“Web tax”, Italia alla deriva
Lo sentite? Eppure sono un paio d’anni che questo ritornello risuona nelle orecchie degl’italiani: «Questa nuova misura fiscale metterà alle corde coloro ch’evadono il fisco». Ogni volta, la solita frase; ogni volta, la realtà presenta un risultato diverso da quello proposto. Viene colpita la maggioranza delle persone, i piccoli risparmiatori, le piccole imprese. Chi ha connessioni coll’
establishment, nessun problema. Perché? Perché la ricchezza d’un Paese risiede nella spina dorsale rappresentata dalle categorie sopraccitate — non nei «grandi patrimoni». I ricchi sono sempre in penuria di liquidità. Cosicché la retorica del cambiamento sociale funge da cavallo di Troia per meschine ruberie perpetrate in nome d’un fantomatico «bene superiore» ch’esiste solamente come valore di facciata per infilare le mani nel portafoglio altrui.
> La dittatura fiscaleEcco, quindi, che nascono obbrobri burocratici come la
Tobin tax. Ecco, quindi, che nascono obbrobri burocratici
come la «web tax».
Ci metteranno un po’, i media
mainstream. Prima introdurranno la nuova norma. Poi la idolatreranno. Poi si porranno domande. Poi, quando sarà diventata una consuetudine, e nessuno vi presterà piú attenzione, avanzeranno qualche critica. Nessuno l’ascolterà. Nel frattempo, la pianificazione centrale farà ciò per cui è nata: distruggere il tessuto sociale ed economico mediante la sua presunzione di conoscenza. Nella testa dei burocrati aleggia un senso di vittoria, quando viene approvata una nuova tassa.
> «Pagare tutti per pagare meno»: un’illusione
La pressione fiscale in Italia s’è attestata al 44% del PIL nel 2012, in crescita rispetto al 42,5% del 2011. La pressione fiscale sulle imprese,
secondo i dati della CGIA di Mestre, è la piú alta d’Europa, arrivando al 68,6%. Questi salassi sono serviti a ridurre il debito pubblico? No: esso è passato dai 1989,4 miliardi d’euro del 2012 ai 2073,1 di quest’anno (e, secondo la Commissione europea per gli affari economici e finanziari, salirà a 2134 miliardi nel 2014 e a 2176,1 nel 2015).
Questo scenario, se vi s’aggiunge la scarsa possibilità della popolazione autoctona di contribuire alle entrate fiscali, lascerà il governo italiano sempre piú dipendente dai prestiti esteri. Infatti,
secondo i dati della Banca d’Italia, quest’onere sta aumentando d’anno in anno. Sarebbe quindi logico, e saggio, facilitare l’attività economica sul suolo nazionale, cosí da attirare fondi esteri che permettano di ripagare i debiti e, soprattutto, creino posti di lavoro attraverso un sano lavoro imprenditoriale.
E che cosa fa il governo per migliorare questo dato? Elementare, Watson: impone una nuova tassa. Anziché semplificare l’enorme selva burocratica in cui le imprese si devono addentrare per (provare a) investire in Italia, si complicano ulteriormente le cose aumentando oneri erariali sulle spalle di chi ne sopporta già troppi e ha il coraggio di voler dare una possibilità all’economia italiana. Scoraggiare l’investimento estero non sarebbe una scelta saggia in questo contesto economico.
> Malati di patrimonialeInoltre, paradossalmente, se altri Paesi europei dovessero adottare l’idea italiana e introdurre la
web tax a loro volta, ogn’impresa nel ramo dovrebbe dotarsi d’una partita IVA per ogni Paese che abbia approvato tale legge. La cosa piú ridicola è che tale legge andrebbe
contro il diritto comunitario europeo. Ma a chi giova? Anzitutto, non alle casse statali, come
riferisce Carlo Di Foggia su
La Stampa:
Nei primi sei mesi del 2013, il fatturato della pubblicità
online s’è fermato a 260 milioni d’euro, in calo del 2% rispetto al primo semestre del 2012. Le stime per fine anno s’aggirano intorno ai 500 milioni. «Ipotizzando che i grandi gruppi stranieri intercettino circa il 60% del mercato nazionale — spiega Carnevale Maffè — possiamo pensare a un giro d’affari italiano nell’ordine dei 300–350 milioni.» Di questi, solo una parte può esser tassata, visto che la base imponibile è fatta dagli utili e non dal fatturato complessivo: «Una fiscalità su reddito presunto potrebbe essere nell’ordine del 5–7% del fatturato, quindi un gettito complessivo di massimo 15–20 milioni l’anno, nelle ipotesi piú ottimistiche». In pratica, si viaggia a cifre due ordini di grandezza minori rispetto a quelle uscite dal governo. Il discorso non cambia per l’
e-commerce. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, il giro d’affari in Italia vale 11,2 miliardi d’euro; tra questi sono compresi gli operatori italiani. Anche ipotizzando che l’intero settore sia in mano esclusivamente ai grandi
player stranieri, per tirare fuori un miliardo per l’Erario occorrerebbe un fatturato quattro volte piú grande.
In secondo luogo, e ancor piú paradossalmente, si creerebbe una situazione in cui un’azienda ch’esporta servizi dovrebbe pagare
due volte le tasse, volendo investire in Italia: una volta nel Paese dove risiede, e la seconda nel Paese in cui esporta i servizi. Non solo: qualora un’azienda italiana volesse pubblicizzarsi all’estero presso una ditta che non ha una partita IVA nel nostro Paese, non potrebbe farlo.
Anche se non proferito a parole chiare, ciò che i nostri burocrati stanno alimentando è puro e semplice
protezionismo. Ma, come sosteneva
von Mises in
Lo Stato onnipotente, «
Protezionismo e autarchia vogliono dire discriminazione nei confronti della manodopera e dei capitali esteri. Non solo abbassano la produttività dello sforzo umano e, di riflesso, lo standard di vita di tutte le nazioni, ma creano anche conflitti internazionali».
I burocrati nostrani stanno cercando di togliere le castagne finanziarie dal fuoco attraverso l’incanalamento di maggiori risorse verso lo Stato. Ormai sono cani idrofobi in cerca di qualcosa da azzannare, e pur di farlo ricorreranno alle strategie piú spiacevoli e assurde. Il conto per gli eccessi passati è salato, ma lo Stato italiano lo sta spostando sulla schiena dei contribuenti italiani.
Per salvaguardare l’esistenza d’un ente palesemente improduttivo, si sta uccidendo il resto dell’economia. Non importa a che prezzo. Perché? Perché i pianificatori centrali non sanno che cosa ciò significhi: essi credono nei
pasti gratis, credono nell’
indebitamento perpetuo. Ignorano le leggi dell’economia. Sarà per loro un errore fatale.
> I modelli economici non predicono il futuroCon le spalle al muro, essi cercano di restare a galla sfruttando il modo principale che lo Stato ha a disposizione per restare a galla: la tassazione. Le tasse scoraggiano la produzione d’un Paese: quando un brigante, o lo Stato stesso, toglie a colui che ha realizzato un lavoro il suo legittimo compenso, egli cercherà di diminuire la propria efficienza e di sopravvivere col minimo indispensabile. Di conseguenza, gl’imprenditori e gl’investitori prendono in considerazione, soppesando i rischi e la possibilità d’avviare una nuova attività, quali siano i vantaggi e gli svantaggi — e molto spesso, quando si tratta d’Italia,
desistono.
È davvero sciocco sostenere che, ciò che lo Stato prende, poi lo spende.
Anche il ladro spende il maltolto: dovremmo quindi elevare il furto a progresso sociale?
È la produzione, non la spesa, che genera altra produzione. Solo un sano aumento del bacino della ricchezza reale, attraverso un mercato non ostacolato e risparmi reali, può generare una ripresa sostenibile. Qualsiasi interferenza in questo processo di mercato crea un ambiente ostile all’impresa, e ogni tassa che rosicchia il risparmio reale è un chiodo in piú nella bara dell’accumulo di capitale.
Perché darsi pena, se non c’è niente da guadagnare?
> Sciopero fiscale, un’opzione possibile?[align=right]Source:
“Web tax”, Italia alla deriva | The Fielder [/align]


Io proporrei la
"Imbecil" Tax se il governo la approva non ci sarebbe da andare tanto lontano per riscuoterla.
![Felice [:)]](./images/smilies/UF/icon_smile.gif)
[BBvideo]http://www.youtube.com/watch?v=oODisCdWnf8[/BBvideo]