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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 16/03/2018, 20:06 
Cita:
Infatti, la Sicilia ha 19.730 dipendenti (Lombardia: 3.129), di cui 2.245 sono dirigenti (Lombardia: 245) . Naturalmente i lettori siculi rispondono, molto offesi, che essendo la Sicilia a “statuto speciale”, ha dovuto assumere personale che svolge funzioni che nelle altre regioni spetta agli statali. Ebbene: infatti, sono seimila dipendenti circa, Togliamoli dal computo, e restano 13.818 dipendenti. Il quadruplo dei 3.129 della Regione Lombardia. Il quadruplo.

Ma è il sestuplo di quello che spende la Lombardia per il suo personale. Elargendo, ai suoi 2240 dirigenti (10 volte di più), stipendi che vanno, “ per un dirigente regionale di prima fascia, a capo si una struttura di massima dimensione, con anzianità massima” a oltre 190 mila euro. Stipendi a cui si aggiungono emolumenti vari, per cui sono superiori anche del 30 per cento a quelli vigenti nella Regione Lombardia.

Ora Bleffort dirà che è colpa dei fascisti [:297]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 16/03/2018, 21:34 
....... [:302]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 16/03/2018, 22:31 
sottovento ha scritto:
Cita:
Infatti, la Sicilia ha 19.730 dipendenti (Lombardia: 3.129), di cui 2.245 sono dirigenti (Lombardia: 245) . Naturalmente i lettori siculi rispondono, molto offesi, che essendo la Sicilia a “statuto speciale”, ha dovuto assumere personale che svolge funzioni che nelle altre regioni spetta agli statali. Ebbene: infatti, sono seimila dipendenti circa, Togliamoli dal computo, e restano 13.818 dipendenti. Il quadruplo dei 3.129 della Regione Lombardia. Il quadruplo.

Ma è il sestuplo di quello che spende la Lombardia per il suo personale. Elargendo, ai suoi 2240 dirigenti (10 volte di più), stipendi che vanno, “ per un dirigente regionale di prima fascia, a capo si una struttura di massima dimensione, con anzianità massima” a oltre 190 mila euro. Stipendi a cui si aggiungono emolumenti vari, per cui sono superiori anche del 30 per cento a quelli vigenti nella Regione Lombardia.

Ora Bleffort dirà che è colpa dei fascisti [:297]

CERRRTOOOO!, è sempre colpa del Fascismo!! [:294], che a 72 anni dalla caduta, si è trasformato in Americanismo,quelli che ci hanno governato fino a pochi anni fa avevano ancora nella loro mente il sogno Fascista, tanto che gli Italiani ( almeno quelli che contavano e che ci dovevano guidare) si sono formati con questa Ideologia,la quale ci ha portati a questo punto che puntualmente dobbiamo scannarci fra di noi per far godere il terzo incomodo che ora piace a voi. [:303]


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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 16/03/2018, 22:42 
ORSOGRIGIO ha scritto:
Volevo aspettare lunedì, ma non voglio inquinare la FESTA DEL PAPA'.

Quanto segue è chiaramente dedicato alla festa dei BABBI, noi..

Copio e incollo:

Sicilia provincia da abolire…


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MA QUESTA OLIGARCHIA DI PARASSITI CALLOSI CE LA TENIAMO...

 Maurizio Blondet  13 marzo 2018


Da Repubblica: “Ha finanziato la latitanza di Messina Denaro”. Arrestato Vito Nicastri, il “re” dell’eolico”. La cosa comica nell’articolo, è che questo Nicastri, “ “il signore del vento” come lo definì alcuni anni fa il Financial Times: il re degli impianti eolici da Roma in giù”, sia stato arrestato per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Concorso “esterno”? Ormai dovrebbe essere nozione automatica: chiunque eleva le pale eoliche, è un mafioso. La truffa delle “energie alternative” finanziate dallo Stato o dalle Regioni – e per cui ciascuno di noi contribuenti paga un sovrapprezzo della bolletta – è una greppia miliardaria fatta apposta a servizio della malavita organizzata. Questi “imprenditori dell’eolico” sono palazzinari nati già come mafiosi, ignoranti e incompetenti anche tecnicamente, non sanno far altro che tirar sù le ben note case abusive; alzare pale eoliche è un lavoro facile per questi figuri.ù

Ma quale concorso “esterno”. Interno, è.

Infatti, dall’ANSA:

“Arrestato Duccio Astaldi, presidente Condotte spa” . Assieme ad altri 5 nell’ambito dell’inchiesta del pm di Messina sulle tangenti per i lavori sulla Siracusa-Gela-

La “Condotte spa è l’ impresa italiana leader nel settore delle costruzioni”: i palazzinari mafiosi diventano “grandi imprenditori” e salgono la scala sociale – restando primitivi, rozzi e ignoranti nelle loro teste piccine – con cosa? Coi soldi pubblici, naturalmente. Infatti fra gli arrestati c’è “l’ex capo della segretaria tecnica dell’ex governatore siciliano Rosario Crocetta, Stefano Polizzotto”.


Polizzotto

Qui, la cosa comica è che l’arresto non sia stato esteso a “Rosario Crocetta, ex governatore della Regione Sicilia”. E’ infatti Crocetta che immediatamente arrivato alla poltrona nomina l’avvocato Polizzotto (mica ingegnere: avvocato, e dello Studio Pitruzzella, “già in auge durante la presidenza Cuffaro”), Capo della Segreteria Tecnica del Presidente della Regione siciliana, facente parte dell’Ufficio di Gabinetto del Presidente, posto alle dipendenze del Capo di Gabinetto e con le funzioni “di istruzione degli atti amministrativi di competenza del Presidente, nonché di predisposizione delle risposte agli atti parlamentati di controllo e di indirizzo”.



In quanto “componente di ufficio di diretta collaborazione con il Presidente, Polizzotto è equiparato (e retribuito) come i dirigenti di seconda fascia”, diciamo, 100 mila euro? E dovrebbe per legge, come “ tutti i dirigenti cui è affidata la direzione di una struttura”, dimettersi da qualsiasi incarico esterno non inerente le specifiche funzioni assegnate”.

Come mai Crocetta è libero?

Invece Polizzotto continua a fare l’avvocato (iscritto all’albo di Termini Imerese) e ad “esercitare le funzioni forensi sia giudiziali che stragiudiziali”. Al punto che assume l’incarico, datogli dal comune di Licata, di querelare due assessorati della stessa Regione Sicilia di cui è dirigente, chiedendo “nel marzo 2013, la liquidazione dell’’acconto sui previsti 30 mila euro”. Non basta: diventa consigliere d’amministrazione della SAS (Servizi Ausiliari Sicilia: il nome è già un programma per i palazzinari mafiosi), incarico “remunerato 30 mila euro l’anno”, benché “incompatibile con la carica” di dirigente “in diretta collaborazione col Presidente”.

Ma non basta. Polizzotto, mentre consiglia direttamente il Presidente, fa’ l’avvocato per la “Fondazione San Raffaele-Ospedale Giglio di Cefalù”, soggetto sottoposto a controllo e vigilanza da parte della Regione stessa; per l’Azienda Policlinico di Palermo (idem); per il Comune di Licata “con più incarichi nonostante la presenza di ben due avvocati interni”, il Comune di Trapani.

Ha difeso la Provincia di Caltanissetta davanti al Tar, da un ricorso presentato da un’associazione ambientalista – perdendo la causa. Ciò che non ha impedito la Provincia di Caltanissetta di liquidare al suo “avvocato” e diretto consigliori del Presidente la somma di 46 mila 899,66 euro”.


E poi dicono che le Provincie non hanno fondi. Quelle del Nord, magari; quelle sicule ne hanno eccome, per pagare gli avvocati-segretari tecnici del presidente.

Lasciamo perdere le altro commistioni incestuose per cui il “Segretario tecnico” ha guadagnato parcelle del genere esercitando attività incompatibili con la carica per cui era retribuito. Potete leggere il resto su

http://palermo.meridionews.it/articolo/ ... ppa-tutto/

Spiace solo che l’articolo, puntuale e puntuto, sia vecchio: risale al 2013, ma il Segretario Tecnico ha fatto quel che ha voluto fino ad oggi. Diciamo che non è il solo a godere delle immense ricchezze che i contribuenti versano alla Regione.

Infatti, la Sicilia ha 19.730 dipendenti (Lombardia: 3.129), di cui 2.245 sono dirigenti (Lombardia: 245) . Naturalmente i lettori siculi rispondono, molto offesi, che essendo la Sicilia a “statuto speciale”, ha dovuto assumere personale che svolge funzioni che nelle altre regioni spetta agli statali. Ebbene: infatti, sono seimila dipendenti circa, Togliamoli dal computo, e restano 13.818 dipendenti. Il quadruplo dei 3.129 della Regione Lombardia.

Il quadruplo.

Ma è il sestuplo di quello che spende la Lombardia per il suo personale. Elargendo, ai suoi 2240 dirigenti (10 volte di più), stipendi che vanno, “ per un dirigente regionale di prima fascia, a capo si una struttura di massima dimensione, con anzianità massima” a oltre 190 mila euro. Stipendi a cui si aggiungono emolumenti vari, per cui sono superiori anche del 30 per cento a quelli vigenti nella Regione Lombardia.

Ora, l’unità e identificazione profonda di questa dirigenza regionale con la mafia, la mafiosità come mentalità, l’edilizia abusiva e mafiosa che rovina paesaggi e spreca risorse (risorse che l Sicilia non ha, ma riceve dagli altri contribuenti) è dimostrata dagli altri arresti. Oltre al segretario tecnico Polizzotto, oltre al presidente di Condotte, “azienda leader nel settore costruzioni”, ecco a voi il presidente del consiglio di amministrazione della COSIGE Scarl Antonio D’Andrea. La COSIGE, “Società Consortile a responsabilità limitata”, di cosa volete che si occupi? Di cemento, asfalto, mattoni, scassi. Giusto nell’agosto scorso, a Modica, s’era costituito il benemerito e lodevole “ Comitato fornitori e subappaltatori del Cosige, il consorzio di imprese impegnato nella costruzione del tratto autostradale Rosolini–Modica della Siracusa-Gela. Il Comitato si è dato il compito di rappresentare e tutelare in tutte le sedi gli interessi delle aziende impegnate nei lavori di realizzazione dei lotti 6, 7 ed 8 dell’autostrada”. Guarda che disdetta, gli arresti sono proprio dovuti a mazzette pagate per quell’autostrada.

Sicilia, regione da abolire.

Ora, domando umilmente: cosa occorre alla polticia per capire che la Sicilia non ha pochi, bensì troppi soldi? Che la patologia principale del Sud è l’autonomia della Sicilia, autonomia che la classe dirigente usa per ammanicarsi con la malavita onde rubare insieme il denaro pubblico? Cosa ci vuole a porre all’ordine di giorno la necessità – assoluta moralmente, ed economicamente urgente – di togliere alla Sicilia quella autonomia? Di mettere anche sotto commissariamento (magari estero: ci vedrei bene degli amministratori tedeschi, se la UE servisse a qualcosa di utile) la Regione Sicilia, come anche la Regione Calabria e la Regione Campania divorate dalla stessa patologia delinquenziale?

E magari pensare a sopprimere semplicemente queste regioni, evidentemente incapaci, per cultura, di darsi una classe dirigente? Cosa ci vuole a capire se i poveri sono poverissimi al Sud, e per giunta ignoranti, senza istruzione, servili verso il potere, arretrati, è colpa delle sue classi dirigenti egoiste, odiosamente disumane e accaparratrici, che si arricchiscono sulla miseria dei loro concittadini?

A chi dovremmo dirlo? Voi lettori meridionali vi aspettate che invochi il Nord morale ed efficiente. Invece finisco con il magistrato della Corte Costituzionale, nato a Torino e nominato da Napolitano nel 2014: Nicolò Zanon. Il quale dava l’auto blu con l’autista alla moglie, che la usava per shopping, e anche per andare in vacanza al Forte. Il lato comico della cosa è che il giudice dice “sono sereno”, e spiega: siccome mi era stato concesso l’”uso esclusivo” del mezzo, non sapevo che non si potesse usare anche per la moglie.


Zanon, giudice costituzionale. Non sapeva del peculato.

Risposta di un maestro del diritto. Quanto alla moglie profittatrice del peculato d’uso, è Marilisa D’Amico: anche lei un luminare del giure italiota. E’ infatti docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano. Nonché membro della commissione di esperti per l’esame delle candidature per la nomina o designazione dei rappresentanti della Città metropolitana in organismi partecipati da parte del Consiglio metropolitano di Milano, Componente del comitato di indirizzo scientifico del Centro di Ricerca Coordinato “Garanzie difensive e processo penale in Europa”, istituito presso l’Università degli Studi di Milano (di cui ha promosso l’istituzione).

La grande giurista piddina

Una dozzina di altre cariche, fra cui, spassosa, quella di ” Reggente presso la sede di Milano della Banca d’Italia”. Si sappia infine che la Docente abita in via Serbelloni, ossia a San Babila dove hanno le magioni i miliardari – che di solito non hanno bisogno di un’auto di Stato per andare al Forte, avendone parecchie di private e con autista. Ma quella è la zona che cha votato PD e schifato la “rozza” ed “egoista, xenofoba” Lega. E infatti, come stupirsi che l’a-vvocata e docente e giurista D’Amico sia stata consigliera comunale a Milano i quota PD? E inoltre membro del Comitato scientifico di Gender? Paladina giuridica della lotta “contro le discriminazioni” di cui soffrono “le donne” e gli LGBT? Nonché altamente europeista?

Cosa ci vuole ancora a capire che il problema politico moralmente urgente e è questo: togliere il potere a quella categorie dei parassiti pubblici inadempienti, che anche al Nord usano le cose e i denari dello Stato come cosa loro, e “on sanno” nemmeno che è eticamente ripugnante, moralmente sorda e callosa, tanto sono incistati nelle loro abitudini oligarchiche? Quelli che i soldi pubblici li prendono, e li rubano a quelli che i soldi allo Stato li danno, per essere governati poi da questi oligarchi col callo morale sull’anima. Il primo problema italiano è questo.


E piddina.


(Dalla radio mi giunge la notizia che a Giugliano, un uomo di 45 anni ha abusato regolarmente delle due figlie, una sedicenne l’altra di pochi anni. Allora basta, rinuncio).

https://www.maurizioblondet.it/questa-o ... a-teniamo/

Concordo al 100%,salvo che lo Stato Italiano non può decidere di togliere l'Autonomia Siciliana, tocca a noi Siciliani l'eventuale decisione. [:290]
Fossi d'accordo anche su questa decisione SE: l'Autonomia vera si sarebbe attuata e poi fallita, ma è stata attuata male e verso poche cose per la mala ingerenza politica dello Stato Centrale e degli Americani. [:305]


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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 17/03/2018, 14:48 
[:306]


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Ma poretti! Volevano essere ricevuti dalla ... Raggi! [:302]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 17/03/2018, 14:57 
[8)]


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Prima parte della nostra inchiesta sugli italiani costretti a fuggire all’estero: la grande depressione 2008/2013, radice infetta della nuova emigrazione.

Roma, 17 mar – Dal 2009 il Pil italiano è crollato di una cifra superiore ai 300 miliardi di euro; e se l’econo-mia ritroverà un tasso di crescita media annua del 2,5%, tornerà ai suoi vecchi livelli solo nel 2040. Un’intera generazione di massa ridotta alla povertà. Una contrazione della ricchezza nazionale così prolungata nel tempo non si era mai verificata prima

Secondo una recente ricerca del Centro Studi Confindustria “Le condizioni dell’industria mani-fatturiera italiana a metà del 2013 appaiono fortemente critiche a causa delle conseguenze delle due forti recessioni che si sono susseguite in rapida successione. La lunghezza e la profondità della caduta dei livelli produttivi mettono a repentaglio la sopravvivenza di migliaia di imprese e di interi comparti produttivi.

Le due recessioni che hanno colpito l’economia e l’industria italiane sono diverse per intensità, lunghezza e natura. La prima nel 2008-2009 è durata sette trimestri, sebbene non consecutivi, ha comportato una caduta del PIL del 7,2% e della produzione industriale del 26,6% ed è stata guidata soprattutto dalle esportazioni (-21,7%), piuttosto che dalla domanda interna (-3,8%). La seconda è ancora in corso ed è stata finora lunga otto trimestri (record nel dopoguerra), ha comportato una riduzione del PIL del 4,1% fino al primo quarto 2013 ed è stata determinata dal crollo della domanda interna (-11,7% fino all’ultimo trimestre 2012), mentre l’export è salito del 5,1%.
La crisi ha già intaccato la base produttiva dell’industria e il CSC valuta questa erosione sia nel numero di imprese che hanno cessato l’attività, ripartite tra i diversi settori e tra le diverse regioni, sia attraverso la stima del potenziale manifatturiero, dato dal rapporto tra il livello della produzione e quello della capacità produttiva impiegata. Rispetto a prima della crisi il po-tenziale si è ridotto di oltre il 15%.
In Italia la maggior parte dei settori ha visto una diminuzione del potenziale pari o superiore a un quinto (con una punta del 41,2% negli autoveicoli e rimorchi).
Perciò la riduzione dei prestiti bancari, che dal 2011 è stata particolarmente acuta nel mani-fatturiero sia in valore assoluto sia in percentuale, minaccia la prosecuzione della normale ope-ratività in una quota sempre più ampia di imprese.”

Nel 2007 le imprese manufatturiere erano 390.486: Dal 2009 al 2012 hanno cessato di esistere 54.474 imprese manufatturiere (dati Unioncamere) , di cui ad esempio oltre 3.000 nel settore dei mobili, 400 del settore dei prodotti alimentari, 4.900 di abbigliamento, oltre 1.900 di computer e prodotti per ufficio, 9.000 di prodotti di metallo. Con riferimento al solo settore manifatturiero, nel corso delle due recenti recessioni si è avuta una profonda riduzione del prodotto potenziale, il cui livello nel primo trimestre 2013 era equivalente a quello raggiunto agli inizi del 1990. Come detto, rispetto ai valori massimi pre-crisi(2008) esso è inferiore del 15,3%.

Ciò è il risultato di un calo dell’attività manifatturiera del 24,5% e di una riduzione del grado di utilizzo degli impianti di circa 8 punti (dal 76,1% al 68,0%) nel quinquennio considerato. Il ritorno sui livelli di prodotto potenziale pre-crisi, nell’ipotesi ottimistica che gli impianti produttivi lavorino di nuovo a pieno ritmo, richiederebbe un incremento della produzione manifatturiera di circa il 37%.

È realistico supporre che, data la profondità della caduta di attività, il conseguente restringimento della base imprenditoriale, la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e, soprattutto, il forte arretramento della domanda interna, una parte della riduzione del prodotto potenziale sia permanente.

In Italia il maggior calo di potenziale si è avuto nei settori di produzione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (-41,2% al primo trimestre 2013 rispetto al picco pre-crisi), legno (-36,9%), tessile (-30,3%) e minerali non metalliferi (-29,3%). La riduzione più contenuta è stata registrata negli alimentari (-4,4%) e nella farmaceutica (-6,7%).

Il drammatico scenario economico non riguarda solo il manifatturiero. Le aziende agricole presenti nel 2000 in Italia erano 2.396.274; nel 2010 , 1.620.884, ben il 32,4% in meno, con punte di meno 40% in toscana, meno 45% in Liguria, meno 48% nel Lazio.

Dal 2008 al 2013 nel settore dell’edilizia si sono persi 690 mila posti di lavoro e sono fallite oltre 11 mila imprese (fonte Ance). L’acquisto di nuove abitazioni, nello stesso periodo, ha su-bito un crollo di 74 miliardi di euro.

Oltre ad un’imposizione fiscale altissima – per pagare le tasse un imprenditore italiano deve lavorare 269 giorni, un austriaco 170, uno svizzero solo 63 – un altro freno alla rinascita industriale viene da una burocrazia inadeguata ai tempi moderni: per avviare un’impresa in Italia servono 78 adempimenti e 40 giorni. Secondo la Cgia di Mestre il costo della burocrazia a carico delle imprese è pari a 31 miliardi di euro all’anno. I tanti vincoli derivanti dai trattati europei e dalle varie Basilea insieme ai mancati pagamenti delle pubbliche amministrazioni, stanno spazzando via l’offerta delle piccole e medie imprese italiane ed interi distretti indu-striali dallo scenario competitivo internazionale.

E dunque dopo la progressiva fine della grande impresa italiana tramite operazioni di smem-bramento e cessione del mondo Iri, la crisi si è violentemente abbattuta sulle piccole e medie imprese italiane e sul sistema del distretto industriale. Si ricorda che solo alla fine degli anni 80 si contavano nel centro nord ben 60 distretti industriali principali, dell’ingegneria o dell’elettronica, dell’abbigliamento e delle calzature, delle piastrelle e delle macchine utensili. Questi distretti davano vita ad un modello denominato del terzo capitalismo e venivano elogiati come punto più alto dell’esperienza industriale italiana.

A questo quadro, con tinte fortemente scure, si deve aggiungere la progressiva perdita di fiducia dei consumatori e degli imprenditori, con conseguente diminuzione della propensione a consumare e ad investire, che a sua volta ha innescato un circuito vizioso ancora più declinante, favorito da una incredibile ed improvvida stretta creditizia. I governi tecnici e politici, che conoscono molto bene i principi dell’economia, hanno incredibilmente applicato in una fase recessiva misure pro cicliche e quindi restrittive, della domanda e dell’offerta, senza però ridurre la spesa pubblica primaria né, ancor più grave, individuare meccanismi di miglioramento qualitativo della pubblica amministrazione.

Di conseguenza: più pressione fiscale, compreso lo straordinario e dannosissimo aumento dell’Iva, taglio degli incentivi, anche sulle energie rinnovabili, guerra scenografica al consumo non solo di lusso, spremitura fiscale delle partite Iva, costruzione di strumenti di controllo, il redditometro, da una parte utili a stanare parte dell’evasione ma dall’altra inibenti la crescita dei consumi. E senza crescita degli investimenti privati e della domanda, il rapporto Pil/debito non può che peggiorare. In più, senza alcuna direzione sul sistema creditizio, che, pur ricevendo liquidità dalla Banca Centrale Europea, si è ben guardato dall’immetterla nel sistema delle famiglie e delle imprese, preferendo comprare titoli di Stato e quindi finanziando la spesa ed il debito pubblico anziché i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese, oppure continuando ad investire nel più rischioso ma più redditizio mercato finanziario internazionale.

A tal proposito si legge nel recente Il colpo di Stato di banche e governi di Luciano Gallino: “La pratica di concedere fiumi di liquidità alla banche europee senza richiedere alcun impegno circa gli impieghi che ne avrebbero fatto a favore dell’economia reale è proseguita da parte della Bce anche negli anni successivi. Ne sono prova gli oltre 1000 miliardi di euro prestati a esse tra fine 2011 e inizio 2012. Le sue azioni hanno manifestamente privilegiato gli interessi del sistema finanziario rispetto a quelli dell’economia reale. Contribuendo in tal modo ad accrescere il nu-mero di disoccupati della Ue”.

Le categorie produttive italiane, e quindi le piccole e le medie imprese, sono a rischio per una sfrenata concorrenza internazionale, senza alcuna protezione istituzionale, ma al contrario vessati di tasse che incentivano le dismissioni più che gli investimenti.

È in moto un cambiamento radicale del nostro sistema sociale: cambiamento che in modo sub-dolo e permanente ha depresso lo spirito del fare, generando un sistema di paura diffusa, di passività e di rassegnazione e quindi limitando fortemente la libertà di azione, spezzata alla radice dal senso d’impotenza.

Un attacco competitivo che forse inizia nei primi anni 90 e che è certamente riuscito a smantellare le partecipazioni statali – l’IRI e la Stet sono un lontano ricordo – è da diversi anni impegnato ad acquisire gran parte del nostro made in Italy, ora in mani estere, dalla moda all’alimentare, e sta infine attaccando la classe artigiana, sommergendola di tasse, di debiti e negandogli i crediti.

Solo dal 2008 al 2012 sono stati registrati 437 passaggi di proprietà dall’Italia all’estero: i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per ottenere i marchi italiani.

Nell’alimentare la multinazionale anglo-olandese Unilever ha acquistato la Algida, la Sorbet-teria Ranieri (chiusa da dieci anni), il Riso Flora, la Bertolli e la Santa Rosa, che però nel 2011 è tornata italiana grazie all’acquisto da parte della Valsoia. Molti anche gli acquisti della Kraft (Invernizzi, Negroni, Simmenthal, Splendid, Saiwa) e della Nestlè (Buitoni, Perugina, Sasso, Gelati Motta, e Alemagna, che però nel 2009 torna italiana con la Bauli). Tra gli elettrodomestici spicca la Zanussi, acquistata nel 1984 dalla svedese Electrolux. Per i mezzi di locomozione ci sono le biciclette Bianchi (amate da grandi campioni del passato come Gimondi e Coppi), adesso della svedese CycleuropeA.B., le biciclette Atala, adesso per il 50% della turca Bianchi Bisiklet, le moto Ducati e le auto Lamborghini, entrambe di aziende del Gruppo Volkswagen. Per la moda sono passate ad aziende straniere Fiorucci, Mila Schon, Conbipel, Sergio Tacchini. Il Gruppo Kering ha acquistato marchi di grande peso, da Gucci a Bottega Veneta a Brioni e Pomellato. Per l’arredamento sono finite in mani estere la Pozzi-Ginori, la Ceramica Dolomite, le Ceramiche Senesi, il Gruppo Marrazzi, leader internazionale nel settore delle piastrelle di ceramiche.

Il risultato dell’assenza di una politica industriale è di una contemporanea attivazione di una politica dell’austerità è che molte imprese hanno chiuso e molte sono passate a proprietà estere, e quindi il patrimonio economico è diminuito, e il ceto medio, vera e propria locomotiva dello sviluppo industriale italiano, dal quale è certamente nato il fenomeno del made in Italy nel mondo, è sempre più povero e timoroso: quando le imprese, per diversi motivi, chiudono, il lavoro semplicemente finisce.

Siamo insomma passati dall’essere la quinta potenza economica mondiale nel 1992 ad essere un Paese dove, secondo l’Istat, il 55% delle famiglie vive in uno stato di deprivazione relativa, ovvero non arriva a fine mese.

L’Italia, con il 48,3% di forza lavoro (occupati o in cerca di occupazione) sul totale della popo-lazione compresa tra i 15 ed i 65 anni, è uno dei Paesi con il più basso tasso di partecipazione al lavoro (esso è passato dal 48,6% nel 2009 al 48,3% nel 2010 – ultimo dato disponibile per un confronto internazionale – dati Ilo).

Il rischio che si creino maggiori disuguaglianza economiche e sociali è elevato. Una grossa fetta della popolazione ha ormai rinunciato alla ricerca di un impiego lavorativo regolare.

Questo, insieme all’elevato Debito pubblico, che lo posiziona al terzultimo posto tra i 43 Paesi Avanzati, rende l’Italia uno dei Paesi meno favorevoli alla stabilità economica delle giovani e future generazioni.

Nel 2012, il 29,9% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell’ambito della strategia Europa 2020. L’indicatore deriva dalla combinazione del rischio di povertà (calcolato sui redditi 2011), della severa depriva-zione materiale e della bassa intensità di lavoro. L’indicatore adottato da Europa 2020 viene definito dalla quota di popolazione che sperimenta almeno una delle suddette condizioni.

L’aumento della severa deprivazione, rispetto al 2011, è determinato dalla più elevata quota di individui in famiglie che non possono permettersi durante l’anno una settimana di ferie lontano da casa (dal 46,7% al 50,8%), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente la propria abitazione (dal 18,0% al 21,2%), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 38,6% al 42,5%) o che, se volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 12,4% al 16,8%).Quasi la metà (il 48%) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà ed esclusione ed è in tale ripartizione che l’aumento della severa deprivazione risulta più marcato: +5,5 punti (dal 19,7% al 25,2%), contro +2 punti del Nord (dal 6,3% all’8,3%) e +2,6 punti del Centro (dal 7,4% al 10,1%).Il rischio di povertà o esclusione sociale è più alto per le famiglie numerose (39,5%) o monoreddito (48,3%); aumenti significativi, tra il 2011 e il 2012, si registrano tra gli anziani soli (dal 34,8% al 38,0%), i monogenitori (dal 39,4% al 41,7%), le famiglie con tre o più figli (dal 39,8% al 48,3%), se in famiglia vi sono almeno tre minori.

Tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha dunque avuto un perdita secca di 10 punti percentuali del Pil, mentre nello stesso periodo il Pil della Cina cresceva del 74,4%, quello degli Stati Uniti dell’8,7%,il Giappone dello 0,4%, mentre nell’ Eurozona a fronte della crescita del 5,8% della Germania, la Francia è cresciuta del 2,8%. Tra i paesi Eurozona con segno negativo del Pil nello stesso periodo, accanto all’Italia vi sono la Spagna al – 3,8%, e la Grecia al -25,1%.

Negli ultimi due anni, 2015 e 2016, il Pil dell’Italia ha recuperato uno 0,8% annuo, per un to-tale in due anni del 1,6%. E nel 2017 è cresciuto dell’1,4%, comunque ben al di sotto della me-dia europea.

Al termine del 2017 il Pil italiano restava del 5,7% più basso di quello del 2007, ultimo anno prima della crisi mondiale e in cui abbiamo prodotto il massimo livello di ricchezza. Rispetto ad allora, risulta arretrato dell’8,2% anche il pil pro-capite. Ebbene, nello stesso periodo, il pil pro-capite spagnolo è tornato ai livelli pre-crisi, quello tedesco è salito del 9,3%, quello fran-cese dell’1,8% e nel Regno Unito del 3,1%. E la media dell’Eurozona è stata nel decennio del +2,7%.

Dunque, tutti gli altri hanno compiuto passi in avanti e noi abbiamo indietreggiato e di parecchio. Rispetto a un cittadino medio dell’Eurozona, in 10 anni siamo andati indietro di circa l’11%. Disarmante il confronto con i tedeschi: -17,5%. Il differenziale di Pil pro capite medio tra Germania e Italia dagli anni 90 agli anni 2000 è passato da 1500 euro a oltre 8000 ( in pre-cedenza era costante) con una perdita secca di 6.500 euro a testa. Negli anni 90 l’Italia aveva un Pil pro capite medio di 4000 euro superiore alla media europea. Oggi il Pil pro capite italiano è sotto la media europea di 4.500 euro.

La produzione industriale in 10 anni è crollata o per cessata attività o per passaggio nelle mani di multinazionali straniere, da che ne è seguita, nel migliore dei casi, il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in Italia e il trasferimento dei profitti all’estero, nel peggiore la pronta delocalizzazione delle produzioni . Logiche le ripercussioni negative sul mercato del lavoro, con il tasso di disoccupazione quasi raddoppiata tra il 2007 e il 2013, scendendo negli ultimi 4 anni di poco più del 2%, ma restando nei dintorni dell’11%, circa il 2% in più rispetto alla media dell’Eurozona.

Il confronto sull’occupazione a livello europeo segna le difficoltà politiche ed economiche del nostro paese: se Germania e Regno Unito superano tassi del 75%, la Francia sfiora il 66% e la Spagna si attesta al 62,5%, in Italia non si va oltre il 58%, stessa percentuale record pre-crisi del 2008, ma distante dalle altre economie avanzate.

Il tasso di disoccupazione in Italia nello stesso periodo preso in esame non corrisponde a quello ufficiale del 12%, il quale non considera le persone sfiduciate che non cercano più lavoro, ma sale vertiginosamente al 22,8 % della popolazione in età lavorativa se nel computo vengono appunto comprese le persone inattive che si suddividono nelle seguenti categorie: gli inattivi che non cercano più lavoro ma sono disponibili a lavorare (un milione e cinquecento-mila) , e gli inattivi che cercano lavoro non attivamente ma disponibili a lavorare (due milioni e centomila), per un totale complessivo tra disoccupati «ufficiali» e «ufficiosi» di sei milioni e seicentomila.

Al centro della disoccupazione italiana è la disoccupazione giovanile attestatasi nel 2017 in-torno al 40 % e scesa al 35% nel 2017.

Innegabile come ad avere incentivato la lieve ripresa degli occupati sia stato il Jobs Act, varato dal governo Renzi con due provvedimenti legislativi nel corso del 2014 e con effetti pieni a decorrere dal 2015. Da allora, risulta essere stato creato 1 milione di posti di lavoro, di cui 585.000 a tempo determinato, tuttavia. È dalla metà dello scorso anno che gli occupati temporanei cumulati dal Jobs Act in poi rappresentano più della metà del totale, ovvero man mano che gli effetti della decontribuzione e gli incentivi legati alla graduale applicazione delle tutele dell’art.18 sono venuti meno. All’inizio del 2016, i contratti accesi a tempo indetermi-nato rappresentavano ancora quasi l’85% del totale cumulato.

Un’economia italiana fragile, legata soprattutto all’andamento delle esportazioni: a fronte di un crollo della produzione e dei consumi interni, ad esempio, le esportazioni sono salite quasi costantemente dal 2009, superando i livelli del 2007 già nel 2010 e segnando un aumento decennale del 50% a fine 2017, quando verosimilmente il saldo commerciale netto annuo dell’Italia si sarà attestato intorno al 3% del Pil, replicando il record del 2016.

Possiamo contare almeno un successo in piena crisi, ovvero il rilancio del Made in Italy, anche se parte della proprietà del capitale e’ francese o tedesca. Inoltre qui siamo stati beneficiati dall’euro debole. Il cambio contro il dollaro, ad esempio, si è deprezzato dando una mano alle esportazioni di tutta l’area. Anche il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime dal 2014 ha contribuito alla crescita del nostro export, abbassando i costi di produzione in un’economia che notoriamente deve importare tutte le “commodities”, sostenendo la nostra competitività.

L’Ocse conferma la crescita dell’1% del Pil italiano per il 2017, ma taglia le previsioni per il 2018 dall’1% indicato a marzo allo 0,8%. Si tratta del dato peggiore tra tutti i maggiori paesi. L’Ocse prevede un deficit/pil al 2,1% quest’anno e all’1,4% il prossimo e un debito pubblico in calo al 131,8% nel 2017 e al 130,6% nel 2018, dopo il 132,5% toccato nel 2016. Il tasso di di-soccupazione è atteso in flessione all’11,5% quest’anno e all’11,2% il prossimo, dall’11,7% del 2016. È tuttavia in rallentamento la crescita dell’occupazione da +1,3% nel 2016 a +0,7% quest’anno e a +0,5% il prossimo. Ne risentirà la dinamica dei consumi: la domanda interna, dopo essere cresciuta dell’1,1%, dovrebbe accontentarsi di +1% nel 2017 e dello 0,9% nel 2018.

A pesare sull’anno prossimo sarà una correzione dei conti pubblici “richiesta dalle regole Ue, anche se l’economia sta funzionando ben al di sotto del suo potenziale e la ripresa resta fragile”, indica l’Economic outlook semestrale dell’organizzazione. L’assunto è che la correzione implichi un mix di aumento delle tasse sui consumi e di tagli alla spesa. Mentre per l’Ocse, l’Italia dovrebbe dare priorità “agli investimenti pubblici in infrastrutture, a programmi di ricerca e alla lotta alla povertà e al proseguimento delle riforme strutturali” che accelererebbero la ripresa e alzerebbero l’output potenziale, oltre a rendere la crescita più inclusiva e a ridurre il rapporto debito/Pil, che intanto si è “stabilizzato”, ma resta il primo dei problemi.

L’export, che si avvantaggia del rafforzamento della domanda globale e del calo dell’euro, è stimato in aumento del 4,1% nel 2017 e del 3,6% nel 2018, ma sono in netta cre-scita anche le importazioni (+4,7% e +3,9%). L’inflazione, dopo -0,1% nel 2016, dovrebbe es-sere dell’1,5% nel 2017 e dell’1,3% nel 2018.

Dunque si è creato nel nostro Paese un clima ostile per chi studia, per chi produce e per chi acquista: ed è proprio questo clima il primo fattore di decadenza e di limitazione della libertà.

Alla luce di quanto sin qui scritto, si può dire che dal 2008 è in corso una vera e propria guerra economica che sta minando le fondamenta del welfare state in tutti i paesi occidentali, guerra scoppiata per la concomitante e nefasta sinergia di tre grandi cause, dalle quali sono poi esplosi molteplici negativi effetti:

la grande recessione industriale, dovuta all’incontrollata globalizzazione, all’innovazione tecnologica di matrice oligopolistica, alla drammatica diminuzione del reddito disponibile di gran parte della popolazione ed al conseguente crollo dei consumi;
la finanziarizzazione del modello di sviluppo, nato anche come errata risposta alla recessione industriale nel tentativo di finanziare la domanda, e l’esplosione dell’indebitamento pubblico e privato;
la cessione di sovranità nazionali in materia di politica economica dovuta all’adozione dell’euro, e le conseguenti scelte di austerità, parità del bilancio, spending review, alta

pressione fiscale; tutte scelte chiaramente pro-cicliche recessive.

Questa guerra ha stremato le forze produttive del nostro paese ed ha fortemente indebolito le forze sociali, riducendo gran parte degli italiani in uno stato di povertà e deprimendo i nostri giovani, ormai privi di speranze lavorative .

Il grave e sotterraneo fenomeno dell’emigrazione italiana è la diretta conseguenza della colpevole assenza di risposte politiche ed economiche, oppure di risposte particolari e antisistemiche, alla grande crisi economica economica e politica che ha radicalmente trasformato il sistema produttivo del nostro Paese.

Gian Piero Joime

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MessaggioInviato: 17/03/2018, 14:59 
[8)]


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Seconda parte della nostra inchiesta sugli italiani costretti a fuggire all’estero: quanti sono, e cosa fanno?
Qui la prima parte

Roma, 17 mar – L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e, secondo stime, hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, continua a crescere il numero delle emigrazioni (cancella-zioni dall’anagrafe per l’estero), nel 2015 sono 147 mila, l’8% in più rispetto al 2014. Tale aumento è dovuto esclusivamente alle cancellazioni di cittadini italiani (da 89 mila a 102 mila unità, pari a +15%), mentre quelle dei cittadini stranieri si riducono da 47mila a 45 mila (-6%). Le principali mete di destinazione per gli emigrati italiani sono Regno Unito (17,1%), Germa-nia (16,9%), Svizzera (11,2%) e Francia (10,6%). Sono sempre di più i laureati italiani con più di 25 anni di età che lasciano il Paese (quasi 23 mila nel 2015, +13% sul 2014); l’emigrazione aumenta anche fra chi ha un titolo di studio me-dio-basso (52 mila, +9%). Gli emigrati di cittadinanza italiana nati all’estero ammontano a oltre 23 mila: il 55% torna nel Paese di nascita, il 37% emigra in un Paese dell’Unione europea, il restante 8% si dirige verso un Paese terzo non Ue.

Negli ultimi cinque anni le immigrazioni si sono ridotte del 27%, passando da 386 mila nel 2011 a 280 mila nel 2015. Le emigrazioni, invece, sono aumentate in modo significativo, passando da 82 mila a 147 mila. Il saldo migratorio netto con l’estero, pari a 133 mila unità nel 2015, registra il valore più basso dal 2000 e non è più in grado di compensare il saldo naturale largamente negativo (-162 mila). Sulle complessive 147 mila emigrazioni per l’estero registrate nel 2015, soltanto 45 mila riguardano cittadini stranieri, contro 102 mila di cittadini italiani (70%), un numero quest’ultimo in crescita del 15% rispetto al 2014 e più che raddoppiato in cinque anni. Gli italiani rientrati dall’estero nello stesso anno ammontano invece a 30 mila. I due flussi danno origine così a un saldo migratorio negativo dei soli cittadini italiani di 72 mila. Nel 2015, il saldo migratorio con l’estero degli italiani con almeno 25 anni evidenzia una per-dita di residenti pari a 51 mila unità, di cui tre su dieci (15 mila) sono individui in possesso di laurea. Una significativa perdita di residenti riguarda anche coloro in possesso di un titolo di studio fino al diploma di scuola media superiore (-36 mila).

Nel 2016 sono stati 114.512 gli italiani che si sono trasferiti all’estero. Erano 84, 73.415 nel 2014, e solo 37.129 nel 2009. Una crescita di 3 volte, dunque, accelerata nell’ultimo anno. Non vi sono grandi Paesi che abbiano vissuto una crescita del fenomeno paragonabile all’Italia. Anzi, in gran parte dei casi con la fine della crisi economica vi è stato anche un calo del numero di emigrati. Un caso peculiare è quello spagnolo. Si è passati da 75.765 a 67.738 tra il 2015 e il 2016, nello stesso lasso di tempo in cui in Italia sono cresciuti di 30 mila. Uno dei tanti segni della differenza tra la ripresa spagnola, che viaggia a ritmi per noi inarrivabili, e la nostra.

Chi se ne va? Certo, in gran parte sono i giovani tra i 25 e i 34 anni, che componevano nel 2015 più del 45% del totale degli emigranti. E tuttavia dal 2011 sono cresciuti più di tutti i giovanis-simi, tra i 20 e i 24 anni, +225%. C’è un piccolo picco, +109,6%, anche tra i 50-54enni. La crescita dell’esodo di italiani in generale non trascura nessuna età. Il Regno Unito continua ad essere la meta preferita dei laureati (quasi 4 mila), davanti a Ger-mania (oltre 3 mila) e Svizzera (più di 2 mila). La residenza favorita da coloro che posseggono un titolo di studio fino al diploma, invece, è la Germania (9 mila) seguita dal Regno Unito (8 mila). Infine, tra le mete oltreoceaniche, ci si reca soprattutto negli Stati Uniti (quasi 4 mila) e in Brasile (3 mila), movimenti che interessano, nel 36% dei casi, italiani in possesso di laurea. Gli immigrati italiani con più di 24 anni sono 22 mila, quasi mille in più rispetto all’anno pre-cedente. Di essi, oltre 7 mila posseggono la laurea (35%), circa 14 mila hanno un titolo di stu-dio medio-basso (65%) e provengono prevalentemente da Germania, Svizzera e Brasile.

Oggi gli italiani emigrano, in proporzione agli abitanti, più di spagnoli e tedeschi, cosa mai ac-caduta prima. Se non fosse per l’improvvisa crescita di “cervelli in fuga” britannici nel 2016 (dovuta alla Brexit?) anche il Regno unito sarebbe superato. Anche volendo allargare il confronto a tutti i Paesi europei, anche quelli minori, l’Italia si è piazzata tra il 2015 e il 2011, gli anni i cui dati sono disponibili su Eurostat, al quarto posto quanto ad aumento dell’emigrazione degli autoctoni, con un +104,3%. Con il balzo del 2016 l’Italia sarebbe prima, davanti anche a Croazia, Ungheria, Slovenia.

A emigrare dunque sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la li-cenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati. Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

Questi dati meritano già di per sé un’attenta considerazione anche perché ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

Gian Piero Joime

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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 17/03/2018, 19:57 
[:293]


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Il prossimo 25 marzo dovrebbe entrare in vigore il Trattato di Caen, sottoscritto nel 2015 dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ed il suo omologo francese, con il quale diverse decine di miglia marittime passeranno alle acque territoriali francesi.

Secondo gli estremi del trattato, infatti, alcune porzioni di mare verranno sottratte al Mare di Sardegna e al Mar Ligure, per passare sotto la competenza economica della Francia, che gioverà di acque costiere in Corsica da 12 a 40 miglia, mentre la Zes (Zona Economica Speciale) in prossimità delle acque territoriali sarde, estenderà la competenza francese per le 200 miglia marittime in questione.

Il trattato è passato in sordina rispetto all’opinione pubblica nazionale, i cui risvolti sono potenzialmente economicamente molto dannosi per il nostro Paese. Si perde, infatti, un tratto di mare molto pescoso, che danneggerà notevolmente l’industria ittica delle zone italiane interessate, senza considerare il fatto che l’Italia rinuncia, per un cavillo, allo sfruttamento di un giacimento di idrocarburi individuato al largo della Sardegna, e che dunque passerà in mano francese.

Per un Paese importatore netto di risorse minerarie, rinunciare ad un giacimento del genere non pare molto lungimirante. Si parla infatti di 1.400 miliardi di metri cubi di gas, nonché 420 milioni di barili di petrolio. Le dimensioni non sono impressionanti, è vero, ma non comunque trascurabili: azzardando un paragone con il giacimento Zohr, considerato il più grande del mondo, al largo delle coste egiziane, di cui Eni è proprietario per la quasi totalità, parliamo di un giacimento che è circa un decimo.

L’articolo 4 del Trattato di Caen, dunque, agevola lo Stato francese all’accesso al giacimento qualora le trivellazioni fossero effettuate in acque francesi, e con l’entrata in vigore di questo trattato ciò è particolarmente facilitato. A ciò, inoltre, si somma una sospetta azione da parte del governo italiano, che ha bloccato due anni fa la compagnia norvegese Statoil che aveva richiesto formalmente l’autorizzazione ad effettuare dei carotaggi del fondale. La gravità dell’azione, in senso meramente pratico, risiede anche nel fatto che non sembrano previste alcune royalties da corrispondere al governo italiano, visto lo sfruttamento di un giacimento completamente in acque italiane, ma che con le modifiche dei confini marittimi attuati, lascerebbero alla Francia l’assoluta libertà di azione, senza obblighi, lasciando all’Italia soltanto eventuali, sebbene marginali, danni ambientali.

Il tutto sembra condito da un alone di totale apatia che il governo italiano al momento sembra voler mantenere nei confronti di questo accordo: dal momento che non vi è stata ratifica formale via legge del trattato, la Francia ha attivato presso Bruxelles una procedura unilaterale di ratifica, che il 25 marzo, in caso di silenzio-assenso da parte italiana, conferirà de iure tali tratti di mare alla Francia.

L’unico a poter porre un freno a tale procedura è il presidente del Consiglio in pectore, lo stesso Paolo Gentiloni che ha sottoscritto il trattato; il quale, tuttavia, non sembra muoversi in tal senso.

La polemica e le preoccupazioni sono state sollevate dagli esponenti del centrodestra italiano, tra i quali Giorgia Meloni, Daniela Santanché e Roberto Calderoli, i quali hanno espresso il loro dissenso verso il trattato e hanno chiesto ufficialmente a Gentiloni di provvedere ad annullare l’accordo. In particolare, il senatore della Lega ha sostenuto quanto segue: “Non possiamo regalare alla Francia, sulla base di un trattato mai ratificato dal Parlamento italiano, un’importante porzione di acque territoriali in Liguria e Sardegna, tratti di mari ricchissimi di fauna ittica, fondamentali per la nostra pesca, e fondali marini ricchissimi di idrocarburi con giacimenti molto promettenti, capaci di fornire nel giro di pochi anni decine di miliardi di metri cubi di gas e centinaia di milioni di barili di petrolio. […] Gentiloni intervenga subito con Parigi, diversamente considereremo anche l’ipotesi di farlo rispondere del danno erariale causato all’Italia regalando alla Francia decine di miliardi tra fauna ittica e idrocarburi”.

http://www.occhidellaguerra.it/trattato ... a-francia/



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 18/03/2018, 14:25 
[^] [:287]




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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 18/03/2018, 15:35 
Cita:
Per un Paese importatore netto di risorse minerarie, rinunciare ad un giacimento del genere non pare molto lungimirante. Si parla infatti di 1.400 miliardi di metri cubi di gas, nonché 420 milioni di barili di petrolio. Le dimensioni non sono impressionanti, è vero, ma non comunque trascurabili: azzardando un paragone con il giacimento Zohr, considerato il più grande del mondo, al largo delle coste egiziane, di cui Eni è proprietario per la quasi totalità, parliamo di un giacimento che è circa un decimo.

Sarà anche un giacimento piccolo ma da l'impressione che l'Italia sia un paese in svendita e comunque sempre pronto a fare gli interessi di altri anzicchè i propri oltre alle problematiche legate a quello specchio di mare (pescosissimo), quando la pesca italiana è in crisi. Proprio non comprendo le motivazioni di questa cessione oltretutto proprio ai francesi che ci hanno deriso con la Merkel e Sarkozy, che sono stati i principali promotori della guerra in Libia e che ci rimandano indietro i migranti a Ventimiglia.



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 18/03/2018, 16:18 
Ufologo 555 ha scritto:
[^] [:287]

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Se Feltri fondasse l'NSI, "NORDICI SECESSIONISTI INCAZZATI", si beccherebbe un sacco di voti, anche dai non autoctoni e Salvini dovrà rimettere la parola Nord accanto a Lega.

[:304] [:304]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 18/03/2018, 19:52 
(... che alla fine sarebbe la cosa migliore per tutti!Ognuno spende quello che guadagna ...) [;)]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 18/03/2018, 20:08 
Ufologo 555 ha scritto:
(... che alla fine sarebbe la cosa migliore per tutti!Ognuno spende quello che guadagna ...) [;)]

Ma non so se si potrà fare ancora.
Perché qui non danno niente di pensione a chi ha versato 19 anni di contributi.
Probabilmente li useranno per soddisfare le promesse elettorali.
Però c'è un problema: siccome NON possiamo stampare euro come stampavamo le lire, dove saranno presi i soldi ???
Da chi lavora o dalle pensioni.
Perché magari i primi mesi potranno anche "trovare" qualche sfrido, fare qualche condono, ma a medio termine, NON REGGE.
MAH. [:291] [:291]



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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
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 Oggetto del messaggio: Re: Povera Italia.. (seconda parte)
MessaggioInviato: 19/03/2018, 17:47 
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Cinquanta sfumature delle buche di Roma. Un decalogo

Una cosa sapevano fare i romani, le strade. Ma a un certo punto all'Impero romano si sostituì la romanella

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Ci mancava solo il piano Marshall per le buche, quello deciso dal Campidoglio per riempire i 50.000 nuovi crateri formatisi dopo la nevicata di febbraio. Il Comune vuole mapparle una per una, con un sistema “laser”, un sistema tipo “Google Maps”, recitano i bollettini (se la macchina che va in giro a fare le foto per Google non finirà in una voragine come quella apertasi a Circonvallazione Gianicolense, che ha inghiottito un Suv). Se però queste macchinette riuscissero nell’improbabile mappatura, sfuggendo alle voragini, sarebbe interessante conoscere i big data conseguenti, e magari farli ruminare da delle intelligenze, naturali o artificiali. Magari ne verranno fuori delle categorie: ecco appunto il cratere inghiotti-suv, come quello gianicolense, rarissimo; anche nella ancor più rara versione voragine, come quella prodottasi alla Balduina. Altra fattispecie assai speciale di buca, ma di dimensione più contenuta, è quella che chiameremo a dorso di mulo, con corrugamento del manto in avvallamenti leggeri ma ravvicinati (via Parigi, sotto la sede dell’Ordine dei Giornalisti).



C’è poi la buca-Ztl, molto chic perché alligna solo nel centro storico, e si basa sul rattoppo cioè la ricopertura del Sampietrino con colata d’asfalto (la si può trovare specialmente a via Ripetta, e piazza Augusto Imperatore). Una sottospecie della buca Ztl è quella del rattoppo con cascata, che si trova su piazza Venezia, nella salita verso via XXIV Maggio, di fronte alla sede della Provincia: lì, ogni volta che piove, un piccolo torrente fangoso scorre leggiadro verso la piazza.

Vi è poi la buca neorealista, assai diffusa: rintracciabile ove ancora vi sono romantiche tramvie, crea attorno ai binari piccoli fossati insidiosi soprattutto per gli scooter; si trova in viale delle Belle Arti, già location delle note dichiarazioni di Pasolini sui figli dei poliziotti/figli dei contadini, ma anche a Centocelle e via Prenestina (Anna Magnani mitragliata dai fascisti in Roma città aperta).

Non va dimenticata poi il precursore della buca, cioè l’asfalto a pelle di coccodrillo: pare sia il nome tecnico di quando la strada comincia a corrugarsi prima di collassare e creare, appunto, la buca. Questa, cioè la pelle di coccodrillo, la si ritrova un po’ ovunque nel manto stradale romano. Corrugato in un disastro non solo amministrativo, ma psicanalitico: una cosa sapevano fare i romani, le strade appunto, e attraverso la strada portarono la civiltà in Europa.



A un certo punto all’Impero Romano si sostituì però la romanella (modo per dire, soprattutto in contesto edilizio, un lavoro fatto male). E fu l’inizio della fine.

https://www.ilfoglio.it/roma-capoccia/2 ... re-184272/



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