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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 17/11/2017, 12:30 
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 13/01/2018, 14:34 
Trattativa, la requisitoria dei pm: “Da Mancino omertà istituzionale. Dichiarazioni oscillanti su Borsellino”


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Continua nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo la requisitoria del processo sul patto segreto tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Il pm Nino Di Matteo ha passato in rassegna le accuse contro l'ex ministro della Dc, imputato di falsa testimonianza. Il pm Roberto Tartaglia ha delineato il profilo di un altro imputato: quello di Mario Mori
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Il colloquio con Claudio Martelli e quello con Paolo Borsellino. La successione di Vincenzo Scotti e le telefonate con Loris D’Ambrosio. Continua nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo la requisitoria del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Alla sbarra ci sono nove imputati (erano dieci prima della morte di Totò Riina): i boss Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, il pentito Giovanni Brusca, i carabineri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il testimone Massimo Ciancimino. E poi Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. Sono tutti accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. Tranne Mancino, che invece è accusato di falsa testimonianza.

Da Mancino “omertà istituzionale” – Ed è proprio la posizione dell’ex ministro della Democrazia cristiana quella analizzata nell’ultima udienza dalla pubblica accusa. Per il pubblico ministrero Antonino Di Matteo quella di Mancino è “omertà istituzionale“. Davanti ai giudici che celebravano il processo per favoreggiamento a Cosa nostra in cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa trattativa. Martelli, che dei rapporti tra i militari dell’Arma e Ciancimino aveva saputo dal suo direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, ha raccontato di aver parlato, già il 4 luglio del 1992, a Mancino della vicenda. Irritato e preoccupato per quanto saputo dalla Ferraro, avrebbe avvertito il collega, all’epoca titolare degli Interni. Conversazione che Mancino nega sia avvenuta, secondo l’accusa, per tutelare Mori e i suoi.

“Era ossessionato da Martelli” – Nella prospettazione della Procura l’ex ministro dell’Interno, scelto al posto del suo predecessore Enzo Scotti perché favorevole a una linea di dialogo con la mafia, avrebbe dunque negato il dialogo con Martelli proprio per “proteggere” il Ros che aveva avviato un contatto con Ciancimino. “Martelli non ha pregiudizi accusatori verso collega di governo, anzi pare preoccupato delle conseguenze delle sue dichiarazioni per Mancino. Martelli non nutriva sospetti su Mancino allora, né sull’esistenza di trattative in corso”, spiega Di Matteo “difendendo” la genuinità delle parole dell’ex numero due del Partito socialista italiano. “Mancino invece – ha continuato il magistrato – era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con Martelli e perciò esercitò un pressing costante e ostinato verso il Quirinale per sollecitare un intervento che gli consentisse di evitarlo. C’è il tentativo del privato cittadino Nicola Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria degli uffici del pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici, ebbene quel tentativo invece di essere doverosamente stoppato in partenza, venne assecondato e alimentato dal Quirinale e per quello che l’allora consigliere giuridico Loris d’Amborsio riferisce a Mancino, dallo stesso presidente Napolitano in persona”.

Il romanzo Quirinale – Il riferimento del magistrato è alle intercettazioni delle telefonate – lette in aula dal pm – tra Mancino e l’ex consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio dalle quali, secondo la procura, si evincerebbero i tentativi del politico di sollecitare un intervento del Colle per scongiurare il confronto con Martelli. “Temeva che da quel confronto – ha spiegato Di Matteo – si evidenziasse la sua reticenza e ha sfruttato il suo peso di uomo di potere per ostacolare le indagini. Il tentativo di scongiurare il confronto venne assecondato dal Quirinale e dall’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, almeno secondo quanto emerge dalle parole intercettate di D’Ambrosio”. In quelle telefonate con l’allora consigliere giuridico del Colle, l’ex presidente del Senato lamentava inoltre un contrasto tra l’azione delle tre procure (Firenze, Palermo e Caltanissetta) che si occupavano della trattativa Stato-mafia, evidenziando che Palermo seguiva una linea tutta sua. Al contrario degli altri due, infatti, l’ufficio inquirente del capoluogo aveva messo sotto processo i politici.

“Grasso si rifiutò di avocare” – “Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva D’Ambrosio nelle intercettazioni. Poi aggiungeva: ”Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. E ancora: “Posso parlare col presidente (Napolitano, ndr) che ha preso a cuore la questione. Ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo (ex procuratore capo di Palermo ndr). L’altro è Grasso. Ma il pm Nino Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata”. Il riferimento a Grasso era motivato dal fatto che in caso di contrasto tra le procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta, l’unico chiamato ad intervenire sarebbe stato l’allora capo della Dna. Il futuro presidente del Senato venne effettivamente investito della questione ma si rifiutò di avocare le indagini: sostenne invece che nessun contrasto c’era stato tra i magistrati e che non poteva prospettarsi alcuna “scippo” dell’inchiesta dei pm di Palermo.

L’incontro con Borsellino – Ma non solo. Perché Di Matteo ha ricordato in aula anche un altro passaggio della versione di Mancino: quello legato al primo luglio del 1992. Quando il giudice Paolo Borsellino andò a trovare l’allora neo ministro dell’Interno al Viminale. “Le affermazioni di Mancino sull’incontro con il giudice Borsellino al Viminale nel giorno dell’insediamento di Mancino da ministro dell’Interno sono state oscillanti e contraddittorie. Fino al 2010 Mancino non aveva nessun ricordo di quell’incontro”. Poi cosa succede? “Poi cambia versione anche su altri fronti dichiarando di essere stato costantemente aggiornato su tutte le vicende che, in modo mendaceo, in precedenza aveva detto di non ricordare. Il problema è che Mancino va a dire il falso davanti ai giudici, sapendo l’importanza e la rilevanza della dichiarazione di Claudio Martelli nei confronti di Mori e di altri protagonisti della trattativa”. Nel febbraio del 2017, infatti, Nicola Mancino aveva reso dichiarazioni spontanee in aula, al processo trattativa, in cui, parlando dell’incontro con Borsellino al Viminale disse: “Sull’incontro con il giudice Borsellino, che non conoscevo fisicamente, ma che in tante mie dichiarazioni non ho mai escluso di avergli potuto stringere la mano, come avevo fatto e stavo facendo nel pomeriggio del primo luglio 1992 con tante personalità convenute a Viminale per gli auguri di rito, si sono dette, diffuse e scritte maliziose e subdole insinuazioni”.

“Da Mario Mori omissioni e inerzie” – Alla fine dell’udienza, quindi, la parola è passata nuovamente al pm Roberto Tartaglia che ha riavvolto indietro il nastro della storia per delineare il profilo di un altro imputato: quello di Mario Mori. “Il generale Mario Mori, durante la sua attività ai Servizi segreti prima e al Ros dopo, ha agito con la doppia logica, da qui si capiscono le omissioni, le inerzie e tutte le cose che non quadrano”. Il rappresentante della pubblica accusa, ha descritto Mori come “un ufficiale che quando era ai servizi segreti ha fatto attività parallela” e ha “perseverato con il suo agire sciolto e libero da ogni regola. Lo ha fatto da subito, al Sid negli anni 70 e lo ha fatto anche a Mezzojuso e a Terme Vigliatore, con la doppia logica”. “Noi riteniamo che alla luce di tutto questo – ha concluso dunque Tartaglia – lo ha fatto perché questa è la struttura della sua modalità di azione”.
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 13/01/2018, 18:35 
Guarda su youtube.com



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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 14/01/2018, 10:14 
zakmck ha scritto:
Guarda su youtube.com



Il Generale in pensione dell'Arma dei Carabinieri, Nicolò Gebbia, parla della pervasività delle infiltrazioni massoniche, a tutti i livelli, e rivela che durante la guerra del Golfo la città di Nassiriya venne risparmiata grazie al fatto che Silvio Berlusconi e Bush jr. appartenevano alla stessa Ur Lodge.



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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 14/01/2018, 11:41 
"Stato-Mafia, ci hanno messo 20 anni .. ma alla fine .."

Bah; alla fine (come chi condannò Enzo Tortora o Bruno Contrada) è stato promosso ... [^]

Il magistrato che negli USA condannò Clinton e sbagliò, lo buttarono "fuori" a calcioni!
Quale magistrato, qui da noi, è mai stato cacciato omesso in galera per aver sbagliato?
Per non parlare dei miliardi spesi a vanvera sui processi farsa di Berlusconi!

Quindi, stendiamo un velo più che pietoso sulle sentenze ......................... [8)]



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U.F.O. "Astronavi da altri Mondi?" - (Opinioni personali e avvenimenti accaduti nel passato): viewtopic.php?p=363955#p363955
Nient'altro che una CONSTATAZIONE di fatti e Cose che sembrano avvenire nei nostri cieli; IRRIPRODUCIBILI, per ora, dalla nostra attuale civiltà.
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 26/01/2018, 06:00 
Trattativa, i pm: “Nel ’94 Cosa nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario”


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All'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria del processo sul patto segreto tra pezzi delle Istituzioni e boss mafiosi: la fine dell'escalation di terrore che ha sconvolto l'Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica. "Nel 1993 l'ex senatore è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio dei mafiosi, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l'attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando si è insediato il primo governo di centrodestra"
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Il rapporto tra Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi e Cosa nostra, definito dalla corte di cassazione come “paritario“. La nascita di Sicilia Libera e l’intenzione dei boss di entrare direttamente in politica. Il cambio di cavallo dei padrini che puntano tutto sulla neonata Forza Italia. E quindi il patto siglato dai boss alla fine del 1993 con l’ex senatore: le stragi si interrompono, tra Stato e mafia torna la pace. È un punto di svolta quello ripercorso nell’udienza numero 209 del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. All’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria: la fine dell’escalation di terrore che ha sconvolto l’Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica.

Un passaggio avvenuto per un motivo particolare. Quale? “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del consiglio”, ha detto il pm Francesco Del Bene, che rappresenta la pubblica accusa insieme a Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi. Per i pm Dell’Utri – imputato per minaccia a corpo politico dello Stato insieme agli altre sei persone (per Nicola Mancino l’accusa è di falsa testimonianza, per Massimo Ciancimino concorso esterno a Cosa nostra) “aveva un potere ricattatorio su Berlusconi per effetto dei rapporti pregressi“.

Gli anni ’70 e lo stalliere, i soldi della droga – Quali rapporti? Per delinearli i pm partono da lontano. E citano la sentenza definitiva che ha condannato Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno. “I giudici hanno scritto – ha detto Del Bene citando le motivazioni del verdetto – che fin dagli anni Settanta Marcello Dell’Utri intratteneva un rapporto paritario con esponenti di Cosa nostra”. Contatti che per i pm “sono proseguiti anche dopo la scomparsa dei boss Mimmo Teresi e Stefano Bontate, suoi iniziali interlocutori, uccisi dai corleonesi di Totò Riina”. Nella requisitoria ha dunque fatto la sua comparsa Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri come stalliere nella villa di Arcore nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, dicono i pm, che durante una delle udienze del processo hanno ascoltato anche la deposizione del pentito Gaetano Grado. “Negli anni Settanta – aveva detto il collaboratore di giustizia l’11 giugno del 2015 – portava fiumi di miliardi da Palermo a Milano. Erano soldi del traffico di droga di Cosa nostra che Mangano consegnava a Dell’Utri, poi Dell’Utri li consegnava a Berlusconi che li investiva nelle sue società, mi pare anche per Milano due. La mafia ha bisogno di investire. Siccome i soldi della droga erano talmente tanti che non si sapeva più quanti fossero, Mangano esportava fiumi di denaro su a Milano”.

L’intimidazione: gli attentati alla Standa- Il sostituto procuratore ha poi ricordato gli attentati alla Standa di Catania, che all’epoca era di proprietà di Silvio Berlusconi. Secondo l’accusa gli attentati intimidatori sarebbero cessati solo dopo un accordo tra Cosa nostra e Berlusconi, “attraverso l’intermediazione di Dell’Utri”. Già in una delle scorse udienze, il pm Roberto Tartaglia aveva spiegato. “I boss puntarono all’intimidazione, per poi raggiungere il patto”, disse il magistrato riferendosi proprio gli attentati alla Standa: “Il pentito Malvagna ci ha raccontato che scese un alto dirigente Fininvest per risolvere la questione”. Chi era quell’alto dirigente? “Era Dell’Utri”, ha detto un altro pentito, Maurizio Avola, riferendo di un incontro tra l’ex senatore e il capomafia Nitto Santapaola.

Il rapporto paritario e i Graviano- “La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”, ha continuato il magistrato che poi ha citato le dichiarazioni del pentito Tullio Cannella. “Gli agganci potenti con esponenti politici – aveva detto il collaboratore di giustizia – li avevano i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del mandamento di Brancaccio a Palermo. Erano loro che si occupavano di politica per risolvere e i problemi di Cosa nostra, come la legislazione sui collaboratori di giustizia”. Dichiarazioni che i pm collegano a quelle di Gaspare Spatuzza sulle confidenze ricevute nell’autunno del 1993 da Giuseppe Graviano: “C’è in piedi una situazione che, se andrà a buon fine, ci permetterà di avere tutti i benefici, anche per il carcere”. “Il collaboratore Cannella ha riferito anche che 15 giorni prima della scadenza per la presentazione delle liste elettorali per le politiche del 1994 – ha aggiuntoDel Bene – si rivolse a Leoluca Bagarella per avere la possibilità di inserire un candidato del suo movimento Sicilia Libera nel Polo delle Libertà. Bagarella gli disse che lo avrebbe messo in grado contattare un soggetto per l’inserimento di un candidato per il Pdl. La persona che avrebbe incontrato era Vittorio Mangano“.

Così la mafia votò Forza Italia – Sicilia Libera è il movimento creato su input dello stesso Bagarella, al vertice dei corleonesi nel 1993 dopo l’arresto del cognato Totò Riina. “Il movimento Sicilia Libera ha in sé tutti i protagonisti del reato di attentato a corpo politico dello Stato che contestiamo agli imputati di questo processo. Cosa nostra ha l’esigenza di interloquire direttamente con le istituzioni e Bagarella tenta di farlo con questo movimento politico nel cui statuto vengono inseriti i punti che tanto stanno a cuore alla mafia, tra cui la giustizia e provvedimenti sul mondo carcerario“. Poi, però, succede qualcosa. Succede che alla fine del 1993 lo stesso Bagarella “sa della discesa in campo di Silvio Berlusconi per le politiche del 1994 e decide dirottare il suo sostegno a Forza Italia, e di fatto decide di dare sostegno a Marcello Dell’Utri attraverso i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Così, lascia perdere il Sicilia Libera che aveva fondato e di fatto confluisce in Forza Italia”.

Quello che disse Cancemi – Per la verità, però, a parlare di Berlusconi e Dell’Utri come possibile soluzione ai problemi di Cosa nostra era stato lo stesso Riina già nel giugno del 1992, quando la nascita di Forza Italia era ancora alle primissime battute. A sostenerlo – lo ha ricordato nelle scorse udienze il pm Di Matteo – era stato il pentito Salvatore Cancemi. Nel corso della riunione del giugno ’92, “Riina si prese la responsabilità di eliminare Paolo Borsellino“. Nella stessa circostanza aggiunse che “andava coltivato il rapporto con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri“. “Non è un racconto del relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia”, aveva detto Di Matteo. Le dichiarazioni di Cancemi, secondo l’accusa, riscontrano quanto detto in carcere da Giuseppe Graviano. Intercettazioni che hanno fatto riaprire le indagini su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi e che sono state al centro di un acceso dibattito processuale tra accusa e difesa.

L’opinione di Riina – Anche Riina era stato intercettato in carcere dalla procura di Palermo. E quelle registrazioni sono state lette in aula dal pm Del Bene. “Berlusconi era una persona inaffidabile mentre Marcello dell’Utri era una persona seria che ha mantenuto la sua parola”, ha detto il magistrato riferendosi alle confidenze fatte dal copo dei capi al codetenuto Alberto Lo Russo. “Riina considerava Dell’Utri una persona seria, dalla sua parte, che ha mantenuto la parola data. Oppure Riina è ritenuto un boss solo per tenerlo al 41bis mentre poi, quando parla, viene considerato rincoglionito?”, ha aggiunto ancora il pm alla fine della settima udienza dedicata all’esposizione della requisitoria. La cui fine è prevista per domani quando i quattro magistrati esporranno davanti alla corte d’Assise le richieste di pena. Sarà anche l’ultima udienza per Di Matteo eDel Bene: promossi alla procura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 con le prime iscrizioni del registro degli indagati. Dieci anni dopo il processo sul patto segreto che avrebbe portato uomini delle istituzioni a sedere allo stesso tavolo della piovra è alle battute finali.
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 26/01/2018, 16:39 
Processo Trattativa, procura chiede 12 anni per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e 6 per Mancino


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Ottantotto anni di carcere in totale per gli uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni: quella tra Cosa nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura di Palermo. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento l'accusa ha dunque tirato le somme. Invocati 16 anni per il boss Bagarella, mentre c'è la prescrizione per Brusca. L'ultima udienza per i pm Del Bene e Di Matteo: "Ci hanno definiti eversivi e nessuno ci ha difesi"
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Ottantotto anni di carcere in totale per gli uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni: quella tra Cosa nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura di Palermo alla fine della requisitoria del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e la mafia. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento, a 1914 giorni dalla prima udienza preliminare e a dieci anni esatti dall’apertura dell’inchiesta, l’accusa ha dunque tirato le somme. I pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene hanno impiegato otto delle 210 udienze celebrate fino ad oggi per esporre la requisitoria. Un racconto lungo e complesso che comincia alla fine degli anni ’80, attraversa il biennio stragista che ha destabilizzato il Paese e riscrive nei fatti la storia della nascita della Seconda Repubblica.

Le richieste di pena – Alla corte d’Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto i pm hanno chiesto di condannare a 16 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo politico. Ed è sempre il padrino corleonese che a poi dirotta il sostegno di Cosa nostra sulla neonata Forza Italia. Non doversi procedere invece per intervenuta prescrizione per Giovanni Brusca, il collaboratore di giustizia che partecipò ai vari summit in cui si organizzò l’assalto di Cosa nostra alla Stato e che è stato condannato – tra le altre cose – per essere stato l’esecutore principale della strage di Capaci.

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Il prequel e i carabinieri – Antonino Cinà, medico fedelissimo di Riina, accusato di aver consegnato a Massimo Ciancimino il papello, cioè la lista con le richieste avanzate dalla mafia per far cessare le stragi. Ciancimino junior avrebbe consegnato quel foglio al padre, don Vito, l’uomo agganciato dai carabinieri nel giugno del 1992 – dopo l’omicidio di Giovanni Falcone – con l’obiettivo di avere un’interlocuzione con la Cupola e far cessare le stragi. Per questo motivo sono imputati per tre ex ufficiali dell’Arma: Antonio Subranni, ex capo del Ros, per il quale l’accusa ha chiesto 12 anni, il suo vice del tempo Mario Mori, su cui pende una richiesta di condanna pari a 15 anni, e l’ex colonnello, anche lui in servizio al Raggruppamento speciale, Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare a 10 anni. Per Cinà la richiesta è di 12 anni.

Il ruolo di Dell’Utri – La procura ha poi chiesto di considerare colpevole anche Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia che sconta una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: per lui sono stati chiesti altri 12 anni di carcere. Braccio destro di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, è Dell’Utri – secondo l’accusa – l’uomo che chiude il patto con i boss ottenendo sostengo per il suo neonato partito politico. “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del consiglio”, hanno sostenuto i magistrati alla fine della requisitoria. E ancora: “La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”. Sono tutti imputati di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Per la procura di Palermo “risulta provato che l’incontro tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi incontri – dice Del Bene in aula con i colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo – sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. In quel momento storico e politico è il linguaggio della violenza quello prediletto dai mafiosi che sulla cultura della violenza hanno costruito un sistema di potere, la loro carriera personale. È solo con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa nostra e, in particolare uomini sanguinari come Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, pensano di potere realizzare i loro obiettivi con l’uso della violenza. E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra“.

Mancino e il Romanzo Quirinale – Accusato di falsa testimonianza è, invece, Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno. Davanti ai giudici che celebravano il processo per favoreggiamento a Cosa nostra in cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa trattativa. Finito coinvolto nell’inchiesta Mancino diventa poi il protagonista del Romanzo Quirinale. Intercettando l’ex presidente del Senato i pm registrano anche Giorgio Napolitano: un evento che nel 2012 farà scontrare la procura di Palermo e il Quirinale, con il Colle che ottenne la distruzione di quelle telefonate. Per lui i pm hanno chiesto 6 anni di reclusione.

Gli altri imputati – Cinque anni di carcere è poi la richiesta pena avanzata per Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, accusato di calunnia e concorso esterno (prescritto) e, allo stesso tempo, teste del processo. Ciancimino, che dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per riciclaggio, è detenuto. Sono tutti stati rinviati a giudizio il 7 marzo del 2013. In origine, però, gli imputati erano 12. L’ex ministro Calogero Mannino, invece, scelse il rito abbreviato: processato separatamente è stato assolto in primo grado. L’appello a suo carico è ancora in corso. La posizione del boss Bernardo Provenzano venne presto stralciata in quanto il capomafia, poi deceduto, venne dichiarato non in grado di partecipare consapevolmente all’udienza. A novembre ecco venir meno anche Riina, personaggio chiave nella ricostruzione della Procura del dialogo che pezzi dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi.

La mancata cattura di Provenzano – Il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano “non poteva essere catturato perché l’eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte, sparigliato gli accordi e comportato per i Carabinieri del Ros la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall’autorità giudiziaria e dall’opinione pubblica” ha detto il pm Nino Di Matteo. Una vicenda per la quale il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti in via definitiva. “Questo era il motivo per il quale non poteva essere arrestato Bernardo Provenzano – dice ancora Di Matteo – il motivo per cui Mario Mori e Antonio Subranni, ai vertici del Ros, non potevano e non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano. Non perché potenzialmente corrotti, o intimiditi, o pregiudizialmente collusi con la mafia, ma perché preoccupati di rispettare il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetuazione della segretezza” .

Un’inchiesta lunga 10 anni – L’udienza di oggi, tra l’altro, è l’ultima alla quale hanno partecipato i pm Di Matteo e Del Bene: promossi alla procura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 era Di Matteo il pm che ordinò le prime iscrizioni del registro degli indagati. “Siamo arrivati al termine della requisitoria, la presenza mia e del collega Francesco Del Bene cessa con l’udienza di oggi. Personalmente è stato per me un impegno, tra le Procure di Caltanissetta e di Palermo durato 25 anni. Ho seguito questo processo fin dall’inizio, dalle indagini preliminari. Un processo che è destinato a portarsi dietro una scia infinita di veleni e di polemiche” ha detto Di Matteo concludendo la sua requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. I due magistrati non potranno nemmeno più seguire le udienze dedicate alla discussione della difesa. “Man mano che siamo andati avanti ho avuto contezza del costo che avrei pagato per questo processo – dice ancora – e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l’azione di noi pm è stata caratterizzata persino da finalità eversive, e nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difeso di fronte ad accuse cosi gravi, ma noi lo abbiamo messo in conto. Così avviene in questi casi, in cui l’accertamento giudiziario non si limita agli aspetti criminali ma si rivolge a profili più alti e causali più complesse”. “Siamo veramente onorati di avere avuto l’occasione di confrontarci con la serenità e l’autorevolezza della corte d’Assise – prosegue Di Matteo – abbiamo l’ulteriore certezza che ci fa vivere con coraggio che nessuno ci potrà togliere: quella di avere agito per cercare la verità”. Se questa verità costituisce o meno un reato, toccherà ai giudici deciderlo.
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Anche il prossimo Natale Dell’Utri lo passerà in gabbia.

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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 26/01/2018, 16:44 
(Mi sa tanto di ... Enzo Tortora; ma questa volta con cattiveria ...) [:291]

http://www.corriere.it/politica/16_dice ... resh_ce-cp



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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 26/01/2018, 16:53 
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Processo Trattativa, procura chiede 12 anni per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e 6 per Mancino


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Ottantotto anni di carcere in totale per gli uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni: quella tra Cosa nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura di Palermo. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento l'accusa ha dunque tirato le somme. Invocati 16 anni per il boss Bagarella, mentre c'è la prescrizione per Brusca. L'ultima udienza per i pm Del Bene e Di Matteo: "Ci hanno definiti eversivi e nessuno ci ha difesi"
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Ottantotto anni di carcere in totale per gli uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni: quella tra Cosa nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura di Palermo alla fine della requisitoria del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e la mafia. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento, a 1914 giorni dalla prima udienza preliminare e a dieci anni esatti dall’apertura dell’inchiesta, l’accusa ha dunque tirato le somme. I pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene hanno impiegato otto delle 210 udienze celebrate fino ad oggi per esporre la requisitoria. Un racconto lungo e complesso che comincia alla fine degli anni ’80, attraversa il biennio stragista che ha destabilizzato il Paese e riscrive nei fatti la storia della nascita della Seconda Repubblica.

Le richieste di pena – Alla corte d’Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto i pm hanno chiesto di condannare a 16 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo politico. Ed è sempre il padrino corleonese che a poi dirotta il sostegno di Cosa nostra sulla neonata Forza Italia. Non doversi procedere invece per intervenuta prescrizione per Giovanni Brusca, il collaboratore di giustizia che partecipò ai vari summit in cui si organizzò l’assalto di Cosa nostra alla Stato e che è stato condannato – tra le altre cose – per essere stato l’esecutore principale della strage di Capaci.

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Il prequel e i carabinieri – Antonino Cinà, medico fedelissimo di Riina, accusato di aver consegnato a Massimo Ciancimino il papello, cioè la lista con le richieste avanzate dalla mafia per far cessare le stragi. Ciancimino junior avrebbe consegnato quel foglio al padre, don Vito, l’uomo agganciato dai carabinieri nel giugno del 1992 – dopo l’omicidio di Giovanni Falcone – con l’obiettivo di avere un’interlocuzione con la Cupola e far cessare le stragi. Per questo motivo sono imputati per tre ex ufficiali dell’Arma: Antonio Subranni, ex capo del Ros, per il quale l’accusa ha chiesto 12 anni, il suo vice del tempo Mario Mori, su cui pende una richiesta di condanna pari a 15 anni, e l’ex colonnello, anche lui in servizio al Raggruppamento speciale, Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare a 10 anni. Per Cinà la richiesta è di 12 anni.

Il ruolo di Dell’Utri – La procura ha poi chiesto di considerare colpevole anche Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia che sconta una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: per lui sono stati chiesti altri 12 anni di carcere. Braccio destro di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, è Dell’Utri – secondo l’accusa – l’uomo che chiude il patto con i boss ottenendo sostengo per il suo neonato partito politico. “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del consiglio”, hanno sostenuto i magistrati alla fine della requisitoria. E ancora: “La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”. Sono tutti imputati di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Per la procura di Palermo “risulta provato che l’incontro tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi incontri – dice Del Bene in aula con i colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo – sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. In quel momento storico e politico è il linguaggio della violenza quello prediletto dai mafiosi che sulla cultura della violenza hanno costruito un sistema di potere, la loro carriera personale. È solo con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa nostra e, in particolare uomini sanguinari come Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, pensano di potere realizzare i loro obiettivi con l’uso della violenza. E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra“.

Mancino e il Romanzo Quirinale – Accusato di falsa testimonianza è, invece, Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno. Davanti ai giudici che celebravano il processo per favoreggiamento a Cosa nostra in cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa trattativa. Finito coinvolto nell’inchiesta Mancino diventa poi il protagonista del Romanzo Quirinale. Intercettando l’ex presidente del Senato i pm registrano anche Giorgio Napolitano: un evento che nel 2012 farà scontrare la procura di Palermo e il Quirinale, con il Colle che ottenne la distruzione di quelle telefonate. Per lui i pm hanno chiesto 6 anni di reclusione.

Gli altri imputati – Cinque anni di carcere è poi la richiesta pena avanzata per Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, accusato di calunnia e concorso esterno (prescritto) e, allo stesso tempo, teste del processo. Ciancimino, che dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per riciclaggio, è detenuto. Sono tutti stati rinviati a giudizio il 7 marzo del 2013. In origine, però, gli imputati erano 12. L’ex ministro Calogero Mannino, invece, scelse il rito abbreviato: processato separatamente è stato assolto in primo grado. L’appello a suo carico è ancora in corso. La posizione del boss Bernardo Provenzano venne presto stralciata in quanto il capomafia, poi deceduto, venne dichiarato non in grado di partecipare consapevolmente all’udienza. A novembre ecco venir meno anche Riina, personaggio chiave nella ricostruzione della Procura del dialogo che pezzi dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi.

La mancata cattura di Provenzano – Il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano “non poteva essere catturato perché l’eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte, sparigliato gli accordi e comportato per i Carabinieri del Ros la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall’autorità giudiziaria e dall’opinione pubblica” ha detto il pm Nino Di Matteo. Una vicenda per la quale il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti in via definitiva. “Questo era il motivo per il quale non poteva essere arrestato Bernardo Provenzano – dice ancora Di Matteo – il motivo per cui Mario Mori e Antonio Subranni, ai vertici del Ros, non potevano e non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano. Non perché potenzialmente corrotti, o intimiditi, o pregiudizialmente collusi con la mafia, ma perché preoccupati di rispettare il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetuazione della segretezza” .

Un’inchiesta lunga 10 anni – L’udienza di oggi, tra l’altro, è l’ultima alla quale hanno partecipato i pm Di Matteo e Del Bene: promossi alla procura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 era Di Matteo il pm che ordinò le prime iscrizioni del registro degli indagati. “Siamo arrivati al termine della requisitoria, la presenza mia e del collega Francesco Del Bene cessa con l’udienza di oggi. Personalmente è stato per me un impegno, tra le Procure di Caltanissetta e di Palermo durato 25 anni. Ho seguito questo processo fin dall’inizio, dalle indagini preliminari. Un processo che è destinato a portarsi dietro una scia infinita di veleni e di polemiche” ha detto Di Matteo concludendo la sua requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. I due magistrati non potranno nemmeno più seguire le udienze dedicate alla discussione della difesa. “Man mano che siamo andati avanti ho avuto contezza del costo che avrei pagato per questo processo – dice ancora – e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l’azione di noi pm è stata caratterizzata persino da finalità eversive, e nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difeso di fronte ad accuse cosi gravi, ma noi lo abbiamo messo in conto. Così avviene in questi casi, in cui l’accertamento giudiziario non si limita agli aspetti criminali ma si rivolge a profili più alti e causali più complesse”. “Siamo veramente onorati di avere avuto l’occasione di confrontarci con la serenità e l’autorevolezza della corte d’Assise – prosegue Di Matteo – abbiamo l’ulteriore certezza che ci fa vivere con coraggio che nessuno ci potrà togliere: quella di avere agito per cercare la verità”. Se questa verità costituisce o meno un reato, toccherà ai giudici deciderlo.
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 26/01/2018, 17:09 
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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 28/01/2018, 20:47 
Ufologo 555 ha scritto:
(Guardando il tuo "avatar", o meglio, la tua effige, devi odiare il mondo ...) [:291]





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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 29/01/2018, 13:38 
Ecco, appunto! [:D]



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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 21/04/2018, 02:18 
Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri condannati a 12 anni. 8 anni a Giuseppe De Donno


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Ai vertici del Ros inflitta la stessa pena del fondatore di Forza Italia. Otto anni per De Donno. Assolto Mancino. Condanna a 8 anni anche per Massimo Ciancimino, 28 anni per il boss Leoluca Bagarella. Prescritto Brusca
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Mazzata per Dell’Utri e allo psiconano niente.
Già........ se l'è filata. Più veloce di Road-Runner. Immagine

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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 22/04/2018, 03:35 
Trattativa, le reazioni – M5s: “Pietra tombale su Berlusconi”. Lui: “Assurdo accostare il mio nome”. FI: “Quereliamo”


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I 5 stelle contro l'ex Cavaliere. Di Battista su Facebook: "Ora il Caimano sarà ancora più nervoso. Sistema di potere gli frana sotto i piedi". Il leader attacca: "Si tratta di una sentenza del tutto sconnessa dalla realtà". Il presidente emerito Napolitano sull'assoluzione di Mancino: "Finalmente restituita dignità"
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Cita:
...dall’altra Forza Italia annuncia querela per il pm Nino Di Matteo.



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Invece di vergognarsi FI annuncia querela. Immagine



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 Oggetto del messaggio: Re: Stato-Mafia, ci hanno messo 20anni..ma alla fine..
MessaggioInviato: 22/04/2018, 13:27 
Beh se vanno avanti con la querela è ottimo, perchè un ulteriore processo confermerà questa sentenza e poi se lo devono solo prendere in quel posto.



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