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Marziano
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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 18:52 
lox1 ha scritto:
Pensate:avevano cosi paura del PCI che erano pronti ad un colpo di stato...quelli erano tempi.....


Se si pensa a quello che poi è diventato il PCI la cosa fa ridere i polli.


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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 19:01 
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LETTERA ALLA DC


5 Al partito della Democrazia Cristiana10


Fogli: 10 recto. Recapitata il 28 aprile, fu conclusa il 27 aprile, dato il riferimento intrinseco a un messaggio dei familiari pubblicato il 26 aprile e qui considerato del giorno precedente. Fu però un testo molto elaborato, verosimilmente in più giorni, poiché di questa lettera sono note altre due versioni, una delle quali, nota solo come dattiloscritto e come fotocopia, accompagnata da un biglietto, noto solo come fotocopia, che la descrive come variante più prudente di questa. La terza versione, nota solo in forma dattiloscritta, è da considerarsi una stesura preparatoria. Nelle due varianti non è presente il riferimento al messaggio dei familiari. Inoltre l’uso di inchiostri diversi, due fogli scritti con la seconda penna, nera, non riempiti e uno dei quali non in lineare continuità con il successivo (fogli 5-6); l’uso del secondo inchiostro per l’intestazione (foglio 1) e per la numerazione di alcune pagine scritte con il primo inchiostro, blu (fogli 1, 4, 9), sono il segnale della complessa stesura che dovette comportare la completa sostituzione di alcuni fogli, almeno il 5 e l’8, di cui non sono note le stesure originarie.11


[foglio 1]


Lettera al Partito della Democrazia Cristiana


Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era invece tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lie[to]. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita [p. 107]


calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l’onesta


[foglio 2]


domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte.
E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non l’avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons Zama, all’Avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse.
Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la


[foglio 3]


circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l’altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata


[foglio 4]


caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d’urgenza e positivamente, dato che non c’è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno


[foglio 5]


rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d’immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c’era l’esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non s’intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C.? È nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i


[foglio 6]


raggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avallata dalla D.C., la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo,

[p. 108]chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a mort[e.] Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l’equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Son più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui egual12 idealmente al posto ch'egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consiglio che tutto sarà fatto com'egli desidera


[foglio 7]


E che dire dell’On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto, (per così dire libero, comodo, a Piazza del Gesù, ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l’On. Piccoli. Per parte mia ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive È possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l’esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedano, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di Parlamentari volevano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di


[foglio 8]


coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l’intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gl’impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l’On. Riccardo Misasi.


[foglio 9]


È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di avere vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell’amatissimo nipotino, dell’altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della D.C. a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini,


[foglio 10]


né per Andreotti né per la D.C. né per il Paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità.
I[o] non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio.
Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto.



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 19:05 
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LETTERA A ZACCAGNINI



2 Al segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini3


Fogli: 3 recto.
Recapitata il 4 aprile 1978. Di questa lettera esiste una diversa versione, nota in fotocopia. La data di scrittura di entrambe è collocabile al 31 marzo sulla base dell’intrinseco riferimento ai quindici giorni trascorsi dal rapimento4.


[foglio 1]


Caro Zaccagnini,
scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell’immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costituire.
È peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per

[p. 101]


[foglio 2]


ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi.
Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio d’indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco.


[foglio 3]


Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità e senza avere subito alcuna coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po' abbandonato da voi.
Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi [ed] a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti.
Fatto il mio dovere d’informare e richiamare, mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso.

Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la D.C., avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v’illumini e lo faccia presto, com’è necessario.

Affettuosi saluti



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 19:08 
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Dalla Lettera a Zaccagnini: "Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso".

Dalla Lettera alla Dc: "E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte".

Dopo tantissimi tentativi quel gruppo di amici di Moro giunse ai seguenti anagrammi, sorprendentemente convergenti:

Il primo testo: "Son fuori Roma, dove la Cassia in basso forma un'esse, vedo pini e bimbi".

Il secondo: "Le Br mi tengono prigioniero nel cottage a mattoni a sommo della valle di Formello tra Flaminia e Cassia: Aldo M."

Per precisione nel primo anagramma restava fuori una g, e nel secondo tre lettere: h, i, u.

I due anagrammi indicavano, se presi sul serio, un luogo abbastanza preciso: zona di Formello, tra Flaminia e Cassia.

Quella zona è raggiungibile in meno di un quarto d'ora da via Fani, ed è ancora più vicina alla nota - adesso - via Gradoli, di cui si continua a parlare fino ad oggi.




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UN GRAZIE SENTITISSSSSSIMO A SAN MAURO , PROTETTORE DEL FORUM !




zio ot [:305]



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 19:28 
PER INIZIARE , gli anagrammi sono una fonte diretta , indubitabile .

Moro è riuscito a fregare tutti .... e tutto quello che sappiamo ,

la verità ufficiale è SOLTANTO FUFFA .



oltre a PIAZZA DELLE CINQUE LUNE consiglio :

https://www.illibraio.it/news/dautore/i ... to-583294/


molto materiale prezioso :

https://originidellereligioni.forumfree ... y656084524



zio ot [:305]



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 19/02/2022, 20:34 
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Il secondo: "Le Br mi tengono prigioniero nel cottage a mattoni a sommo della valle di Formello tra Flaminia e Cassia: Aldo M."

Per precisione nel primo anagramma restava fuori una g, e nel secondo tre lettere: h, i, u.

I due anagrammi indicavano, se presi sul serio, un luogo abbastanza preciso: zona di Formello, tra Flaminia e Cassia.


A TUTTI GLI INSIDER DI UFOFORUM ,

TROVARE SU GOOGLE EARTH !!!!




il caso Viktor Aurel Spachtholz


In realtà quasi immediatamente quella pubblicazione su "Paese Sera" un riscontro lo ebbe. Qualche settimana dopo - fine '86/inizio '87 - arrivò in redazione a Roma, a via del Tritone, un anziano distinto signore, chiedendo degli autori di quegli articoli sugli anagrammi. Mi telefonò il leggendario “portiere” del giornale, che si era informato sull’autore del pezzo, e gli dissi di inviarlo da me.

Si chiamava Viktor Aurel Spachtholz, e si presentò con biglietto da visita, che conservo ancora, come pittore e grafico di fama internazionale, membro dell'Accademia Goncourt di Parigi e Senatore dell'Accademia Burckhardt di Zurigo, residente da decenni in Italia, a Vettica di Amalfi.

Raccontava di aver combattuto nella resistenza antinazista, poi era rimasto in Italia. Di fronte al Direttore di “Paese Sera”, Claudio Fracassi al collega ed ex direttore Piero Pratesi, che avevo subito chiamato e a me, egli disse che sulla base di quello che avevamo pubblicato era in grado di indicare la prigione di cui gli anagrammi parlavano.

Secondo lui essa era nel sotterraneo della villa di un ex magistrato, importantissimo, il cui nome era comparso nelle liste della P2. Raccontò, Spachtholz, davanti a noi tre, che verso il 1976 aveva dato lezioni di pittura a questo ex magistrato nella sua villa in zona Formello, e che una volta era sceso con lui, per brindare alla fine delle lezioni, nella cantina della villa, un vero e proprio bunker fortificato. Sorpreso dallo scenario inatteso egli aveva esclamato così,


"Ma questa è una prigione!", ed il padrone di casa gli aveva replicato pressappoco così: "Noi da qui incendieremo l'Italia, e la salveremo"…



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 20/02/2022, 09:43 
@zio Ot
te vuoi trovare QUEL luogo...ma a distanza di quasi 45 anni potrebbe esser TUTTO cambiato, non credi?.. [:305]

[:295]



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 20/02/2022, 11:14 
FABIOSKY63 ha scritto:
@zio Ot
te vuoi trovare QUEL luogo...ma a distanza di quasi 45 anni potrebbe esser TUTTO cambiato, non credi?.. [:305]

[:295]


proviamoci ....

già che ci siamo ,cerchiamo un passo carraio in via Caetani a Roma , non molto distante dove

fu rinvenuta la R4 rossa .

da vedere assolutamente :

https://it.wikipedia.org/wiki/Piazza_delle_Cinque_Lune

https://web.archive.org/web/20180725193 ... ne-933431/






zio ot [:305]



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 20/02/2022, 11:22 
https://web.archive.org/web/20180322144 ... lm-933633/

La trama del film Piazza delle Cinque Lune «ispiratrice»

delle nuove rivelazioni sul rapimento di Aldo Moro?



La lettera anonima su cui ha indagato l’ex agente Enrico Rossi, che parla della presenza di due agenti dei servizi segreti in via Fani, a bordo di una Honda, è solo una «patacca» camuffata da nuova verità? Le similitudini fra il film, del 2003, e il contenuto della lettera che risale al 2009 e che è stata scritta da un misterioso 007, sono impressionanti. E se è vero che Piazza delle Cinque Lune va oltre nella fantasia, mettendo in scena delle Br infiltrate anzi comandate dalla Cia, è altrettanto vero che molti particolari presenti nel film e nella lettera, sono praticamente indistinguibili. Una coincidenza? Oppure una storia quantomeno «orientata» dal film? Ne parliamo con il regista di quel film, Renzo Martinelli.


Allora, le analogie tra il film e la lettera anonima sono impressionanti. Cos’ha pensato quando l’ha letta?



«Sono rimasto sconcertato perché confermano quanto abbiamo sostenuto dieci anni fa nel film. Solo che all’epoca tutti ci hanno ignorato. Ciò che avevano messo in scena con Piazza delle Cinque Lune trova oggi un’incredibile conferma».


L’autore della lettera dice di essere un agente segreto in fin di vita che vuole «confessare» prima di morire. Anche l’uomo che nel film consegna al giudice il filmato inedito su via Fani ha una malattia terminale. Una coincidenza?


«La nostra era un’invenzione drammaturgica. L’uomo che avvicina il magistrato era un brigatista che faceva parte del commando e che prima di morire vuole rivelare la verità sulla dinamica dell’agguato. Ora la realtà supera la fantasia. Quanto alla malattia, beh, la gente muore di tumore tutti i giorni. Probabilmente si tratta di una coincidenza».

Nel film l’uomo che confessa dice che la mattina della strage era seduto sul sellino posteriore della Honda. La stessa versione di colui che ha vergato la lettera.

«Credo sia un’altra coincidenza. D’altronde la moto aveva una funzione indispensabile per la perfetta riuscita dell’operazione».

Ancora un’altra similitudine. Lei nel film parla del ruolo del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi; l’autore della misteriosa missiva afferma di essere stato al suo servizio in via Fani. Un’altra coincidenza?

Che Guglielmi fosse presente all’angolo tra via Fani e via Stresa, da dove assiste all’agguato, è un dato di fatto. Guglielmi, poi, non è un colonnello qualunque, è uno che insegna agli uomini di Gladio le tecniche d’imboscata.

Dunque per lei è verosimile anche, come scritto nella lettera, che sulla moto fossero presenti due agenti dei servizi segreti italiani?

«Non è solo verosimile, è la realtà. È questa la verità. Sono assolutamente convinto che quanto scritto nella lettera sia vero».
Ritiene, quindi, che dopo tutti questi anni si stia andando verso la verità su quella tragica pagina della storia italiana?

«Nessuno conosce la verità sul caso Moro, ma sono sicuro che quell’operazione avesse delle coperture ad alto livello. Come sempre, però, col tempo si creano delle smagliature. Questa lettera può rappresentare la prima. Magari fra 30 anni scopriremo che probabilmente la nostra ricostruzione era tutta corretta».

Nel suo film, però, lei va oltre, teorizzando che dietro le Br ci fosse la Cia.

«Quando parlo della Cia come "regista" dell’agguato di via Fani è perché l’intuito mi porta là. In via Fani c’è stata una manovra d’attacco militare perfetta. Oltre ai brigatisti c’erano degli specialisti. Sì, le Br erano eterodirette».

Non pensa che l’autore della lettera possa essersi lasciato suggestionare, o addirittura guidare, dal suo film?

«Lo escludo. Credo che chi ha messo nero su bianco quelle parole è solo un uomo che ha raccontato un pezzo di verità coincidente con un altro pezzo di verità che noi avevamo già svelato».



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@Barionu
leggere...

https://www.repubblica.it/politica/2014 ... -81683741/

https://www.ilgazzettino.it/home/caso_m ... 42145.html

all'epoca c'era Palamara come magistrato...ed era anche in Csm PRIMA dell'espulsione, susseguente ai fatti... [8D]

https://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Palamara

ed era ancora vivo e vegeto "il gobbo"...e "l'amico" Licio... [:305]

https://it.wikipedia.org/wiki/Licio_Gelli

https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Andreotti

a fare due più due, ieri (1978) come oggi, mi torna SEMPRE quattro...anche se già, in quei giorni dei fatti di Rossi, NON c'era più il "ministro del West"... [:246]

https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Cossiga

la cassaforte "Gladio", nel dopoguerra, era stato affar suo...ed il mondo dei servizi -il trittico- lo conoscevano bene, "per rif e/o per raf"... [8D]

ti do una dritta, ma ti serve uno fidato, che vive "in caput mundi"...fotografie aeree della zona richiesta, degli anni 77-79, archiviate negli uffici della toponomastica comunale... [;)] [8D]

il tizio pittore disse che era stato un alto magistrato, e che risultava nelle liste p2...ergo nel passato del dopoguerra aveva avuto ANCHE un ruolo in alta politica e nell'organismo "difensivo" occulto, militare, che fu Gladio, forse anche EX ufficiale... [:246] [:305]

al che tornerebbero "a fagiuolo" anche le sue parole, del magistrato, proferite..."salveremo l'Italia! (da quì)" -che implica un ruolo fondamentale organizzativo-, ultima difesa -Gladio- all'avanzata rossa ANCORA nel 1978, epoca dei fatti... [:290]

NON a caso molte delle armi delle BR provenivano proprio dai depositi Gladio post wwar2...ed erano in mano a pochi "custodi FIDATI", esponenti di centro-Dx (era un'assicurazione [;)] ), di cui uno dei principali fu l'ex presidente... [:305]

[:295]



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QUI MOLTO MATERIALE INTERESSANTE



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 06/05/2024, 08:24 
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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 06/05/2024, 08:31 
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da pag 1 post di greenwarrior







Chi era veramente presente quella mattina in via Fani?


Le Commissioni parlamentari hanno
ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle
nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello
Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che
controllava Gladio…).


Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci -
esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di
Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con
via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: "dovevo andare a pranzo da un amico". Dunque,
benché si possa definire quantomeno singolare presentarsi a casa di un amico alle nove di
mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza
dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla
di ciò che era avvenuto ne tantomeno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse
accadendo .



A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi
è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI -

Pierluigi Ravasio


- all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva
in quel periodo di un infiltrato nelle Br: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma
il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro
sarebbe stato rapito .




Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina
del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti italiani si trovava nei pressi di via
Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto
questo importante fatto per più di dieci anni.



Il commando


Come ormai accertato che in sede parlamentare, un tiratore scelto addestratissimo armato di
mitra a canna corta, risolse gli aspetti più difficili e delicati della difficile operazione: con una
prima raffica, sparata a distanza ravvicinata, colpì i carabinieri Leonardi e Ricci seduti nei pressi
di Moro, lasciando però illeso l'onorevole DC. Fu un attacco militare di estrema precisione: la
maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) sparata
da una sola arma, un vero e proprio "Tex Willer" descritto dai testimoni (tra i quali un esperto
di armi, il Lalli) come freddo e di altissima professionalità. Gli esperti hanno sempre concordato
sul fatto che non poteva essere un autodidatta delle Br; nessuno dei membri del commando aveva
una capacità tecnica di sparare come quello che alcuni testimoni hanno definito appunto "Tex
Willer" ed invece, secondo le perizie, praticamente tutti i colpi letali furono sparati da uno solo



4

dei membri del commando. A ciò si somma il fatto che, secondo una perizia depositata in
tribunale, in Via Fani non si sparò solamente da un lato della strada (quello cioè dove si
trovavano i quattro brigatisti i cui nomi sono ormai noti), mentre tale ricostruzione è sempre stata
negata dai diretti interessati. L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione,
attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili
che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in
azioni di commando", risulta veramente straordinaria se si pensa che, come ha testimoniato
Adriana Faranda (anch'ella in azione quel giorno): "gli addestramenti all'uso delle armi da parte
dei brigatisti erano estremamente rari perché era considerato pericoloso spostarsi fuori Roma" .
La stessa Faranda ha però recentemente aggiunto che: "…era convinzione delle Brigate rosse che
la capacità di usare un'arma non era tanto un presupposto tecnico ma piuttosto di volontà
soggettiva, di determinazione, di convinzione che si metteva nel proprio operato" . Insomma, una
- poco credibile - apologia del "fai da te" a dispetto dell'estrema difficoltà dell'azione.



Nata quasi venti anni fa dal lavoro di Zupo e Recchia autori del libro Operazione Moro, la figura
del superkiller è stata ripresa, acriticamente in tutte le successive inchieste. Zupo e Recchia
affermano:
"Il lavoro da manuale è stato compiuto essenzialmente da due persone una delle quali spara 49
colpi l'altra 22 su un totale di 91 [...] il superkiller quello dei 49 colpi, quasi tutti a segno, quello
che ha fatto quasi tutto lui, viene descritto con autentica ammirazione dal teste Lalli anche lui
esperto di armi".



La perizia balistica identifica sul luogo dell'agguato 91 bossoli sparati da 4 armi diverse. Ed
effettivamente 49 bossoli si riferiscono ad un'arma e 22 ad un'altra. Occorre però notare che più
volte la perizia mette in evidenza la parzialità delle risultanze data la vastità del campo d'azione e
la ressa creatasi subito dopo il fatto:

"Non è da scartarsi nella confusione del momento, che curiosi abbiano raccolto od asportato
bossoli, o che essi calpestati o catapultati da colpi di scarpa od altro siano rotolati in luoghi ove
poi non sono stati più trovati (ad esempio un tombino) ed infine che i bossoli proprio non siano
caduti a terra perché trattenuti dentro eventuali borse, ove era trattenuta l'arma che sparava".
Bisogna quindi precisare che 91 non sono i colpi sparati, ma soltanto i bossoli ritrovati sul
terreno. Tenendo presente che i colpi sparati potrebbero essere molti di più dei 91 bossoli
ritrovati, il fatto che 49 colpi sono stati sparati da un'unica arma acquista un valore del tutto
relativo. Se dai bossoli, poi, si passa all'analisi dei proiettili, il dato diventa ancor più aleatorio.



La perizia, infatti, afferma:


"I proiettili ed i frammenti di proiettili repertati sono relativamente molto pochi, un quarto circa
dei proiettili che si sarebbero dovuti trovare in relazione al numero dei bossoli. Non tutti i
proiettili, e forse la maggior parte, nello stato come sono, abrasi, dilaniati, deformati e
scomposti sono utili per definire le caratteristiche della presumibile arma".
Quanto poi all'affermazione dei 49 colpi quasi tutti a segno le risultanze balistiche dicono:
"Nei cadaveri in particolare a fronte di almeno 36 ferite da armi fuoco sono stati repertati
soltanto 13 proiettili calibro 9 mm 8 di cui sparati da un'arma e 5 da un'altra".
Come si può notare quindi è cosa certa, ed emerge dalla perizia, la presenza in Via Fani di un
terrorista che esplode un numero veramente rilevante di colpi. L'altro elemento che è servito per
creare la figura del superkiller è l'ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli che afferma:

5

"Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi
faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che
ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in
quanto con la destra la impugnava e con la sinistra posta sopra la canna faceva in modo che
questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e
precisi".


Lalli parla quindi di una persona esperta nel maneggiare le armi, nulla può chiaramente dire sulla
precisione del killer. Ma è veramente indecifrabile questo personaggio che maneggia così bene le
armi? Nella sua dichiarazione, Lalli assegna all'esperto sparatore un posto ben preciso:
"egli è situato all'incrocio con Via Stresa".


Secondo le ricostruzioni quella posizione è occupata da Valerio Morucci. Perché allora ci sono
dubbi sull'identità del brigatista? Evidentemente Morucci potrebbe anche possedere le qualità
"tecniche" indicate dal Lalli. Per sincerarcene diamo uno sguardo alla sua "carriera".
Morucci entra in Potere Operaio all'inizio degli anni settanta, come responsabile del servizio
d'ordine ed è tra i primi a sollecitare una militarizzazione del movimento. Nel febbraio del 1974
è arrestato dalla polizia svizzera perché in possesso di un fucile mitragliatore e cartucce di
vario calibro.

Alla fine del 1976, al momento dell'entrata nelle Br, devolve all'organizzazione
diverse pistole, munizioni, e la famosa mitraglietta skorpion, già usata nel ferimento Theodoli, ed
in seguito utilizzata per uccidere Moro. Come componente della colonna romana delle Br
partecipa a quasi tutti gli attentati che insanguinano Roma nel 1977. Infine, quando insieme con
la Faranda esce dalle Br, pur essendo ormai un isolato senza prospettive militari, decide di
riprendersi le proprie armi. Un vero arsenale formato da pistole, mitra e munizioni rinvenuto in
casa di Giuliana Conforto [il cui padre è risultato poi essere nella rete informativa del KGB.
NDR] al momento del suo arresto, il 29 Maggio 1979 (singolare poi il fatto che tra le cose
trovate addosso a Morucci ci fosse anche il numero di telefono privato di Monsignor Marcinkus).
A conferma del rapporto quasi maniacale che Morucci ha con le armi ci sono moltissime
testimonianze di compagni brigatisti. Carlo Brogi, un militante della colonna romana nel
processo Moro afferma:


"Morucci aveva con le armi un rapporto incredibile, anche perché, come lui stesso mi ha detto,
molte delle armi che aveva portato via le aveva portate lui nell'organizzazione provenendo dai
FAC e che queste armi erano il risultato d'anni di ricerche per modificarle, per trovare i pezzi di
ricambio, insomma erano sue creature. Pertanto per lui separarsene era un insulto a tutto il suo
lavoro".


Credo che, viste le caratteristiche di Morucci, affermare che fosse in grado di maneggiare
correttamente un fucile sia davvero il minimo. Però Morucci, anche durante l'ultima audizione in
Commissione stragi, ha affermato che il suo mitra si inceppò dopo 2 o 3 colpi. Dunque egli non
può essere il super killer e probabilmente è anche sbagliata la ricostruzione fatta circa la
posizione dei vari brigatisti in Via Fani; a ciò si aggiunge il fatto che nessuno degli altri membri
del commando aveva una preparazione da "commando", anzi, la loro compassata freddezza da
commando era tale che prima dell'azione Bonisoli pensò bene di farsi un bel grappino per
sciogliere la paura. Ma allora chi era il "Tex Willer" ? Cercheremo di rispondere tra breve.
I "misteri" sull'azione militare non sono infatti finiti. In via Fani, dei 93 colpi sparati contro la
scorta dell'onorevole Moro, furono raccolti trentanove bossoli sui quali il perito Ugolini,
nominato dal giudice Santiapichi nel primo processo Moro, disse quanto segue:

6

"Furono rinvenuti colpi ricoperti da una vernice protettiva che veniva impiegata per assicurare
una lunga conservazione al materiale. Inoltre questi bossoli non recano l'indicazione della data
di fabbricazione".
In effetti vi era scritto "GFL", Giulio Fiocchi di Lecco, ma il calibro non veniva indicato - come
normalmente fanno invece le ditte costruttrici - e nemmeno la data di fabbricazione di quei
bossoli. Il perito affermò che
"questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva veniva usata per garantire la lunga
conservazione del materiale. Il fatto che non sia indicata la data di fabbricazione è un tipico
modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari
non convenzionali".



In ogni caso, sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani
delle Brigate rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro.
Un altro ragionamento poi avvalora la tesi di un killer estraneo alle Brigate rosse. Per quale
ragione i terroristi del gruppo di fuoco indossavano delle divise dell'ALITALIA ? Quello fu
effettivamente un accorgimento abbastanza singolare, talmente strano da richiamare l'attenzione
dei passanti anziché distoglierla. La spiegazione che viene da trovare risiede nel fatto che forse
non tutti i brigatisti del commando si conoscevano fra loro, così la divisa serviva appunto al
reciproco riconoscimento, in pratica per non spararsi a vicenda. Una conferma dunque della
teoria del Killer "esterno".



Ma chi poteva essere questo killer professionista ? Due persone piuttosto ben informate, Renato
Curcio e Mino Pecorelli, in merito a tale questione hanno parlato di "occasionali alleati" delle Br;
gruppi legati alla delinquenza comune che avrebbero per l'occasione "prestato" alcuni uomini per
portare a termine quella strage? E quale luogo migliore delle carceri italiane avrebbe potuto
fungere da punto di incontro da due realtà tanto diverse?


E' infatti al loro interno che si parlò molto del sequestro (o comunque di un attentato) di un'alta
personalità politica, tanto che il SISMI ne era stato debitamente informato in tempo utile [un
detenuto comune, Salvatore Senese, informò il 16 febbraio 1978 appunto il SISMI che le Brigate
rosse stavano progettando un simile sequestro. NDR].


Il riferimento che Mino Pecorelli fa sul suo giornale OP a Renato Curcio non appare quindi
casuale, perché proprio lui potrebbe aver rappresentato il tramite ideale fra i suoi compagni liberi
e gli ambienti malavitosi ai quali chiedere temporaneo soccorso. Come abbiamo già notato, certi
indizi puntano direttamente in Calabria. Di questo parere sembra essere oggi anche Francesco
Biscione quando afferma:
"probabilmente allorché Moretti costituì la colonna romana delle Brigate rosse (fine 1975)
aveva già rapporti (viaggi in Sicilia e in Calabria) o con settori criminali o con compagni
dell'area del partito armato in grado di metterlo in contatto con segmenti del crimine
organizzato" .


E ricorda tre episodi che potrebbero costituire un serio indizio in tal senso:

"La presenza del Moretti è accertata - scrive - a Catania il 12 dicembre 1975 (insieme con
Giovanna Currò, probabile copertura di Barbara Balzerani) presso l'hotel Costa e il 15
dicembre presso il Jolly hotel. Il 6 febbraio 1976 Moretti ricomparve nel Mezzogiorno con la
sedicente Currò, a Reggio Calabria presso l'hotel Excelsior. Oltre al fatto che non sono mai
state chiarite le finalità dei viaggi - prosegue Biscione - questa circostanza sembra possedere un
altro motivo di curiosità: i viaggi, o almeno il secondo di essi avvennero all'insaputa del resto

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https://www.fondazionecipriani.it/Scritti/ilcaso.html



Il pezzo che segue si legga con l'avvertenza che l'impiegato di banca e collaboratore di Panorama di cui si parla è Emanuele Bettini, giornalista e storico, autore di Lo stragismo da Gladio al caso Moro, nel nostro Quel Marx di San Macuto; nonché del volume La repubblica parallela, EDS 1996 ove ulteriori notizie sul caso Ravasio.



Luigi Cipriani, Il caso Pierluigi Ravasio, 8 maggio 1991,

Relazione alla Commissione stragi.


" Ravasio disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, i rapporti bruciati "



Pierluigi Ravasio di trentatre anni, nato a Mapello in provincia di Bergamo, ex carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, passato alla professione di guardia giurata, sino al 1990 residente in Cremona, attualmente tornato al paese d'origine. Per tradizione di famiglia Ravasio è un templare, come il padre a sua volta ex carabiniere paracadutista aderente alla Rsi. Ravasio si è presentato come un fascista deluso.

Agli inizi del 1987 due guardie giurate dell'Ivri -tra le quali Ravasio- in servizio di fronte alla Cassa di risparmio di Piacenza, filiale di Cremona, iniziarono una discussione con un impiegato della banca riguardante la tematica dei mercenari ed i corpi speciali. Alcuni giorni dopo, Ravasio invitò nella sua abitazione l'impiegato ed in presenza della seconda guardia giurata iniziò a raccontare la propria storia, non senza avere messo in bella evidenza la propria pistola ed un fucile a pompa, che disse essere l'arma che comparirà nelle figure del Manuale del guastatore da lui stesso redatto. Ravasio disse di essersi arruolato nel 1976 nel corpo dei carabinieri paracadutisti di Livorno, di essere entrato nei Gis e di avere partecipato alla repressione della rivolta nel carcere di Trani. Nel 1978, avvicinato da un ufficiale del Sismi, decise di entrare nel servizio e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII sezione dell'ufficio R di Roma. Il tesserino del Sismi in fotocopia mostrato da Ravasio porta la firma di Santovito e Musumeci ed il n.36: che non dovrebbe essere casuale, ma indicare un ordine di importanza (Santovito ha il n.1), il ruolo dell'agente. Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio cui Ravasio faceva riferimento, mentre i diretti superiori erano il colonnello Guglielmi (detto papà) ed il colonnello Cenicola. L'ufficio era situato a Forte Braschi mentre la squadra (sei persone) con la quale Ravasio operava era stanziata a Fiumicino. Ravasio mostrò anche fotografie che lo ritraevano in divisa e armato con altri gruppi di corpi speciali (Usa, Germania, Israele), mostrò una foto in tenuta da templare in una cerimonia a Dublino. Ravasio disse di essere in possesso del Nos di grado Cosmic.

Mostrando il manuale da lui firmato, intitolato C.a.g.p.Cenni fondamentali sulle tecniche di sabotaggio ed antisabotaggio, disse di essersi recato diverse volte ad addestrarsi a Cala Griecas (capo Marrangiu) e di avere avuto come istruttori Alfonso (al quale è dedicato il manuale) e Decimo Garau, il primo maresciallo degli alpini, il secondo ufficiale di marina. Disse di far parte di un gruppo di quattrocento persone suddivise in nuclei di sei, il cui compito era di opporsi a sommosse interne da parte della sinistra. Il gruppo era in grado di entrare in clandestinità in poco tempo e di bloccare le comunicazioni isolando intere città e zone del paese. Ravasio disse di avere iniziato il proprio addestramento a Livorno coi paracadutisti e di essere successivamente passato a Cala Griecas ed aggiunse di essere stato addestrato ad azioni di infiltrazione ed a compiere attentati all'estero. Partecipò anche all'addestramento di militari israeliani che attuarono la repressione contro i palestinesi denominata "pace in Galilea". Ciò avveniva col consenso del Sismi a che Ravasio potesse recarsi in Israele, nei confronti del quale esiste un'antica alleanza coi templari derivante dalla comune difesa del tempio di Salomone.



Il caso Moro

Ravasio disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di ex detenuti e malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, molto probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati. Ravasio venne inviato a Ciampino, dove svolgeva compiti di vigilanza sugli aerei della Cai del Sismi.

Ravasio disse anche che Musumeci aveva un infiltrato nelle Br, era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era Franco, il quale avvertì con una mezzora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Uno dei superiori diretti di Ravasio, il colonnello Guglielmi -attualmente deceduto- si trovò a passare da pochi metri da via Fani, ma disse di non aver potuto fare niente per intervenire.

Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro, il Sismi consentì alla banda di poter compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'areoporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'areoporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne in una banca nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi.

A seguito di uno screzio avuto col capocentro CS di Milano e pochi mesi prima della scoperta degli elenchi della P2, Ravasio lasciò il Sismi per trasferirsi alla sezione anticrimine di Parma fino al 1982, data di stesura del manuale di cui s'è detto e del suo congedo. Successivamente Ravasio lavorò per un istituto di guardie private, l'Ivri, prima a Brescia e poi a Cremona dove alloggiava, ed ha svolto anche la funzione di istruttore presso il locale tiro a segno.



Come conobbi Ravasio

Nel dicembre 1990 si svolse a Cremona un dibattito sulla vicenda Gladio, alla fine del quale venni avvicinato dall'impiegato di banca al quale, all'inizio del 1987, Ravasio fece le sue confidenze. Egli mi disse che prima dell'esplodere del caso Gladio non aveva dato eccessiva importanza al racconto fattogli, ma che ora riteneva opportuno che io ne venissi a conoscenza nella mia funzione di componente della Commissione parlamentare sulle stragi e mi consegnò una copia del manuale. Incuriosito, chiesi a Ravasio -del quale avevo rintracciato il recapito telefonico- di poterlo incontrare, cosa che avvenne prima del Natale 1990 in un ristorante di Cremona. L'ex agente del Sismi mi disse che non intendeva assolutamente essere coinvolto né dalla Commissione stragi né dalla magistratura e di avere acconsentito ad incontrarmi solo per darmi qualche informazione utile al mio lavoro, stanti le fortissime delusioni avute dalla destra politica e dai servizi segreti; ma che non desiderava io facessi il suo nome. L'incontro si protrasse per circa due ore, durante le quali Ravasio confermò sostanzialmente quanto aveva detto all'impiegato di banca, presente anche nella nuova circostanza.

Che Ravasio e il gruppo cui appartiene avesse deciso di coinvolgere la stampa nelle confessioni è dimostrato dal fatto che l'impiegato di banca è corrispondente da Cremona per il settimanale Panorama, cosa nota a Ravasio e che prima di incontrare me si era incontrato nel novembre 1990 a Cremona con la giornalista Valeria Gandus, dalla quale si era fatto intervistare maneggiando una pistola di grosso calibro di marca israeliana. Successivamente nel proprio appartamento, tra fotografie e fotocopia del tesserino Sismi, Ravasio mostrò un'altra pistola marca Beretta. L'incontro con la Gandus era stato originato dal fatto che su Panorama era uscito un articolo che si rifaceva a quanto raccontato da Ravasio nel 1987, cosa che lo fece infuriare ma non gli impedì di farsi intervistare, salvo minacciare la giornalista se avesse fatto il suo nome.

Ravasio mi disse che in quei giorni aveva visto sui giornali la foto del generale Inzerilli che aveva visto spesso a Cala Griecas come istruttore e che era noto come il signor Paolo. Mi disse che durante il proprio servizio a Ciampino fece servizio di vigilanza sugli aerei della Cai in occasione del viaggio di trasferimento del generale Dalla Chiesa da Roma a Palermo, dopo la nomina di quest'ultimo a prefetto del capoluogo siciliano. Mi disse anche di essere stato stanziato presso il Rus (raggruppamento unità speciali) ex Rud (raggruppamento unità difesa) di Roma, che disponeva anche di un centro di ascolto del Sismi dislocato sull'Aurelia al Km.42,5 allo svincolo per Ladispoli.



Alcune verifiche

Durante la sua audizione in Commissione stragi il generale Cismondi ad una mia domanda ha confermato che Alfonso e Decimo Garau erano istruttori della Gladio a Cala Griecas (capo Marrangiu), rendendo credibile il racconto fatto da Ravasio nel 1987, un periodo non sospetto. D'altro canto, recentemente il senatore Cazora ha confermato al magistrato romano che sta indagando sulle trattative condotte durante il sequestro Moro che si ebbe coscienza del fatto che il presidente della Dc fosse "custodito" dalla banda della Magliana. Del resto numerose volte Cutolo ha alluso al fatto di essere a conoscenza di molti aspetti del sequestro Moro. A tale proposito va ricordato che il suo vice Casillo era in contatto sia con la banda della Magliana, sia col Sismi e col Sisde (vedi caso Cirillo). Anche in questo caso il racconto di Ravasio ha molti elementi di credibilità.

In conclusione va aggiunto che la sera precedente il nostro incontro a Cremona, Ravasio venne fermato dalla Digos ed incriminato per il possesso di due proiettili per arma da guerra. A seguito di una perquisizione nell'abitazione dell'ex guardia giurata ex agente del Sismi, la Digos rinvenne armi (regolarmente denunciate) ed una tuta mimetica. Il prefetto di Cremona è intervenuto ingiungendo a Ravasio di consegnare il porto d'armi e di vendere le armi di cui era in possesso. Ravasio è stato rinviato a giudizio.



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