Governare o comunque limitare i flussi migratori può essere determinante nel salvare le vite dei migranti. Una banalità che solo la sinistra liberal e politicamente corretta sembra non comprendere. La lezione, come riporta The Spectator, viene dall’Australia, Paese che ha affrontato una crisi di rifugiati simile alla nostra all’inizio di questo secolo. “Il governo australiano – osserva il giornale inglese – ha risposto adottando una politica di respingimento delle imbarcazioni. Il bilancio delle vittime è poi crollato. Quando questa politica fu invertita, sette anni dopo, più di 50.000 persone arrivarono su quelle imbarcazioni, e in 1.000 persero la vita. Fu una repulsione contro queste morti che portò il governo australiano a riconoscere che la politica di accogliere le imbarcazioni provocava anche delle morti”. Un sistema di asilo umano, osserva, “non deve mettere i bambini in gabbia, ma dovrebbe ridurre l’incentivo a intraprendere viaggi mortali”.
“Gli italiani – osserva The Spectator nel suo editoriale – ne hanno avuto abbastanza delle morti in mare e della gestione dei 690.000 migranti che sono sbarcati sulle coste italiane negli ultimi anni. Due settimane fa, il nuovo governo italiano ha rifiutato di consentire a una ong che trasportava 630 migranti di attraccare nei suoi porti. Secondo le norme dell’Ue, i migranti dovrebbero ricevere asilo nel primo Paese in cui approdano: una politica che ha gravato pesantemente sull’Italia e sulla Grecia”.
Fermare i flussi per salvare le vite dei migranti
E se l’atto veramente “disumano” fosse quello di indurre i migranti a navigare in acque poco sicure per attraversare il Mediterraneo? Lo stesso New York Times, in un articolo pubblicato nell’estate 2017, osservava che ”le strategie adottate finora per salvare i migranti nel Mar Mediterraneo e smantellare le reti di contrabbando hanno avuto conseguenze mortali e inaspettate – sottolineavano Stuart A. Thompson e Anjali Singhvi -. Ogni sforzo per ridurre la crisi migratoria può essere controproducente e pericoloso. I migranti sono finiti in una situazione ancora più disperata”.
Come affermava il Nyt, ”prima del 2014, i salvataggi in mare avevano luogo vicino alle coste italiane. Alla fine dell’anno, si sono spostati sempre più a sud e dal 2015 verso la sponda libica. Naturalmente, tutto questo ha incoraggiato e incentivato le partenze, con imbarcazioni sempre più fatiscenti, rendendo il viaggio degli stessi migranti, seppur più breve, molto più pericoloso. Le operazioni di soccorso dei migranti vicino alla costa libica hanno salvato centinaia di persone in mare. Ma questo ha introdotto un incentivo potenzialmente mortale, incoraggiando altri rifugiati a rischiare di mettersi in viaggio e gli scafisti a far partire un numero maggiore di navi”.
Oltre 1000 morti dall’inizio dell’anno
Come riporta Skytg24, sono quasi mille i migranti morti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno. Secondo gli ultimi dati resi noti a Ginevra dall’Oim, l’Agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione, dal primo gennaio 2018 al 27 giugno scorso, 972 uomini, donne e bambini hanno perso la vita mentre tentavano di raggiungere l’Europa via mare. Di questi 653 sono deceduti sulla rotta del Mediterraneo centrale tra l’Africa del nord e l’Italia. Un bilancio destinato ad aggravarsi, con l’ultimo naufragio al largo della Libia. Con la riduzione degli arrivi, anche il dato sulle vittime nel 2018, indicano i dati dell’Oim, è calato, ed è pari a meno della metà dei morti segnalati nello stesso periodo del 2017, (2.172).
Ong: gli “agents provocateurs” dell’immigrazione
Secondo Kelly M. Greenhill, professoressa di scienze politiche e relazioni internazionali alla Tufs University e autrice del libro Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera, le Ong agiscono spesso nel ruolo di agents provocateurs delle crisi migratorie: “Gli agents provocateurs possono alternare le minacce alle misure dirette a trasformare migrazioni di proporzioni limitate in crisi su vasta scala, facendo pressione o pubblicizzando le emergenze. Possono perfino incoraggiare flussi migratori per stimolare cambiamenti di regime”.
Come ricorda l’esperta, “nei primi anni Duemila, per esempio, una vasta e disomogenea rete di attivisti e di organizzazioni non governative (Ong) adottò una simile strategia nell’ambito di un più ampio progetto inteso a provocare il collasso della Corea del Nord. Come già in Algeria e in Bosnia, gli agents provocateurs sapevano bene che le loro azioni avrebbero comportato notevoli conseguenze umanitarie, ma ritenevano che l’obiettivo rendesse accettabili i costi potenziali. Naturalmente, “alcuni periranno, ma la maggior parte riuscirà a fuggire. Vi sarà un flusso costante fino alla fine”, come disse il direttore di una Ong internazionale implicata in questo palese tentativo di coercizione”.
Ricorrere alla retorica dell’umanità per stabilire in maniera manichea chi è “umano” e chi invece no, spesso cela delle enormi ipocrisie. E soprattutto non aiuta a risolvere un fenomeno complesso come quello dell’attuale crisi migratoria.
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