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MessaggioInviato: 16/04/2014, 00:15 
Per il momento la butto lì, ricopiando il pensiero che MaxpoweR ha voluto condividere con me in pvt e che per il quale ringrazio.

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... A prescindere dal merito prettamente giuridico della faccenda mi sono soffermato a pensare cosa questo OPPT combatte.

Fondamentalmente ho capito che siamo UNA MERCE per il nostro sistema (il nostro nome è assimilata ad una società e noi ne siamo SOLO gli amministratori perchè veniamo CEDUTI alla nascita ad un ente superiore, lo stato, che è una società privata); questo mi ha portato a collegarmi al discorso sulla nostra specie e sulle nostre origini.

Se veniamo trattati come un "prodotto" è perchè fondamentalmente LO SIAMO, siamo stati "creati" per estrarre oro al principio. Ed è così che tali "creatori" ci considerano anche stando al sistema giuridico che regola la nostra vita.

La cosa bella è che perfino dal punto di vista legale la conclusione è sempre la stessa pur essendo i 2 temi assolutamente on connessi...

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E' solo un accenno, ma personalmente mi sembra una ottima osservazione in perfetto stile Progetto Atlanticus!

[:I]



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MessaggioInviato: 31/05/2014, 14:55 
Chieti, genitori evitano alla bimba il debito pubblico che ciascuno di noi ha dalla nascita

Il primo caso in Abruzzo, la scelta di una coppia dopo una complessa procedura:
«Nostra figlia è indipendente dall’Italia»




di Katia Giammaria

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CHIETI. Non hanno voluto cedere la loro piccola allo Stato italiano come ogni genitore fa quando iscrive il proprio figlio appena nato all’anagrafe del Comune di nascita. È accaduto a Ortona, una giovane coppia, Davide impiantista e Ilenia casalinga, si è affidata all’assistenza legale di Sos utenti, l’associazione con sede nella città di San Tommaso, che combatte con successo i casi di usura bancaria. Ed è proprio il presidente onorario del sodalizio Gennaro Baccile e la moglie che hanno fatto da testimoni a questa singolare procedura, la seconda in Italia – il primo caso si è verificato nel Comune di Milano – che ieri mattina ha bloccato per un paio d’ore l’ufficio municipale ortonese.

LA POLEMICA Il web: "È una bufala". Baccile: "Vi sbagliate"
L'ANAGRAFE "Richiesta farneticante, gli atti in procura"

La piccola da ieri è sovrana, appartiene a sé stessa e deve sottostare alle leggi del diritto internazionale e non a quello dello Stato italiano. Per essere chiari, non è che sia esente dal rispetto delle regole civili e penali cui ogni uomo è tenuto, anche se vivesse in Inghilterra o in India, ma non a quelle dello Stato fiscale, che all’atto di nascita già ti carica di un debito quello pubblico. «Esisti per questo ti tasso». Ecco la piccola ortonese ha rotto uno schema: non sarà compresa in quelle statistiche che ti trasforma in un debitore ancora prima della nascita. Cosa succede quando i genitori iscrivono all’anagrafe il proprio figlio? L’atto viene stilato con il nome e cognome del nato in lettere maiuscole. «Con questo documento», spiega Baccile, «si permette la completa cessione del bimbo alla Corporation Italia, una società privata a sua volta associata alla Sec (Securities and Exchange commission, l’ente statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori ndr), contestualmente si emette un bond, una obbligazione e sulla testa del neonato, solo perché esiste, su di lui grava già il debito pubblico.

Ecco questo David e Ilenia Seccia non lo hanno permesso, non hanno permesso che la loro bambina, potesse perdere la sua indentità umana per diventare una finzione giuridica». Naturalmente la volontà dei genitori ha creato qualche problema ai dipendenti dell’anagrafe ortonese, forse all’oscuro di questo singolare vincolo cui ogni italiano all’atto di iscrizione all’anagrafe resta imbrigliato. Questo è il secondo caso in Italia, il primo è avvenuto a Milano. Ma ad Ortona è successo qualcosa di più. Infatti mentre a Milano, l’ufficiale dell’anagrafe ha preso atto della volontà dei genitori con un verbale, e segnalato il fatto alla procura della repubblica, quello di Ortona, anche guidato dai legali di Sos utenti, ha iscritto la bambina in un altro foglio, con diverso numero di protocollo, il numero 1 di un registro che probabilmente avrà altri adepti. In quel documento è scritto il nome della piccola «della dinastia Seccia». «Tutto rigorosamente con maiuscole e minuscole a loro posto», aggiunge Baccile, «e non come un McDonald’s, o una qualsiasi società quotata in borsa». La storia è molto singolare e sembra che questa situazione giuridico-fiscale esista dalla crisi del 1929. «Quando», osserva Baccile, «per salvare gli Stati alleati dal disastro economico, i banchieri si accollarono il debito ma ipotecando le ricchezze dei cittadini degli Stati delle corporate. Per il quale ogni cittadino, ancora prima di nascere, ha un debito». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

17 maggio 2014

Source: Chieti, genitori evitano alla ... nascita - Cronaca - Il Centro



Ecco alcuni video sul tema:
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Ultima modifica di Wolframio il 31/05/2014, 15:11, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 31/05/2014, 15:12 
Vedrete che i "Lupi "faranno una legge ad hoc per evitare questo. [}:)]


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MessaggioInviato: 31/05/2014, 15:59 
Cita:
bleffort ha scritto:

Vedrete che i "Lupi "faranno una legge ad hoc per evitare questo. [}:)]


Non serve fare una legge, lo stato ha dalla sua parte la forza per tenerti schiavo, anche se ti ritieni sovrano.
La sovranità idividuale alla fine è solo una illusione.
Nessuno ti puo obbligare a firmare un documento, oppure firmarne uno in caratteri maiuscoli come è la prassi per l'iscrizione nell'anagrafe.
Ma alla fine per qualsiasi rifiuto di sottostare alla legge di uno stato perchè ci si ritiene sovrani, interviene la forza.
Voler affermare ed rivendicare la propria sovranità individuale, secondo me è come darsi martellate sulle palle perchè nessuno me lo può impedire, ma alla fine faccio del male solo a me stesso. (questo in sintesi è quello che mi sembra di aver capito [:)])



Qui sotto Paolo Franceschetti esprime il suo punto di vista:

sabato 19 gennaio 2013

Il diritto di sovranità individuale, Santos Bonacci, la bufala del diritto e della dichiarazione di sovranità.

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Paolo Franceschetti

1. Premessa. 2. In cosa consiste il diritto di sovranità individuale. 3. La differenza tra sistemi di civil law e di common law. 4. Il concetto di diritto e norma di legge. Il diritto come imposizione di forza. 5. Il concetto di diritto. Il diritto come sistema di regole per l’annientamento dell’individuo. 6. Il diritto di sovranità nella nostra legislazione. 7. Conclusioni.

1. Premessa.

Da qualche tempo non passa giorno che qualcuno non mi domandi via mail o per telefono, o su facebook, o alle conferenze, qualcosa sul diritto di sovranità individuale, diffuso sul web da un personaggio che si chiama Santos Bonacci, e successivamente ripreso da altri siti, tra cui “Tempo di cambiare” di Italo Cillo.

Scrivo quindi questo articolo, per dare una risposta cumulativa a tutti anticipando le conclusioni: questa questione vale per il diritto anglosassone (forse, e non ne ho la certezza). Ma certamente non vale per il nostro diritto e per i sistemi di civil law in generale. Vediamo nel dettaglio perché.

2. In cosa consiste il diritto di sovranità individuale.

Partiamo dal concetto di sovranità individuale.

Secondo Santos Bonacci e diverse persone che sono andate dietro a questa bufala, il cittadino italiano potrebbe rivendicare il proprio diritto di sovranità individuale rispetto allo Stato, dichiararsi quindi uomo libero, non soggetto al diritto dello Stato.

Secondo questa teoria, per fare questo basterebbe indirizzare una raccomandata al Prefetto e al Ministero dell’Interno, scritta con inchiostro rosso (sic!), firmata con impronta digitale (sic!) e con tre testimoni.

Sempre secondo i sostenitori di questa tesi, il diritto di rivendicare la propria sovranità nasce da un’attenta analisi delle leggi esistenti; analizzando tali leggi infatti si capisce che l’Italia è una società privata, registrata come corporazione dal 1933. Il nostro Ministero delle Finanze invierebbe a questo registro, che sarebbe di proprietà del Vaticano (sic!), un report periodico.

Il sistema in cui viviamo sarebbe basato sul silenzio-assenso; se non rispondi all’avvertimento che ti viene dato è come se accettassi l’imposizione che lo Stato ti fa.

Le norme traggono valore dal principio di non essere state mai contestate. Sono riconosciute valide perché nessuno le ha mai contestate.

Quindi se io contesto la validità delle norme statali, queste non sono valide.

A riprova di ciò, le persone portano dei video in cui un cittadino americano ha messo in difficoltà un giudice dichiarando di non riconoscere la sovranità dello Stato.

Cosa sia questo registro delle corporazioni non l’ho mai capito, perché le persone a cui mi sono rivolto mi hanno solo dato una serie di link incomprensibili, ma non un solo riferimento normativo.

Le mie conoscenze giuridiche mi permettono però di pronunciarmi sulla questione della contestazione delle leggi e sul principio del silenzio-assenso.

3. La differenza tra sistemi di civili law e di common law.


Intanto una prima cosa da dire è che tra i sistemi di common law, come quelli cui si riferisce Santos Bonacci, e i nostri corre una certa differenza.

I sistemi di civil law hanno una rigida scala gerarchica di leggi che hanno valore differente; prima di tutto vengono le leggi dell’UE, poi quelle costituzionali, poi le leggi ordinarie, ecc. In linea di massima non sono valide le leggi precedenti alla Costituzione, salvo eccezioni e salvo che non siano state confermate esplicitamente. Le leggi, poi, da noi disciplinano esplicitamente quasi tutto quello che il cittadino può fare o non fare.

In teoria (in teoria, la pratica è un po’ differente) i giudici applicano solo la legge.

I sistemi di common law invece sono basati su un serie di leggi che regolano i principi base, mentre poi l’applicazione della legge è lasciata al giudice.

Il giudice cioè crea la legge.

Quindi ammesso e non concesso che nei sistemi anglosassoni i principi giuridici fatti propri da questa teoria siano validi, essi non lo sono altrettanto per il nostro ordinamento.

Se in America o in Inghilterra una sentenza emanata da un giudice che dichiarasse valida la sovranità individuale sarebbe – in teoria – una vera e propria regola giuridica, da noi la stessa cosa sarebbe impossibile perché il giudice dovrebbe indicare esattamente quale norma ha applicato (quindi, in sostanza, o si trova una norma giuridica che affermi valido il diritto di sovranità oppure non è possibile fare un’affermazione del genere); e anche se poi un giudice dichiarasse valida la sovranità individuale, non è detto che ciò venga poi fatto da altri giudici.

4. Il concetto di diritto e di norma di legge. Il diritto come imposizione di forza.

Occorre a questo punto spiegare cosa è la legge, come nasce, e in cosa consiste.

La legge è, né più né meno, un atto di forza imposta dai vincitori a un popolo sottomesso.

In Italia la nostra Costituzione risale al 1947, e fu creata ad hoc dopo la fine della seconda guerra mondiale dai nostri politici, sotto il controllo degli USA che ne hanno gestito la formazione dopo l’occupazione.

Prima di allora le leggi erano state imposte da Mussolini agli italiani; il fascismo era una dittatura e quindi le leggi non erano certo scelte dal cittadino a proprio favore, ma erano imposte di forza dallo Stato anche a chi non voleva piegarsi ad esse.

Del resto Mussolini aveva semplicemente operato sul sistema preesistente: la Costituzione Albertina del 1848, dal 1861 fu imposta a forza ai territori strappati allo Stato Pontificio e ai Borbone, contro la volontà di costoro, e contro addirittura la volontà degli abitanti del meridione, la maggior parte dei quali contrari all’Unità d’Italia.

D’altronde in precedenza in quei territori c’erano stati, oltre alla Chiesa cattolica, i Romani, e prima dei Romani gli Etruschi. E ciascuno aveva sempre strappato all’altro il proprio territorio imponendo le proprie leggi con la forza.

Gli USA, per volgere lo sguardo oltreoceano, sono nati perché gli europei hanno colonizzato quei territori, occupando con la forza i territori abitati dai nativi americani: Apache, Seminole, Nez Piercé, Sioux, ecc., vivevano a milioni in quei territori, da millenni. Ma un bel giorno siamo arrivati noi europei, li abbiamo cacciati ed abbiamo imposto le nostre democratiche leggi. In alcuni casi tali leggi sono state imposte a popolazioni, come i Nez Piercé, che non conoscevano proprio il concetto di “conflitto” e “guerra” e che hanno accettato supinamente la cosa senza azzardare nessuna reazione.

Poi gli USA ogni tanto decidono di andare altrove (ad esempio nelle isole Hawaii) e, sterminando chi vi si oppone, decidono che quello è uno stato americano.

Poi decidono di esportare la democrazia in Iraq, vanno in Iraq, fanno milioni di morti, e instaurano un governo democratico (la stessa cosa che hanno fatto in Italia nel ’47, più o meno).

Il diritto è quindi un’imposizione, un atto di forza. E chi si ribella alle regole viene messo in galera, distrutto economicamente, e piegato con tutti i mezzi.

Sei contrario alle trasfusioni perché sei Testimone di Geova? Lo Stato te lo impone.

Ritieni che la Chiesa cattolica sia un’istituzione che ha infangato e lordato il nome di Cristo, appropriandosi illecitamente del suo messaggio e trasformandolo in un messaggio di violenza e sopraffazione? Non importa, devi tollerare il crocifisso e l’ora di religione.

Sei favorevole all’eutanasia? Pazienza. E’ proibita.

Ritieni Equitalia un abuso? Non importa, ti pignorano lo stesso la casa.

Ritieni assurdo che chi è condannato a otto anni per associazione mafiosa possa sedere in parlamento? Non importa. La legge lo permette e tu ti becchi un parlamentare condannato per mafia che decide per te cosa è giusto e cosa non lo è.
Vorresti avere due mogli (se uomo) o due mariti (se donna)? E’ vietato. Nella legislazione matrimoniale, poi, il massimo del ridicolo lo raggiungono alcune leggi americane (ad esempio in Texas) in cui sono proibiti i rapporti sessuali diversi dal normale coito vaginale.

Il concetto di diritto credo che però meglio di ogni altro sia esemplificato da un’intervista ad un parlamentare, poco tempo fa, al quale un giornalista chiese “scusi, ma se siamo in tempo di crisi, come mai l’anno scorso i partiti hanno preso per rimborsi elettorali una somma 14 volte superiore all’anno precedente?” e il parlamentare (ricordiamolo, il parlamentare è quello che le leggi le fa e le vota) risponde senza avvedersi della contraddizione: “Ah non dipende da me, io ho solo rispettato la legge”.

E così via.

Ora, essendo il diritto un atto di forza imposto dall’alto anche contro la volontà della maggioranza dei cittadini, è logico che non ha alcun valore rivendicare il proprio diritto di sovranità.

A maggior ragione, poi, se si parte dal presupposto che il diritto è un arbitrio, un abuso del più forte su chi non ha i mezzi per ribellarsi, è inutile e anche contraddittorio rivolgersi per la tutela dei propri diritti agli organi di quello Stato che io non riconosco.

Equivale a rivolgersi a Totò Riina per cercare di fargli capire che è ingiusto che lui squagli la gente nell’acido, e per tentare di fargli capire che non può ammazzare la mia famiglia sol perché non gli pago il pizzo.

Le norme cioè sono valide perché lo Stato le fa rispettare con la forza. Non sono valide, invece, come la teoria di Bonacci vorrebbe, perché nessuno le contesta. Sono valide perché se non le rispetti lo Stato le fa rispettare coattivamente con la forza pubblica.

Quindi mandare una dichiarazione – come vorrebbero i sostenitori della teoria della sovranità – agli organi dello Stato con cui si dichiara di non riconoscere la sovranità statale, non serve a nulla. Mandarla poi seguendo i consigli che vengono dati da chi si occupa di questa teoria, cioè firmandole con l’impronta digitale e scrivendo con inchiostro rosso, ecc., equivale a farsi ridere dietro e tutt’al più a gettare i presupposti per un TSO.

5. Il concetto di diritto. Il diritto come insieme di regole per l’annientamento dell’individuo.

Va da sé che se lo Stato impone il diritto con la forza, non lo fa per il benessere dei cittadini. Quando gli europei sono andati in America (sia nell’America del nord che del sud) non hanno certo imposto le loro leggi per il benessere della popolazione locale.

Quando invadiamo la Libia (affermando che andiamo a liberarla) e imponiamo le nostre regole su quei territori, non lo facciamo di certo perché vogliamo il bene del popolo libico.

La verità invece è che il diritto persegue fini completamente opposti e serve ad ingabbiare il cittadino in una serie di regole per impedirne il libero sviluppo e il libero arbitrio. Solo a titolo di esempio:

- Il diritto di proprietà privata è quasi inesistente; la verità è che il proprietario del terreno per costruirvi deve pagare; lo Stato può espropriarglielo quando vuole senza pagargliene il valore; per fare una minima modifica alla costruzione occorre chiedere autorizzazioni e pagare per averle, ecc. Se io ho una casa, non ho neanche il diritto di farne quello che voglio, perché anche solo per traformarla da abitazione in studio devo chiedere l’autorizzazione.

- Il Ministero della Sanità decide quali cure sono ammesse negli ospedali e quali no, al fine di disincentivare cure alternative efficaci e incentivare cure ufficiali inefficaci dannose e costose (come la chemioterapia, a fronte di tutti gli studi – Di Bella, Simoncini e altri – che hanno dimostrato l’inefficacia di queste cure e l’efficace di altre cure meno costose) che propongono metodi diversi.

- Le tasse sulla casa e sui terreni costituiscono una specie di gabbia in cui il cittadino è imprigionato costringendolo a lavorare come un mulo per pagare servizi di cui potrebbe anche fare a meno. Nonostante infatti siano da decenni state scoperte energie pulite e a costo zero, materiali riciclabili per i principali prodotti di uso quotidiano, e prodotti che possono ridurre a zero la necessità di riscaldamento (ad esempio alcune case di legno non hanno bisogno di riscaldamento anche in zone molto fredde), siamo costretti tutti ogni mese a pagare spazzatura, luce, gas, acqua, e interi stipendi familiari sono destinati solo a pagare bollette inutili, che non servirebbero a nulla se si diffondesse la tecnologia di Tesla e altri sistemi.

- Le tasse in generale non servono a pagare i servizi che lo Stato fornisce, ma servono a depredare il cittadino per non permettergli di vivere tranquillo. Basti pensare che con il costo di un F22 per la difesa aerea ci si potrebbe sanare il bilancio della giustizia, e con pochi F35 (dieci o quindici a seconda dei calcoli) si potrebbe fornire la sanità di tutti gli strumenti indispensabili per curare tutti gratuitamente. In altre parole, i politici non hanno bisogno dei nostri soldi per fornire i servizi statali; hanno bisogno di depredarci per far sì che la gente non evolva spiritualmente.

- I tribunali sono congegnati in modo che raramente chi ha un credito, piccolo o elevato che sia, possa conseguirlo per via giudiziale ed essere tutelato da frodi e abusi; basti pensare che il creditore per pignorare i beni del debitore e venderli può arrivare ad impiegare decenni, spendendo nel frattempo un mucchio di soldi per mantenere in piedi la procedura.
- Il peggio del peggio in termini di libertà però lo danno le recenti leggi tributarie in materia di spesometro, redditometro, e anagrafe tributaria. Un sistema che in teoria controllerà tutte le spese dei cittadini per “normalizzare” ogni individuo: vuoi mangiare solo le mele del tuo campo per risparmiare soldi e comprarti tanti cd musicali che adori? Non puoi... non rientri nei parametri. Sei un tedesco che lavora in Italia e hai preso la cittadinanza italiana e sei abituato a bere 10 birre al giorno? pistolini tuoi, non te lo puoi permettere, altrimenti potrebbe scattare l’accertamento.

Si potrebbe proseguire all’infinito con altri esempi, ma la verità è che le leggi esistenti servono solo ad ingabbiare il cittadino in una rete di regole quasi del tutto inutili, che servono a fargli perdere tempo al fine di distoglierlo dall’impiegare lo stesso tempo nell’evoluzione di se stesso.

6. Il diritto di sovranità nella nostra legislazione.

Venendo al principio di sovranità nella nostra legislazione, ci si deve domandare se non ci siano altre strade per riconoscere la propria sovranità e se questa teoria sia completamente campata in aria o meno.

In teoria l’idea della sovranità individuale è giusta. Lo Stato non avrebbe il potere di decidere della vita altrui, salvo che questo potere non serva veramente a proteggere il cittadino, e salvo che questo potere sia davvero un’espressione della volontà della maggioranza.

Questo concetto di fondo è espresso nella Costituzione, dove all’articolo 1 è detto che la sovranità appartiene al popolo; molto importante è la frase successiva, questa: “il popolo la esercita nelle forme previste dalla Costituzione”.

In altre parole, la norma è come se dicesse che è illegittima qualsiasi legge che non permetta l’esercizio della sovranità da parte del cittadino.

Ora, occorre considerare che il popolo non ha più il diritto di scegliersi i propri rappresentanti grazie ad una legge elettorale che è una porcata anche nel nome (il cosiddetto Porcellum), ed è stata definita tale addirittura da chi l’ha preparata e le ha dato il nome (Calderoli); quindi i rappresentanti che siedono in parlamento non sono voluti dal popolo; occorre altresì considerare poi che molte leggi sono state delegate all’UE, e soprattutto che il sistema della moneta è un sistema illegittimo ove non è il cittadino ad essere proprietario della moneta, ma lo è un ente privato come la BCE.

Tenendo presente tutte queste considerazioni, ne deriva a maggior ragione l’illegittimità della sovranità statale attuale, e il diritto del cittadino di svincolarsi da questo sistema.

Il problema però è che il cittadino non può svincolarsi nella pratica da questo sistema, perché lo Stato dispone di uno strumento che le singole persone non hanno: l’uso della forza.

Le teorie di Bonacci e dei seguaci della sovranità hanno ragione su un punto, cioè che il diritto di basa sul consenso e sulla non contestazione. Ma il nodo della questione è che non basta la contestazione da parte di uno o di mille individui che rivendicano la propria sovranità per distaccarsi dallo Stato; in teoria sarebbe necessario che il consenso venisse negato, e che quindi non riconoscessero la sovranità statale tutti quegli organi che in teoria sono deputati a far rispettare le leggi statali. In altre parole, se d’un tratto polizia, carabinieri, esercito, tribunali, cessassero di riconoscere come valide le leggi statali, allora sì, d’un colpo lo Stato perderebbe il suo potere e ciascun individuo sarebbe sovrano a se stesso.
La nazione precipiterebbe però nell’anarchia, generando altri tipi di problemi e la necessità di altre soluzioni.

7. Conclusioni.

A mio parere i gruppi che si occupano di sovranità individuale hanno l’importante funzione di stimolare una riflessione e un dibattito. A me personalmente hanno fatto riflettere molto e fare importanti passi avanti di consapevolezza.

Avendo avuto modo di parlare con alcuni di loro, peraltro, mi sono fatto l’idea che il dibattito è interessante, ma il rischio è quello di perdersi a studiare codici, cavilli, leggi presenti, leggi passate, ecc., e far perdere del tempo alle persone per distorgliele da attività più proficue per se stessi ma pericolose per il sistema: la crescita individuale.

La vera libertà è dentro di noi, e non ci può essere sistema giuridico che può togliere la libertà a una persona libera dentro. In questo senso, le storie di Gesù Cristo, di Osho, di Paramahansa Yogananda, di Gandhi, possono insegnare molto, ma anche la storia del Dalai Lama, che ha perso una terra e il suo regno, il Tibet, ma ha portato la libertà a milioni di individui con la diffusione del buddhismo all’esterno della sua terra.
Il Dalai Lama è l’esempio più importante al mondo, in questo senso, di un soggetto che ha la sovranità individuale; era infatti un ex sovrano spodestato dal governo cinese, che ha perso il regno. Ma in compenso non ha perso mai la sua sovranità individuale, aiutando milioni di persone a trovare la propria.

Source: Paolo Franceschetti: Il diritt...a dichiarazione di sovranità.


Ultima modifica di Wolframio il 31/05/2014, 16:13, modificato 1 volta in totale.


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 Oggetto del messaggio: Re: La regola del consenso alla base del NWO
MessaggioInviato: 10/01/2016, 14:47 
Pubblicato oggi sul mio gruppo facebook, con indicazione di un link che rimanda a questo thread...

Cita:
L’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita.

Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché persino Yahweh aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare.

Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli?

Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”

LIBERO ARBITRIO & LE LEGGI MERCANTILI
http://ningizhzidda.blogspot.ch/2013/03 ... ntili.html



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 Oggetto del messaggio: Re: La regola del consenso alla base del NWO
MessaggioInviato: 12/03/2016, 15:14 
LA DEMOCRAZIA DIRETTA

VITA

Alain de Benoist, giornalista, nato l'11 dicembre 1943 a Saint-Symphorien (Indre et Loire), ha studiato lettere e diritto. È stato redattore capo dell'Observateur Européen, della rivista Nouvelle École, di Midi-France, critico per "Valeurs actuels", "Spectacles du monde" e "Figaro-Magazine", direttore della rivista "Krisis". Ha diretto diverse collane presso le edizioni Copernic. Labyrinthe, Pardès, Grands Classics. È stato inoltre collaboratore di "France Culture".

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OPERE

Le courage est leur patrie (1965); Les indo-Européens (1966); Rhodésie, terre des lions (1967); L'empirisme logique et la philosophie du Cercle de Vienne (1970); Avec ou sans Dieu (1971); Histoire de la Gestapo (1971); Morale et Politique de Nietzsche (1974); Vue de droite. Anthologie critique des idées contemporaines (1977, ha ottenuto il Grand Prix de l'Essai de l'Académie Française 1978); Les idées à l'endroit (1979); L'Europe païenne (1979); Guide pratique des prénoms (1980); Comment peut-on être païen? (1981); Fêter Noël (1982); Orientation pour des années décisives (1982); Tradition d'Europe (1983); La mort (1983); Démocratie: le problème (1985), L'eclipse du sacré (1986); Europe, Tiers monde, même combat (1986); Quelle religion pour l'Europe? (1991).

PENSIERO

Alain de Benoist si è occupato di problemi filosofici, sociali, geo-politici, di storia delle idee politiche, ha analizzato le vicende della religiosità nel mondo contemporaneo, e ha dedicato particolare attenzione all'analisi del concetto di democrazia, mettendone in evidenza potenzialità e limiti.

Viviamo in regimi democratici fondati sulla rappresentanza di stampo liberale, anche se il modello della rappresentatività è ormai in crisi, come dimostrano l'elevato astensionismo e le difficoltà dei partiti tradizionali. Anche i fenomeni del regionalismo e dell'ecologismo rimandano alla problematicità dell'equazione tra rappresentanza e democrazia; a questo proposito Alain De Benoist rimanda alla riflessione di Hobbes e Locke sul rapporto tra delega contrattuale, potere e sovranità, così come alla proposta rousseauiana di una democrazia partecipativa (1HotwordStyle=BookDefault; ). Non esiste alcun sistema elettorale perfetto, ma il modello proporzionale sembra presentare molti inconvenienti, perché produce frammentazione politica e instabilità parlamentare, riducendo la capacità decisionale del parlamento. Il doppio scrutinio tedesco fa invece tesoro dei vantaggi del sistema maggioritario e di quello proporzionale.

De Benoist considera quindi le distorsioni del sistema maggioritario uguali e contrarie rispetto al proporzionale; occorre orientarsi, a suo parere, verso la ricreazione di spazi pubblici di socialità in vista di una cittadinanza attiva all'interno di una democrazia partecipativa. L'esigenza della democrazia diretta fu un tema del '68 francese, che però trascende le famiglie politiche della destra e della sinistra. Al di là delle etichette politiche è importante trovare modalità di partecipazione democratica mantenendo l'aspetto decisionale della vita politica ed evitando l'inconcludenza di una discussione perpetua.

La crescente indifferenza nei confronti della politica deriva dal ripiegamento nella sfera privata ed individuale, oltre che dalle delusioni della vita collettiva. Le società in fondo si somigliano sempre di più nonostante le diversità dei sistemi istituzionali, la stessa evoluzione sociale dipende sempre meno dalla vita politica istituzionale; si ha inoltre un'usura del modello di Stato-nazione, anche in seguito alla mondializzazione dell'economia e all'aumento della disoccupazione.

Nel panorama dell'atomizzazione sociale la televisione è un potente mezzo in antagonismo con l'esperienza vissuta, anche perché appiattisce i vari messaggi ed eventi rendendoci paradossalmente meno informati. Al confronto la lettura permette invece una dimensione più profonda di riflessione: la televisione inoltre ha ucciso il cinema nella sua dimensione sociale e rituale, sebbene probabilmente si avrà presto una reazione di saturazione, anche in seguito alla moltiplicazione delle reti.

Il pluralismo permette una maggiore diversità, anche se può presentare degli aspetti negativi. C'è per esempio, anche in seguito alla diversità etnica, una nuova presa di coscienza del regionalismo, ma la nuova coscienza pluralistica concerne ormai anche i sistemi di valori: l'eterogeneità aumenta, anche se parallelamente aumenta l'omogeneizzazione, dando luogo a fenomeni di 'eterogeneizzazione' patologici, come l'islamismo radicale che rifiuta la società occidentale.

Il fenomeno dell'immigrazione in Francia presenta due diversi modelli, quello dell'immigrazione maghrebina, destrutturata e disgregata anche dal punto di vista familiare, e quello dell'immigrazione asiatica, che ha prodotto una forte integrazione comunitaria. Per De Benoist il modello comunitario permette un'integrazione migliore rispetto alla prospettiva assimilazionista, che erode l'identità collettiva in nome dell'individualismo liberale. L'ideologia liberale mira a emancipare la sfera economica e a superare la struttura politica tradizionale, orientandosi verso un'antropologia individualistica.

L'esigenza razionalistica si esprime in particolare nell'idea di contratto, grazie al quale si intende massimizzare l'interesse. Perciò l'individualismo distrugge l'assetto politico della società, legittimando l'egoismo, affondando ogni etica e morale e cancellando il senso della solidarietà. L'ideologia liberale allo stato puro non potrebbe comunque funzionare, visto che le stesse società che incarnano il mito liberale, come gli Stati Uniti, in realtà vivono grazie alle loro componenti non liberali (il senso religioso, la cultura ecc.), e altrimenti si smascherano per le gravi ingiustizie sociali prodotte da un'ideologia distruttiva; occorre invece ricreare dei centri di vita pubblica attiva in cui sia possibile una maggiore partecipazione.

Per concludere, De Benoist auspica una democrazia di base, libertaria ed egualitaria, che mantenga elementi gerarchici aperti, pluralistici e non autoritari.

DOMANDA N. 1

Vi è la tendenza, attualmente, a unificare due concetti che si presentano storicamente distinti: quello di rappresentanza e quello di democrazia. Lei considera legittima tale assimilazione?

Credo che occorra partire dalla situazione presente. Nella maggior parte dei paesi occidentali, oggigiorno, viviamo in regimi democratici fondati sul sistema della rappresentazione. La democrazia rappresentativa che si richiama all'ideologia liberale è un sistema nel quale i rappresentanti sono autorizzati a trasformare la volontà popolare in atti di governo, sin dal momento in cui sono eletti; hanno un mandato rappresentativo. Poco a poco è invalsa così l'abitudine di pensare che la democrazia e la rappresentazione siano, in qualche modo, la stessa cosa.

Ora, oggi è evidente una crisi profonda della rappresentatività, che si manifesta attraverso tutta una serie di fattori, il più noto e il più sensibile dei quali è certamente l'enorme astensionismo, constatato nella maggior parte delle elezioni, e simultaneamente la diserzione dei grandi partiti istituzionali a profitto di movimenti, gruppi e piccoli partiti che sono più originali, più inediti in qualche modo, e che hanno come caratteristica principale - pensiamo ai movimenti regionalisti, ecologisti, federalisti - la difesa dei valori più che degli interessi. Da questo punto di vista il fenomeno della Lega Nord, in Italia, è piuttosto interessante. Essa presenta a mio avviso due aspetti positivi: il primo è relativo all'identità regionalista, il secondo al fatto che tale coscienza regionalistica venga posta in un'ottica federalista. L'assimilazione fra la rappresentazione e la democrazia mi sembra contestabile.

Guardiamo alla storia delle idee, considerando due grandi teorici della democrazia rappresentativa, Hobbes e Locke. In Hobbes il potere è delegato totalmente al sovrano, in maniera contrattuale, e la pratica che ne risulta non è affatto democratica. In Locke, al contrario, questa delega contrattuale del potere è accompagnata da un certo numero di garanzie, riguardanti in particolare i diritti, le libertà individuali, le libertà fondamentali, ecc. Purtuttavia, dal momento in cui il popolo ha delegato il suo potere al rappresentante, è il rappresentante che detiene il potere, e non è più il popolo.

La critica, ben nota, di Jean-Jacques Rousseau è, da questo punto di vista, di una logica stringente: se il potere è delegato dal popolo al sovrano, allora il potere appartiene al sovrano, non appartiene più al popolo. Per questa ragione Rousseau prevede un sistema più complesso, nel quale il sovrano, il principe, il governante è solo il commesso, in qualche modo, del popolo; il popolo non smette mai di esercitare il proprio potere, ma continua a governare attraverso di lui. Questa idea è la fonte di quella che possiamo chiamare democrazia partecipativa, un sistema nel quale, accanto alla rappresentazione - poiché è evidente che in una società complessa non si possono eliminare totalmente i fattori di rappresentatività - ci sia la maggiore partecipazione possibile, permanente, dell'insieme dei cittadini alla vita pubblica.


DOMANDA N. 2

Il sistema proporzionale, la cui correzione in senso maggioritario è stata in Italia oggetto di un referendum di iniziativa popolare, presenta indubbiamente vantaggi e svantaggi. Ce li vuole illustrare?

L'inconveniente principale del sistema proporzionale è che esso produce una frammentazione delle famiglie politiche rappresentate nelle assemblee, quindi una grandissima instabilità parlamentare, una enorme difficoltà a formare governi stabili al di là di coalizioni più o meno durevoli di interessi particolaristici. Un significato molto importante hanno in questo caso le piccole formazioni politiche, che svolgono un ruolo di cerniera - è il regno delle combinazioni, delle contrattazioni. Il risultato è che la volontà popolare si trova molto più tradita da tutte queste combinazioni che non negli altri sistemi. Il vantaggio dello scrutinio proporzionale, quale lo si mette di solito in rilievo, è che fornisce una fotografia molto più esatta delle diverse componenti dell'opinione.

Esso è paragonabile, a questo riguardo, ad una specie di sondaggio delle opinioni. Ma bisogna considerare che il Parlamento ha anche un ruolo legislativo e deve poter essere capace di prendere delle decisioni. Questo aspetto decisionale della vita politica - che è stato ben messo in luce da Carl Schmitt - è un elemento capitale. Se il prezzo da pagare per una rappresentazione la più completa possibile delle opinioni è l'incapacità di prendere una decisione, l'elettore, in fin dei conti, non può che rimanere profondamente deluso. Bisognerebbe quindi guardare a sistemi misti, vale a dire a sistemi maggioritari con una certa dose di proporzionale.

Così come in Italia, anche in Francia, prima delle elezioni del maggio 1993, ci si era posto il problema di trovare un sistema che permettesse una migliore forma di rappresentazione, a partire dalla constatazione che certe famiglie politiche ottenevano molti milioni di voti senza riuscire a eleggere un solo deputato in Parlamento. Siamo qui presi, in qualche modo, tra due eccessi: da una parte è assolutamente anormale che un partito che abbia tre, quattro, cinque milioni di suffragi non abbia alcun deputato, è una distorsione più che mai flagrante.

Dall'altra la proporzionale integrale conduce evidentemente ad un sistema di instabilità e di patteggiamenti che è una macchina per deludere l'elettore. In effetti, dal momento che nessuna famiglia è abbastanza importante per formare, da sola, il governo, essa può ovviamente costituire una équipe governativa solo se associa altri movimenti; ma allora, siccome questi altri movimenti non hanno il suo stesso programma, essa è costretta a negoziare con essi una specie di compromesso, e non potrà più applicare integralmente il suo programma. Il sistema proporzionale non è dunque in grado di garantire condizioni ottimali dal punto di vista della democrazia partecipativa o della democrazia diretta, o della democrazia organica - in qualunque modo la si definisca - si è anche parlato di "democrazia di base", che è in effetti il termine più interessante.

Cercando modalità di partecipazione democratica diverse da quelle della rappresentazione, occorre a mio avviso orientarsi piuttosto verso la creazione di spazi pubblici, di una cittadinanza attiva che permetta anche sui luoghi di lavoro, nelle strutture del vicinato per esempio, di partecipare alla vita collettiva. Sono inoltre convinto che la necessità della democrazia partecipativa si imponga tanto più oggi, che viviamo in una società molto complessa, contrassegnata da uno spirito individualista che trovo profondamente negativo. Esso infatti distrugge la socialità, vale a dire il legame sociale elementare che fa sì che la gente viva in comunità, dando alle persone la coscienza di condividere il loro destino collettivo con coloro che le circondano, qualsiasi sia l'appartenenza o provenienza di ciascuno. Era questo uno dei temi del movimento del Maggio del '68, ma oggi esso coinvolge ambienti molto più larghi e trascende completamente le famiglie politiche di sinistra e di destra.


DOMANDA N. 3

Certo, a più di venticinque anni di distanza dal movimento studentesco francese del Maggio '68, appaiono lontani gli ideali di democrazia diretta, di partecipazione, che allora sembravano permeare così profondamente le coscienze dei giovani. Oggi sembra piuttosto prevalere un certo disinteresse per la politica, se non un aperto rifiuto. Come si spiega tale mutamento?

Effettivamente nel movimento del Maggio '68 c'era un approccio un po' troppo ideale al problema. È evidente che non si può far partecipare in permanenza, per tutta la giornata, la gente alla vita pubblica. Ma l'altro punto decisivo è quello che riguarda l'aspetto decisionale della vita pubblica. Il grande rischio della democrazia diretta sarebbe quello di estendere uno dei difetti tipici del parlamentarismo liberale a tutti i livelli della società, e cioè la discussione per la discussione. Dire per esempio "bisogna che tutti si esprimano" è di per sé, ovviamente, una cosa buona; ma a che pro' se tutti si esprimono senza che risulti nulla da questa espressione?

Dunque, occorre trovare un equilibrio, ancora una volta, tra la discussione perpetua che impedisce la decisione, e la decisione che deve finalmente esser presa. Bisogna tuttavia tener presente che dal Maggio 68 in poi abbiamo visto accentuarsi un fenomeno essenziale delle società moderne, quello della desocializzazione, ossia il fatto che le persone diventano sempre più indifferenti, estranee le une alle altre. Questo fenomeno va di pari passo con quello del disinteresse nei confronti della politica. La gente è divenuta più estranea alla politica per due ragioni: prima di tutto perché le persone non si sentono più legate le une alle altre; la vita pubblica non le interessa più, esse si ripiegano completamente sulla loro vita privata, che è una vita essenzialmente individuale.

D'altro canto, esse sono state - bisogna proprio dirlo - estremamente deluse dalla pratica della maggior parte dei grandi partiti politici. In Francia la sinistra e la destra si sono succedute al potere, ma senza che si constatino modificazioni molto profonde nell'esistenza collettiva. Non si tratta solo di un problema di efficacia. Si tratta a mio parere di un problema molto, ma molto più complesso. Innanzi tutto le società attuali si assomigliano sempre di più, in ragione del loro livello di sviluppo. Si può affrontare il problema da due angolature diverse: da una parte la situazione, nei grandi paesi sviluppati di oggi, è più o meno la stessa, qualunque sia il loro sistema istituzionale.

Che si tratti di democrazia, di repubblica, di monarchia costituzionale, vedete in Europa - in Italia, in Spagna, in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Francia o in Germania, tutti paesi dotati di sistemi istituzionali molto diversi - la struttura sociale non è fondamentalmente diversa. I problemi con cui ci troviamo confrontati sono presso a poco gli stessi. Questo vuol dire che l'evoluzione sociale dipende sempre meno dalla vita politica in senso istituzionale. E questo è già un punto importante. D'altro canto, c'è il fatto che molti problemi sfuggono all'autorità degli Stati-nazione così come essi sono costituiti oggi. Incontestabilmente assistiamo ad una usura del modello di Stato-nazione quale si è formato a partire dal Seicento, e che ha conosciuto il suo apogeo nell'Ottocento.

Lo Stato-nazione oggi appare - per riprendere una formula spesso citata - troppo grande per risolvere i piccoli problemi, e allo stesso tempo troppo piccolo per risolvere i grandi problemi. Esso si trova a doversi confrontare, in particolare, con il fenomeno della mondializzazione dell'economia, in ragione del quale l'iniziativa dello Stato, e quindi la sua libertà nei confronti delle grandi tendenze economiche mondiali, continua a restringersi. Pensiamo al problema della disoccupazione, che ossessiona la gente più di ogni altro.

Abbiamo visto la disoccupazione aumentare sotto i governi di destra, sotto i governi di sinistra, ed essa continua ad aumentare. Si ha veramente l'impressione che tutti questi governi, alla fin fine, si succedano senza riuscire a padroneggiare il problema. E sappiamo bene che ciò non è legato semplicemente alla loro maggiore o minore efficacia: agire sulla disoccupazione, risolvere il problema dell'impiego, esige un inserimento nelle correnti economiche mondiali, di cui gli Stati-nazione hanno solo parzialmente il controllo.


DOMANDA N. 4

Moltissime sono le accuse rivolte negli ultimi anni alla televisione. Lei crede che le si possa imputare, almeno in parte, anche il fenomeno della desocializzazione, la perdita del senso della comunità, il rinchiudersi di ogni individuo nel suo privato?

Non possiamo dire che la televisione è colpevole, e che bisognerebbe punirla! La televisione è un fenomeno che esiste, ma certamente essa, per sua natura, è in antagonismo con un gran numero di cose. Innanzitutto, con l'esperienza vissuta: ci capita sempre più spesso di vedere alla televisione, attraverso la mediazione dello schermo, cose che non abbiamo mai visto realmente, ma con le quali intrecciamo una specie di legame di familiarità.

In tal modo, se per avventura veniamo a contatto in seguito con situazioni, paesaggi o paesi che abbiamo visto per televisione, non ne avremo più la stessa percezione di novità; se volete, le cose si saranno un po' attenuate. D'altro canto - secondo gli studi che sono stati fatti sul tema - la televisione tende a non gerarchizzare l'informazione, a neutralizzare l'informazione, a rendere tutti i messaggi equivalenti; essa priva di forza e di determinatezza gli avvenimenti a cui assistiamo attraverso il piccolo schermo. Tutto viene annegato in un oceano di immagini che straripa tra due spot pubblicitari. Alla fine siamo al corrente di tutto e allo stesso tempo non siamo informati di nulla. Ciò segna anche la differenza della televisione rispetto ad altri organi di informazione. La lettura di un quotidiano ci dà un'impressione meno fugace. L'occhio, in un giornale, in un libro, può tornare indietro, può riprendere una dimensione di profondità che la televisione, evidentemente, impedisce totalmente. Si prenda un esempio semplice: la guerra nell'ex-Jugoslavia. Da vari anni la televisione ha trasmesso informazioni su questa guerra, ogni giorno, più volte al giorno. Ma chi può dire, foss'anche una persona su diecimila o su centomila, chi può veramente spiegare a che punto è, oggi, questo conflitto? Quali sono gli obiettivi della guerra? Qual è la situazione reale delle forze in campo?

Assistiamo attraverso la televisione a dei micro-eventi, a volte vediamo delle persone che muoiono, e poi molto, molto in fretta, tutto ciò scompare, è inghiottito in una specie di diluvio che fa sì che alla fin fine nulla più nuoti in superficie. Solo alcuni mesi dopo, tutto è già dimenticato. Inoltre la televisione è una sollecitazione a restare a casa propria anziché a uscire. La televisione, in una certa misura, ha ucciso il cinema, che è stata la grande arte popolare della prima parte del Novecento. È evidentissimo che vedere un film alla televisione e vedere questo stesso film al cinema sono due cose senza alcun rapporto tra loro; non è solo questione di dimensione delle immagini, è che andare a cinema significa spostarsi, significa avvicinare altre persone. Il fatto di andare al cinema implica una specie di rituale, del tutto diverso ovviamente dal guardare un film alla televisione.

Ritengo quindi che la televisione abbia svolto un ruolo piuttosto negativo in molti campi; allo stesso tempo è una innovazione tecnologica che esiste, e di cui, ovviamente, bisogna tener conto. Non sappiamo se ci sarà una reazione di stanchezza nei suoi confronti. Le prospettive offerteci dal numero di reti che saranno a nostra disposizione negli anni prossimi faranno probabilmente perdere alla televisione qualsiasi significato. Dunque, ad un certo punto, con le prospettive di espansione della televisione, ci troveremo nella stessa situazione di altri processi macro-sociali, nei quali la continua crescita finisce per privare questa espansione stessa di qualsiasi senso.

Voglio dire, avere un'automobile è certamente una cosa molto utile, avere due auto può talvolta essere anche necessario, ma averne tre, quattro, dieci, non ha più senso. Non ha senso avere venticinque auto. Dunque, arriva un momento in cui la curva arriva all'assenza di senso. Ed è proprio la perdita di senso a rappresentare il problema di fondo della situazione attuale, il venir meno di tutto ciò che dava senso alle strutture tradizionali della società.


DOMANDA N. 5

La nostra epoca, la fine del XX secolo, appare in misura crescente caratterizzata nei grandi paesi occidentali, dalla coesistenza di diverse etnie, religioni, culture, ovvero dal fenomeno del cosiddetto pluralismo. D'altra parte, pensatori come Marcuse, con il suo uomo a una dimensione, o Pasolini, in Italia, hanno piuttosto sottolineato il problema inverso, quello di una sorta di standardizzazione della nostra società. Come spiegare questi due fenomeni antitetici?

Il pluralismo è un fenomeno irreversibile per la nostra società. C'è un pluralismo etnico che è la conseguenza dell'immigrazione, cè una nuova presa di coscienza dei regionalismi. C'è la pluralità dei sistemi di valore: la gente in altri tempi aveva grosso modo lo stesso sistema di valori, ma divergeva sulle opinioni.

Oggi la divergenza di opinioni è raddoppiata da una divergenza sugli stessi sistemi di valori, cosa che, ovviamente, è molto più difficile da gestire. Ci sono in più dei paesi che hanno una enorme diversità etno-culturale, penso agli Stati Uniti, per esempio. Tuttavia, mentre aumenta l'eterogeneità, anche l'omogeneità aumenta. Sul piano umano la composizione delle società è sempre più eterogenea, questo è evidentissimo. Ma allo stesso tempo ha luogo un'omogeneizzazione che impegna soprattutto il canale dell'economia e della tecnologia. Voglio dire che abbiamo dei modi di vita, dei modi di consumare, sempre più omogenei. In questo senso, quello che dicevano Pasolini o anche Marcuse era più che mai esatto. Questa omogeneizzazione è a mio avviso qualcosa di negativo, e comporta fenomeni di eterogeneizzazione anche patologici. Penso, per esempio, a certe forme di islamismo radicale.

Oggi l'islamismo si espande in forma religiosa, ma per ragioni che, alla base, non sono religiose: esso rappresenta una specie di rifiuto della civiltà occidentale, considerata essenzialmente materialista, economicista, individualista che tende a corrompere, a erodere e a disfare tutte le differenze culturali. È questo un riflesso positivo dell'ispirazione islamica, la quale però può condurre a forme esacerbate che diventano, ovviamente, del tutto patologiche. Allora anche qui si pone un dilemma. Siamo forse costretti a scegliere tra la robotizzazione, omogeneizzazione della società dei consumi, e forme di differenzialismo che possono diventare aberranti? Prendiamo il problema dell'immigrazione. Benché le cifre divergano ci sono due tipi di immigrazione molto diversi: l'immigrazione magrebina, che è la più importante e l'immigrazione asiatica, che è meno numerosa ma che non è trascurabile.

L'immigrazione magrebina è un'immigrazione totalmente destrutturata sul piano delle famiglie, c'è qui una frattura tra le generazioni. Tale destrutturazione comunitaria è direttamente legata ai problemi di inserimento scolastico, di delinquenza, di criminalità. L'immigrazione asiatica invece - sia essa cinese, vietnamita, ecc.- è un'immigrazione che ha trasportato completamente in Francia il suo modello di integrazione comunitaria, familiare, religiosa, culturale. I bambini che crescono in questa comunità di immigrazione hanno un'ottima integrazione scolastica, c'è molta poca delinquenza, ecc. Dunque, penso che il modello comunitario non sia una specie di apartheid generalizzato, o di compartimento stagno, ma un asse, una struttura di integrazione molto migliore dell'assimilazionismo o del sogno totalitario della società totalmente omogenea.


DOMANDA N. 6

Quali sono i fondamenti politici e antropologici dell'ideologia liberale?

Il liberalismo è una ideologia che sul piano sociale punta ad emancipare la sfera economica dal mondo politico, in ragione dei suoi presupposti individualistici. Essa è infatti costruita attorno a un'antropologia per la quale l'individuo separato dalla collettività è la cellula fondamentale della società. Il razionalismo di tale ideologia si disegna nella figura - ovviamente fittizia - del contratto. In Locke, come in tutte le teorie liberali del contratto, l'uomo non è sempre vissuto in società, ma vi è entrato a un certo punto, abbandonando l'isolamento naturale. Perché gli uomini hanno deciso di associarsi? Perché volevano massimizzare il loro interesse, e volevano farlo razionalmente.

È qui il fondamento dell'ideologia e dell'antropologia liberale. Esse rappresentano l'uomo, in quanto tale, e non in quanto cittadino, come titolare di diritti imprescrittibili, che entra in società e si associa con altri individui unicamente per massimizzare il proprio vantaggio, per perseguire razionalmente il suo massimo interesse. Ora, siccome un interesse può essere razionalmente definito solo in quanto può venir quantificato, esso è necessariamente un interesse materiale. Entriamo allora nella rappresentazione corrente della società liberale, una società atomizzata, dominata dall'economia, caratterizzata dal perseguimento concorrenziale del massimo interesse, che rigetta gli esclusi.

Questo modello individualista mi appare assolutamente dannoso, esso distrugge tutto: distrugge il politico, distrugge la società, legittima dal punto di vista etico i comportamenti più egoistici, provocando la perdita di ogni senso di solidarietà nei confronti degli altri, di tutto ciò che può legare l'individuo al bene comune. A tutto ciò va aggiunto che l'ideologia liberale allo stato puro non funziona meglio dell'ideologia marxista allo stato puro. Se una società vivesse secondo i princìpi dell'ideologia liberale, integralmente concepita e applicata, molto semplicemente, essa non potrebbe sopravvivere.

Paradossalmente, le società liberali vivono solo a causa, o grazie a ciò che c'è di non liberale, di ciò che resta di non liberale in esse: la solidarietà, i legami religiosi, il sacro, la cultura, e precisamente tutto quel che eccede il solo individuo ma che permette all'individuo di esistere. Ora, queste compensazioni sono più o meno forti a seconda dei paesi: esse esistono certo negli Stati Uniti, esistono certamente in misura maggiore in un paese come la Germania.

Ma guardate negli Stati Uniti lo straordinario numero di esclusi, guardate la mancanza di copertura sociale, guardate il modo in cui la scuola di alto livello è riservata agli individui più ricchi. C'è una tale montagna di ingiustizie sociali negli Stati Uniti: la molla essenziale è sempre la ricerca del denaro, la massimizzazione dell'interesse materiale dell'individuo, alla base del sogno americano. Sono perciò convinto che l'ideologia liberale sia essenzialmente distruttiva.

Dunque, per tornare al punto di partenza della nostra conversazione, credo alla necessità di ricreare dei centri di vita attiva, dei centri di vita cittadina, degli spazi pubblici a livello dei luoghi di lavoro, a livello delle comunità, a livello delle regioni, a livello dei gruppi culturali o etnici. Credo alla necessità di uscire dal dilemma tra istituzioni sorpassate e ripiegamento sulla vita individuale, per creare forme di partecipazione il più possibile permanenti e aperte.

http://www.donatoromano.it/interviste/46.htm



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giovedì 21 aprile 2016

Democrazia?

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Siamo tutti vivamente convinti di vivere in un sistema democratico. Tanto sono riusciti a fare decenni di propaganda in questo senso. Spesso sentiamo espressioni come “difendere i valori democratici”, “indire elezioni democratiche”, “sistema democratico di voto”, “paesi democratici” e così via.

Ma viviamo davvero in paesi democratici? A pensarci bene la risposta è tanto immediata quanto ovvia. Democrazia significa governo del popolo, come tutti sanno. Tuttavia nei nostri sistemi a governare non è il popolo. Il popolo elegge chi dovrebbe governare. Ma questo non è governare, è soltanto scegliere chi debba farlo. Quindi la nostra non è democrazia.

Nella Grecia Antica, dove nacque questa espressione, a governare era davvero il popolo, per come il greco dell'epoca lo intendeva, cioè escludendone le donne e gli schiavi. Questo “popolo” poteva decidere sui temi di interesse generale e votare su tutte le questioni. Al di là del significato, per noi oggi molto discutibile, che si attribuiva alla parola “popolo” c'è da dire che per i greci una cosa era abbastanza chiara. Governa chi esercita effettivamente il potere di scelta su questioni che riguardano tutta la comunità, “di interesse nazionale”, diremmo noi oggi....

Noi non esercitiamo questa scelta. L'unica scelta è quella di mettere una croce su un simbolo ogni cinque anni. E questo non vuol dire decidere un bel niente. Quando votiamo non decidiamo quale debba essere il sistema sanitario del nostro paese, né l'atteggiamento da avere in politica estera e nemmeno la tipologia di prelievo fiscale....

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Una certa pubblicistica si è lamentata di questo sistema politico (cioè della democrazia vera e propria, il governo del popolo) perché a suo dire non potrebbe funzionare nelle nazioni moderne che contano milioni di abitanti. A questa obiezione risponderemo altrove. Per ora basti sapere che, anche se fosse vero ciò, e nulla può dimostrarci chiaramente che lo sia se non un esperimento pratico finora mai avvenuto, questa obiezione non prova la validità dell'alternativa che essi propongono. Costoro sostengono che, per ovviare ai problemi logistici che renderebbero impossibile l'esercizio della democrazia “diretta”, (come chiamano la vera democrazia) si eleggono dei deputati che dovrebbero rappresentare l'opinione o la tendenza politica di coloro che li hanno eletti. Così gli elettori di sinistra eleggono parlamentari di sinistra, quelli di destra parlamentari di destra, e quelli di centro parlamentari di centro. Gli eletti a questo punto portano avanti proposte di sinistra, di destra o di centro, più o meno come farebbero coloro che li hanno eletti.

Tuttavia, come tutti sappiamo, anche se non vogliamo sempre ammetterlo, questo è vero solo in teoria. Ci sono molte cose che potrebbero impedire agli eletti di rappresentare realmente la volontà degli elettori.




Un primo ostacolo è la corruzione. Se io governo direttamente sono responsabile delle mie scelte e non posso lamentarmi se commetto un errore se non con me stesso. In una democrazia vera se il popolo sbaglia la colpa è soltanto del popolo. Ma se a governare è qualcun altro cui io ho dato la mia fiducia, non sono sicuro che questi rispetterà la mia volontà. Costui potrebbe essere corrotto per sostenere politiche che io che l'ho eletto non approvo. Si potrebbe obiettare che in questo caso io avrei a disposizione il voto per costringerlo a rispettare la mia volontà o per sostituire chi è stato corrotto. Inoltre la corruzione è un reato e viene punito. Questo, sempre in teoria, dovrebbe limitare al minimo la corruzione. In pratica non la scalfisce nemmeno.

Innanzitutto perché io posso votare solo una volta ogni cinque anni. Quindi non solo non posso esercitare direttamente il diritto di governare, ma non ho nemmeno un controllo diretto e continuo su chi è incaricato di governare. Se per cinque anni il popolo non può far niente nel caso in cui i propri governanti lo tradiscano il potere di controllo è molto aleatorio, in cinque anni possono accadere molte cose. Inoltre non è detto che io venga a sapere della corruzione di un deputato. Se fossi io a governare conoscerei il modo in cui lo faccio ma se a farlo è qualcun altro io non posso sapere con sicurezza cosa sta facendo realmente e può darsi che quando me ne accorgerò, se me ne accorgerò, sarà troppo tardi. Ma anche ammettendo che la cosiddetta “arma del voto” sia efficace nel controllare gli eletti, anche ammettendo che io venga a conoscenza del mancato rispetto della mia volontà e che alla successiva elezione io decida di non rinnovare il mandato a questi, non è detto che ciò sia effettivamente un deterrente. Un parlamentare potrebbe preferire farsi corrompere piuttosto che essere rieletto. E considerando gli interessi che spesso sono in gioco, e quindi l'alto prezzo dei corrotti, è questa un'ipotesi del tutto plausibile. Egli cercherà di non essere scoperto, ma se verrà scoperto, pazienza, avrà una bella cifra in cambio! Una cosa per cui alcuni potrebbero pensare valga la pena di rischiare la carriera politica.

Anche l'obiezione secondo cui la corruzione è reato è facile da smontare. In primo luogo perché la legge può essere aggirata e questo in particolare per casi in cui è molto difficile dimostrare che il fatto sia realmente avvenuto. Se un tizio paga in nero un deputato diventa molto difficile dimostrare che la transazione sia effettivamente avvenuta, anche perché possono essere corrotti, inoltre, coloro che dovrebbero indagare sul caso, poliziotti e magistrati.

In secondo luogo in certi casi di corruzione la legge non può far nulla semplicemente perché non li considera reato. Esiste una corruzione legalizzata. Le donazioni ai partiti politici avvengono quotidianamente e sono perfettamente legali. Se la donazione è abbastanza ingente, il partito politico in questione si sentirà indotto a non contrastare il proprio donatore che gli assicura un rifornimento continuo e ingente di denaro attraverso cui il partito può svolgere la propria attività (come fare campagna politica e quindi guadagnare voti e quindi vincere le elezioni). Questa di fatto è corruzione anche se non c'è nulla di illegale in questa pratica. È persino alla luce del sole. Negli Stati Uniti, paese in cui i candidati alla presidenza spendono cifre strabilianti durante la campagna i finanziatori e l'entità del finanziamento sono conosciuti da tutti e ampiamente diffusi dai giornali.

È ovvio che se un candidato finanziato dalla lobby del petrolio vince le elezioni, questi sarà indotto, da presidente, ad incrementare l'utilizzo di questo combustibile o quantomeno a non ridurlo, anche se chi lo ha votato può essere contrario.

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Un altro modo per indurre un eletto a tradire il mandato è il ricatto. Una lobby può avvalersi di mille modi per ricattarlo. Può fare in modo che una sua vicenda privata imbarazzante venga resa pubblica per costringerlo alle dimissioni, oppure può influenzare il partito di cui fa parte che sarà costretto a non ricandidarlo, oppure può aprire una campagna stampa denigratoria nei suoi confronti che gli faccia perdere consenso. Tutti questi metodi sono ampiamente utilizzati nelle nostre “democrazie”.

Infine, nel caso che né la corruzione, né il ricatto si rivelino efficaci, il che non accade molto spesso, è possibile semplicemente rendere innocuo il deputato in questione. E cioè corrompendone o ricattandone altri. Così si può fare in modo che tutte le sue proposte vengano bocciate o accantonate e nemmeno prese in esame e quindi in sostanza eliminate. Questo è possibile farlo assicurandosi il controllo di politici in posti chiave del parlamento o di qualsiasi assemblea legislativa. È possibile, dunque, rallentare o bloccare i lavori dell'assemblea per quanto riguarda proposte di legge che non si vuole far passare.

Nei paesi capitalistici dove esistono forti interessi economici da parte di grandi compagnie internazionali questi tre strumenti sono ampiamente utilizzati. In un sistema sociale basato sul profitto privato e fortemente competitivo ognuno farà di tutto per aumentare i propri profitti e per avere la meglio sugli altri competitori. Soprattutto se un tale sistema è esteso a livello globale e dove quindi i guadagni (e le perdite) sono impressionanti.

Ma esiste tuttavia un altro modo per mandare all'aria la democrazia per delega e farla fallire così come in teoria sembra funzionare.

Ci sono due strategie di azione per chi volesse farlo: una è quella di assicurarsi il controllo sull'eletto, ed abbiamo visto come. Ma c'è un'altra strategia che consiste nel controllare chi elegge. Il popolo.

In un sistema capitalistico i grandi attori economici possiedono non solo un immenso capitale e un'immensa capacità di comprare qualunque cosa e qualunque persona, ma anche, conseguentemente, un immenso potere.

Il trucco sta quindi nell'assicurarsi il controllo di mezzi che sono in grado di esercitare un'influenza su un numero di persone elevatissimo, milioni, miliardi persino. Tali strumenti sono di due tipi: di natura ideologica (mezzi di comunicazione come televisioni o giornali) e di natura economico-finanziaria (grandi istituzioni economiche nazionali e internazionali e l'accesso a particolari strumenti della finanza).

Per quanto riguarda il primo tipo, che chiameremo mezzi di persuasione collettiva, è noto a tutti come i grandi gruppi economici si accaparrino il controllo di emittenti televisive o di organi della stampa. In questo modo essi possono condizionare pesantemente quella che è la percezione della realtà degli elettori. Quasi sempre i più grandi e importanti mezzi di comunicazione di una nazione, quelli che si assicurano un pubblico formato dalla quasi totalità degli elettori, sono controllati da poche grandi famiglie.

Accanto all'esaltazione della democrazia nei nostri paesi vige l'esaltazione della “libertà di stampa”. Anche la seconda, come la prima, è in realtà inesistente. È abbastanza ingenuo pensare che i giornalisti possano scrivere contro gli interessi di chi paga loro lo stipendio. È chiaro che qualora qualcuno lo facesse questi smetterebbe immediatamente di lavorare per quel dato giornale e faticherebbe alquanto a trovarne un altro che voglia rischiare di avere a che fare con quel giornalista scomodo. Sfido a trovare un giornalista che abbia mai scritto qualcosa di critico contro il padrone del giornale per cui scrive. Se c'è stato, oggi non lavora più per quel giornale.

Gli interessi delle grandi famiglie che possiedono i mezzi di comunicazione sono tutti legati, quindi sono gli stessi.

Non solo, ma esistono lobby che pure non avendo la proprietà di certi mezzi di comunicazione, ne condizionano lo stesso l'operato. Questi, così come possono influenzare fortemente la carriera di questo o di quel politico, altrettanto possono fare con questo o con quel giornalista, con questo o con quel direttore di giornale. Tutto ciò dovrebbe convincerci che la tanto sbandierata “libertà di stampa” dei paesi capitalistici non è esistita in nessun altro posto che non sia il mondo delle idee.

È facile comprendere che se di fatto la libertà di stampa non esiste e se questi mezzi di comunicazione raggiungono milioni di persone, dicono loro cosa sarebbe vero e cosa sarebbe falso, cosa sarebbe importante e cosa no, ne condizionano, quindi, la percezione della realtà e ne formano il sistema assiologico di riferimento; se, in altre parole, sono in grado di manipolare la pubblica opinione e coloro che vanno a votare, sono altresì in grado di manipolare la politica e il governo che essi scelgono o credono di scegliere.

Questo per quanto riguarda i mezzi di persuasione collettiva, esistono però anche dei mezzi di coercizione economica collettiva, che permettono di costringere le persone ad agire in un certo modo facendo leva sul sistema economico.

Praticamente tutti noi viviamo in un sistema di coercizione economico perché esistono delle caratteristiche di questo sistema che costringono gli attori economici ad agire in un certo modo anziché in un altro. Ad esempio un'azienda in un'economia di mercato come la nostra sarà costretta ad alzare costantemente la produttività per aumentare i propri profitti e quindi restare sul mercato. Quindi deve organizzare in un certo modo la propria produzione, altrimenti viene tagliata fuori. Un lavoratore per lavorare deve sottostare a quelle che sono le condizioni del mercato, sottostare a determinati turni, a una determinata paga ed eseguire determinate mansioni e non altre; ognuno deve stare nel ruolo che gli è assegnato e non può travalicarlo. Un imprenditore non potrà abbassare la produttività della propria azienda e un lavoratore non potrà scegliere la politica aziendale.

Quanto detto fa parte delle condizioni di coercizione strutturali, cioè che riguardano la struttura stessa del sistema economico e senza le quali esso non potrebbe esistere. Poi ci sono però dei mezzi di coercizione che sono l'effetto di questo sistema, che ne sono generate dalla dinamica che esso produce. Ed è su questi che ci soffermeremo.

I mezzi economici di coercizione collettiva sono appunto un effetto di questo sistema. Essi consistono in istituzioni e meccanismi di mercato che costringono un gruppo di individui molto esteso (fino a una nazione o anche più) a comportarsi in un determinato modo.

Un esempio è il Fondo Monetario Internazionale. Esso ha il potere di elargire ingenti finanziamenti e questo lo mette in condizione di influenzare determinate politiche invece di altre. Il FMI impone nei paesi in via di sviluppo la liberalizzazione totale dei mercati. Ciò rende le imprese locali incapaci di sopravvivere perché si trovano a competere con soggetti economici molto più grandi e potenti. Se al contrario i mercati interni fossero protetti l'economia del paese potrebbe svilupparsi e rafforzarsi. Ma il Fondo Monetario avendo il potere di concedere o ritirare finanziamenti può imporre a quei paesi e ai loro governi di non seguire questa strada.

Oppure c'è il caso dei grandi speculatori internazionali che avendo ingenti capitali a disposizione possono produrre gravi crisi economiche decidendo di investire o disinvestire in un determinato settore. Anche questo è un enorme potere ricattatorio.

Mettersi contro certe lobby è estremamente pericoloso, anche per uno stato. Potrebbe voler dire la crisi per la propria industria nazionale, l'isolamento sui mercati internazionali, il mancato rifinanziamento del debito pubblico e, in definitiva, la banca rotta.

Per quale motivo un politico dovrebbe correre simili rischi? Egli ha di fronte due possibilità: da una parte mettersi contro gli interessi finanziari mondiali, affrontare i media e sperare, pur avendo stampa e televisioni contro (che abbiamo visto da chi sono controllati) di riuscire a convincere l'elettorato. Ammesso che ci riesca dopo dovrebbe impedire la catastrofe nazionale, della quale, egli sarebbe considerato il responsabile.

Molto più facile adeguarsi a quelli che sono interessi più forti di lui e fingere di credere ai mezzi di comunicazione che evitano di parlarne (o che ne parlano in modo sbagliato).

Già l'immagine dei politici non è molto alta presso gli elettori. Perché mai, quindi, essi dovrebbero metterla ancora più a rischio? Perché dovrebbero essere disposti a giocarsi la carriera e il prestigio personale per un'impresa non solo dall'esito quantomeno incerto, ma il cui merito pochi sarebbero disposti a riconoscere?

Tutto ciò ci fa capire che esistono poteri ben più grandi e influenti del voto. Di un voto che può solo decidere quale coalizione debba governare, ma non come debba farlo.

Abbiamo omesso di dire che ci sono anche un'altra serie di mezzi per influenzare il popolo. Essi sono i mezzi di dissuasione collettiva e servono a evitare che il popolo compia determinate azioni che possano mettere in crisi il potere costituito. Ad esempio la polizia, l'esercito oppure le carceri o il diritto penale. In particolare, proteggono la proprietà e chi la possiede ed impediscono rivolte o rivoluzioni.

In un regime liberale il loro utilizzo viene limitato agli interventi indispensabili. Sono l'estrema ratio del sistema capitalistico, l'ultima spiaggia. Il loro utilizzo, su larga scala, cioè non contro semplici individui ma contro gruppi ampi e organizzati, presuppone che esista una crisi del capitalismo a uno stadio già molto avanzato e che quindi il popolo abbia acquisito coscienza, che non creda ai media e alla propaganda e che sia abbastanza organizzato per produrre rivolte. A questo stadio noi non siamo ancora arrivati. Forse in passato, c'è stato un periodo in cui si era molto vicini a questo, ma non oggi.

In realtà si fa leva molto di più sui mezzi di persuasione e di coercizione economica che su quelli di dissuasione. Si preferisce condizionare il popolo ideologicamente ed economicamente piuttosto che attraverso l'utilizzo della forza.

Ciò non toglie che esistano delle situazioni in cui questi mezzi vengono usati dai nostri stati, se non all'interno, all'esterno.

Qui arriviamo ad un nuovo capitolo che dimostra come i nostri stati “democratici” commettano crimini e siano responsabili di violenze contro intere popolazioni. Ma di questo ce ne occuperemo in un'altra occasione.

Ci basti qui sapere che la democrazia non esiste in quei paesi che finora abbiamo creduto avessero adottato questo sistema politico. L'elezione a suffragio universale non assicura la democrazia, perché essa implicherebbe il governo del popolo e non la semplice elezione di chi governa.

Inoltre esistono forti gruppi di potere che condizionano l'operato del governo e le opinioni e i comportamenti di chi lo elegge.

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La vera ed effettiva sovranità non appartiene né al popolo, come sta scritto nelle nostre costituzioni, né ai politici, come un'ampia e fuorviante pubblicistica di un certo giornalismo ci indurrebbe a credere, bensì a coloro che detengono il vero potere, non il voto né il seggio, ma il capitale, e che in sostanza sono in grado di controllare qualsiasi settore della vita pubblica (e privata).

Le nostre istituzioni, più che alla democrazia assomigliano a quelle della Roma di età repubblicana, dove il potere era appannaggio dell'aristocrazia e il popolo aveva la facoltà di esercitare una forma, tenue, di pressione attraverso istituzioni come il tribunato della plebe.

Non una democrazia, quindi, ma un'oligarchia “temperata”.

Fino ad alcuni decenni fa la facoltà che il popolo aveva di intervenire, in effetti, pur non essendo democratica, non era neanche puramente simbolica e il volere popolare contava effettivamente qualcosa.

Tuttavia negli ultimi anni si è avuta una deriva, come nell'Antica Roma, da un sistema repubblicano (dove l'aristocrazia dominava lo stesso ma il suo potere era in qualche misura contenuto) a un sistema propriamente imperiale, in cui le classi dominanti dispongono sempre più di un potere assoluto. Queste classi al potere, è bene ribadirlo, non sono i politici che ufficialmente esercitano le funzioni amministrative all'interno di istituzioni statali. Ma i detentori dei mezzi economici attraverso i quali condizionano l'azione politica.

Ma perché allora si fa tutto questo gran parlare di democrazia come se essa fosse uno stato di cose reali e non da conquistare?

Ciò è dovuto a un vecchio retaggio culturale e a precise condizioni storiche che cominciano dalla rivoluzione francese e arrivano fino ad oggi.

All'epoca della Francia rivoluzionaria era già una notevole innovazione l'avere introdotto la possibilità per il popolo di eleggere chi governa. In una situazione in cui la Francia era braccata dalle altre monarchie europee, essa aveva tutt'altri problemi, in primis la difesa del suolo nazionale e non poteva permettersi di far evolvere ulteriormente le proprie istituzioni col rischio di indebolirle ulteriormente.

In seguito con la crescita del potere della borghesia, quest'ultima vedeva nel nuovo sistema politico liberale, e non democratico, un mezzo efficace per consolidare la propria egemonia e quindi era interessata a conservarlo piuttosto che a migliorarlo o a superarlo.

Nel secolo Ventesimo, poi, anche il semplice diritto di voto per tutti non era affatto acquisito e numerosi partiti progressisti si attivarono per ottenere il suffragio universale. Una cosa del genere era vista, allora, e in effetti lo era, come un'innovazione storica, di portata straordinaria, e i suoi sostenitori ne cantarono le lodi, esagerando non poco, fino a rappresentarla come l'unico strumento portatore della vera democrazia.

Così, quando il suffragio universale arrivò, e quando anche i conservatori si convinsero ad adottarlo, tutti erano ormai convinti che si trattava della democrazia, e che i loro stati erano diventati a tutti gli effetti democratici.

Non ci furono critiche significative all'utilizzo di questa parola nemmeno in seguito. I partiti al governo mettevano in risalto il fatto che il popolo poteva scegliere “democraticamente” chi dovesse governare e che quindi loro erano pienamente legittimati a farlo. Gli oppositori, dal canto loro, quando volevano contestare qualcosa si appellavano allo “spirito” democratico così come veniva inteso allora, cioè come era rappresentato dai codici e dalle costituzioni. Un atto di un determinato governo poteva essere non democratico, ma non perché avveniva in un contesto non democratico, bensì solo perché quel governo non aveva rispettato le regole della cosiddetta democrazia in vigore.

Tutto il dibattito, tra sostenitori dei governi e dei gruppi dominanti e oppositori si esauriva all'interno delle istituzioni vigenti e questo perché le istituzioni vigenti erano democratiche, quindi non c'era nulla da migliorare se non il modo di usarle.

La situazione internazionale poi consolidò questo punto di vista. L'ascesa di regimi, nel corso di tutto il Novecento, palesemente tirannici, in particolare del fascismo e del nazismo, spinse i “democratici” a cimentarsi nel tentativo di mostrare la superiorità (indubitabile) dei loro sistemi su quelli di stampo fascista. Effettivamente la storia ha dato loro ragione, però, come i loro predecessori, esagerarono alcuni aspetti positivi e ne misero in ombra altri negativi. A cospetto del terribile regime nazista, le istituzioni liberali brillavano come un faro nella notte della civiltà e potevano, senza paura di smentita, fregiarsi dell'appellativo “democratiche”, sicure di non perderci nel confronto.

Dopo il conflitto mondiale, con l'inizio della Guerra Fredda, le potenze occidentali con la loro propaganda erano tutte tese a sostenere il diritto di scelta del popolo e dipingevano il proprio sistema come l'unico in cui fosse in vigore la democrazia, descrivendo invece i paesi del “socialismo reale” come delle tirannie brutali.

Anche qui i “democratici” avevano ragione solo in parte, i paesi del cosiddetto blocco socialista avevano anch'essi i loro vantaggi e i paesi occidentali non erano così democratici come si voleva far credere.

Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, in Occidente, si diffuse un'ondata di sommosse popolari, di mutamenti culturali e ci fu un'avanzata decisiva dei movimenti popolari che preoccupò non poco la classe al potere. Questo alimentò ulteriori illusioni circa la natura dei nostri sistemi. Se è permessa una tale forma di dissenso, se al popolo è permesso intervenire nelle questioni politiche in un modo che finora non aveva mai avuto, non è questa forse la prova che la democrazia esiste ed è perfettamente funzionante?

La caduta del Muro di Berlino e dell'Unione Sovietica, poi, doveva dimostrare al mondo l'effettiva superiorità del sistema di governo occidentale, l'unico che riconoscesse diritti politici al popolo, e l'unico ad essere sopravvissuto alle “dure repliche” della storia.

Oggi però non esiste una situazione internazionale che ci debba tenere avvinti a questa errata opinione. I governi occidentali, nel difendere le proprie guerre, hanno tentato di contrapporre oscuri regimi religiosi alla “democrazia” ancora una volta, operazione però di cui è facile mostrare la malafede e l'inganno, essendo quei regimi nient'altro che il risultato del modo di operare delle nostre “democrazie” su scala internazionale, le quali non hanno esitato ad armare tirannie anche peggiori di quelle contro cui si scagliano.

L'involuzione del sistema politico, dovuta alla crescente internazionalizzazione del capitale e al grande potere delle lobby di pressione, è palese a tutti. Gli elettori, il cosiddetto “sale della democrazia”, sono sfiduciati, non vanno più a votare come prima e quando lo fanno votano “il male minore” cioè chi non vorrebbero votare. I governi prendo decisioni sempre più impopolari, e persino antipopolari, per garantire il proprio servizio ai loro veri padroni che restano nascosti nell'ombra. Le guerre ne sono solo uno dei tanti, e tuttavia uno dei più tragici, esempi. Quasi sempre incontrano prima o poi lo scontento popolare dei paesi che le hanno provocate, per interessi tutt'altro che popolari, eppure non mancano di continuare testardamente a sostenerle.

Le crisi economiche internazionali sembrano dei disastri provocati da potenze occulte cui i governi non vogliono o non possono porre rimedio e in cui a farne le spesse è quello che le nostre costituzioni chiamano sovrano, il popolo.

Si è mai visto un sovrano tanto sfruttato, ingannato, affamato, disoccupato, sottopagato e incapace di liberarsi dei propri ministri incompetenti o corrotti? Un sovrano il cui volere si rivela sempre essere stato tradito dai propri funzionari, senza che questi mai ci rimettano la testa se non per far posto ad altri peggiori? Un sovrano, soprattutto, che non governa e la cui parola non conta nulla, un sovrano costantemente ricattato e ingannato da una cricca che siede sul suo trono e che egli non ha nemmeno mai visto?

Eppure ancora oggi si continua a credere o a fingere di credere che questo sovrano conti qualcosa. Si è capaci dei cavilli più sofisticati per mostrare quale sottigliezza giuridica sarebbe più appropriata a quella che si crede essere la democrazia. Se c'è qualcosa di palesemente non democratico ciò è attribuito a una mancanza degli uomini, mai delle istituzioni e del sistema che le perpetua, eppure questi ultimi sono sempre gli stessi, mentre gli uomini cambiano sempre.

Liberiamoci quindi una volta per tutte di questa retorica falsa e ipocrita e guardiamo in faccia alla realtà. Giungeremmo così a tre specie di conclusioni:

1. La democrazia non esiste e non è mai esistita.

2. “Democrazia diretta” è una tautologia e “democrazia indiretta” un ossimoro. La democrazia o è diretta o non è.

3. La democrazia non esiste ancora ma è possibile evolvere verso di essa se comprendiamo che il sistema ora in vigore è tutto meno che democratico.



Source: La Crepa nel muro: Democrazia?



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 Oggetto del messaggio: Re: La regola del consenso alla base del NWO
MessaggioInviato: 23/04/2016, 18:38 
1. La democrazia non esiste e non è mai esistita.

2. “Democrazia diretta” è una tautologia e “democrazia indiretta” un ossimoro. La democrazia o è diretta o non è.

3. La democrazia non esiste ancora ma è possibile evolvere verso di essa se comprendiamo che il sistema ora in vigore è tutto meno che democratico.


Sono d'accordo sui 3 punti che mi sono permesso di estrapolare. [:264]



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