5 giugno 2019
Nel mondo ci sono poche aree contese come il Mar Mediterraneo. Il bacino che collega l’Europa con Africa e Asia sta diventando sempre di più uno snodo fondamentale in cui si giocano non solo i destini del Vecchio continente, ma anche quelli delle grandi potenze: Stati Uniti, Russia e Cina. Per capire come questo scenario sia complesso basta osservare la cartina delle basi militari sparse da Nord a Sud e da Est a Ovest, con particolare attenzione ad alcuni settori molto delicati, come il Canale di Sicilia e il Mediterraneo orientale.
Le basi Usa nei colli di bottiglia mediterranei
In questa fase, frutto soprattutto dell’eredità della Guerra fredda, Washington conserva una posizione dominante nel quadrante. La marina americana fa leva su tre elementi chiave, complementari e interdipendenti. Il primo riguarda la presenza stabile con le basi militari. Attualmente i presidi americani nel bacino sono tre. Andando da Ovest verso Est il primo è il porto di Rota, in Spagna, un punto fondamentale per l’accesso al Grande Mare. Si tratta di una presenza fissa dal 1953, che dal 2015 ospita in pianta stabile quattro cacciatorpedinieri, la Uss Ross, la Uss Carney, la Uss Porter e la Uss Donald Cook che fanno parte del sistema di difesa missilistico Aegis, integrato con i radar installati in Polonia, Romania e Turchia. La seconda base è a Napoli, dove ha sede la VI flotta. La terza ha invece sede nella baia di Souda, nell’isola greca di Creta, uno snodo che sta acquisendo un’importanza strategica per le missioni nei settori orientali.
La ridefinizione dell’Alleanza atlantica
L’altro elemento chiave della strategia americana fa leva sulla Nato e sull’alleanza con i principali attori nel settore settentrionale del bacino: Regno Unito, che ha una presenza fissa a Gibilterra e a Cipro, ma anche Francia, Italia, Spagna, Grecia e Turchia. In anni recenti, soprattutto con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, quest’ultimo punto è diventato sempre meno scontato. Il tycoon, seguendo almeno in parte i timidi tentativi dell’amministrazione Obama, sta insistendo per una maggiore responsabilizzazione degli alleati europei e sull’aumento delle spese militari, con l’obiettivo di portare al 2% del Pil i fondi spesi per la Difesa. Non è un caso infatti che solo alcuni di questi alleati abbia seguito “l’ordine” di The Donald. Secondo i dati Nato nel 2017 solo un pugno di Paesi aveva superato lo scoglio del 2%, la Grecia (2,4%) il Regno Unito (2,1%), l’Estonia (2,1%) e la Polonia (2%). I colpi del presidente americano alla stagione del multilateralismo hanno avuto come conseguenza una messa in discussione dell’Alleanza atlantica, in favore delle azioni dei singoli Stati. Questo ci porta a prendere in esame l’altra modalità con cui la marina Usa presidia il Mare nostrum: la capacità degli Stati Uniti di proiettare il proprio potere nei tre oceani. Fin dalla seconda guerra mondiale Washington ha lavorato attivamente per garantire alle proprie navi la capacità di agire negli scenari più complessi in ogni angolo del mondo, come ad esempio l’apertura dei principali colli di bottiglia.
La capacità della marina americana
A dimostrazione di come gli americani siano in grado di proiettare la loro sfera di influenza nel Mediterraneo basta guardare a quanto successo tra aprile e maggio di quest’anno. Mentre la crisi libica tornava a riesplodere sotto i colpi della nuova offensiva di Khalifa Haftar contro il governo di Tripoli, il Pentagono inviava nell’area due portaerei con i rispettivi gruppi di attacco, la Uss Abraham Lincoln e la Uss John C. Stennis, un dispiegamento che non si vedeva dal 2016. Il 23 aprile i due gruppi, composti da dieci navi, 130 aerei e oltre nove mila uomini, hanno iniziato una serie di esercitazioni con alcuni partner europei, come ad esempio la Spagna. Chiaramente non si è trattato di operazioni improvvisate, i viaggi delle grandi portaerei a stelle e strisce sono programmati da tempo e infatti dopo la tappa mediterranea l’Abraham Lincoln ha fatto rotta per un altro luogo sensibile, quello stretto di Hormuz dove si stanno concentrando le tensioni tra Washington e Teheran. Ma come spesso accada ogni mossa di un’esercito globale come quello americano è pensata nei dettagli, come dimostrano le parole di John Huntsman, ambasciatore americano in Russia, che ha definito l’incontro tra le due portaerei come “100 mila tonnellate di diplomazia internazionale“. Quello americano infatti è stato un chiaro messaggio a Mosca. “La diplomazia unita alla forte difesa fornita da queste navi”, ha detto ancora Huntsman, “dimostra alla Russia che se veramente cerca relazioni migliori con gli Stati Uniti deve cessare le sue attività destabilizzanti nel mondo”. Negli ultimi anni il Mediterraneo infatti ha visto crescere nuovamente la sfera di influenza della Russia.
Il ritorno della Russia nello scenario europeo
L’inerzia all’interno del grande bacino ha subito una sferzata nel 2014, con la guerra in Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Russia. La penisola ha permesso a Mosca di conquistare uno snodo prezioso, il porto di Sebastopoli. L’altra grande svolta è arrivata nel 2015, l’anno dell’ingresso di Mosca nel complicato conflitto siriano. L’impegno del Cremlino al fianco di Bashar al Assad ha permesso di consolidare il possesso della base di Tartus, un insediamento russo fin dagli anni ’70, che nel 2017 è stato esteso per altri 49 anni con un accordo di sovranità esclusivo che permetterà lavori di rinforzo ed estensione che rendano possibile l’attracco di navi a propulsione nucleare. L’allargamento della sfera di influenza di Mosca nel Mediterraneo orientale è stata poi rimarcata con una massiccia esercitazione nel settembre del 2018 nelle acque del quadrante siriano con 26 navi coinvolte, tra le quali due sommergibili e 34 velivoli. Ma i movimenti non sono finiti. A marzo 2019 il sito di analisi Jane’s 360 ha rilevato nuovi spostamenti intorno allo stretto del Bosforo con un trasferimento di mezzi, in particolare sommergibili, dal Mar Nero al Mediterraneo. Non solo. Il 12 marzo una fregata della classe Admiral Gorshkov ha attraversato lo stretto di Gibilterra con il proprio gruppo di supporto diretta con ogni probabilità in Siria. È difficile però ricostruire nella sua interezza il disegno di Mosca. I dati raccolti dai transponder hanno indicato che due navi che accompagnavano la fregata, il rimorchiatore Nikolay Chiker e la nave da rifornimento Elbrus, hanno transitato per il canale di Suez verso il Mar Rosso, il 20 marzo. Quello che è certo è che la partita rimane apertissima, anche grazie alle batterie antimissile S-400 installate a Tartus e nella base aerea di Khmeimim, nei pressi della città di Latakia.
Le mire cinesi e il cavallo di Troia della Nuova via della seta
Il terzo attore che incombe nello scacchiere del Mediterraneo è la Cina. A partire dal 2013 Pechino ha iniziato a ridisegnare la sua presenza globale con il grande progetto della Belt and Road initiative, un mastodontico piano infrastrutturale che ha mostrato al mondo il sogno egemonico della Repubblica popolare. Tappa fondamentale di questa rete di trasporti globali è il Mediterraneo. Come ampiamente spiegato proprio qui su InsideOver, la Cina ha iniziato una lenta conquista dei porti europei, con particolari investimenti nel bacino del Mediterraneo. Port Said, Haifa, Istanbul, Pireo, Genova, sono solo alcuni degli snodi in cui i grandi conglomerati cinesi hanno investito soldi e influenza. Influenza che dal Canale di Suez si irradia verso lo stretto di Gibilterra fino ai grandi porti de Nord Europa, in particolare Belgio e Paesi Bassi. Se è vero che per il momento la contrapposizione militare nel Mediterraneo resta quella tra Nato (con gli Usa in primo piano) e Russia, non è detto che presto si possano aggiungere anche navi militari della flotta cinese.
Verso la fine del ’900 l’ammiraglio americano Alfred Thayer Mahan teorizzava che avamposti militari nei porti di mezzo mondo potessero essere il presupposto per futuri scali commerciali. Pechino in anni recenti ha rovesciato questa prospettiva, ha cioè aperto scali commerciali con l’obiettivo di allargare poi la sua influenza militare e diplomatica. Un progetto di lungo periodo, certo, ma ben avviato, come hanno dimostrato le acquisizioni nel porto del Pireo in Grecia, a Gwadar in Pakistan, a Hambantota in Sri Lanka e soprattutto in Gibuti dove ha costruito la sua prima vera base militare fuori dai confini nazionali. Un disegno egemonico che ha già fatto scattare dei campanelli di allarme, come in Israele. Gli investimenti del Dragone nel terminal di Haifa sono finiti sotto la lente di ingrandimento non solo della sicurezza israeliana, per la presenza dei sommergibili Classe Dolphin, ma anche quella statunitense che usa il porto israeliano come scalo nell’area. La partita, ovviamente, è ancora tutta da giocare, ma il Mediterraneo si conferma scacchiere fondamentale del nuovo gioco tra grandi potenze.
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