Giornaloni in campagna elettorale: "Orsù, montiamo in fretta e furia un bel fronte antipopolare!"
“Il grande partito del disfare è al lavoro”. Con Mario Calabresi sulla Repubblica dell’11 gennaio ci si è posti con affanno la questione della prossima campagna elettorale. Si è deciso di mettere al bando i maldipancia, le preoccupazioni dell’ala sinistra dei lettori repubbliconi, si è arrivati alla convinzione che non si può più scherzare. Vabbé che al timone del gruppo c’è la “tecnica” Mondardini, vabbè che c’è Marco e non Carlo, vabbé che si vuole costruire una complessa liaison con gli Elkan, ma improvvisamente l’idea che non ci sia più un governo che ti informa su tempi e modi di eventuali riforme di società bancarie, consentendo così utili investimenti finanziari, fa impazzire tutta la Famiglia e così si va alla guerra, puntando innanzi tutto sulle élite contro quella merdaccia che è diventato il popolo, e costruendo così un vero e proprio fronte antipopolar-populista. Certo, poi, l’urlo di guerra del direttore è quello che è. Ed è difficile mobilitare un esercito appellandosi a che “nella misura in cui fare è meglio che disfare, allora bisogna appoggiare le truppe gentilonina-renziste”.
Dunque si è corso ai ripari e accanto al flebile condottiero, sempre nel giorno di apertura della campagna cioè l’11 gennaio, si sono schierati i mastini: gli Alberto D’Argenio che se ne vanno a Strasburgo e beccano il capo dei liberali il belga Guy Verhofstadt che dice che “con Salvini in Italia sarebbe a rischio lo stato di diritto”. Si ricorre poi all’usato sicuro, la paura che i cosacchi vengano a bivaccare sul Tevere: “Le elezioni italiane come prima linea della nuova guerra fredda tra Washington e Mosca, quasi un banco di prova della capacità occidentale di reagire alle incursioni della disinformatia russa” scrive Gianluca Di Feo. Si cerca di reclutare una riluttante Susanna Camusso che dopo aver detto che “l’attacco all’articolo 18 parte con Berlusconi, passa per Monti e arriva al Jobs Act di Renzi”, farfuglia anche un "credo che sarebbe positivo se si cogliesse l’occasione di una candidatura unitaria in un’area del Paese, in particolare in quella milanese, dove cresce il numero di giovani e con un significativo tasso di innovazione” non è proprio un grido di guerra e tra l’altro pare quasi chiedere un passo indietro a Giorgio Gori. E’ dunque necessario togliere tutte le ragnatele alle mummie principali del centrosinistra e sfoderarle per mano di Claudio Tito: “Il fondatore dell’Ulivo e quello del Pd. I due padri nobili del centrosinistra scendono in campo”. Tito (che mi pare il tipo più determinato in questa fase) passa poi al lavoro più sporco scrivendo anche che in Lazio “lo sfidante del centrodestra potrebbe essere l’ex missino Maurizio Gasparri”. Proprio lui, il Gasparri che era diventato un porco berlusconiano, abbandonando anche il suo leader (ben valorizzato in Largo Fochetti) del Fronte della Gioventù, Gianfranco Fini, torna per la bisogna a essere “l’ex missino”. A’ la guerre comme à la guerre. Prosegue anche il 12 gennaio la mobilitazione repubblicana per il fronte antipopolare.
E’ ben esibita la pantegana Casini intervistata da Carmelo Lopapa: “Oggi la cosa più semplice sarebbe la diserzione” e invece, elmetto in testa, eccolo lì l’ex moderato a sostenere i gentilonian-renzisti (con molti mal di pancia degli ex comunisti bolognesi che proprio non lo vorrebbero votare). Tommaso Ciriaco ci informa che il “fronte antipopolare” per la Lombardia ha scelto la via dell’ossimoro: “I renziani, tra l’altro, sarebbero disposti anche a mettere a disposizione un listone già pronto – “A sinistra con Gori”". Mentre tutta la Cgil man mano si schiera con Liberi eguali, in Largo Fochetti si lancia il misterioso appello dei 21 pro fronte antipopolare, così Roberto Mania: “C’è una novità che si ritrova nell’appello dei 21, che certo Susanna Camusso non ha ostacolato”. C’è in quel “non ha ostacolato” un’accumulata sapienza per così dire “liberal”: “Ho fumato marijuana ma non ho inalato”, “Mi ha detto che avrebbe approvato in fretta quel provvedimento ma non mi ha detto che avrebbe fatto un decreto”. Si cerca di strappare anche al più noto politico di Bettole un qualche appoggio al fronte antipopolare, ma è difficile. Così Giovanna Casadio: “Pierluigi Bersani ieri mattina, alla buvette di Montecitorio, sorseggiando un caffè mostrava un certo imbarazzo davanti all’ipotesi-frattura con il Pd. Per l’ex segretario dem, ora leader della nuova sinistra, l’accordo non può essere automatico, non basta mettersi insieme per vincere. ‘Non serve un accrocchio di vertice contro la destra per batterla - ragiona - La frattura è profonda, è tra la nostra gente. Però sappiamo anche noi che l’unità è meglio delle divisioni, è come dire ‘viva la mamm’”. E infine si torna alla minaccia straniera, oggi sventolata più dai francesi che dai tedeschi, così Marc Lazar: “Bisogna sapere se l’Italia vuole mettersi ai margini dell’Europa”.
Qualche giorno, però, e la costruzione del fronte antipopolar-populista è già in difficoltà. Il 14 gennaio Stefano Cappellini ricorda come non ci possa fidare sul serio di un Matteo Renzi per il quale persino: “C’è stata l’autoproclamazione della fase zen”. Si ritorna a dare la parola a bersaniani come Onorio Rosati che annuncia il 13 gennaio come in Lombardia: “Corriamo da soli”. Il progetto del fronte antipopolare diventa più complicato, in Largo Fochetti si cerca di tenere insieme lettori assai divisi. Sulle vicende della Famiglia si cerca di tamponare i guasti scrivendo in un “autorevole” editoriale non firmato del 13 gennaio che “nessun interesse improprio ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica”. I conti con i porci berlusconiani che hanno speculato sugli innocenti colloqui tra CDB e Matteuccio, vengono lasciati regolare dalle new entry dell’impero debenedettiano con evocazioni (risultate, al momento, un po’ approssimative) di fantastici intrighi Mediaset-cinesi, scrivendo così quel che Marco Galluzzo sul Corriere della Sera del 14 gennaio chiama un “ennesimo capitolo dello scontro fra l’ex premier e l’imprenditore Carlo De Benedetti”.
Ma la strada al 4 marzo è ancora lunga, e la battaglia continua. Anzi macronianamente la "lutte continue".
Solo la recessione ci salverà dal Donald! “Yes, recession. I know this is one of these moments when people imagine the rules of economy have been suspended”. David Von Drehle sul Washington post del 5 gennaio scrive che siamo sulle soglie della recessione anche se la gente fantastica sul fatto che le regole dell’economia questa volta non si applicheranno. L’impressione in realtà è che, dopo le difficoltà di accusarlo per ostruzione della giustizia, collusione con i russi, riciclaggio, infermità mentale, linguaggio scorretto-scurrile (il suo, in questo caso, è particolarmente censurabile peraltro), ai media liberal sia rimasto solo da sperare che scoppi una bella recessione tra luglio e agosto per impedire a Donald Trump di vincere le elezioni di midterm.
Per ogni pantegana, tutti gli altri sono pantegane. “In Europa sono tutti convinti che dopo il voto la coalizione di centrodestra si sfascerà e non biasimano troppo la scelta di Berlusconi perché sperano che il giorno dopo lasci Salvini al suo destino”. Pierferdinando Casini conferma, sul Messagero del 7 dicembre, una verità ben risaputa: ogni pantegana ritiene che anche tutti gli altri siano pantegane.
Aiuto! Il Donbass è minacciato dai russi. E la Catalogna dai catalani. “L’Ucraina costantemente assalita da russi e filorussi nel Donbass”, scrive Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 28 dicembre, per bilanciare certi riconoscimenti all’efficacia della politica estera trumpiana, l’ex direttore corrierista deve alzare i toni antimoscoviti. Però scrivere che il Donbass è minacciato dai russi (l’etnia prevalente nella regione citata), è come scrivere che i Paesi baschi sono minacciati dai baschi o la Catalogna dai catalani.
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