«3x8 Cambioturno», docufilm sull’Ilva e Taranto in onda mercoledì su Rai UnoAutore del lavoro è il tarantino Angelo Mellone, che si definisce «figlio e orfano dell’acciaio». Suo padre, infatti, era un dirigente Italsider morto di una malattia contratta sul lavoro
di Michele De Feudis

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La storia dell’acciaio a Taranto attraverso immagini, luci, fuoco, colori e storie. Le tute blu prendono forma e danno anima a 3x8 Cambioturno, documentario realizzato nel 2016 con testimonianze e video raccolti all’interno dell’Ilva, a trent’anni dall’ultimo ingresso delle telecamere nel siderurgico. L’opera, in onda mercoledì su Rai Uno (ore 23.25) è realizzata dal regista Gian Marco Mori, nasce da un’idea di Angelo Mellone e Pietro Raschillà. La vita cadenzata dai turni nell’acciaieria, infatti, consente di cogliere tutte le contraddizioni dell’insediamento industriale ionico: è insieme speranza di sviluppo, fonte di stabilità occupazionale, ventilatore e diffusore di veleni. Il tutto corroborato da un fatalismo meridionale che si incrocia con la profezia sulla tecnica dello scrittore tedesco Ernst Junger nell’Operaio: «Il nostro compito di giocatori non è quello di fare le puntate come avversari del tempo, bensì quello di puntare sul banco di cui il tempo è croupier». I dialoghi e i lampi di fuoco del procedimento di lavorazione si accompagnano a testimonianze di vita industriale. «Mio padre, pensionato Ilva, mi diceva: lì dentro c’è l’inferno. Ma la sicurezza dell’Ilva non la dà nessuno a Taranto»: l’opportunità di avere un posto fisso è più forte di ogni precauzione salutista.
La città dell’acciaio
La pellicola restituisce in pieno l’immensità delle dimensioni dello stabilimento, sintetizzati dai 15 milioni di metri quadri di estensione, da 200 km di rete ferroviaria interna, da 50 km di strade. «La missione di questo racconto? Una familiare, perché sono figlio e orfano dell’acciaio, e una storico-culturale. I miei genitori - spiega Angelo Mellone, dirigente Rai e autore del documentario - si sono conosciuti dentro quello stabilimento. Ho perso mio padre, dirigente Italsider, nel 1986 per una malattia non estranea a cause di lavoro. Sono rientrato nell’Ilva 30 anni dopo il funerale operaio che fu dedicato al mio genitore nel tubificio. Il punto di vista che emerge dal documentario è quello degli operai: è la voce di chi lavora, dall’interno, che descrive la fabbrica. Senza negare alcuna critica emersa anche dalle vicende recenti giudiziarie».
Le parole degli operai
Chi maneggia l’acciaio non minimizza i rischi, anche per la propria vita, ma anestetizza le paura con tornei di calcetto dedicati ai colleghi scomparsi e con la consapevolezza di produrre qualcosa di unico e indispensabile, «viti e tondini, sportelli e forchette». «Ha avvelenato parecchio, ma prima inquinava più di oggi»: l’operaio è sincero e constata che la bocca del drago, l’Afo1, è migliorata grazie all’ambientalizzazione. Ma questo non basta. La coscienza ecologista e l’attenzione per la salute, puntualizza Biagio De Marzo, si risvegliano «per un dossier inquinamento di Alessandro Marescotti». Prima nessuno conosceva la potenza del veleno-diossina e men che meno delle polveri di benzopirene. L’inchiesta giudiziaria «Ambiente svenduto» e i decreti Salva-Ilva sono fulmini che illuminano di speranza o paura il futuro di chi vive a pane e acciaio. Fabio, capo forno convertitore, rivela la magia che sedusse perfino Marinetti: «Sono lo chef dell’acciaio, realizzo quel che serve. Come un cuoco assaggio e rendo la minestra più buona». E così si può perdere un genitore per la mannaia del cancro, ma resta la consapevolezza di essere parte di una fabbrica di interesse strategico nazionale. Lo scrittore Cosimo Argentina: «La fabbrica scandiva le nostre giornate». La fabbrica mamma, a volte matrigna, si staglia in Cambioturno, tra le parole di Giovanni Paolo II nel 1989 in visita nell’Italsider e il sogno tramontato per Taranto di diventare capitale europea dell’acciaio. Che, ricordano le tute blu, porta potenza e rischio. Perché «non si lavora, l’acciaio, con uno spremiagrumi».
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