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MessaggioInviato: 01/04/2014, 17:41 
Ecco come la Germania ha truccato i suoi conti e messo in ginocchio il nostro paese

- di Francesco Amodeo -

Noi italiani siamo considerati #Piigs e costretti a continue mortificazioni davanti all’integerrima #Germania che ci richiede misure di #austerity vestendosi di finto moralismo e di autoreferenzialità.

Che la Germania giocasse sporco lo avevamo già intuito quando l’ex Ministro delle finanze greco Nicos Christodoulakis denunciò a suo tempo che il Governo tedesco non aveva incluso gli ospedali nel settore pubblico falsando quindi i suoi conti dell’entrata nell’euro. Il lupo perde il pelo ma non il vizio ed infatti la Germania continuerà a falsare i suoi conti da quel momento in poi.

L’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che [[ sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza“. In pratica uno stato non può finanziare a deficit le sue imprese.]] Lo sa bene l’Italia che ha visto le proprie imprese perdere competitività nelle esportazioni registrando il più alto tasso di fallimento delle stesse. Eppure le eccezioni stabilite dal comma 3 dello stesso articolo 107 prevedono l’erogazione di aiuti di Stato nei casi in cui occorra favorire lo sviluppo economico di regioni il cui tenore di vita è anormalmente basso (in Italia ne abbiamo a iosa anche in quello che era il ricco nord) oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione (disoccupazione in italia record pari al 12,9% con quella giovanile al 42,24%) o si debba porre rimedio ad un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro (quella attuale è considerata la più grave crisi economica che ha investito l’italia dal dopoguerra ad oggi). In pratica proprio le eccezioni previste dal comma 3 permetterebbero oggi agli Stati in crisi d’intervenire per cercare di frenare gli effetti del disastro. Ma allora perchè non fanno appello a questo intervento ? Perchè è stato reso loro impossibile dato che ogni paese per richiederlo deve rispettare obbligatoriamente i parametri del fiscal compact. In pratica usando un gioco di parole potremmo dire che per accedere agli interventi destinati ai paesi in crisi è obbligatorio che il paese non stia in crisi.

Ma siamo sicuri che tutti i paesi dell’Unione Europea abbiano rispettato le regole imposte dai Trattati ? Analizziamo insieme alcuni dati: La crescita economica tedesca fra il 2000 e il 2003 era stata nulla mentre la disoccupazione cresceva. Nel primo decennio dell’euro (1999-2008) il debito pubblico tedesco è aumentato (dal 61% al 67% del Pil), al contrario di quello di molti Pigs, Italia compresa (il cui debito nello stesso periodo scendeva dal 113% al 106% del Pil) questo perché dal 2000 al 2005 (badate bene), prima dello scoppio della crisi del 2007 la spesa pubblica tedesca è aumentata di circa 120 miliardi di euro una cifra che fu allocata per circa 2/3 (90 miliardi di euro complessivi) in sussidi alle imprese e in politiche attive per il mercato del lavoro. Le spese per l’istruzione invece aumentarono di soli 8 miliardi e quelle per l’edilizia popolare di 3. In pratica la Germania che per 4 anni di seguito sforò la regola del 3% nel rapporto deficit/pil stava finanziando a deficit le proprie imprese in aperta violazione del Trattato di Maastricht spendendo soldi pubblici per rendersi competitiva con le scorrette riforme Hartz – che quindi vanno inquadrate come il classico aiuto di stato vietato dai trattati – che porteranno ad un abbattimento del costo del lavoro tedesco, a colpi di precarietà con la flexicurity e i mini job, che determinarono un declino dei salari nominali e reali tedeschi che scesero fra il 2003 e il 2009 di circa il 6%. Una svalutazione reale finanziata con sussidi diretti e indiretti al sistema produttivo tedesco. Queste azioni di vero e proprio dumping sociale avviate in Germania furono decise unilateralmente, senza consultare “i fratelli europei” violando palesemente l’articolo 119 del Trattato di Funzionamento dell’UE (TFUE).

Ma la Germania non ha mai smesso di finanziare le sue imprese in violazione dei trattati europei infatti in pochi sanno – dato che i media e i politici tendono a glissare su questo argomento – che la banca pubblica creata nel dopoguerra dagli alleati per gestire i fondi del piano Marshall è diventata oggi il più importante strumento di politica industriale del paese ed una delle più grandi e potenti banche del mondo la Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, (KfW) cioè Istituto di credito per la ricostruzione.

La KfW ha da decenni il ruolo di motore e finanziatore dello sviluppo, ossia quel ruolo che i falchi di Berlino e di tutta l’Eurozona non vogliono attribuire alla Banca Centrale Europea. A trarne vantaggio è il solo sistema tedesco. Il rating di questa banca è ottimo, pari a quello dei Bund tedeschi, per cui alla KfW non è difficile approvvigionarsi a tassi bassissimi quasi esclusivamente sui mercati mondiali dove negli ultimi anni ha realizzato in media emissioni per circa 80 miliardi di euro come riportato da un articolo di Repubblica del 11 Febbraio 2013.

(http://www.repubblica.it)

La KfW appartiene per l’80% alla Repubblica federale e al 20% ai Lander (ossia i 16 stati federati della Germania, sempre soggetti pubblici) e svolge molti compiti di finanziamento del settore pubblico non solo finanziando le piccole-medie imprese, ma rendendosi artefice di salvataggi di aziende e banche come nel caso della Ikb collassata a causa dei mutui subprime. Salvataggi che ad altri Paesi non sarebbero stati permessi ma che Berlino continua a far passare come interventi non pubblici, a dispetto della proprietà al 100% pubblica dell’istituto e sostenendo dei costi che restano al di fuori del perimetro del bilancio federale e che quindi non figurano nel debito pubblico tedesco.

Compiti e operazioni che, invece, in altri Paesi figurerebbero nei conti statali incidendo nel rapporto debito/pil in maniera considerevole infatti, conteggiando le spese di questa che può essere definita la Cassa depositi e prestiti tedesca, la Germania sfiorerebbe il 100% nel rapporto deficit/Pil come ha fatto notare l’economista Alberto Bagnai su “il Fatto” quotidiano dove ha spiegato che “questa operazione è consentita dai criteri contabili Esa95, che escludono dal computo del debito pubblico quello delle società pubbliche che coprono i propri costi per oltre il 50% con ricavi di mercato. La KfW rientra in questo criterio, ma ciò non toglie che se qualcosa le andasse storto, sarebbe il governo federale a garantire le sue obbligazioni, esattamente come gli altri Bund.”

(http://www.ilfattoquotidiano.i )

In pratica anche se i tedeschi hanno trovato il modo per aggirare le norme resta il fatto che si tratta di operazioni estremamente scorrette e di vere e proprie falsificazioni dei conti.

Alla luce di queste nuove realtà cambia completamente l’immagine dell’Italia definito un paese spendaccione che vive al di sopra delle proprie possibilità nei confronti della Germania definita invece oculata e sempre attenta alla propria spesa per tenere i conti in ordine infatti se andiamo a vedere qualche grafico ufficiale ci rendiamo conto che dal secondo trimestre del 2007 ossia quando è ufficialmente scoppiata la crisi dei subprime e delle banche che negli anni successivi hanno chiesto aiuto agli Stati facendo quindi incrementare il debito pubblico che nell’Eurozona è passato dal 60 all’80% l’Italia è stato il paese che ha visto crescere meno di tutti, nell’area euro, il debito pubblico nominale (quello che comprende anche il tasso di inflazione). Se a metà 2007 era a 1.628 miliardi, a metà 2013 era a quota 2.076 miliardi. Si tratta di un incremento del 27%. Nello stesso periodo il debito pubblico della Germania dove, come abbiamo visto, non viene conteggiata l’ingente quota della KfW è comunque passato da 1.597 miliardi a 2.146 miliardi (+34%). Questo nonostante negli stessi anni la Germania abbia generato un’inflazione inferiore di cinque punti rispetto all’Italia e abbia pagato tassi sul debito molto più bassi rispetto al nostro paese (da qui lo spread). E la Francia? Nel frattempo ha visto crescere lo stock di debito del 57%, anch’esso vicinissimo ai 2mila miliardi di euro. Tutti dati riportati in un articolo del Sole 24.

(http://www.ilsole24ore.com)

Incrociando questi dati emerge che le nuove misure del Governo dovrebbero soprattutto cercare di risollevare il Pil piuttosto che concentrarsi unicamente sulla riduzione del debito. Eppure in italia quando si parla del rapporto debito/pil tutta l’attenzione viene incentrata sul debito come se fosse quella la chiave di volta ignorando invece che se il debito sarà ridotto ma il Pil continuerà a perdere colpi il parametro debito/Pil continuerà a peggiorare, in un preoccupante circolo vizioso.

Ma perchè il nostro pil e le nostre esportazioni non crescono ?

Ancor una volta il ruolo scorretto della Germania ha le sue responsabilità.

Proprio i tedeschi che obbligano gli altri paesi a rispettare i parametri europei hanno mantenuto un ampio surplus di conto corrente durante tutta la crisi finanziaria dell’area dell’euro, eccedendo la soglia [del 6%] ogni anno a partire dal 2007. Addirittura nel 2012 il surplus nominale di conto corrente della Germania era maggiore di quello della Cina ignorando ogni raccomandazione a ridurlo e a stimolare lo sviluppo della domanda interna per contribuire a portare gli altri paesi fuori dalla crisi.

La cosa straordinaria è che la critica a tale operato sia arrivata dal governo degli Usa e da ambienti di ricerca e non dalla Commissione Europea sempre pronta a bacchettare il nostro paese dimostrando palesemente come queste procedure seguano una ingiustificata logica asimmetrica e totalmente arbitraria.

Ovviamente in questo caso la Germania non ha fatto altro che sfruttare a danno di altri paesi gli enormi vantaggi avuti dalla moneta unica, una moneta troppo forte per i paesi come l’Italia che hanno quindi perso competitività nei confronti della Germania che invece ha giovato anche del regime di cambi fissi evitando che proprio il tasso di cambio riflettesse il suo ampio surplus considerato un freno per la ripresa dei paesi dell’Eurozona che infatti fronteggiano un corrispondente deficit commerciale.

Come se non bastasse la Germania si è battuta per fare in modo che questi paesi non potessero ricevere neanche gli aiuti dalla banca centrale facendo ricorso per bloccare il piano degli Omt ossia l’acquisto straordinario da parte della BCE di titoli di stato dei paesi in difficoltà che secondo i tedeschi è un piano va oltre il mandato di politica monetaria della Banca centrale europea.

La corte costituzionale tedesca ha fatto però un passo indietro in questo senso quando la Germania codardamente si è resa conto che senza aiuti a questi paesi sarebbe saltato l’euro ed ha quindi deciso di demandare la Corte Europea di giustizia sull’interpretazione del piano Omt della Bce per lasciare in pratica che fosse l’Europa a giudicare se stessa. Questo la dice lunga su quanto la Germania tema la distruzione dell’euro e quanto sarebbe disposta ad ogni tipo di concessione qualora i nostri governanti riuscissero davvero a dimostrare con fermezza la volontà di uscire dalla moneta unica.

Ma quello che fa ancora più rabbia e che rende palese il piano di dominio della Germania con la complicità della nostra classe politica è che i maggiori acquirenti di aziende italiane, indebolite dalla recessione e dal credit crunch sono proprio le imprese tedesche, che al contrario di quelle tricolori nuotano nella liquidità per le ragioni che abbiamo ampiamente spiegato.

Come ha riportato il Financial Times, “sono ben 23 le Pmi italiane passate in mani tedesche nel 2013, dopo le 20 acquisizioni registrate nel 2012. E quasi sempre si tratta di gioiellini con conseguente perdita di posti di lavoro in Italia e l’addio definitivo a pezzi strategici della struttura industriale italiana. Con pesanti conseguenze, nel lungo termine, per il nostro Paese”.

(http://www.ilsole24ore.com)

Non entro nel merito della Bundesbank che elude il divieto di acquisto di titoli di Stato sul mercato primario perchè ci sono economisti autorevoli che si sono occupati dell’argomento che risulta molto complesso ma credo che abbiamo abbastanza materiale per poter formalizzare alla Germania e all’Europa una ingente richiesta di risarcimento e l’uscita immediata dai vincoli europei.

http://www.informarexresistere.fr/2014/ ... tro-paese/

...+ che progetto europa si potrebbe intendere povera europa...............[;)]


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MessaggioInviato: 01/04/2014, 19:24 
... li chiamano Euro ma sono ... Marchi! [:(!]



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MessaggioInviato: 01/04/2014, 19:34 
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Ufologo 555 ha scritto:

... li chiamano Euro ma sono ... Marchi! [:(!]


sono reich.............. marchi................. [:I]


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MessaggioInviato: 01/04/2014, 20:02 
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MessaggioInviato: 02/04/2014, 13:21 
"Non potrà mai risolvere gli squilibri strutturali" dell'area. Anche se si decidesse a fare qualcosa di concreto contro minaccia deflazione. Opinione di Paolo Cardenà.
Il trend del tasso di inflazione in Italia.


MILANO (WSI) - Come si osserva agevolmente, buona parte dell'Europa meridionale è in conclamato stato deflattivo. Mentre l'Italia, ormai da diversi mesi, sta flirtando pericolosamente con spinte disinflazionistiche importanti, ed è verosimile pensare che nei prossimi mesi cadrà anch'essa in deflazione, spingendo l'intera area euro verso livelli di inflazione negativi e comunque ancor più lontani dal target della Banca Centrale Europea del 2%.

La deflazione è una diminuzione del livello generale dei prezzi, cioè il fenomeno opposto all'inflazione. Mentre la disinflazione descrive un rallentamento del tasso di inflazione.

La deflazione deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, che differiscono gli acquisti attendendo ulteriori cali dei prezzi, creando una spirale negativa.


Le imprese, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori. La riduzione dei prezzi da parte delle imprese si ripercuote sui ricavi, anch'essi in calo. Ne deriva il tentativo da parte delle imprese di ridurre i costi, attraverso la diminuzione dei costi per l'acquisto di beni e servizi da altre imprese, del costo del lavoro e tramite un minor ricorso al credito.

Ad un minor costo del lavoro, corrisponde una minore capacità di spesa per le famiglia non compensata da una riduzione dell'impatto fiscale, e quindi un livello più basso di consumi che genere ed aggrava la caduta dei prezzi e la spirale deflazionistica.


A questo fenomeno, oltretutto, contribuisce un cambio dell'euro troppo forte che non rispecchia i fondamentali economici dei paesi mediterranei che, con una valuta più debole, potrebbero avvantaggiarsi con maggiori esportazioni, con riflessi positivi anche sulla domanda interna e quindi sul ciclo economico.

Giova anche precisare che, alla luce delle spinte deflazionistiche sopra evidenziate, la situazione risulta ancor più grave proprio per quei paesi che hanno un elevato livello di debito pubblico, come l'Italia. Non solo perché l'Italia è costretta a pagare interessi sui titoli di Stato emessi in epoche precedenti e che quindi incorporano tassi di interessi più alti poiché "viziati" da un maggior livello di inflazione esistente all'epoca dell'emissione, e quindi un maggior onere in termini reali; ma soprattutto perché la caduta del livello dei prezzi determina una contrazione del PIL nominale, e quindi l'impossibilità di poter "diluire" lo stock di debito pubblico che viene espresso in rapporto al PIL.


Ne consegue che ad un minor PIL corrisponde un rapporto debito/Pil maggiore. Questo è tanto più vero e pericoloso proprio nel contesto dell'eurozona, anche alla luce della prossima applicazione del Fiscal Compact che, dai prossimi anni, imporrà agli stati membri la riduzione del rapporto debito/Pil che, entro i successivi venti anni, dovrà essere confinato entro il 60%.

E' chiaro che, in periodi di bassa inflazione o addirittura di deflazione, il percorso di rientro del debito sarà assai più arduo, soprattutto nei primi anni di vigenza delle regole del Fiscal Compact, poiché dovranno implementarsi manovre di riduzione del debito più robuste ed incisive, con effetti ulteriormente recessivi.

Alla luce dei pericoli enunciati nelle considerazioni sopra esposte, non deve affatto sorprendere se Draghi, ormai quasi tutti i giorni, annuncia che la BCE è pronta ad intervenire (puntualizzando sempre che lo farà nei limiti del suo mandato, al fine di non urtare la componente tedesca, maggiore azionista della BCE) per "preservare la stabilità dei prezzi" che, come si osserva da molti mesi, si stanno allontanando sempre più dall'obiettivo target della BCE fissato al 2%, precipitando i paesi dell'area mediterranea verso la deflazione.



Addirittura, qualche giorno fa, il "falco" Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, nonché custode severissimo del rigore monetario tedesco, magari anche alla luce del risultato elettorale alle amministrative Francesi e delle prossime elezioni europee -attraverso le quali verrà eletto il nuovo Parlamento Europeo- al fine di tentare di arginare l'affermarsi di partiti politici con forti connotazioni antieuropeiste, sembra essersi improvvisamente trasformato in "colomba", aprendo all'ipotesi di un quantitative easing in salsa europea. Possibilità, questa, finora preclusa proprio dall'ortodossia monetaria tedesca.

Quindi, a quanto pare, pur nutrendo forti dubbi sulla possibilità che l'apertura tedesca possa avere riscontri nella realtà, ben presto potremmo assistere ad un ulteriore allentamento monetario da parte della BCE, peraltro auspicato anche dal Fondo Monetario Internazionale e da altre istituzione che esercitano molta pressione sulla BCE affinché intervenga.

Quindi, che potrà fare la BCE, al fine di arginare le spinte deflazionistiche che incombono nell'eurozona?

Sicuramente può intervenire sui tassi di interesse (REFI), tagliandoli. Anche se, con i tassi ad un livello prossimo allo zero (0.25%), i margini di manovra sono assai ridotti e magari lo sono anche gli effetti.

Può intervenire anche sui tassi di deposito delle riserve in Bce, tagliandoli e, addirittura, portandoli negativi.

In pratica, questo tipo di intervento costituirebbe un deterrente per le banche che saranno meno disponibili a sostenere dei costi per depositare la liquidità presso la Bce, cercando forme di impiego alternative, in cuor delle BCE, magari, stemperando la stretta creditizia e prestiti ad imprese e famiglie. [ARTICLEIMAGE]

Ma poiché i maggiori depositari delle riserve presso la Bce, solitamente, sono le banche del Nord Europa, un intervento di questo genere rischia comunque di avvantaggiare ulteriormente le imprese del nord, che si troverebbero ulteriormente finanziate a condizioni imparagonabili rispetto alle concorrenti del sud, che, tuttavia, potrebbero trovare anch'esse sollievo dall'intervento prospettato.

Venendo a misure meno convenzionali, la Bce potrebbe intervenire con una nuova edizione del programma Smp (Securities market program), già sperimentato nel 2011, con il quale furono acquistati sul mercato secondario circa 200 miliardi di titoli pubblici, ma sterilizzando gli acquisti, cioè drenando liquidità per gli stessi importi acquistati.

Cosa che, stando a quanto affermato da Weidmann, potrebbe essere superata purché oggetto degli acquisti siano titoli pubblici di massimo merito creditizio, cioè principalmente tedeschi. Con la conseguenza che l'intervento della Banca Centrale vada a determinare un maggior vantaggio proprio per l'economia più forte, quella tedesca, che godrebbe di rendimenti sui titoli pubblici ancor più ridotti proprio grazie alle pressioni esercitate dagli acquisti delle Bce, che ne schiaccerebbe ulteriormente i rendimenti.

Oppure, ancora, potrebbe intervenire con una nuova edizione di LTRO (Long Term Refinancing Operation), anche'esso sperimentato con successo già alla fine 2011 e inizio 2012, attraverso il quale si permise di sostenere la domanda dei titoli pubblici da parte delle banche dei singoli paesi, sostituendo la domanda estera venuta meno.

Magari una forma più evoluta di LTRO, con meccanismi tali per cui l'intervento monetario della BCE possa veicolare l'impiego della liquidità ottenuta dalle banche nelle attività di finanziamento di famiglie ed imprese. Insomma, una sorta di "funding for landig" sperimentato da Bank of England nel corso degli ultimi anni.

C'è da aggiungere che, qualsiasi politica monetaria la Bce potrà adottare, benché possa essere comunque importante al fine di contrastare le spinte deflazionistiche incombenti sull'Europa, non potrà mai risolvere gli squilibri strutturali presenti tra le diverse aree dell'eurozona.

Ad esempio, se uno degli obiettivi che si intende perseguire è quello di una riduzione del tasso di cambio dell'euro rispetto alle altre valute, è chiaro che ne godrebbero tutti i paesi esportatori, che riacquisterebbero una maggiore competitività nelle esportazioni extra UE.

Un tasso di cambio inferiore, se da un lato migliora la competitività sia dei paesi più deboli (Italia) che dei paesi più forti (Germania),da l'altro lato non consente di migliorare le divergenze strutturali all'interno della stessa area valutaria, e quindi di recuperare la competitività dei paesi mediterranei nei confronti dei Paesi core.

Contrariamente, un recupero della competitività dei paesi del sud rispetto a quelli del nord, si trasformerebbe in maggiori esportazioni verso quest'ultimi, che dovrebbero aumentare la domanda interna, contribuendo al riequilibrio delle bilancia commerciale interna all'eurozona. Circostanza preclusa con una politica monetaria comune.

Con ciò, non si vuole affermare che un'ulteriore allentamento monetario delle Bce non possa avere effetti positivi, soprattutto per arginare evidenti e pericolose spinte deflazionistiche.

Ma una politica monetaria comune in aree economiche strutturalmente differenti che tendono a divergere sempre più, può fare ben poco per riassorbire gli squilibri interni esistenti tra i vari paesi che compongono la moneta unica.

http://www.wallstreetitalia.com/article ... torno.aspx

ma siamo certi che la bce sia la banca europea????+ che altro potrebbe essere la Deutsche Bundesbank.....[;)]


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.. o la Bundeswehr ... O del Reichstag [^] [8D]


Ultima modifica di Ufologo 555 il 02/04/2014, 14:27, modificato 1 volta in totale.


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Ufologo 555 ha scritto:

.. o la Bundeswehr ... O del Reichstag [^] [8D]


.....................hai dimenticato la luftwaffe [:246]


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Tornare alla lira innescherà : La Tramutazione dell’acqua in sangue
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Euro, tutte le bugie e i miraggi sull’uscita dalla moneta unica
Le economie sviluppate non possono fondare il proprio benessere sulla svalutazione della moneta. Quindi tornare alla vecchia lira non farebbe ripartire le aziende in crisi. Anzi, l'uscita dall'euro avrebbe l'effetto di un'atomica sul sistema economico.
di Fabio Scacciavillani | 6 aprile 2014


http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04 ... ca/938118/



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Cita:
Werther ha scritto:


Euro, tutte le bugie e i miraggi sull’uscita dalla moneta unica
Le economie sviluppate non possono fondare il proprio benessere sulla svalutazione della moneta.... CUT

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04 ... ca/938118/


LOL!
Infatti le prime 3 economie del mondo (e la 4 la germania lo ha fatto entrando nell'euro quindi "solo" un 15 anni fa) hanno basato la propria politica economica per sopravvivere alla crisi di questi ultimi anni con l'iniezione di liquidità che ha comportato la svalutazione della moneta... certe affermazioni di alcune firme giornalistiche lasciano basiti, ci sono o ci fanno?


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Dalla Kyenge a Cofferati

Ecco i "volti nuovi" che il Pd manda a Bruxelles!



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Tra i tanti ripescati anche gli ex ministri Zanonato e De Castro

http://www.ilgiornale.it/

[:o)] [^]



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Esteri

Europa. L’unica “difesa comune” che Bruxelles può garantire è quella degli interessi tedeschi



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I paroloni sull’unione bancaria e l’eterna trattativa sull’”esercito europeo” sono gli ennesimi inganni di un’istituzione ormai totalmente asservita alla Germania e alle sue esigenze (vedi anche il quantitative easing)

Roma, Matteo Renzi riceve Barack Obama a Villa MadamaSe alla vigilia di una visita in Italia in tempi di crisi economica ad affermare che i paesi europei devono smettere di tagliare la spesa militare e contribuire maggiormente ai costi della difesa comune attraverso la Nato fosse stato G. W. Bush, nel nostro paese scuole e università sarebbero state occupate, manifestanti con le bandiere rosse e arcobaleno avrebbero solcato le vie di Roma che il presidente americano doveva attraversare e presidenti di Camera e Senato avrebbero rilasciato dichiarazioni solenni in difesa della sovranità del parlamento. Invece a dire a Bruxelles e poi a ripetere su suolo italiano che è necessario investire di più in armi e soldati è stato il presidente democratico, afro e liberal Barack Obama, e allora tutti sono rimasti tranquilli, a Roma e nel resto d’Europa. Il premier Renzi ha ribadito che in Italia le spese militari saranno ancora tagliate, ed è finito tutto lì.

Ma la rampogna del capo di Stato americano ha avuto il merito di evidenziare non una ma due ipocrisie. Oltre a quella relativa al classico “due pesi e due misure” del politicamente corretto che impone di moderare le critiche al primo presidente nero degli Stati Uniti per non essere tacciati di razzisti, c’è la solita commedia europea degli inganni, nella quale mai le parole corrispondono alla realtà e spesso significano il contrario o quasi di quello che vogliono dire. Vale per i temi della difesa come vale per l’unione bancaria, i due più recenti temi di dibattito continentale.

Da quindici anni a questa parte, cioè dal Consiglio europeo di Colonia del 1999, l’Unione Europea rompe le orecchie di grandi e piccini col “pilastro europeo della difesa”, la Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd), la Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc), l’Agenzia europea per la difesa (Aed: esiste un italiano su 10 mila che sappia chi la dirige?) e altro ancora. L’ultimo bilancio noto dell’Agenzia europea per la difesa risale al 2011 ed è stato pari a 30 milioni di euro. Questi sono stati spesi per il solo funzionamento dell’ente, provvisto di 116 unità di personale: mediamente fanno 258.620 euro per addetto all’anno. I singoli progetti sono finanziati a parte. I soldi arrivano dai Fondi strutturali europei, dal programma Horizon 2020 o da elargizioni di singoli stati interessati a singoli programmi.

Flag-raisingOgni anno l’Aed pubblica i dati del bilancio per la difesa dei 27 paesi che partecipano all’Agenzia (tutti quelli dell’Unione tranne la Danimarca). Lettura interessante. Nell’ultimo, pubblicato l’anno scorso, si legge: «La spesa totale per la difesa continua a diminuire. Nel 2012 la spesa totale per la difesa dei 26 paesi membri dell’Eda (la Croazia non era ancora conteggiata, ndr) ammontava a 189,6 miliardi di euro – una riduzione di 1,1 miliardi ovvero dello 0,6 per cento rispetto al 2011. Essa ha rappresentato circa l’1,50 per cento del loro Pil totale, il valore più basso dal 2006. In termini reali, la spesa totale per la difesa è in diminuzione dal 2006. Nel periodo fra il 2006 e il 2011 è diminuita di 21 miliardi ovvero del 10 per cento, e fra il 2011 e il 2012 si è ridotta ulteriormente del 3 per cento».

Se poi andiamo a vedere la spesa dei singoli paesi, vediamo che in alcuni è molto inferiore all’1,5 per cento del Pil: la Germania spende l’1,3 per cento, l’Italia l’1,2 e la Spagna lo 0,9. La Nato da parecchi anni chiede ai paesi membri di dedicare alla difesa come minimo il 2 per cento del Pil. Ma a parte gli Stati Uniti, che viaggiano attorno al 4,1 per cento, sopra quel minimo ci sono solo il Regno Unito (2,4) e… la Grecia (2,3). Sì, i greci che sono stati costretti a mangiare carrube dalla troika (Ue, Fmi e Bce) per avere in cambio una ciambella di salvataggio finanziario, spendono per le forze armate quasi il doppio della Germania: misteri dell’austerità economica.

Il rimprovero di Obama



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La Russia, invece, secondo dati calcolati dalla Banca mondiale, spenderebbe annualmente il 4,5 per cento del suo Pil nelle forze armate. Il maggiore impegno di bilancio in rapporto alle risorse disponibili, però, non spiega la situazione che si è recentemente creata sul fronte Ucraina-Crimea. Infatti la spesa militare totale dei paesi dell’Unione, inferiore percentualmente, è quantitativamente superiore di ben 10 volte a quella russa. Mettiamola così: nemmeno con un budget della difesa 10 volte superiore, nemmeno con una popolazione che è il triplo e un prodotto interno lordo complessivo che è 15 volte quello della Russia la Psdc dell’Unione riesce a fare paura a Mosca.

John KerryNaturalmente Bruxelles si è affidata fino ad oggi al ruolo svolto dagli Stati Uniti in seno alla Nato, dove ormai gli americani coprono il 72 per cento di spesa militare complessiva. L’ombrello della Nato sull’Europa è sempre stato un ombrello americano. Ma la cuccagna sta per finire: Obama rinfaccia agli europei di avere tagliato i budget della difesa proprio nel momento in cui sta per farlo lui: l’ultima proposta di bilancio della Casa Bianca prevede infatti di portare la spesa militare a stelle e strisce al 3,5 per cento del Pil l’anno prossimo, e poi diminuirla fino al 2,5 nel 2020.

L’altra grande ipocrisia made in Bruxelles venuta a galla nelle scorse settimane è quella relativa all’unione bancaria. Quasi due anni fa i leader dell’Unione Europea si erano impegnati a creare un’unione bancaria almeno per i paesi della zona dell’euro per evitare che le ricorrenti crisi bancarie si riverberassero sul debito sovrano: ogni volta che nell’eurozona ci sono stati fallimenti o quasi-fallimenti bancari – Irlanda, Spagna e Cipro – a finire sotto pressione è stato il debito nazionale e di riflesso la stabilità dell’euro. Da qui la necessità di creare un regolatore sovranazionale libero dai conflitti di interesse di quelli nazionali, di istituire un fondo sovranazionale per gli interventi di emergenza e di garantire collegialmente i depositi fino a un certo importo.

Naturalmente su quest’ultimo punto i tedeschi hanno detto subito “nein”: un’ovvia estensione dell’indisponibilità di Berlino a creare meccanismi comuni di garanzia dei debiti pubblici e così via. Poi nel tempo, fino al “compromesso” finale approvato il 20 marzo scorso (e che Mario Draghi ha inopinatamente definito «un progresso significativo verso un’unione bancaria migliore»), hanno svuotato di significato anche gli altri punti. Il controllore unico non controllerà tutte le banche europee, ma solo le 128 che rappresentano l’85 per cento di tutti gli asset del sistema bancario europeo. Questo significa che le famose banche regionali tedesche, cruciali negli scambi fra mondo politico e mondo della finanza che non sono una caratteristica solo italiana, non saranno oggetto della vigilanza europea.



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Berlino, Angela Merkel incontra Matteo RenziIn secondo luogo, il fondo di risoluzione unico che dovrebbe fungere da misura di sicurezza non risolverà proprio niente: avrà una portata di 55 milioni di euro, versati dalle banche stesse in varie tranche, e ci vorranno otto anni per costituirlo. Il salvataggio delle banche spagnole nel 2012 da solo è costato 40 milioni di euro, quello di Anglo Irish, la principale responsabile della crisi bancaria irlandese del 2010, quasi 30 milioni. E probabilmente questa banca, come le casse regionali responsabili del crac spagnolo, non sarebbero nemmeno rientrate fra quelle oggetto della supervisione europea. Il fondo di risoluzione non potrà prendere soldi a prestito dal Meccanismo europeo di stabilità – su questo la Germania è stata intransigente – che in teoria dispone di 700 milioni di euro. Questo significa semplicemente che gli stati, se vorranno salvare le loro banche strategiche, dovranno farlo con fondi pubblici loro, l’Europa non contribuirà. Nessun impegno collettivo.

Una realtà ormai conclamata
Ciliegina sulla torta, la Germania ha ottenuto che le regole che verranno definitivamente decise nei prossimi summit europei di questo mese di aprile entrino a far parte di un nuovo accordo intergovernativo anziché attraverso la normativa comunitaria già esistente, cioè le maggioranze qualificate previste dal Trattato di Lisbona. Detto in altri termini, la Germania ha portato a casa un diritto di veto su ogni futura riforma dei regolamenti bancari nell’Unione Europea.

Immaginiamo che da qui a cinque anni una maggioranza qualificata di paesi dell’Unione voglia modificare il diritto comunitario in materia di salvataggi e di garanzie ai depositanti: la Germania potrebbe minacciare di ritirarsi dall’accordo intergovernativo sull’unione bancaria (cioè di ritirare la partecipazione delle sue banche dal fondo di risoluzione) e quindi farla saltare senza violare alcuna norma del Trattato di Lisbona.



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Mario DraghiChe l’Unione Europea sia ormai diventata un’orchestra dove si suona solo gli spartiti che il direttore tedesco decide di dirigere, è ormai realtà conclamata. Ne è ulteriore conferma il dibattito sul ruolo della Bce dopo le elezioni europee di maggio e sul “quantitative easing”, cioè l’acquisto sistematico di debito pubblico da parte dell’istituto di Francoforte per contrastare la deflazione che si sta abbattendo sui paesi dell’eurozona. Dove il tasso medio di inflazione ormai sta allo 0,7 per cento, ben lontano dal 2 per cento tendenziale previsto dagli statuti della Bce. Improvvisamente il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e i principali istituti di studi finanziari tedeschi (l’autorevole Diw di Berlino, l’Istituto per la ricerca economica) hanno scoperto che far funzionare la Bce al modo della Federal Reserve americana sotto Ben Bernanke potrebbe non essere una cattiva idea.

Un’improvvisa conversione alla solidarietà europea e un’abiura delle politiche di austerità che hanno solo peggiorato la situazione nell’Europa meridionale? Mah. L’unica cosa certa è che la deflazione generalizzata nell’eurozona danneggerebbe l’export tedesco verso i paesi più in difficoltà, come Spagna e Italia. Un po’ di maledetta inflazione servirebbe a non veder svanire quote di mercato importanti nel momento in cui le economie di Russia e Cina rallentano e quindi mettono sotto pressione l’export tedesco.

Dunque non trattenete il fiato: il “quantitative easing” si farà, perché adesso coincide con l’interesse dei tedeschi.

http://www.tempi.it/europa-l-unica-dife ... 0Ju1KLBd2E



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Immagine Operatore Radar Difesa Aerea (1962 - 1996)
U.F.O. "Astronavi da altri Mondi?" - (Opinioni personali e avvenimenti accaduti nel passato): viewtopic.php?p=363955#p363955
Nient'altro che una CONSTATAZIONE di fatti e Cose che sembrano avvenire nei nostri cieli; IRRIPRODUCIBILI, per ora, dalla nostra attuale civiltà.
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MessaggioInviato: 07/04/2014, 20:15 
Ungheria al voto: Orban prende circa il 46%, i neonazisti di Jobbik al 20%

http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/E ... 8171.shtml


nonostante l'offensiva dell'europa orban rivence con ampio margine le elezioni magiare,un colpo x i fautori dell'euro,che hanno imbastito una campagna di destabilizzazione del paese,da considerare che con la cura orban l'ungheria e' gia uscita dalla crisi,e senza lo strangolamente che intendeva la grande finanza mondiale [;)]


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MessaggioInviato: 08/04/2014, 17:48 
Diversi indizi portano a pensare che si tratti solamente di un grande bluff.
Le 85 persone più ricche del pianeta possiedono la stessa ricchezza della metà della popolazione mondiale


NEW YORK (WSI) - Già dieci anni fa l'economia globale sembrava essere sulla via della guarigione quando il Fondo Monetario Internazionale si era riunito a Washington. A quel tempo Alan Greenspan aveva tagliato i tassi di interesse ufficiali negli Stati Uniti all'1%, dopo il crollo del boom delle dotcom, e la più grande economia del mondo aveva risposto al trattamento. Il Regno Unito poi era al suo 12° anno di crescita ininterrotta e le aziende occidentali inoltre si affollavano in Cina, ora che faceva parte dell'Organizzazione mondiale del commercio.

L'aspettativa era che i bei tempi sarebbero durati per sempre. Nessuno pensava che una crisi del genere e un fallimento totale del sistema fosse proprio dietro l' angolo.

Il Guardian fa notare come il mondo oggi, nel 2014, non sia dissimile da quello del 2004. La spinta fornita dal denaro a buon mercato ha ottenuto lo spostamento dell'economia globale. L'inflazione misurata dal costo dei beni e dei servizi è bassa, ma i prezzi degli asset stanno iniziando a mormorare.

Alcuni analisti ritengono che il periodo di bassa inflazione e continua espansione è tornato, dopo la pausa causata dal crash.

Le recessioni infatti tendono ad essere l'eccezione piuttosto che la norma e solitamente i Paesi alla fine ritornano ad un tasso tendenziale di crescita. Nel Regno Unito è al 2%; negli Stati Uniti è un po' più alto; nella zona euro un po' più basso. Questo potrebbe essere l'inizio di una lunga ripresa globale costruita sul cambiamento tecnologico e l'avvento del potere d'acquisto della classe media nelle economie in rapida crescita dei mercati emergenti.

Oppure si potrebbe trattare solamente di un pensiero di gruppo e quindi di niente di reale, anche perché vi sono, anche in questo caso, dei segnali a riguardo.

La prima caratteristica senza dubbio è la volontà del WEO (World Economic Outlook) di essere pubblicato il martedì. Dal picco nel 1970, il trogolo dei tassi di interesse è stato inferiore in ogni ciclo successivo e sono ora a malapena sopra lo zero. Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono stati solo in grado di tornare al loro tasso tendenziale di crescita attraverso periodi di politica monetaria più flessibile e più libera.

La seconda minaccia è un crollo del mercato obbligazionario, visto che le banche centrali di tutto il mondo cercano un ritorno della politica monetaria ad un ambiente più normale. Queste stanno adottando ora un approccio più prudente a questo processo, con la Federal Reserve che ha ridotto gradualmente la quantità di titoli acquistati.

La ragione per cui i mercati obbligazionari hanno bisogno di essere guardati è semplice. Con l'acquisto di un gran numero di titoli, le banche centrali hanno aumentato il loro prezzo. Il rendimento (tasso di interesse) su un prestito obbligazionario si muove inversamente al suo prezzo, così come i prezzi delle obbligazioni salgono se il rendimento scende. Quando arriva il momento di vendere le obbligazioni di nuovo al mercato, dovrebbe accadere l'opposto.

Infine vi è un altro problema da non sottovalutare e che il mondo ignora. In un'intervista la settimana scorsa, Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale, ha avvertito del rischio di conflitti per le risorse entro i prossimi cinque o dieci anni a meno che la comunità internazionale non faccia qualcosa riguardo il riscaldamento globale. Il catalogo degli eventi meteorologici estremi infatti, dalle inondazioni nel Regno Unito alla siccità in Australia, è in crescita.

In conclusione, il problema è sempre lo stesso: si tratta di compressioni salariali, alto tasso di disoccupazione, il debito, l'austerità e la povertà. Basti pensare che le 85 persone più ricche del pianeta possiedono la stessa ricchezza della metà della popolazione mondiale, ma sembrano ignari del rischio di un diffuso malcontento sociale.

http://www.wallstreetitalia.com/article ... sione.aspx


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MessaggioInviato: 10/04/2014, 17:10 
Delle “misure non convenzionali” che la Banca Centrale Europea sarebbe in procinto di mettere sul tavolo si inizia ora a parlare seriamente anche sui media di massa. Su questo giornale, e in pochissimi altri posti, se ne parla da oltre un anno. Non per mere capacità esoterico-anticipatorie, ma semplicemente per un uso della ragione scevro da altri condizionamenti legati alla propaganda di sistema cui si è abituati altrove.

Intanto registriamo che il pericolo deflazione non era solamente un maglio agitato dai “complottisti” della rete, ma una realtà già presente in Europa da mesi e mesi, malgrado il termine non sia mai stato pronunciato da Mario Draghi e dai suoi sgherri e sia stato ostentatamente proposto quello, meno allarmante, di crescita negativa oppure, ancora più soft, quello di “bassa crescita”. Fandonie: l’Europa è in deflazione molto più che quanto gli stessi indicatori e le previsioni lascino intendere. Tanto che, appunto, la BCE sta cercando di correre ai ripari con metodi non ortodossi, cioè diametralmente opposti a quelli del mantra del libero mercato. Come dire: il libero mercato si regola da sé, e se anche non ce la fa, non è che lo si metta in discussione, ma semplicemente ne si cambiano le regole alla bisogna.


In secondo luogo dobbiamo registrare l’ennesima dimostrazione eloquente del fatto che il valore di spread non c’entri nulla con i “fondamentali” economici dei vari Paesi, ma sia determinato e guidato da altre dinamiche, tutte interne e collegate a quelle della speculazione finanziaria: è bastato il solo accenno da parte di Draghi a queste misure “non convenzionali” per far scendere ulteriormente il nostro spread malgrado la situazione reale dell’Italia sia considerevolmente peggiore rispetto a quando il nostro scarto con i Bund tedeschi veleggiava attorno a quota 500. Allora il motivo risiedeva nella strategia di voler sostituire Berlusconi con uno qualunque degli uomini necessari a far digerire all’Italia tutto quanto è venuto dopo. Napolitano si prestò all’operazione e poi avemmo Monti, quindi Letta e adesso Renzi. Tutti nello stesso solco, tutti con il medesimo obiettivo, con una differenza enorme per quanto riguarda l’ultimo del terzetto: grazie alla deficienza (letteralmente, incapacità di capire la situazione) del popolo italiano, Renzi sarà l’uomo con tutte le carte in regola per far passare - tra un sorriso, una battuta, e una sciocchezza - ciò che l’austero Monti e il mellifluo Letta non sarebbero riusciti a fare.

Lo spread basso di questi giorni, la claque ricevuta durante il tour in Europa, le parole di Mario Draghi sono un balsamo per ciò che il Presidente del Consiglio si appresta a fare. Dopo le elezioni europee, cioè a risultato elettorale acquisito, naturalmente.

Lo schema, a livello interno, è semplicissimo: tanta carota (di plastica) sino alle elezioni di maggio, e poi la scure, inevitabile, quando gli italiani avranno già energie e attenzione bruciate dal caldo di luglio.

Tornando all’Europa, le parole di Draghi e le prossime misure che pare verranno messe in campo - e ovviamente ne potremo parlare con maggiore cognizione quando esse saranno rese note - denotano un quadro di riferimento molto chiaro: la situazione economica non cambia perché semplicemente, dati i presupposti e date le “cure” imposte dal 2009 in poi, “non può” cambiare. È, in modo elementare, impossibile che cambi. E dunque si devono prendere altre misure. Dove le parole “non convenzionali” devono essere lette con il termine “illusione”. Della serie: non si cresce perché non si può crescere, stanti così le cose, e dunque si passa alla chimica, al sintetico, al falso. Cioè creazione di moneta dal nulla e sua immissione nelle vene dove scorre un sangue anemico. Poi si vedrà.

C’è la questione Germania, da sempre contraria a un intervento della BCE per cercare di riequilibrare una situazione che pure i tedeschi hanno contribuito a creare e dalla quale hanno avuto solo da guadagnare, sino a ora. Il motivo è chiaro: ove intervenissero fattori esterni “non convenzionali” ad alterare l’ambiente di coltura delle fortune tedesche, la Germania vedrebbe arretrare la sua posizione dominante. E dunque vi si oppone.

È nostra impressione, però, che al momento, oltre alle dichiarazioni di facciata provenienti da Berlino, sulla falsariga di quelle che arrivano da anni per porre qualunque veto a operazioni di aiuto degli altri Paesi sui quali di fatto la Germania specula, al Bundestag si siano ormai convinti che a livello europeo la situazione è davvero insostenibile e senza via di uscita. Con in più il campanello d’allarme dei partiti e dei movimenti euroscettici che malgrado il fuoco incrociato di tutti i media di regime, in ogni Stato, si stanno facendo comunque strada, a forza di intercettare e dare voce al malcontento e alla disperazione dei popoli, con prospettive elettorali (quelle delle elezioni di maggio) che iniziano sul serio a essere rischiose. Per loro, naturalmente. A nostro avviso anche la Germania inizia a capire che delle operazioni di “alleggerimento”, da parte dell’Europa nei confronti soprattutto dei Paesi in forte crisi, siano ormai inevitabili. E siano anzi anche utili, per tenere in piedi delle economie che altrimenti non sarebbero comunque in grado di sostenere neanche le esportazioni tedesche.

In altre parole, la Germania deve piegarsi a soluzioni di questo tipo per i suoi stessi interessi, almeno per il momento. Ecco il motivo per il quale non si sta oggi opponendo alle parole di Draghi così duramente come fatto sino a qualche mese addietro.

In senso parziale ciò che ci aspetta è dunque una serie di norme in grado di alleggerire gli effetti negativi e perversi del crollo del sistema che stiamo vivendo. Né più né meno che come sta avvenendo per gli Stati Uniti, tecnicamente falliti da decenni, ma ancora in piedi grazie all’illusione finanziaria messa in campo dalla Federal Reserve. Dal punto di vista pratico, l’intervento di una sorta di Quantitative Easing alla europea servirà dunque a tamponare due fenomeni sopra ogni altro. Lo sprofondare della deflazione e l’aumento vertiginoso della disoccupazione. Non ci vorrà moltissimo per vedere un rallentamento di questi due effetti ormai in servizio permanente in Europa.

È una buona cosa? Parzialmente, sì. Dal punto di vista tecnico, fermare almeno un po’ l’incancrenirsi di deflazione e disoccupazione non può che rallentare la discesa nel baratro che stiamo vivendo, e ciò si ripercuoterà, ma solo in parte, anche nell’economia reale, cioè su tutti noi. Ma non è ovviamente il caso di tirare sospiri di sollievo o addirittura di festeggiare come invece si apprestano a fare in molti e hanno iniziato già a fare “i mercati” al solo annuncio di Draghi.

I motivi sono presto detti. Il primo è di carattere generale, il secondo è molto più tecnico.

Per quanto attiene al primo punto basti l’elementare considerazione in merito al perché la BCE sia in procinto di fare una operazione del genere: nessun meccanismo, tra quelli evidenziati dallo scoppio della crisi finanziaria, è stato corretto, variato, o cancellato. Tutto è rimasto come prima, la speculazione ha continuato ad andare avanti per la sua strada e soprattutto nessun elemento fallimentare di questa gestione dell’economia mondiale è stato messo in discussione. I punti cardine che più volte ci hanno fatto definire il nostro modello di sviluppo non sostenibile (né dal punto di vista economico né da quello climatico né da quello sociale) sono stati esaminati e giudicati per quello che sono: un processo e un metodo sbagliati che non possono che far avvitare la situazione su se stessa, peggiorandola. Tanto che oggi, appunto, si ricorre alla droga per tenere in vita un malato moribondo.

Per ciò che riguarda il secondo punto può bastare osservare gli effetti che un tale sistema ha portato dove è già stato applicato, in modo particolare negli Usa: la disoccupazione non ha continuato a salire, o è addirittura scesa, almeno secondo le statistiche, grazie al fatto che i cittadini hanno iniziato ad accettare impieghi che tutto sono fuorché “un posto di lavoro”, come i mini jobs, oppure incarichi a tempo parziale, sottopagati, e non in grado di far sostenere a chi li pratica una vita decorosa, tanto che questi pseudo-lavoratori (occupati a tutti gli effetti, per gli studi di statistica locali), pur “lavorando”, sono costretti a ricorrere a tante strutture di sussistenza. È il nuovo soggetto di lavoratore povero, non certo un bel risultato. Dal punto di vista della valuta, il Dollaro ha continuato a “reggere” sia per il sostegno avuto dall’intervento monstre della Fed sia per il contestuale attacco all’Europa che sino a ora, non operando allo stesso modo degli Usa, non ha potuto che soccombere a una economia che invece è stata del tutto supportata artificiosamente. Dal punto di vista più meramente finanziario e macro economico, infine, il Quantitative Easing della Fed, pompando denaro nel sistema, ha portato con sé una caratteristica fondamentale e un (primo, ma altri verranno) effetto collaterale. La caratteristica è quella di veder dirigere tale denaro non direttamente all’economia reale, ma sempre verso quei soggetti che tale denaro hanno usato e continuano a usare per operare sui mercati finanziari con i giochi di prestigio tipici della speculazione. L’effetto collaterale è stato quello di mettere in crisi tutte le altre economie deboli e debolissime che, legate a vario titolo al Dollaro, o comunque non del tutto indifferenti alla bizze di questa valuta impazzita, ne stanno pagando le conseguenze (ad esempio il caso Argentina).

Una rapida sintesi in merito alla efficacia delle operazioni di Quantitative Easing è dunque in quello che abbiamo appena detto: un sistema disperato, che non funziona come dovrebbe e che pone le basi per ulteriori e più grandi disequilibri macroeconomici e dunque che è in grado di far montare e innescare una ennesima nuova bolla.

Ecco, l’Europa ha “scelto” di affidarsi allo stesso protocollo. Dopo anni di ritardi, si attacca alla droga, che peraltro sappiamo già che non risolve il problema.

Valerio Lo Monaco

Fonte: http://www.ilribelle.com

Link: http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ri ... nulla.html

http://www.comedonchisciotte.org/site/m ... &sid=13205


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MessaggioInviato: 10/04/2014, 17:18 


L'europarlamentare del Socialist Party Irlandese Paul Murphy sfida il Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi sul tentativo della BCE di rendere le classi lavoratrici europee ostaggio dell'austerità.

Questo discorso risale al 2011: praticamente il periodo in cui i poteri forti europei - UE-Troika-BCE - hanno imposti i governi di Monti e Papademos a Italia e Grecia, dando inizio alla pesantissima austerity: è stato a dir poco profetico.

OVVIAMENTE FU CENSURATO DA TUTTE LE TV ED I GIORNALI ITALIANI...

http://www.nocensura.com/2014/04/paul-m ... aveva.html

...ma e' mai possibile che nessun mezzo informativo a quel tempo abbia ignorato cio',e' un ulteriore conferma di un ademocrazia sepolta in europa......[;)]


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