LA DEMOCRAZIA DIRETTAVITAAlain de Benoist, giornalista, nato l'11 dicembre 1943 a Saint-Symphorien (Indre et Loire), ha studiato lettere e diritto. È stato redattore capo dell'Observateur Européen, della rivista Nouvelle École, di Midi-France, critico per "Valeurs actuels", "Spectacles du monde" e "Figaro-Magazine", direttore della rivista "Krisis". Ha diretto diverse collane presso le edizioni Copernic. Labyrinthe, Pardès, Grands Classics. È stato inoltre collaboratore di "France Culture".
OPERELe courage est leur patrie (1965); Les indo-Européens (1966); Rhodésie, terre des lions (1967); L'empirisme logique et la philosophie du Cercle de Vienne (1970); Avec ou sans Dieu (1971); Histoire de la Gestapo (1971); Morale et Politique de Nietzsche (1974); Vue de droite. Anthologie critique des idées contemporaines (1977, ha ottenuto il Grand Prix de l'Essai de l'Académie Française 1978); Les idées à l'endroit (1979); L'Europe païenne (1979); Guide pratique des prénoms (1980); Comment peut-on être païen? (1981); Fêter Noël (1982); Orientation pour des années décisives (1982); Tradition d'Europe (1983); La mort (1983); Démocratie: le problème (1985), L'eclipse du sacré (1986); Europe, Tiers monde, même combat (1986); Quelle religion pour l'Europe? (1991).
PENSIEROAlain de Benoist si è occupato di problemi filosofici, sociali, geo-politici, di storia delle idee politiche, ha analizzato le vicende della religiosità nel mondo contemporaneo, e ha dedicato particolare attenzione all'analisi del concetto di democrazia, mettendone in evidenza potenzialità e limiti.
Viviamo in regimi democratici fondati sulla rappresentanza di stampo liberale, anche se il modello della rappresentatività è ormai in crisi, come dimostrano l'elevato astensionismo e le difficoltà dei partiti tradizionali. Anche i fenomeni del regionalismo e dell'ecologismo rimandano alla problematicità dell'equazione tra rappresentanza e democrazia; a questo proposito Alain De Benoist rimanda alla riflessione di Hobbes e Locke sul rapporto tra delega contrattuale, potere e sovranità, così come alla proposta rousseauiana di una democrazia partecipativa (1HotwordStyle=BookDefault; ). Non esiste alcun sistema elettorale perfetto, ma il modello proporzionale sembra presentare molti inconvenienti, perché produce frammentazione politica e instabilità parlamentare, riducendo la capacità decisionale del parlamento. Il doppio scrutinio tedesco fa invece tesoro dei vantaggi del sistema maggioritario e di quello proporzionale.
De Benoist considera quindi le distorsioni del sistema maggioritario uguali e contrarie rispetto al proporzionale; occorre orientarsi, a suo parere, verso la ricreazione di spazi pubblici di socialità in vista di una cittadinanza attiva all'interno di una democrazia partecipativa. L'esigenza della democrazia diretta fu un tema del '68 francese, che però trascende le famiglie politiche della destra e della sinistra. Al di là delle etichette politiche è importante trovare modalità di partecipazione democratica mantenendo l'aspetto decisionale della vita politica ed evitando l'inconcludenza di una discussione perpetua.
La crescente indifferenza nei confronti della politica deriva dal ripiegamento nella sfera privata ed individuale, oltre che dalle delusioni della vita collettiva. Le società in fondo si somigliano sempre di più nonostante le diversità dei sistemi istituzionali, la stessa evoluzione sociale dipende sempre meno dalla vita politica istituzionale; si ha inoltre un'usura del modello di Stato-nazione, anche in seguito alla mondializzazione dell'economia e all'aumento della disoccupazione.
Nel panorama dell'atomizzazione sociale la televisione è un potente mezzo in antagonismo con l'esperienza vissuta, anche perché appiattisce i vari messaggi ed eventi rendendoci paradossalmente meno informati. Al confronto la lettura permette invece una dimensione più profonda di riflessione: la televisione inoltre ha ucciso il cinema nella sua dimensione sociale e rituale, sebbene probabilmente si avrà presto una reazione di saturazione, anche in seguito alla moltiplicazione delle reti.
Il pluralismo permette una maggiore diversità, anche se può presentare degli aspetti negativi. C'è per esempio, anche in seguito alla diversità etnica, una nuova presa di coscienza del regionalismo, ma la nuova coscienza pluralistica concerne ormai anche i sistemi di valori: l'eterogeneità aumenta, anche se parallelamente aumenta l'omogeneizzazione, dando luogo a fenomeni di 'eterogeneizzazione' patologici, come l'islamismo radicale che rifiuta la società occidentale.
Il fenomeno dell'immigrazione in Francia presenta due diversi modelli, quello dell'immigrazione maghrebina, destrutturata e disgregata anche dal punto di vista familiare, e quello dell'immigrazione asiatica, che ha prodotto una forte integrazione comunitaria. Per De Benoist il modello comunitario permette un'integrazione migliore rispetto alla prospettiva assimilazionista, che erode l'identità collettiva in nome dell'individualismo liberale. L'ideologia liberale mira a emancipare la sfera economica e a superare la struttura politica tradizionale, orientandosi verso un'antropologia individualistica.
L'esigenza razionalistica si esprime in particolare nell'idea di contratto, grazie al quale si intende massimizzare l'interesse. Perciò l'individualismo distrugge l'assetto politico della società, legittimando l'egoismo, affondando ogni etica e morale e cancellando il senso della solidarietà. L'ideologia liberale allo stato puro non potrebbe comunque funzionare, visto che le stesse società che incarnano il mito liberale, come gli Stati Uniti, in realtà vivono grazie alle loro componenti non liberali (il senso religioso, la cultura ecc.), e altrimenti si smascherano per le gravi ingiustizie sociali prodotte da un'ideologia distruttiva; occorre invece ricreare dei centri di vita pubblica attiva in cui sia possibile una maggiore partecipazione.
Per concludere, De Benoist auspica una democrazia di base, libertaria ed egualitaria, che mantenga elementi gerarchici aperti, pluralistici e non autoritari.
DOMANDA N. 1Vi è la tendenza, attualmente, a unificare due concetti che si presentano storicamente distinti: quello di rappresentanza e quello di democrazia. Lei considera legittima tale assimilazione?Credo che occorra partire dalla situazione presente. Nella maggior parte dei paesi occidentali, oggigiorno, viviamo in regimi democratici fondati sul sistema della rappresentazione. La democrazia rappresentativa che si richiama all'ideologia liberale è un sistema nel quale i rappresentanti sono autorizzati a trasformare la volontà popolare in atti di governo, sin dal momento in cui sono eletti; hanno un mandato rappresentativo. Poco a poco è invalsa così l'abitudine di pensare che la democrazia e la rappresentazione siano, in qualche modo, la stessa cosa.
Ora, oggi è evidente una crisi profonda della rappresentatività, che si manifesta attraverso tutta una serie di fattori, il più noto e il più sensibile dei quali è certamente l'enorme astensionismo, constatato nella maggior parte delle elezioni, e simultaneamente la diserzione dei grandi partiti istituzionali a profitto di movimenti, gruppi e piccoli partiti che sono più originali, più inediti in qualche modo, e che hanno come caratteristica principale - pensiamo ai movimenti regionalisti, ecologisti, federalisti - la difesa dei valori più che degli interessi. Da questo punto di vista il fenomeno della Lega Nord, in Italia, è piuttosto interessante. Essa presenta a mio avviso due aspetti positivi: il primo è relativo all'identità regionalista, il secondo al fatto che tale coscienza regionalistica venga posta in un'ottica federalista. L'assimilazione fra la rappresentazione e la democrazia mi sembra contestabile.
Guardiamo alla storia delle idee, considerando due grandi teorici della democrazia rappresentativa, Hobbes e Locke. In Hobbes il potere è delegato totalmente al sovrano, in maniera contrattuale, e la pratica che ne risulta non è affatto democratica. In Locke, al contrario, questa delega contrattuale del potere è accompagnata da un certo numero di garanzie, riguardanti in particolare i diritti, le libertà individuali, le libertà fondamentali, ecc. Purtuttavia, dal momento in cui il popolo ha delegato il suo potere al rappresentante, è il rappresentante che detiene il potere, e non è più il popolo.
La critica, ben nota, di Jean-Jacques Rousseau è, da questo punto di vista, di una logica stringente: se il potere è delegato dal popolo al sovrano, allora il potere appartiene al sovrano, non appartiene più al popolo. Per questa ragione Rousseau prevede un sistema più complesso, nel quale il sovrano, il principe, il governante è solo il commesso, in qualche modo, del popolo; il popolo non smette mai di esercitare il proprio potere, ma continua a governare attraverso di lui. Questa idea è la fonte di quella che possiamo chiamare democrazia partecipativa, un sistema nel quale, accanto alla rappresentazione - poiché è evidente che in una società complessa non si possono eliminare totalmente i fattori di rappresentatività - ci sia la maggiore partecipazione possibile, permanente, dell'insieme dei cittadini alla vita pubblica.
DOMANDA N. 2Il sistema proporzionale, la cui correzione in senso maggioritario è stata in Italia oggetto di un referendum di iniziativa popolare, presenta indubbiamente vantaggi e svantaggi. Ce li vuole illustrare?L'inconveniente principale del sistema proporzionale è che esso produce una frammentazione delle famiglie politiche rappresentate nelle assemblee, quindi una grandissima instabilità parlamentare, una enorme difficoltà a formare governi stabili al di là di coalizioni più o meno durevoli di interessi particolaristici. Un significato molto importante hanno in questo caso le piccole formazioni politiche, che svolgono un ruolo di cerniera - è il regno delle combinazioni, delle contrattazioni. Il risultato è che la volontà popolare si trova molto più tradita da tutte queste combinazioni che non negli altri sistemi. Il vantaggio dello scrutinio proporzionale, quale lo si mette di solito in rilievo, è che fornisce una fotografia molto più esatta delle diverse componenti dell'opinione.
Esso è paragonabile, a questo riguardo, ad una specie di sondaggio delle opinioni. Ma bisogna considerare che il Parlamento ha anche un ruolo legislativo e deve poter essere capace di prendere delle decisioni. Questo aspetto decisionale della vita politica - che è stato ben messo in luce da Carl Schmitt - è un elemento capitale. Se il prezzo da pagare per una rappresentazione la più completa possibile delle opinioni è l'incapacità di prendere una decisione, l'elettore, in fin dei conti, non può che rimanere profondamente deluso. Bisognerebbe quindi guardare a sistemi misti, vale a dire a sistemi maggioritari con una certa dose di proporzionale.
Così come in Italia, anche in Francia, prima delle elezioni del maggio 1993, ci si era posto il problema di trovare un sistema che permettesse una migliore forma di rappresentazione, a partire dalla constatazione che certe famiglie politiche ottenevano molti milioni di voti senza riuscire a eleggere un solo deputato in Parlamento. Siamo qui presi, in qualche modo, tra due eccessi: da una parte è assolutamente anormale che un partito che abbia tre, quattro, cinque milioni di suffragi non abbia alcun deputato, è una distorsione più che mai flagrante.
Dall'altra la proporzionale integrale conduce evidentemente ad un sistema di instabilità e di patteggiamenti che è una macchina per deludere l'elettore. In effetti, dal momento che nessuna famiglia è abbastanza importante per formare, da sola, il governo, essa può ovviamente costituire una équipe governativa solo se associa altri movimenti; ma allora, siccome questi altri movimenti non hanno il suo stesso programma, essa è costretta a negoziare con essi una specie di compromesso, e non potrà più applicare integralmente il suo programma. Il sistema proporzionale non è dunque in grado di garantire condizioni ottimali dal punto di vista della democrazia partecipativa o della democrazia diretta, o della democrazia organica - in qualunque modo la si definisca - si è anche parlato di "democrazia di base", che è in effetti il termine più interessante.
Cercando modalità di partecipazione democratica diverse da quelle della rappresentazione, occorre a mio avviso orientarsi piuttosto verso la creazione di spazi pubblici, di una cittadinanza attiva che permetta anche sui luoghi di lavoro, nelle strutture del vicinato per esempio, di partecipare alla vita collettiva. Sono inoltre convinto che la necessità della democrazia partecipativa si imponga tanto più oggi, che viviamo in una società molto complessa, contrassegnata da uno spirito individualista che trovo profondamente negativo. Esso infatti distrugge la socialità, vale a dire il legame sociale elementare che fa sì che la gente viva in comunità, dando alle persone la coscienza di condividere il loro destino collettivo con coloro che le circondano, qualsiasi sia l'appartenenza o provenienza di ciascuno. Era questo uno dei temi del movimento del Maggio del '68, ma oggi esso coinvolge ambienti molto più larghi e trascende completamente le famiglie politiche di sinistra e di destra.
DOMANDA N. 3Certo, a più di venticinque anni di distanza dal movimento studentesco francese del Maggio '68, appaiono lontani gli ideali di democrazia diretta, di partecipazione, che allora sembravano permeare così profondamente le coscienze dei giovani. Oggi sembra piuttosto prevalere un certo disinteresse per la politica, se non un aperto rifiuto. Come si spiega tale mutamento?Effettivamente nel movimento del Maggio '68 c'era un approccio un po' troppo ideale al problema. È evidente che non si può far partecipare in permanenza, per tutta la giornata, la gente alla vita pubblica. Ma l'altro punto decisivo è quello che riguarda l'aspetto decisionale della vita pubblica. Il grande rischio della democrazia diretta sarebbe quello di estendere uno dei difetti tipici del parlamentarismo liberale a tutti i livelli della società, e cioè la discussione per la discussione. Dire per esempio "bisogna che tutti si esprimano" è di per sé, ovviamente, una cosa buona; ma a che pro' se tutti si esprimono senza che risulti nulla da questa espressione?
Dunque, occorre trovare un equilibrio, ancora una volta, tra la discussione perpetua che impedisce la decisione, e la decisione che deve finalmente esser presa. Bisogna tuttavia tener presente che dal Maggio 68 in poi abbiamo visto accentuarsi un fenomeno essenziale delle società moderne, quello della desocializzazione, ossia il fatto che le persone diventano sempre più indifferenti, estranee le une alle altre. Questo fenomeno va di pari passo con quello del disinteresse nei confronti della politica. La gente è divenuta più estranea alla politica per due ragioni: prima di tutto perché le persone non si sentono più legate le une alle altre; la vita pubblica non le interessa più, esse si ripiegano completamente sulla loro vita privata, che è una vita essenzialmente individuale.
D'altro canto, esse sono state - bisogna proprio dirlo - estremamente deluse dalla pratica della maggior parte dei grandi partiti politici. In Francia la sinistra e la destra si sono succedute al potere, ma senza che si constatino modificazioni molto profonde nell'esistenza collettiva. Non si tratta solo di un problema di efficacia. Si tratta a mio parere di un problema molto, ma molto più complesso. Innanzi tutto le società attuali si assomigliano sempre di più, in ragione del loro livello di sviluppo. Si può affrontare il problema da due angolature diverse: da una parte la situazione, nei grandi paesi sviluppati di oggi, è più o meno la stessa, qualunque sia il loro sistema istituzionale.
Che si tratti di democrazia, di repubblica, di monarchia costituzionale, vedete in Europa - in Italia, in Spagna, in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Francia o in Germania, tutti paesi dotati di sistemi istituzionali molto diversi - la struttura sociale non è fondamentalmente diversa. I problemi con cui ci troviamo confrontati sono presso a poco gli stessi. Questo vuol dire che l'evoluzione sociale dipende sempre meno dalla vita politica in senso istituzionale. E questo è già un punto importante. D'altro canto, c'è il fatto che molti problemi sfuggono all'autorità degli Stati-nazione così come essi sono costituiti oggi. Incontestabilmente assistiamo ad una usura del modello di Stato-nazione quale si è formato a partire dal Seicento, e che ha conosciuto il suo apogeo nell'Ottocento.
Lo Stato-nazione oggi appare - per riprendere una formula spesso citata - troppo grande per risolvere i piccoli problemi, e allo stesso tempo troppo piccolo per risolvere i grandi problemi. Esso si trova a doversi confrontare, in particolare, con il fenomeno della mondializzazione dell'economia, in ragione del quale l'iniziativa dello Stato, e quindi la sua libertà nei confronti delle grandi tendenze economiche mondiali, continua a restringersi. Pensiamo al problema della disoccupazione, che ossessiona la gente più di ogni altro.
Abbiamo visto la disoccupazione aumentare sotto i governi di destra, sotto i governi di sinistra, ed essa continua ad aumentare. Si ha veramente l'impressione che tutti questi governi, alla fin fine, si succedano senza riuscire a padroneggiare il problema. E sappiamo bene che ciò non è legato semplicemente alla loro maggiore o minore efficacia: agire sulla disoccupazione, risolvere il problema dell'impiego, esige un inserimento nelle correnti economiche mondiali, di cui gli Stati-nazione hanno solo parzialmente il controllo.
DOMANDA N. 4Moltissime sono le accuse rivolte negli ultimi anni alla televisione. Lei crede che le si possa imputare, almeno in parte, anche il fenomeno della desocializzazione, la perdita del senso della comunità, il rinchiudersi di ogni individuo nel suo privato?Non possiamo dire che la televisione è colpevole, e che bisognerebbe punirla! La televisione è un fenomeno che esiste, ma certamente essa, per sua natura, è in antagonismo con un gran numero di cose. Innanzitutto, con l'esperienza vissuta: ci capita sempre più spesso di vedere alla televisione, attraverso la mediazione dello schermo, cose che non abbiamo mai visto realmente, ma con le quali intrecciamo una specie di legame di familiarità.
In tal modo, se per avventura veniamo a contatto in seguito con situazioni, paesaggi o paesi che abbiamo visto per televisione, non ne avremo più la stessa percezione di novità; se volete, le cose si saranno un po' attenuate. D'altro canto - secondo gli studi che sono stati fatti sul tema - la televisione tende a non gerarchizzare l'informazione, a neutralizzare l'informazione, a rendere tutti i messaggi equivalenti; essa priva di forza e di determinatezza gli avvenimenti a cui assistiamo attraverso il piccolo schermo. Tutto viene annegato in un oceano di immagini che straripa tra due spot pubblicitari. Alla fine siamo al corrente di tutto e allo stesso tempo non siamo informati di nulla. Ciò segna anche la differenza della televisione rispetto ad altri organi di informazione. La lettura di un quotidiano ci dà un'impressione meno fugace. L'occhio, in un giornale, in un libro, può tornare indietro, può riprendere una dimensione di profondità che la televisione, evidentemente, impedisce totalmente. Si prenda un esempio semplice: la guerra nell'ex-Jugoslavia. Da vari anni la televisione ha trasmesso informazioni su questa guerra, ogni giorno, più volte al giorno. Ma chi può dire, foss'anche una persona su diecimila o su centomila, chi può veramente spiegare a che punto è, oggi, questo conflitto? Quali sono gli obiettivi della guerra? Qual è la situazione reale delle forze in campo?
Assistiamo attraverso la televisione a dei micro-eventi, a volte vediamo delle persone che muoiono, e poi molto, molto in fretta, tutto ciò scompare, è inghiottito in una specie di diluvio che fa sì che alla fin fine nulla più nuoti in superficie. Solo alcuni mesi dopo, tutto è già dimenticato. Inoltre la televisione è una sollecitazione a restare a casa propria anziché a uscire. La televisione, in una certa misura, ha ucciso il cinema, che è stata la grande arte popolare della prima parte del Novecento. È evidentissimo che vedere un film alla televisione e vedere questo stesso film al cinema sono due cose senza alcun rapporto tra loro; non è solo questione di dimensione delle immagini, è che andare a cinema significa spostarsi, significa avvicinare altre persone. Il fatto di andare al cinema implica una specie di rituale, del tutto diverso ovviamente dal guardare un film alla televisione.
Ritengo quindi che la televisione abbia svolto un ruolo piuttosto negativo in molti campi; allo stesso tempo è una innovazione tecnologica che esiste, e di cui, ovviamente, bisogna tener conto. Non sappiamo se ci sarà una reazione di stanchezza nei suoi confronti. Le prospettive offerteci dal numero di reti che saranno a nostra disposizione negli anni prossimi faranno probabilmente perdere alla televisione qualsiasi significato. Dunque, ad un certo punto, con le prospettive di espansione della televisione, ci troveremo nella stessa situazione di altri processi macro-sociali, nei quali la continua crescita finisce per privare questa espansione stessa di qualsiasi senso.
Voglio dire, avere un'automobile è certamente una cosa molto utile, avere due auto può talvolta essere anche necessario, ma averne tre, quattro, dieci, non ha più senso. Non ha senso avere venticinque auto. Dunque, arriva un momento in cui la curva arriva all'assenza di senso. Ed è proprio la perdita di senso a rappresentare il problema di fondo della situazione attuale, il venir meno di tutto ciò che dava senso alle strutture tradizionali della società.
DOMANDA N. 5La nostra epoca, la fine del XX secolo, appare in misura crescente caratterizzata nei grandi paesi occidentali, dalla coesistenza di diverse etnie, religioni, culture, ovvero dal fenomeno del cosiddetto pluralismo. D'altra parte, pensatori come Marcuse, con il suo uomo a una dimensione, o Pasolini, in Italia, hanno piuttosto sottolineato il problema inverso, quello di una sorta di standardizzazione della nostra società. Come spiegare questi due fenomeni antitetici?Il pluralismo è un fenomeno irreversibile per la nostra società. C'è un pluralismo etnico che è la conseguenza dell'immigrazione, cè una nuova presa di coscienza dei regionalismi. C'è la pluralità dei sistemi di valore: la gente in altri tempi aveva grosso modo lo stesso sistema di valori, ma divergeva sulle opinioni.
Oggi la divergenza di opinioni è raddoppiata da una divergenza sugli stessi sistemi di valori, cosa che, ovviamente, è molto più difficile da gestire. Ci sono in più dei paesi che hanno una enorme diversità etno-culturale, penso agli Stati Uniti, per esempio. Tuttavia, mentre aumenta l'eterogeneità, anche l'omogeneità aumenta. Sul piano umano la composizione delle società è sempre più eterogenea, questo è evidentissimo. Ma allo stesso tempo ha luogo un'omogeneizzazione che impegna soprattutto il canale dell'economia e della tecnologia. Voglio dire che abbiamo dei modi di vita, dei modi di consumare, sempre più omogenei. In questo senso, quello che dicevano Pasolini o anche Marcuse era più che mai esatto. Questa omogeneizzazione è a mio avviso qualcosa di negativo, e comporta fenomeni di eterogeneizzazione anche patologici. Penso, per esempio, a certe forme di islamismo radicale.
Oggi l'islamismo si espande in forma religiosa, ma per ragioni che, alla base, non sono religiose: esso rappresenta una specie di rifiuto della civiltà occidentale, considerata essenzialmente materialista, economicista, individualista che tende a corrompere, a erodere e a disfare tutte le differenze culturali. È questo un riflesso positivo dell'ispirazione islamica, la quale però può condurre a forme esacerbate che diventano, ovviamente, del tutto patologiche. Allora anche qui si pone un dilemma. Siamo forse costretti a scegliere tra la robotizzazione, omogeneizzazione della società dei consumi, e forme di differenzialismo che possono diventare aberranti? Prendiamo il problema dell'immigrazione. Benché le cifre divergano ci sono due tipi di immigrazione molto diversi: l'immigrazione magrebina, che è la più importante e l'immigrazione asiatica, che è meno numerosa ma che non è trascurabile.
L'immigrazione magrebina è un'immigrazione totalmente destrutturata sul piano delle famiglie, c'è qui una frattura tra le generazioni. Tale destrutturazione comunitaria è direttamente legata ai problemi di inserimento scolastico, di delinquenza, di criminalità. L'immigrazione asiatica invece - sia essa cinese, vietnamita, ecc.- è un'immigrazione che ha trasportato completamente in Francia il suo modello di integrazione comunitaria, familiare, religiosa, culturale. I bambini che crescono in questa comunità di immigrazione hanno un'ottima integrazione scolastica, c'è molta poca delinquenza, ecc. Dunque, penso che il modello comunitario non sia una specie di apartheid generalizzato, o di compartimento stagno, ma un asse, una struttura di integrazione molto migliore dell'assimilazionismo o del sogno totalitario della società totalmente omogenea.
DOMANDA N. 6Quali sono i fondamenti politici e antropologici dell'ideologia liberale?Il liberalismo è una ideologia che sul piano sociale punta ad emancipare la sfera economica dal mondo politico, in ragione dei suoi presupposti individualistici. Essa è infatti costruita attorno a un'antropologia per la quale l'individuo separato dalla collettività è la cellula fondamentale della società. Il razionalismo di tale ideologia si disegna nella figura - ovviamente fittizia - del contratto. In Locke, come in tutte le teorie liberali del contratto, l'uomo non è sempre vissuto in società, ma vi è entrato a un certo punto, abbandonando l'isolamento naturale. Perché gli uomini hanno deciso di associarsi? Perché volevano massimizzare il loro interesse, e volevano farlo razionalmente.
È qui il fondamento dell'ideologia e dell'antropologia liberale. Esse rappresentano l'uomo, in quanto tale, e non in quanto cittadino, come titolare di diritti imprescrittibili, che entra in società e si associa con altri individui unicamente per massimizzare il proprio vantaggio, per perseguire razionalmente il suo massimo interesse. Ora, siccome un interesse può essere razionalmente definito solo in quanto può venir quantificato, esso è necessariamente un interesse materiale. Entriamo allora nella rappresentazione corrente della società liberale, una società atomizzata, dominata dall'economia, caratterizzata dal perseguimento concorrenziale del massimo interesse, che rigetta gli esclusi.
Questo modello individualista mi appare assolutamente dannoso, esso distrugge tutto: distrugge il politico, distrugge la società, legittima dal punto di vista etico i comportamenti più egoistici, provocando la perdita di ogni senso di solidarietà nei confronti degli altri, di tutto ciò che può legare l'individuo al bene comune. A tutto ciò va aggiunto che l'ideologia liberale allo stato puro non funziona meglio dell'ideologia marxista allo stato puro. Se una società vivesse secondo i princìpi dell'ideologia liberale, integralmente concepita e applicata, molto semplicemente, essa non potrebbe sopravvivere.
Paradossalmente, le società liberali vivono solo a causa, o grazie a ciò che c'è di non liberale, di ciò che resta di non liberale in esse: la solidarietà, i legami religiosi, il sacro, la cultura, e precisamente tutto quel che eccede il solo individuo ma che permette all'individuo di esistere. Ora, queste compensazioni sono più o meno forti a seconda dei paesi: esse esistono certo negli Stati Uniti, esistono certamente in misura maggiore in un paese come la Germania.
Ma guardate negli Stati Uniti lo straordinario numero di esclusi, guardate la mancanza di copertura sociale, guardate il modo in cui la scuola di alto livello è riservata agli individui più ricchi. C'è una tale montagna di ingiustizie sociali negli Stati Uniti: la molla essenziale è sempre la ricerca del denaro, la massimizzazione dell'interesse materiale dell'individuo, alla base del sogno americano. Sono perciò convinto che l'ideologia liberale sia essenzialmente distruttiva.
Dunque, per tornare al punto di partenza della nostra conversazione, credo alla necessità di ricreare dei centri di vita attiva, dei centri di vita cittadina, degli spazi pubblici a livello dei luoghi di lavoro, a livello delle comunità, a livello delle regioni, a livello dei gruppi culturali o etnici. Credo alla necessità di uscire dal dilemma tra istituzioni sorpassate e ripiegamento sulla vita individuale, per creare forme di partecipazione il più possibile permanenti e aperte.
http://www.donatoromano.it/interviste/46.htm