I molti, i troppi errori del comunismo ...
Strage di Vergarolla. “Mio marito operò per 24 ore di fila. Fecero morire gli italiani sulle mine”
Ci sono storie Off.
Off, perchè sepolte, ad arte, nella sabbia del tempo. Off, perchè dimenticate. Forse volutamente. Ci sono storie Off che fanno male alla memoria dell’Italia e di tanti italiani. Storie che vanno raccontate perchè diventino ricordo, perchè scongiurino la partigianeria della coscienza. Storie senza tempo, della nostra gente che a noi piace raccontare perchè la memoria sia una celebrazione museale del passato, ma linfa vitale per il futuro. Come questa: Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”
Ci sono storie Off: la strage di Vergarolla è una di queste. Un dramma orribile, inutile di cui parlammo anche qui: “Quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani”
E’ il 18 agosto 1946. Sulla spiaggia di Vergarolla, a Pola, unica città istriana non ancora ceduta al controllo jugoslavo ma sulla quale Tito non cela le sue ambizioni, si svolgono le tradizionali gare natatorie per la Coppa Scarioni. Ultimo tentativo di un popolo per ribadire la propria italianità, a quattro mesi dal Trattato di Parigi. Sono da poco passate le due del pomeriggio, dalla sabbia si alza un enorme fungo di polvere nera e per tutta la città si propagano le scosse e i rumori di un’esplosione. Delle mine accatastate ad un margine dell’arenile, forse 12, 28 o addirittura 32, sono saltate in aria. Proprio quelle mine delle quali era stata esclusa, da parte degli Alleati che avevano il compito di amministrareVERGAROLLA-5-Soccorso-di-una-bimba Pola, la temibilità.
I colori vivaci di una festa si trasformano in tinte cupe, di morte. Gli strepitii di gioia cedono il posto a grida di dolore. Imprecisato ed imprecisabile resta il numero delle vittime: almeno 80, molte delle quali letteralmente polverizzate, solo 64 i cadaveri riconosciuti. Dopo decenni di dimenticanze, incoraggiate da più fronti, della strage di Vergarolla si inizia a parlare. E sono gli stessi superstiti o i loro discendenti a rompere il silenzio, mantenuto a lungo per custodire un dolore intimo o per non sfidare tutto un contesto ostile. Esemplare è la testimonianza di Claudio Bronzin che racconta che sua zia vide, in quel giorno, un uomo completamente vestito (su una spiaggia, in agosto) trafficare con dei fili elettrici vicino alla catasta di materiale bellico. Dopo Vergarolla non poté che affievolirsi il tentativo ostinato degli italiani di rimanere li dove erano sempre stati, dove avevano cresciuto figli e comprato case, lavorato. E l’esodo subì un’ ultima, brusca accelerazione. Protagonista eroico delle ore successive alla strage è il giovane dottor Micheletti, che continua a soccorrere le vittime e operarle ininterrottamente per 24 ore, nonostante la perdita dei suoi due figli Carlo e Renzo, quest’ultimo mai ritrovato. Riportiamo qui la testimonianza della moglie, la signora Iolanda Nardin che in un’ intervista radiofonica, racconta il suo 18 agosto, con gli occhi e la voce di una madre, e il suo destino da esule dopo quell’indelebile quanto tragico giorno.
Chi c’era dei suoi quel giorno in spiaggia?
Il mio piccolo Carlo e il mio piccolo Renzo, di 9 e 4 anni. Era una domenica mattina e sono andati al mare con i miei cognati. Sono andati verso le 9,30/10 con lo zio in motocicletta ed un gran cocomero.
Perché sono andati proprio a Vergarolla?
Perchè la spiaggia era aperta al pubblico, i famosi Alleati avevano assicurato che le mine erano state disinnescate e si poteva fare tranquillamente il bagno, senza nessuna paura. Dovevamo, a breve, lasciare la nostra città e sono andati lì perchè c’era una festa di italiani e di italianità. C’era allegria, bandiere, tutta gente festante.
Mio marito era in ospedale e mio figlio Carlo mi aveva pregato: “lasciaci andare con lo zio, lasciaci andare con lo zio”. E io li ho mandati.
Poi, che è successo?
Dall’ospedale mio marito è venuto a pranzo e quando erano le 14 e 7 minuti si è sentito come un terremoto, vetri spezzati, intonaco che si staccava dal soffitto.
Mio marito mi dice: “aiuto, quanto sangue, quanto sangue, chissà dov’è successo. Deve essere una gran disgrazia”. Ed è corso subito in ospedale. Avevo a pranzo anche un mio catechista, Don Sestan, ed anche lui è andato subito a controllare cosa fosse successo. Ero sola in casa. Subito dopo sono venute due mie nipoti e mi hano chiesto come stessi. Io rispondo: “bene, perchè?” Una delle due è svenuta perchè aveva capito che non sapevo niente e subito sono andate vie, non avendo il coraggio di dirmi altro. Poi ho ricevuto una telefonata di mio marito. Mi disse che la disgrazia era avvenuta a Vergarolla e di andare a controllare in tutti i posti in cui stavano portando i feriti.
Arrivata lì, ho visto cose che non posso dire: corpi squarciati, senza testa, uomini grandi che sembravano piccoli, attaccati agli alberi. I gabbiani se ne andavano con i pezzi dei morti. Una scena che non si può immaginare. Io domandavo a tutti se avessero visto i miei figli, ma dicevano di non sapere, erano evasivi, trovavano scuse: “un’ora fa sono passati da qui, vuole un caffè?, vedrà non sono loro”. Carlo l’ho trovato alle sette di sera, tutti sapevano.
Mio marito mi aveva detto di andare a vedere nella cappella dell’ospedale. Vado e trovo il dottor Pasentin che non mi voleva far entrare. Mi prende per le spalle e, provando a spingermi fuori, dice: “Signora Micheletti, cosa fa qua? Cosa cerca? Non c’è niente che le può interessare!”.
Io mi giro, guardo sotto la croce. Sotto questa c’era il mio piccolo Carlo. Aveva la faccia come per dirmi “scusami mamma”, era sorridente. Ma aveva braccia e gambe rotte ed un buco molto profondo nella pancia.
Ho avvertito mio marito, che già sapeva, e mi ha messo a disposizione un’ambulanza per portarlo a casa. Tutto gli ho fatto, persino il bagnetto.
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E l’altro figlio, Renzo ?
L’altro non l’ho trovato mai. Mai! Il mio piccolo, mio cognato Alberto, mia cognata Rina e la sua nipote sono scomparsi completamente.
Suo marito per quanti giorni ha lavorato ininterrottamente in ospedale ?
Senza uscire dalla sala operatoria, un giorno intero. La sera del 19 agosto è andato con gli Alleati a cercare Renzo in acqua, i pezzi più grossi dei cadaveri non venivano a galla. Dopo questa vana ricerca è tornato in ospedale ad operare.
Intanto, come ho detto, il mio piccolo Carlo me l’ero portato a casa, ma gli Alleati non volevano, bei campioni anche loro! Prima sono venuti a bombardare le nostre case, poi ci hanno promesso che Pola sarebbe rimasta italiana e noi, pieni di entusiasmo, andavamo in giro con le bandiere tricolore, anche se c’era molta avversità nei loro confronti, perchè da trentatre mila italiani, a Pola ne erano rimasti duemila. Adesso mi ordinavano di riportare mio figlio insieme alle altre vittime. Volevano fare un bel miscuglio, che non si parlasse di Vergarolla, che non andasse avanti questa storia! L’arcivescovo, in una messa di qualche giorno dopo, accusò gli Alleati di essere responsabili, insieme agli assassini che avevano di fatto commesso quell’atrocità, perchè a loro era affidata la sicurezza di quella spiaggia e di quelle mine. Dopo due giorni è stato mandato a Spoleto.
Gli Alleati, comunque, si rivolsero a mio marito che disse di provare a staccare il bimbo dalle mie braccia, ma poi si oppose a che lo facessero perchè volevano mettere tutti i morti su un unico camion. “Mica siamo in una pescheria che si mette una sardella sopra l’altra”. Ed ottenne che ci fossero su ogni camion al massimo quattro salme.
Che ne è stato delle vostre vite, dopo Vergarolla?
Mio marito è andato su, in Italia, negli ultimi giorni del ’46, a cercare una casa e una sistemazione. Io nel ’47. Prima di andare a Trieste, mi sono fermata un mese a Pola ed ogni giorno andavo a scavare nella sabbia a Vergarolla. Venivano fuori ossa, braccia, di tutto. Ho trovato il cappellino e la maglietta del mio piccolo più piccolo, Renzo. Ed un mucchio di miccia…
Andavo lì ogni giorno, sino a che il sindaco mi ha pregato di desistere.
Signora Micheletti, Carlo è rimasto sepolto a Pola?
Sino al febbraio del 1947.
Ho chiesto e con difficoltà ottenuto di portare mio figlio con il camion in Italia. Insieme a lui nel camion c’era la moglie del prefetto, il figlio di Baldini che era proprietario di tutti i negozi di giocattoli di Pola. Arrivati alla frontiera i famosi con la stella rossa, ci chiedono: “cosa portate via? I vostri tesori?” “Portiamo via quello che c’è scritto sul foglio, scritto da voialtri”, li rispondo. Allora sbattendo il portellone del camion, ci lasciano andare. Il portellone era rimasto aperto e se l’autista non se ne fosse accorto, avremmo perso tutti i nostri morti.
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