “americanizzare”) il Paese: se per i “sinistri” i berlusconiani non erano altro che una massa di corrotti ed evasori fiscali, per i “destri” gli antiberlusconiani erano solo una massa di ipergarantiti e “mangiapane a tradimento”.

Inoltre, gli italiani si dividevano anche sulla questione del conflitto di interessi, che per i “sinistri”, finché non fosse stata risolta, non avrebbe dovuto consentire al “cavaliere nero” (accusato perfino di essere colluso con la mafia) di governare l’Italia (una questione che “stranamente” i governi di sinistra, che pure ci sono stati nell’era del berlusconismo, non hanno mai risolto). Berlusconismo e antiberlusconismo diventavano così la foglia di fico dietro la quale maturavano le condizioni perché l’Italia si facesse trovare nella peggiore situazione possibile allorché, nel 2007/8, si verificò la crisi finanziaria. Ma anche di questo ben pochi politici e analisti se ne accorsero in tempo, tanto che nel 2009 secondo l’Ocse la ripresa dell’economia italiana era già in atto e lo stesso Berlusconi ebbe a dichiarare al “Corsera” che l’Italia andava a gonfie vele (12).

In effetti, nonostante l’introduzione dell’euro (che di punto in bianco privò l’Italia della leva fiscale, della leva monetaria e della leva valutaria) l’economia italiana nei primi anni del terzo millennio pareva “cavarsela”, se perfino la quota italiana della manifattura mondiale dal 4,2% nel 2000 era passata al 4,5% nel 2007 (13).

D’altronde, è pure noto che la Germania nel 2003, muovendo da livelli di Welfare e di reddito molto alti, decise di comprimere i salari e di sfruttare l’“euro-marco” per diventare una grande potenza commerciale (14), infischiandosene degli squilibri che tale scelta avrebbe inevitabilmente generato, dacché la maggior parte degli altri Paesi di Eurolandia (Italia compresa) non potevano seguire i tedeschi su questa strada, sempre che non volessero far morire di fame un terzo della popolazione.

Ma con la crisi finanziaria, peraltro costata all’Italia ben 5 punti del Pil nel 2009, si avviava pure un processo di deindustrializzazione del Paese, che nel 2013 vedeva quasi dimezzata la propria quota della manifattura mondiale (2,6%), mentre i “mercati” potevano usare il debito pubblico italiano, ora pressoché totalmente fuori controllo, per imporre la politica più favorevole per i loro interessi.

Naturalmente, i gazzettieri sostenevano che ai “mercati” interessava solo la testa del “clown tricolore”. Una sciocchezza colossale, come questi ultimi drammatici anni hanno dimostrato, al di là delle colpe della destra italiana, certo gravi e numerose ma non più gravi e numerose di quelle della sinistra.

Comunque sia, la situazione del Paese non la si può spiegare solo elencando i noti difetti del “sistema Italia”, quali la corruzione, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la spesa pubblica “improduttiva” e l’evasione fiscale. (Non si dovrebbe però nemmeno “generalizzare”, dato che se da un lato vi sono non pochi impiegati pubblici onesti e capaci, dall’altro si sa che il “nero”, per una serie di ragioni dipendenti da “logiche partitocratiche” della cosiddetta “prima repubblica”, è ancora incorporato nel “ciclo economico”, ragion per cui è logico che con i metodi di Equitalia la “gallina dalle uova d’oro” non la si cura ma la si uccide).

Ma, proprio come negli anni Novanta non si trattava di mettere in questione la lotta contro la corruzione e le “logiche partitocratiche” (che indubbiamente erano un problema da risolvere), bensì la terapia adottata (giacché avrebbe ancor più indebolito un organismo che aveva bisogno di ben altre cure), così oggi l’accento deve essere messo sul fatto che dei “centri egemonici” stranieri, contando sulla presenza di numerose “quinte colonne”, possono sfruttare la debolezza del nostro Paese, non solo per evidenti scopi economici ma anche per scopi geopolitici (forse meno evidenti, ma non meno importanti). Al riguardo, la subalternità alla politica di potenza statunitense da parte del ceto politico italiano non è una novità e non ha bisogno di spiegazioni.

Ma oggi una tale condizione di “vassallaggio” rischia di essere disastrosa per un Paese la cui base produttiva è ormai “lesionata”, e che, oltre ad essere privo di materie prime, si trova a dipendere da altri Stati per il suo fabbisogno energetico e dai “mercati” per quanto concerne il finanziamento del debito (si tratta di un passivo di circa 150 miliardi di euro all’anno se ai 90 miliardi di euro per il servizio del debito si aggiunge il passivo della bilancia energetica – una “emorragia” che sottrae non poche risorse estremamente preziose per la ripresa e lo sviluppo della nostra economia). Tutto ciò difatti rafforza ancora di più il controllo del nostro Paese da parte dei “centri egemonici” atlantisti, le cui strategie non possono certo avere come scopo la difesa del nostro interesse nazionale. Non meraviglia allora che il “Belpaese” rischi di tornare ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, grazie ad una classe dirigente che in gran parte è al servizio di potentati stranieri.

Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente, anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia.

Il sostegno di Roma alle guerre d’aggressione degli Usa e alle varie rivoluzioni colorate (dalla Siria all’Ucraina) “sponsorizzate” dai centri di potere atlantisti trova una sua logica spiegazione nella “tradizionale” politica della classe dirigente italiana, che consiste nell’anteporre il proprio “particulare” all’interesse generale, esercitando, al riparo da “brutte sorprese”, il “piccolo potere” che la potenza occidentale predominante concede ad un gruppo politico “subdominante” in una determinata area geopolitica.

L’Italia, che è un’ottima base per la “proiezione” della potenza statunitense nel Mediterraneo e nel continente africano, ha appunto il compito di seguire “ciecamente” le direttive della Nato. Anche la politica italiana nei confronti della Germania deve essere interpretata alla luce di questa “sostanziale” subordinazione del ceto politico italiano alle direttive strategiche dei centri di potere atlantisti. Non è un mistero che un euro politicamente debole, favorendo la speculazione internazionale e frenando l’economia europea nel suo complesso, non può che avvantaggiare l’America, per la quale la disintegrazione di Eurolandia sarebbe un “incubo” (15).

Non “afferrare” questo aspetto della pur complessa situazione europea, significa inibirsi del tutto la possibilità di comprendere i veri motivi che hanno spinto anche i politici italiani “meno sprovveduti” ad accettare una serie di misure che sapevano essere sicuramente nocive per il nostro Paese.

Si è venuta quindi a creare una situazione che potrebbe cambiare solo se vi fossero una “visione geopolitica” del mondo e una cultura politica del tutto diverse, ma di cui purtroppo al momento non si vede traccia. Né a tale mancanza si può rimediare con il qualunquismo e il pressappochismo, dato che con l’“antipolitica” (anche ammesso che si sia in buonafede) non si va da nessuna parte, ma si può solo sprecare un notevole patrimonio di consensi, lasciandosi sfuggire l’opportunità di “far voltare” pagina al Paese (come prova la storia del M5S).

Invero, si dovrebbe tener presente che i “guai” dell’Italia sono sempre derivati, in primo luogo, dalla mancanza di uno Stato forte ed efficiente, in grado di imporre l’interesse della collettività a scapito di interessi settoriali e pronto a premiare i meritevoli anziché i “furbi”, nonché dalla mancanza di una classe dirigente disposta a “pagare in prima persona”.

Sicché, come comprese Gramsci, i ripetuti fallimenti dello Stato italiano derivano proprio dall’incapacità della sua classe dirigente di inserire il popolo italiano nel quadro statale, facendo valere una autentica cultura nazional-popolare (16).

La stessa crisi di Eurolandia, che secondo non pochi analisti è destinata ad aggravarsi con il passare del tempo, dovrebbe essere perciò un’occasione per creare una coscienza nazionale all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo.

Che l’Italia nei mesi che verranno possa far fronte con successo a tali sfide è lecito dubitarne, benché ciò non costituisca un valido motivo per rassegnarsi al peggio. Del resto, gli italiani non sono gli unici europei che cercano di uscire dal vicolo cieco in cui li ha condotti una classe dirigente inetta e corrotta.

Certo, anche questo potrebbe apparire un tentativo donchisciottesco, considerando la frammentazione sociale e il degrado culturale che caratterizzano da tempo non solo l’Italia ma l’intero continente europeo.

Tuttavia, è pur vero che finché tutto non è perduto, nulla è perduto. In quest’ottica, pertanto, dovrebbe avere ancora senso battersi contro l’Europa dei tecnocrati e dei “mercati”, al fine di costruire un polo geopolitico europeo, composto da nazioni libere e sovrane.

NOTE
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-ver ... -italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leur ... -delleuro/).
8) G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega”
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.

http://www.eurasia-rivista.org/il-decli ... lia/22044/



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"…stanno uscendo allo scoperto ora, amano annunciare cosa stanno per fare, adorano la paura che esso può creare. E’ come la bassa modulazione nel ruggito di una tigre che paralizza la vittima prima del colpo. Inoltre, la paura nei cuori delle masse risuona come un dolce inno per il loro signore". (Capire la propaganda, R. Winfield)

"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo

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MessaggioInviato: 09/02/2015, 11:33 
Thethirdeye ha scritto:
1992-2012 - "Guerra Finanziaria" all'Italia (con commento di Paolo Barnard)

Guarda su youtube.com


Ne vedremo delle belle, amici miei......

FITCH VS ITALIA: SCACCO AL RE IN DUE MOSSE

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http://www.nocensura.com/2015/02/fitch- ... n-due.html

Di Alberto Micalizzi

Siamo ad un passo dall’evento del secolo, ma non del XXI secolo…parlo dell’evento degli ultimi 100 anni: l’Italia che diventa ufficialmente “spazzatura”. Ancora un taglio al rating e con un imbarazzante “BB+” saremo al livello dell’Indonesia e della Bulgaria, però “spavaldamente” avanti di un gradino rispetto alla Nigeria e all’Angola! Sembra uno scherzo ma è la realtà.

Se qualcuno aveva ancora dubbi su questo epilogo l’altro ieri l’agenzia di rating Fitch li ha fugati, confermando che “le DEBOLI PROSPETTIVE DI CRESCITA nominali sono un elemento di debolezza per il rating” …. come ammonire un nano sul fatto che sarà giudicato in base all’altezza.
Le agenzie di rating applicano un modello economico errato intrinsecamente, basato sull’assurdo di conseguire la crescita del PIL riducendo il debito pubblico, dimenticando l’elefante nel salotto, e cioè che l’Italia può solo finanziarsi a debito! Ecco perché a Luglio 2013 potei prevedere con certezza i tagli verificatisi nel 2014, e perché oggi posso affermare che vi sarà un ulteriore taglio...
Solo che il prossimo taglio sarà fatidico, perché i BTP perderanno la prerogativa di essere utilizzabili come garanzia collaterale sul mercato interbancario …. dopo di che lo scacco al Re sarà compiuto. Non si illuda chi crede agli interventi salvifici di Mario Draghi. Ormai non c’è più alcuna correlazione tra i tassi di interesse sulle nuove emissioni di BTP, oggi attorno a 1,5% grazie alla narco-bolla finanziaria in atto, ed il rischio di fallimento medio-alto che viene attribuito al nostro Paese.

In questo, solo in questo, le agenzie di rating hanno tragicamente ragione. Un Paese come l’Italia potrebbe tecnicamente fallire domattina se soltanto la BCE staccasse la spina….togliesse la somministrazione controllata di ossigeno che serve a tenere il paziente in stato comatoso, sebbene clinicamente vivo. Ma il paziente non deve morire…dunque un pò di bastone (il taglio del rating) ed un pò di carota (gli illusori interventi BCE).

Del resto, ad Ottobre 2014 la stessa agenzia aveva detto che “senza un ritorno alla crescita del PIL e a GRANDI ECCEDENZE DEL SALDO PRIMARIO il compito di ridurre gradualmente l’elevato rapporto Debito/PIL sarà più impegnativo”, che svela pudicamente lo scopo di tutto e cioè GARANTIRE CHE L’ITALIA RESTI SOLVIBILE A BENEFICIO DEI CREDITORI.

Quindi, tutto è fatto per proteggere la “sacralità” del DEBITO, perché se ad un Paese fosse concesso uno sconto diverrebbe un pericoloso precedente. Ecco perché la Grecia è condannata ad uscire disordinatamente dall’Euro … evento già scontato nei cambi tra valute.
Per il resto, solo menzogne e manipolazioni. Dire, come ha appena fatto Fitch, che “attuare con successo le RIFORME STRUTTURALI FAVORIREBBE LA CRESCITA” è ingannevole, dato che tutti sanno che la crescita richiede investimenti, non tagli!

Ma a combattere sono in pochissimi. C’è ancora qualche magistrato coraggioso che resiste da solo, qualche analista che alza la voce e qualche associazione di categoria che si costituisce parte civile…ma nulla più.Per il resto solo il silenzio assordante delle istituzioni, esemplificato dalla recente decisione del Ministero dell’Economia di non costituirsi parte civile nello storico processo che dal 4 Febbraio 2015 sta celebrandosi proprio contro Fitch (e Standard&Poors) per manipolazione di mercato presso la Procura di Trani, un processo tenuto scandalosamente sotto silenzio da tutti i media ufficiali.

Signor Ministro, perché non confida come TUTTI facciamo nei magistrati? Lei chi è per decidere di non costituirsi parte civile IN NOME DEL POPOLO ITALIANO contro i presunti manipolatori di mercato che un giudice italiano ha deciso di rinviare a giudizio? Fossi al suo posto proverei una profonda vergogna pensando agli 8 imprenditori italiani che ogni giorno si tolgono la vita a causa di quella crisi nella quale siamo stati artificialmente spinti da una coalizione di forze e di interessi extra-nazionali di cui anche le agenzie di rating fanno parte, e che in maniera indisturbata sta succhiando la linfa vitale dell’intero Paese.

Alberto Micalizzi



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 Oggetto del messaggio: Re: Il Britannia e la
MessaggioInviato: 11/02/2015, 21:02 
Thethirdeye ha scritto:

Ne vedremo delle belle, amici miei......

FITCH VS ITALIA: SCACCO AL RE IN DUE MOSSE

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http://www.nocensura.com/2015/02/fitch- ... n-due.html




Italia seduta su bomba derivati da 163 miliardi

In un'audizione in Parlamento, l'allarme di Maria Cannata, custode del debito:
in 13 derivati clausole chiusura anticipata. Siamo primi in Europa per esposizione.

http://www.wallstreetitalia.com/article ... iardi.aspx

............ [:304]



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 Oggetto del messaggio: Re: Il Britannia e la "Guerra Finanziaria" all'Italia
MessaggioInviato: 12/02/2015, 01:00 
Chi ha stipulato fisicamente quei contratti? Subito a processo per alto tradimento ed impiccagione in pubblica piazza. Senza pietà. così il prossimo ci penserebbe 2 volte...

dover togliere 37 miliardi dalle casse dello stato vuol dire impoverire e mandare in miserie ed istigare al suicidio chissà quante persone, meglio che ne muoia una sola, il responsabile!



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 Oggetto del messaggio: Re: Il Britannia e la "Guerra Finanziaria" all'Italia
MessaggioInviato: 12/02/2015, 01:08 
MaxpoweR ha scritto:
Chi ha stipulato fisicamente quei contratti? Subito a processo per alto tradimento ed impiccagione in pubblica piazza. Senza pietà. così il prossimo ci penserebbe 2 volte...

dover togliere 37 miliardi dalle casse dello stato vuol dire impoverire e mandare in miserie ed istigare al suicidio chissà quante persone, meglio che ne muoia una sola, il responsabile!


Già... CHI ha stipulato fisicamente quei contratti?
Ci vogliono nomi e cognomi qui..... visto che paga pantalone.... mi sembra il minimo.



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