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 Oggetto del messaggio: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 13/02/2010, 15:22 







Per meglio comprendere quello che siamo oggi.



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 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 13/02/2010, 16:22 
Bravo Green !

" Piazza delle cinque lune " è un film straordinario.


http://it.wikipedia.org/wiki/Piazza_delle_Cinque_Lune



Sutherland è doppiato dall' immenso Sergio Graziani.

http://www.antoniogenna.net/doppiaggio/voci/vocisgr.htm

Questo è un Topic dove c'è da lavorare parecchiio.



zio ot [;)]


Ultima modifica di barionu il 13/02/2010, 16:25, modificato 1 volta in totale.


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http://www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=57
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 Oggetto del messaggio:
MessaggioInviato: 13/02/2010, 16:41 
Grazie zio.

E allora diamoci da fare. [:D]




Cinque diversi procedimenti giudiziari con più di una decina di sentenze, una sesta inchiesta avviata ("Il Moro sesties"); i particolareggiati racconti dei brigatisti rossi ("pentiti" o dissociati); il lungo lavoro di una commissione parlamentare d’inchiesta (la commissione Moro); l’impegno di un altro organismo parlamentare (la commissione stragi); almeno una ventina di libri. Eppure l’ombra di Aldo Moro continua a muoversi nelle segrete stanze del potere con il suo fardello di misteri, di punti non chiariti, di dubbi ed interrogativi.
Anche se il tempo passa e ci allontana sempre più da quei tremendi 55 giorni, il caso Moro continua a rappresentare il nodo dei nodi dei misteri d’Italia. Sommersi dallo stillicidio di notizie – spesso contraddittorie – che da quasi un quarto di secolo ci vengono propinate con ossessiva regolarità, è sempre più facile giungere ad una conclusione: nell’affaire Moro la volontà di attacco allo Stato di un manipolo di terroristi si è perfettamente intrecciata con la capacità di quello stesso Stato di gestire l’intera, tragica vicenda a proprio vantaggio. A distanza di tanti anni ancora non sappiamo: quanti brigatisti parteciparono all’assalto di via Fani; se tra loro ci fossero elementi esterni; se quell’attacco fu, in qualche modo, teleguidato; dove Moro fu custodito; cosa effettivamente il prigioniero raccontò ai suoi secondini; chi decise effettivamente di ucciderlo e, soprattutto, perché; che fine hanno fatto "le rivelazioni integrali" (il famoso memoriale Moro).
Non sappiamo neppure se quella delle forze dell’ordine chiamate a liberare il prigioniero fu solo clamorosa inefficienza oppure occulta connivenza con i sequestratori. Sappiamo però che sia gli uomini dei servizi segreti, sia quelli della P2 nel caso Moro ebbero un ruolo per certi versi determinante.
In questa pagina raccoglieremo, di volta in volta, i tanti enigmi del caso Moro tuttora irrisolti e alcune loro possibili interpretazioni.
Un contributo a capire ciò che ancora oggi, in molti, non vorrebbero farci capire.


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Gli interrogativi del caso Moro
Un contributo di Roberto Bartali
Il culmine delle "stranezze" inerenti le Brigate rosse lo ritroviamo nel rapimento dell'On. Moro.
I 55 drammatici giorni del sequestro dello statista DC furono segnati fin dall'inizio da una serie
incredibile di "coincidenze".
Gli accadimenti del 16 marzo 1978
Iniziamo col dire che quella mattina del 16 Marzo 1978, subito dopo l’attacco del commando e la
strage, il trasbordo del presidente DC - secondo la testimonianza diretta di un'involontaria
spettatrice dell'accaduto - avvenne piuttosto lentamente, una calma quasi surreale visto ciò che
era appena accaduto. Intanto al numero 109 di Via Fani, un altro fortuito spettatore - Gherardo
Nucci - scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi
dalla fuga del commando; dopo i primi scatti il Nucci sente il rumore delle sirene e vede arrivare
sul posto un auto della polizia seguita poi da altre . Di quelle foto, consegnate quasi subito alla
magistratura inquirente dalla moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA, non si saprà più nulla;
qualche "manina" le ha fatte sparire. A tale proposito c’è da sottolineare come quelle foto, che
evidentemente avevano immortalato qualcosa (o meglio qualcuno) di importante, furono al
centro di strani interessamenti da parte di un certo tipo di malavita, la 'ndrangheta calabrese, di
cui avremo modo di parlare in seguito e che ad una prima analisi sembrerebbe un'intrusione
completamente fuori luogo, trattandosi di terrorismo di sinistra, dunque politico. Ecco, ad
esempio, uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sull'apparecchio di Sereno
Freato, nel caso specifico egli stava parlando con l'On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di
tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro:
Cazora: Un'altra questione, non so se posso dirtelo.
Freato: Si, si, capiamo.
Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo.
Freato: Quelle del posto, lì?
Cazora: Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perché uno stia proprio lì, mi è stato
comunicato da giù.
Freato: E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove
Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto
quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro.
Freato: Capito. E' un po’ un problema adesso.
Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?
Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire.
Cazora: Dire al ministro.
Freato: Saran tante!
Traspare la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi, le foto scattate dalla terrazza di
casa Nucci avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per la
persona loro cara, sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina.
Compiuta la strage e sequestrato Moro i terroristi riuscirono a dileguarsi grazie ad una
sorprendente coincidenza: una volante della polizia stazionava come ogni mattina in Via Bitossi
nei pressi del giudice Walter Celentano, luogo dove stavano per sopraggiungere le auto dei
brigatisti in fuga; proprio qualche istante prima dell'arrivo dei brigatisti, un ordine-allarme del
COT (centro operativo telecomunicazioni) fece muovere la pattuglia. In via Bitossi era

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parcheggiato il furgone con la cassa di legno sulla quale sarebbe stato fatto salire Moro. Un
tempismo perfetto. I brigatisti avevano la certezza che quella volante si sarebbe spostata?
L'unica certezza cui possiamo fare appello per questa circostanza è che tra i reperti sequestrati a
Morucci dopo il suo arresto verrà trovato un appunto recante il numero di telefono del
commissario capo Antonio Esposito (affiliato alla P2), in servizio guarda caso proprio la mattina
del rapimento. Secondo il racconto degli esecutori, il commando brigatista, una volta effettuato
un cambio di auto nella già citata Via Bitossi, con il sequestrato chiuso in una cassa contenuta in
un furgone guidato da Moretti e seguito da una Dyane al cui volante era Morucci, fa perdere le
proprie tracce. Per portare a termine il sequestro del più importante uomo politico italiano, e
fronteggiare eventuali posti di blocco, le Br fecero uso solamente di due auto, veramente strano
se si considera che per rapire Valeriano Gancia le stesse Br ne avevano usate tre.
Sul numero dei brigatisti presenti sono illuminanti le deduzioni di Alberto Franceschini:
“...per il sequestro Sossi, che era abbastanza facile da compiere, nel senso che era una persona
che si muoveva senza scorta, il rapimento fu effettuato di sera in una viuzza. Semmai, si
presentavano problemi per la via di fuga, ma non tanto per la presa del soggetto. Comunque,
per compiere questa operazione, noi eravamo diciotto persone, stando anche a ciò che dice
Bonavita nella sua ricostruzione. Quindi, mi sembra assolutamente improponibile che
un'operazione militare complessa come quella di via Fani sia stata compiuta da solo da dodici
persone”.
I dubbi si fanno insistenti se si pensa che, sempre secondo il racconto fatto dai terroristi, il
trasbordo dell'On. Moro sul furgone che doveva portarlo nel covo-prigione di Via Montalcini
avvenne in piazza Madonna del cenacolo, una delle più trafficate e per giunta piena zeppa di
esercizi commerciali a quell'ora già aperti, mentre il furgone che doveva ospitare il rapito (e del
quale, al contrario delle altre auto usate, non verrà mai ritrovata traccia) era stato lasciato privo di
custodia, in modo tale che se qualcuno avesse parcheggiato in doppia fila, le Br avrebbero
compromesso tutta l'operazione.
Adriana Faranda in merito a questo particolare - anche di fronte alla Commissione stragi - ha
risposto che in caso di contrattempi di questo tipo Moretti avrebbe portato il prigioniero alla
prigione del popolo con l'auto che aveva in quel momento, un'affermazione alla quale non mi
sento di credere visto l'inutile pericolo che i brigatisti avrebbero corso e considerando anche che,
come hanno invece dimostrato, essi non erano affatto degli sprovveduti.
Poco dopo la strage un tempestivo black-out interruppe le comunicazioni telefoniche in tutta la
zona tra via Fani e via Stresa, impedendo così le prime fondamentali chiamate di allarme e
coprendo di fatto la fuga delle Br. Secondo il procuratore della Repubblica Giovanni de Matteo -
ma anche per gli stessi brigatisti - l'interruzione venne provocata volontariamente, tutto il
contrario di quanto sostenuto dall'allora SIP, che attribuì il blocco delle linee al "sovraccarico
nelle comunicazioni". Su questo punto i brigatisti hanno affermato che il merito di tale
interruzione era da attribuirsi a dei "compagni" che lavoravano all'interno della compagnia
telefonica. Però coincidenza volle che il giorno prima (il 15 Marzo alle 16:45) la struttura della
SIP che era collegata al servizio segreto militare (SISMI), fosse stata posta in stato di allarme,
proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali,
eventi bellici e...atti di terrorismo. Una strana premonizione visto che era giusto il giorno prima
del rapimento di Moro.
Le borse del presidente
Un mistero inerente al giorno del rapimento riguarda poi la sparizione di alcune delle borse di
Moro. Secondo la testimonianza di Eleonora Moro, moglie del defunto presidente, il marito
usciva abitualmente di casa portando con se cinque borse: una contenente documenti riservati,

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una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea
dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre
borse. La signora Moro in proposito ha delle precise convinzioni:
"I terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c'era una bella
costellazione di borse".
Nonostante l'enorme quantità di materiale brigatista sequestrato negli anni successivi all'interno
delle numerose basi scoperte, delle due borse di Moro non è mai stata rinvenuta traccia, un fatto
di rilievo se si considera soprattutto il contenuto dei documenti che il presidente portava con se.
Corrado Guerzoni, braccio destro dell'onorevole Moro, ha affermato che con ogni probabilità
quelle borse contenevano anche la prova che il coinvolgimento del presidente DC nello scandalo
Lockheed era stato frutto di una "imboccata" fatta dal segretario di stato americano, Kissinger.
Questo delle borse scomparse (e dei documenti da esse contenute) è un punto sul quale l'alone di
mistero tarda a scomparire, tant'è che nell'ultima relazione del presidente della Commissione
stragi, il senatore Pellegrino continua ad indicarlo come di cruciale importanza.
Oscure presenze in via Fani
Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno
ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle
nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello
Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che
controllava Gladio…). Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci -
esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di
Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con
via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: "dovevo andare a pranzo da un amico". Dunque,
benché si possa definire quantomeno singolare presentarsi a casa di un amico alle nove di
mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza
dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla
di ciò che era avvenuto ne tantomeno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse
accadendo . A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi
è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI - Pierluigi
Ravasio - all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva
in quel periodo di un infiltrato nelle Br: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma
il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro
sarebbe stato rapito . Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina
del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti italiani si trovava nei pressi di via
Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto
questo importante fatto per più di dieci anni.
Il commando
Come ormai accertato che in sede parlamentare, un tiratore scelto addestratissimo armato di
mitra a canna corta, risolse gli aspetti più difficili e delicati della difficile operazione: con una
prima raffica, sparata a distanza ravvicinata, colpì i carabinieri Leonardi e Ricci seduti nei pressi
di Moro, lasciando però illeso l'onorevole DC. Fu un attacco militare di estrema precisione: la
maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) sparata
da una sola arma, un vero e proprio "Tex Willer" descritto dai testimoni (tra i quali un esperto
di armi, il Lalli) come freddo e di altissima professionalità. Gli esperti hanno sempre concordato
sul fatto che non poteva essere un autodidatta delle Br; nessuno dei membri del commando aveva
una capacità tecnica di sparare come quello che alcuni testimoni hanno definito appunto "Tex
Willer" ed invece, secondo le perizie, praticamente tutti i colpi letali furono sparati da uno solo

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dei membri del commando. A ciò si somma il fatto che, secondo una perizia depositata in
tribunale, in Via Fani non si sparò solamente da un lato della strada (quello cioè dove si
trovavano i quattro brigatisti i cui nomi sono ormai noti), mentre tale ricostruzione è sempre stata
negata dai diretti interessati. L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione,
attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili
che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in
azioni di commando", risulta veramente straordinaria se si pensa che, come ha testimoniato
Adriana Faranda (anch'ella in azione quel giorno): "gli addestramenti all'uso delle armi da parte
dei brigatisti erano estremamente rari perché era considerato pericoloso spostarsi fuori Roma" .
La stessa Faranda ha però recentemente aggiunto che: "…era convinzione delle Brigate rosse che
la capacità di usare un'arma non era tanto un presupposto tecnico ma piuttosto di volontà
soggettiva, di determinazione, di convinzione che si metteva nel proprio operato" . Insomma, una
- poco credibile - apologia del "fai da te" a dispetto dell'estrema difficoltà dell'azione.
Nata quasi venti anni fa dal lavoro di Zupo e Recchia autori del libro Operazione Moro, la figura
del superkiller è stata ripresa, acriticamente in tutte le successive inchieste. Zupo e Recchia
affermano:
"Il lavoro da manuale è stato compiuto essenzialmente da due persone una delle quali spara 49
colpi l'altra 22 su un totale di 91 [...] il superkiller quello dei 49 colpi, quasi tutti a segno, quello
che ha fatto quasi tutto lui, viene descritto con autentica ammirazione dal teste Lalli anche lui
esperto di armi".
La perizia balistica identifica sul luogo dell'agguato 91 bossoli sparati da 4 armi diverse. Ed
effettivamente 49 bossoli si riferiscono ad un'arma e 22 ad un'altra. Occorre però notare che più
volte la perizia mette in evidenza la parzialità delle risultanze data la vastità del campo d'azione e
la ressa creatasi subito dopo il fatto:
"Non è da scartarsi nella confusione del momento, che curiosi abbiano raccolto od asportato
bossoli, o che essi calpestati o catapultati da colpi di scarpa od altro siano rotolati in luoghi ove
poi non sono stati più trovati (ad esempio un tombino) ed infine che i bossoli proprio non siano
caduti a terra perché trattenuti dentro eventuali borse, ove era trattenuta l'arma che sparava".
Bisogna quindi precisare che 91 non sono i colpi sparati, ma soltanto i bossoli ritrovati sul
terreno. Tenendo presente che i colpi sparati potrebbero essere molti di più dei 91 bossoli
ritrovati, il fatto che 49 colpi sono stati sparati da un'unica arma acquista un valore del tutto
relativo. Se dai bossoli, poi, si passa all'analisi dei proiettili, il dato diventa ancor più aleatorio.
La perizia, infatti, afferma:
"I proiettili ed i frammenti di proiettili repertati sono relativamente molto pochi, un quarto circa
dei proiettili che si sarebbero dovuti trovare in relazione al numero dei bossoli. Non tutti i
proiettili, e forse la maggior parte, nello stato come sono, abrasi, dilaniati, deformati e
scomposti sono utili per definire le caratteristiche della presumibile arma".
Quanto poi all'affermazione dei 49 colpi quasi tutti a segno le risultanze balistiche dicono:
"Nei cadaveri in particolare a fronte di almeno 36 ferite da armi fuoco sono stati repertati
soltanto 13 proiettili calibro 9 mm 8 di cui sparati da un'arma e 5 da un'altra".
Come si può notare quindi è cosa certa, ed emerge dalla perizia, la presenza in Via Fani di un
terrorista che esplode un numero veramente rilevante di colpi. L'altro elemento che è servito per
creare la figura del superkiller è l'ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli che afferma:

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"Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi
faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che
ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in
quanto con la destra la impugnava e con la sinistra posta sopra la canna faceva in modo che
questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e
precisi".
Lalli parla quindi di una persona esperta nel maneggiare le armi, nulla può chiaramente dire sulla
precisione del killer. Ma è veramente indecifrabile questo personaggio che maneggia così bene le
armi? Nella sua dichiarazione, Lalli assegna all'esperto sparatore un posto ben preciso:
"egli è situato all'incrocio con Via Stresa".
Secondo le ricostruzioni quella posizione è occupata da Valerio Morucci. Perché allora ci sono
dubbi sull'identità del brigatista? Evidentemente Morucci potrebbe anche possedere le qualità
"tecniche" indicate dal Lalli. Per sincerarcene diamo uno sguardo alla sua "carriera".
Morucci entra in Potere Operaio all'inizio degli anni settanta, come responsabile del servizio
d'ordine ed è tra i primi a sollecitare una militarizzazione del movimento. Nel febbraio del 1974
è arrestato dalla polizia svizzera perché in possesso di un fucile mitragliatore e cartucce di
vario calibro. Alla fine del 1976, al momento dell'entrata nelle Br, devolve all'organizzazione
diverse pistole, munizioni, e la famosa mitraglietta skorpion, già usata nel ferimento Theodoli, ed
in seguito utilizzata per uccidere Moro. Come componente della colonna romana delle Br
partecipa a quasi tutti gli attentati che insanguinano Roma nel 1977. Infine, quando insieme con
la Faranda esce dalle Br, pur essendo ormai un isolato senza prospettive militari, decide di
riprendersi le proprie armi. Un vero arsenale formato da pistole, mitra e munizioni rinvenuto in
casa di Giuliana Conforto [il cui padre è risultato poi essere nella rete informativa del KGB.
NDR] al momento del suo arresto, il 29 Maggio 1979 (singolare poi il fatto che tra le cose
trovate addosso a Morucci ci fosse anche il numero di telefono privato di Monsignor Marcinkus).
A conferma del rapporto quasi maniacale che Morucci ha con le armi ci sono moltissime
testimonianze di compagni brigatisti. Carlo Brogi, un militante della colonna romana nel
processo Moro afferma:
"Morucci aveva con le armi un rapporto incredibile, anche perché, come lui stesso mi ha detto,
molte delle armi che aveva portato via le aveva portate lui nell'organizzazione provenendo dai
FAC e che queste armi erano il risultato d'anni di ricerche per modificarle, per trovare i pezzi di
ricambio, insomma erano sue creature. Pertanto per lui separarsene era un insulto a tutto il suo
lavoro".
Credo che, viste le caratteristiche di Morucci, affermare che fosse in grado di maneggiare
correttamente un fucile sia davvero il minimo. Però Morucci, anche durante l'ultima audizione in
Commissione stragi, ha affermato che il suo mitra si inceppò dopo 2 o 3 colpi. Dunque egli non
può essere il super killer e probabilmente è anche sbagliata la ricostruzione fatta circa la
posizione dei vari brigatisti in Via Fani; a ciò si aggiunge il fatto che nessuno degli altri membri
del commando aveva una preparazione da "commando", anzi, la loro compassata freddezza da
commando era tale che prima dell'azione Bonisoli pensò bene di farsi un bel grappino per
sciogliere la paura. Ma allora chi era il "Tex Willer" ? Cercheremo di rispondere tra breve.
I "misteri" sull'azione militare non sono infatti finiti. In via Fani, dei 93 colpi sparati contro la
scorta dell'onorevole Moro, furono raccolti trentanove bossoli sui quali il perito Ugolini,
nominato dal giudice Santiapichi nel primo processo Moro, disse quanto segue:

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"Furono rinvenuti colpi ricoperti da una vernice protettiva che veniva impiegata per assicurare
una lunga conservazione al materiale. Inoltre questi bossoli non recano l'indicazione della data
di fabbricazione".
In effetti vi era scritto "GFL", Giulio Fiocchi di Lecco, ma il calibro non veniva indicato - come
normalmente fanno invece le ditte costruttrici - e nemmeno la data di fabbricazione di quei
bossoli. Il perito affermò che
"questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva veniva usata per garantire la lunga
conservazione del materiale. Il fatto che non sia indicata la data di fabbricazione è un tipico
modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari
non convenzionali".
In ogni caso, sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani
delle Brigate rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro.
Un altro ragionamento poi avvalora la tesi di un killer estraneo alle Brigate rosse. Per quale
ragione i terroristi del gruppo di fuoco indossavano delle divise dell'ALITALIA ? Quello fu
effettivamente un accorgimento abbastanza singolare, talmente strano da richiamare l'attenzione
dei passanti anziché distoglierla. La spiegazione che viene da trovare risiede nel fatto che forse
non tutti i brigatisti del commando si conoscevano fra loro, così la divisa serviva appunto al
reciproco riconoscimento, in pratica per non spararsi a vicenda. Una conferma dunque della
teoria del Killer "esterno".
Ma chi poteva essere questo killer professionista ? Due persone piuttosto ben informate, Renato
Curcio e Mino Pecorelli, in merito a tale questione hanno parlato di "occasionali alleati" delle Br;
gruppi legati alla delinquenza comune che avrebbero per l'occasione "prestato" alcuni uomini per
portare a termine quella strage? E quale luogo migliore delle carceri italiane avrebbe potuto
fungere da punto di incontro da due realtà tanto diverse?
E' infatti al loro interno che si parlò molto del sequestro (o comunque di un attentato) di un'alta
personalità politica, tanto che il SISMI ne era stato debitamente informato in tempo utile [un
detenuto comune, Salvatore Senese, informò il 16 febbraio 1978 appunto il SISMI che le Brigate
rosse stavano progettando un simile sequestro. NDR].
Il riferimento che Mino Pecorelli fa sul suo giornale OP a Renato Curcio non appare quindi
casuale, perché proprio lui potrebbe aver rappresentato il tramite ideale fra i suoi compagni liberi
e gli ambienti malavitosi ai quali chiedere temporaneo soccorso. Come abbiamo già notato, certi
indizi puntano direttamente in Calabria. Di questo parere sembra essere oggi anche Francesco
Biscione quando afferma:
"probabilmente allorché Moretti costituì la colonna romana delle Brigate rosse (fine 1975)
aveva già rapporti (viaggi in Sicilia e in Calabria) o con settori criminali o con compagni
dell'area del partito armato in grado di metterlo in contatto con segmenti del crimine
organizzato" .
E ricorda tre episodi che potrebbero costituire un serio indizio in tal senso:
"La presenza del Moretti è accertata - scrive - a Catania il 12 dicembre 1975 (insieme con
Giovanna Currò, probabile copertura di Barbara Balzerani) presso l'hotel Costa e il 15
dicembre presso il Jolly hotel. Il 6 febbraio 1976 Moretti ricomparve nel Mezzogiorno con la
sedicente Currò, a Reggio Calabria presso l'hotel Excelsior. Oltre al fatto che non sono mai
state chiarite le finalità dei viaggi - prosegue Biscione - questa circostanza sembra possedere un
altro motivo di curiosità: i viaggi, o almeno il secondo di essi avvennero all'insaputa del resto

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dell'organizzazione tant'è che quando l'informazione venne prodotta in sede processuale suscitò
lo stupore di altri imputati".
Il terzo è stato rivelato da Gustavo Selva: dopo la conclusione del sequestro di Aldo Moro "nel
luglio 1978 venne arrestato il pregiudicato calabrese, Aurelio Aquino, e trovato in possesso di
molte banconote segnate dalla polizia perché parte del riscatto del sequestro Costa operato
dalle Br" .
E' ovvio che con quei soldi le Br potrebbero aver pagato alla 'ndrangheta qualche partita di armi,
però anche il "prestito" di un killer professionista.
Il forte sospetto rimane dunque intatto.
Da valutare, infine, con la dovuta cautela, l'appunto di Mino Pecorelli ritrovato dopo la sua morte
fra le sue carte, per altro abbondantemente saccheggiate da altre “manine”:
“Come avviene il contatto Mafia-Br-Cia-Kgb-Mafia. I capi Br risiedono in Calabria. Il capo che
ha ordito il rapimento, che ha scritto i primi proclami B.R., è il prof. Franco Piperno, prof. fis.
univ. Cosenza”.
Anche volendo considerare tutto questo una mera illazione, si può comunque, in questo caso,
concordare con Francesco Biscione che considera come l'appunto si riferisce ad un'ipotesi
ricostruttiva che connette gli indizi riguardanti l'esistenza in Calabria di un terminale decisivo,
sebbene di incerta definizione, dell'intera operazione del sequestro Moro. In questo modo trova
una logica spiegazione la probabile presenza in via Fani di un killer di "alta professionalità", un
professionista che il pentito calabrese Saverio Morabito ha indicato in Antonio Nirta, detto "due
nasi" per la sua capacità di usare la lupara, anche se alcune testimonianze più recenti puntano
invece il dito contro Agostino De Vuono, anch'egli calabrese ed esperto tiratore.
Le teorie e le supposizioni sul nome del Killer lasciano però il tempo che trovano di fronte ai
fatti: quella mattina del 16 Marzo 1978 le Brigate rosse vennero aiutate, e da più parti, a
compiere un'azione forse troppo più grande delle loro capacità. Ed anche Alberto Franceschini
non ha troppi dubbi in merito. Ultima particolarità da annotare riguardo alla tragica giornata del
16 Marzo 1978 è una deposizione di Nara Lazzarini, segretaria di Licio Gelli, fatta nel 1985 al
processo Pazienza-Musumeci; la Lazzarini ha ricordato infatti che la mattina della strage di Via
Fani il Gran Maestro della P2 ricevette la visita di due persone all'Hotel Excelsior di Roma, e
durante il colloquio a Gelli sfuggirono le seguenti parole: "Il più è fatto". La cosa di per se può
non voler dire nulla, è però una testimonianza attendibile e come tale la riporto.
La prigione di Aldo Moro
E' ormai "verità processuale" (il che non vuol dire che sia verità) che Aldo Moro sia stato tenuto
prigioniero, per tutti i 55 giorni del sequestro, nell'appartamento all'interno 1 di via Montalcini 8,
nel quartiere Portuense, a Roma.
Un primo accenno ad una prigione di Moro era comparsa in un fumetto pubblicato all'inizio di
giugno del 1979 dal primo numero di Metropoli, periodico dell'autonomia operaia. Nel fumetto
(disegni di Beppe Madaudo, sceneggiatura di Melville, pseudonimo usato da Rosalinda Socrate),
la tavola con l'interrogatorio di Moro era preceduta da una didascalia che diceva: "Mentre a via
Fani cominciano le indagini, nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia
l'interrogatorio di Moro". Interrogato, Madaudo disse di aver ricalcato il disegno dal settimanale
Grand Hotel.
Dopo la versione disegnata, il primo a parlare della prigione dello statista DC è stato il “pentito”
Patrizio Peci, che ha raccontato però di aver appreso che Moro fu tenuto nascosto nel
retrobottega di un negozio poco fuori Roma. La versione di Peci venne in seguito smentita da
Antonio Savasta, catturato il 28 gennaio 1982 alla fine del rapimento Dozier; il Savasta cominciò

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subito a “collaborare” e disse di aver saputo che Moro venne tenuto prigioniero in un
appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. All'inizio l'attenzione degli inquirenti si
concentrò sull'appartamento che era stato del padre in via Laurentina 501, subito dopo però le
indagini si orientarono su via Montalcini, una casa acquistata nel giugno 1977 per 50 milioni
circa, e dove Anna Laura Braghetti si era trasferita nel dicembre dello stesso anno.
Due anni dopo Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno confermato che Moro trascorse tutta
la sua prigionia nell'appartamento abitato non solo dalla Braghetti, ma anche da Prospero
Gallinari, e frequentato da Mario Moretti e da - ma lo si è saputo molto dopo - Germano
Maccari, il fantomatico "Ingegner Altobelli".
Prima cosa bizzarra è il fatto che il 5 luglio 1980 il giudice Ferdinando Imposimato apprese che
l'UCIGOS, nell'estate 1978, aveva svolto indagini sulla Braghetti e via Montalcini. L'appunto
sulle indagini gli venne consegnato il 30 luglio, ma era in forma anonima e non conteneva i nomi
di chi aveva svolto le indagini. Sempre a tale proposito, nel febbraio 1982 sul quotidiano La
Repubblica Luca Villoresi scrisse:
"Sono passati pochi giorni dalla strage di via Fani quando alla polizia arriva una prima
segnalazione, forse una voce generica, forse una soffiata precisa […] ma all'interno 1 di via
Montalcini 8 gli agenti non bussano".
Nel 1988 si venne poi a sapere che verso la metà di luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro,
l'avv. Mario Martignetti (che sembra lo avesse saputo da una coppia di suoi parenti) segnalò
all'On. Remo Gaspari che una Renault 4 rossa - come quella in cui le Br lasciarono il cadavere di
Moro - era stata vista in via Montalcini 8 nel periodo del rapimento ed era scomparsa dopo la
morte di Moro. Gaspari informò il ministro Rognoni il quale attivò le indagini subito affidate
all'UCIGOS. In seguito, l'ispettrice dell'UCIGOS incaricata del caso ha riferito che dalle indagini
era emerso che, fino al giugno 1978, con la Braghetti abitava un uomo che si faceva chiamare
Ingegner Altobelli. L'ispettrice disse anche che, ritenendo che una perquisizione a due mesi dalla
morte di Moro avrebbe dato esito negativo e avrebbe insospettito la Braghetti, preferì farla
pedinare per cercare di arrivare ad Altobelli o scoprire se frequentava gruppi eversivi. I
pedinamenti durarono fino alla metà di ottobre ma ebbero risultati negativi perché la Braghetti
usciva puntualmente per recarsi al lavoro e al ritorno a casa faceva cose normali. Il 16 ottobre
1978, un appunto dell'UCIGOS informò la magistratura che gli inquilini dell'interno 1 non
destavano sospetti. I pedinamenti e le richieste di informazioni sul suo posto di lavoro (di cui la
Braghetti viene a sapere) spinsero però la terrorista ad entrare in clandestinità e a lasciare (il 4
ottobre '78) l'appartamento, che nel frattempo aveva venduto ad una signora (moglie del
segretario particolare dell'ex ministro Ruffini).
Stranamente, nell'agosto 1978 la Braghetti ebbe un'accesa disputa con l'ex inquilino
dell'appartamento, Gianfranco Ottaviani, che aveva mantenuto la disponibilità della cantina; la
Brigatista scardinò la porta della cantina e l'ex inquilino chiamò immediatamente la polizia. Per
una lite banale la brigatista rischiò così un pericoloso intervento della polizia. Ma invece proprio
quella lite venne usata dall'UCIGOS per spiegare che la Braghetti e Altobelli, che risultava
trasferito in Turchia da qualche mese per motivi di lavoro, non erano sospettabili, perché
altrimenti avrebbero evitato la lite con l'intervento del 113.
Solo nel 1993 si è arrivati alla vera identità del così detto "quarto uomo", Germano Maccari, che
sembra proprio essere quell'ing. Altobelli a cui erano intestate le utenze di luce e gas, come lui
stesso ammette nel 1996. Stranamente l'individuazione di Maccari avvenne proprio lo stesso
giorno in cui trapelarono dalla stampa le dichiarazioni di Saverio Morabito secondo il quale
Antonio Nirta, killer della mafia calabrese e confidente del generale dei carabinieri Francesco
Delfino, era stato "uno degli esecutori materiali del sequestro dell'on. Aldo Moro".
Molto interessante mi è parsa una circostanza apparsa nel suo recente libro Il delitto Moro da
Francesco Biscione, e riguardante il fatto che nelle immediate vicinanze di via Montalcini, a

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pochi passi dal covo delle Br, abitavano numerosi esponenti della Banda della Magliana.
L'elenco è molto dettagliato:
"In via G. Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) abitavano Danilo Abbruciati, Amelio
Fabiani, Luciano Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) abitavano
Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del Boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135
(a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere P2ista Carboni); infine in via
Montalcini al n°1 c'era Villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra".
In effetti la "prigione del popolo" era situata proprio nel quartiere romano della Magliana, una
zona notoriamente controllata in modo capillare da quel particolare tipo di malavita collegato,
come poi si è saputo con certezza, a settori deviati dei servizi segreti e all'eversione "nera".
Per quanto riguarda la gestione del rapimento, il campo si ristringe, diminuiscono drasticamente
le prove e di contro aumenta il numero di indizi e deduzioni logiche possibili.
Due avvenimenti accaduti il 18 aprile segnarono a mio avviso gli sviluppi successivi del
rapimento proprio in questa direzione: la misteriosa scoperta del covo di via Gradoli ed il quasi
contemporaneo ritrovamento del falso comunicato n°7.
La scoperta di una base delle Br in Via Gradoli avvenne in un modo casuale ma alquanto strano:
i pompieri furono chiamati dagli inquilini dei piani inferiori per una perdita d'acqua
dall'appartamento dove andava a dormire il leader delle Br, Mario Moretti (colui che interrogò
Aldo Moro). L'ipotesi che ho cercato di avvalorare - come sempre tra mille difficoltà e poche
prove certe - è che quel covo, sia stato "bruciato" da qualcuno [servizi segreti? un infiltrato?
oppure qualche brigatista contrario all'uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia
rivolta verso il muro e che provoca infiltrazione d’acqua nell’appartamento sottostante per
permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti la P2, Gladio e tutto ciò che
era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse, nonché le confessioni fatte dal
presidente alle Br.
Il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere a Moretti e alla Balzerani di essere
informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un
diversivo, qualcosa che distogliesse l'attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno
"qualcuno" fece ritrovare il falso comunicato N°7, quello dove si sosteneva che il cadavere di
Aldo Moro si trovava in fondo al Lago della Duchessa. Allo stesso tempo questa doppia
operazione ha probabilmente segnato in modo decisivo il rapimento, nel senso che questo era un
chiaro avvertimento rivolto alle stesse Br: "Guardate che possiamo prendervi quando vogliamo,
che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato
dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro…".
Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli:
le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due "sollecitazioni" fatte affinché il
sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato - oltre
a suggerire ai brigatisti quale fosse l'epilogo più opportuno del rapimento - si trovano infatti dei
precisi "segnali" che dovevano indirizzare le Br in tale direzione, come l'accenno alla morte di
Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di
Stammheim. Tra l'altro non è affatto credibile che l'appartamento di Via Gradoli 96 sia stato
lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della
polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e
contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come
se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa…] . Ed è perfino incredibile
che le forze dell'ordine si siano comportate in un modo così "rumoroso" (volanti giunsero a
sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo

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la scoperta del covo, quando invece dopo il ritrovamento della base di Robbiano di Mediglia
avevano atteso con la massima discrezione il rientro dei terroristi, arrestandoli uno dopo l'altro.
A mio avviso, l'occulta regia della duplice manovra del 18 Aprile poté procedere liberamente
all'interno del covo predisponendo una messinscena, allo stesso tempo diffuse un comunicato
falso, chiaro segnale di una perfetta conoscenza dei retroscena del sequestro e di come le Br e
Moretti lo stessero conducendo.
Una delle possibili implicazioni logiche che la scoperta "accidentale" del covo comportò fu
quella di far diventare anche la prigione di via Montalcini piuttosto insicura, dunque è possibile
- anzi, assai probabile - che Moro sia stato portato velocemente in un altro covo-prigione.
Le carte di Moro all'interno del covo "bruciato" furono forse ritrovate, ma probabilmente non
nella loro totalità, e la cosa dovette suscitare le ire degli interessati, tant'è vero che - ma qui forse
le mie ipotesi diventano troppo fantasiose - chi nel corso degli anni ne è stato probabilmente in
possesso è stato in qualche modo eliminato (Pecorelli e Dalla Chiesa, tanto per fare due nomi).
Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice Br, la gestione del
sequestro entrò in una nuova fase; le Brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la
"campagna di primavera" da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà
indiscutibilmente superiori: apparati "deviati" dello stato ed il loro occasionale "braccio destro",
la "banda della Magliana" cui apparteneva Chichiarelli. Come vedremo, molti indizi ci
indirizzano proprio in questo sentiero.
Il covo di via Gradoli
Ma se il 18 Aprile '78 fu la data dalla quale cambiò materialmente la gestione del rapimento, il
momento in cui venne presa - e da più parti - la decisione di intervenirvi direttamente fu con ogni
probabilità immediatamente successiva, e precisamente quando venne resa nota la prima lettera
di Moro a Cossiga, in cui sollecitava la trattativa con le Br invocando la ragion di stato e non
motivi umanitari.
Quella lettera doveva restare segreta e nelle intenzioni di Moro doveva servire ad aprire un
canale diretto per la trattativa. Invece Mario Moretti la allegò al comunicato numero 3 delle Br,
in cui si annunciava che il processo a Moro stava continuando "con la piena collaborazione del
prigioniero", e la fece recapitare ai giornali. A quel punto probabilmente si attivarono molti
servizi segreti: quelli occidentali per proteggere gli eventuali segreti rivelati da Moro, quelli
orientali per carpirli.
Una conferma che la base Br di Via Gradoli 96 - "centrale operativa" del sequestro Moro - fosse
nota a molti si ebbe pochi giorni dopo il rapimento di Moro, quando cinque agenti del
commissariato "Flaminio Nuovo", guidati dal maresciallo Domenico Merola perquisirono
appunto gli appartamenti di via Gradoli 96. Durante il primo processo, Merola racconta che
l'ordine era venuto, la sera prima dell'operazione, dal commissario Guido Costa:
"Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case - dice il maresciallo ai giudici - era solo
un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti
appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di
forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu
uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano
ci disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e
tornava la sera tardi".
"Fui io a disporre i controlli dei mini appartamenti della zona - conferma il vice questore Guido
Costa - in seguito ad un ordine impartito dal questore, che allora era Emanuele De Francesco.
L'esito dell'operazione fu negativo".

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La data della mancata perquisizione del covo è il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento,
almeno secondo la relazione informativa scritta da Merola e consegnata da De Francesco ai
giudici solo nel 1982, perché fino a quel momento non era stato possibile trovarla.
Nell'estate del 1978, il giornalista Sandro Acciari scrisse sul Corriere della sera che tra il 16 e il
17 marzo, alla segreteria del ministero dell'Interno era arrivata una segnalazione anonima
dell'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli e che il ministro Cossiga aveva incaricato il capo
della polizia Parlato di disporre perquisizioni nella zona. Parlato, interrogato dal giudice Achille
Gallucci aveva smentito questo fatto.
Nel 1982, al processo, Acciari disse di aver appreso la notizia, a livello di indiscrezione, negli
ambienti del palazzo di giustizia, e di avere avuto conferma da Luigi Zanda, all'epoca addetto
stampa del ministro dell'Interno Cossiga. Acciari ha precisato però di aver saputo in seguito dallo
stesso Zanda che nella loro conversazione telefonica ci fu un equivoco, perché Zanda credeva
che Acciari si riferisse alla vicenda della seduta spiritica in cui emerse il nome "Gradoli".
Anche il giornalista Mino Pecorelli, ucciso un anno dopo in circostanze ancora oscure, e anche
lui presente nelle liste della P2, scrisse sul numero del 25 aprile 1978 del suo settimanale OP:
"Nei primi dieci giorni dopo il sequestro di Moro, in seguito ad una soffiata preziosa, via
Gradoli e in modo speciale lo stabile numero 96 erano stati visitati ben due volte da squadre di
polizia. Ma davanti alle porte degli appartamenti trovati disabitati, i poliziotti avevano desistito.
Avevano bussato doverosamente anche alla porte dell'appartamentino-covo e non ricevendo
l'invito ad entrare se n'erano andati".
Romano Prodi “il sensitivo”
Tra le vicende inusuali accadute durante i 55 giorni del rapimento Moro è da menzionare - se
non altro per il nome dei presenti - anche quella del 2 aprile 1978.
Nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di
professori universitari con tanto di mogli e bambini. Erano presenti l'ex presidente del Consiglio
Romano Prodi con la moglie Flavia, Alberto, Adriana, Carlo e Licia Clò, Mario Baldassarri e la
moglie Gabriella, Francesco Bernardi, Emilia Fanciulli. Secondo i racconti, per allentare la noia
di una giornata di pioggia, a qualcuno dei partecipanti venne la bizzarra idea di tenere una seduta
spiritica. I partecipanti avrebbero quindi evocato gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira,
chiedendo loro dove si trovasse la prigione di Aldo Moro. Gli spiriti - incredibilmente -
formarono le parole Bolsena-Viterbo-Gradoli e indicarono anche il numero 96. Secondo i
racconti dei partecipanti, fu proprio il terzo nome ad incuriosirli, tanto da prendere un atlante per
controllare se esistesse una località chiamata Gradoli.
Il 4 aprile, a Roma per un convegno, Prodi parlò di questa indicazione a Umberto Cavina, capo
ufficio stampa della DC, che la trasmise a Luigi Zanda, addetto stampa del ministro dell'Interno,
il quale fece un appunto per il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Parlato ordinò di perquisire
la zona lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa
isolata con cantina. Il rastrellamento della zona viene effettuato il 6 aprile, senza risultati.
Nel luglio 1982, al processo, Eleonora Moro, moglie di Aldo Moro, ha raccontato che, quando
venne a sapere della seduta spiritica (in quell'occasione, la signora Moro dice però che
l'indicazione Gradoli venne fuori "due o tre giorni dopo il rapimento" e questo contrasta con la
data indicata per la seduta spiritica), riferì "la cosa all'on. Cossiga e ad un funzionario che credo
fosse il capo, il responsabile delle indagini, ma non ricordo come si chiamasse. Chiesi loro -
continua la signora Moro - se erano sicuri che a Roma non esistesse una via Gradoli e perché
avessero pensato subito, invece, al paese Gradoli. Mi risposero che una tale via non c'era sulle
pagine gialle della città. Ma quando se ne andarono da casa, io stessa volli controllare l'elenco
e trovai l'indicazione della strada. In seguito mi dissero che erano stati a vedere in quella zona,
ma avevano trovato solo alcuni appartamenti chiusi. Si giustificarono dicendo che non potevano
sfondare le porte di ogni casa della strada".

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Il giorno dopo Giovanni Moro, figlio di Aldo, conferma che fu Cossiga a sostenere che via
Gradoli non esisteva nello stradario di Roma. Cossiga ha però escluso di essere lui la persona
che negò l'esistenza di via Gradoli.
Nel 1995, la relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione
parlamentare Giovanni Pellegrino sostenne che l'indicazione di Gradoli era filtrato negli ambienti
dell'autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente
espediente di copertura della fonte informativa. A parziale conferma di ciò sta anche la
testimonianza di Giulio Andreotti che, davanti alla Commissione, ha detto: "non credo alla
storia di Gradoli a cui si arrivò con la seduta spiritica. Quell'indicazione venne dall'autonomia
operaia di Bologna. Non lo si disse per non dover inguaiare qualcuno".
Pochi giorni dopo, Bettino Craxi intervenne sul caso Moro sostenendo che "nessuno può credere
alla tesi della seduta spiritica dal momento che le notizie su via Gradoli si seppero da ambienti
legati strettamente all'organizzazione terroristica. Gli stessi che ci diedero notizie anche di via
Montalcini".
"Gradoli - ha confermato in quei giorni l'avv. Giancarlo Ghidoni, difensore di molti esponenti
dell'autonomia bolognese - era una parola che nell'ambiente di aut. op si sussurrava.
L'organizzazione all'epoca del sequestro Moro premeva perché lo statista non fosse ucciso e
fosse liberato. L'autonomia era molto preoccupata, voleva che cessassero certe attività, convinta
che il fucile stesse sopravanzando la testa, e che certe cose andassero a danno della sinistra
rivoluzionaria […] Una persona, di cui non posso ovviamente rivelare il nome, mi disse:
"Hanno detto che Moro è a Gradoli. Intendeva proprio il paesino del viterbese dove andarono a
cercare Moro, non la via romana con lo stesso nome. Evidentemente le informazioni che aveva
erano parziali".
Infine, da una nota della DIGOS del 19 agosto 1978, che riprende un appunto precedente
dell'UCIGOS, risulta che via Gradoli era sotto controllo già in epoca precedente al sequestro
Moro per la segnalazione nella strada della ripetuta presenza di un furgone Volkswagen di
proprietà di Giulio De Petra, militante di Potere Operaio, il cui numero telefonico era nell'agenda
di Morucci. Le cose non devono però sorprendere; in effetti Valerio Morucci era ritenuto un
valido appoggio "militare" da parte di tutte l'ala dura dell'ormai disciolto Potere Operaio, pochi
però sanno che egli agiva d'intesa con Piperno e Pace, svolgendo il ruolo di cerniera tra le Br e
l'autonomia nell'ambito della progettata unificazione di tutte le organizzazioni armate, al fine di
rendere praticabile "l'irlandizzazione della capitale".
Nel 1997 l'on. Enzo Fragalà, chiedendo l'audizione di Prodi in commissione parlamentare
d'inchiesta sulle stragi e il terrorismo, ha detto:
"in via Gradoli vi erano quattro interni 11, due civici 96 con due scale ciascuna. Vi furono
indicazioni diverse fra DIGOS e commissariato Flaminio Nuovo sulle scale da perquisire; vi
sono legami di società intestatarie di alcuni interni 11 e altre società collegate con il ministero
dell'Interno e con il Sisde; all'interno del covo Br fu ritrovato il numero di telefono
dell'immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde; perché non si é indagato sui miniappartamenti
di via Gradoli 96 e 75 intestati all'ex capo della polizia Parisi e sui rapporti tra
Domenico Catracchia, già amministratore del palazzo, e lo stesso Parisi?".
All'Immobiliare "Savellia" era intestato anche un palazzo in via di Monte Savello (vicino al
ghetto ebraico e a via Caetani), di cui c'erano tracce in un appunto di Moretti. Attualmente
l'Immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano Ordine di Malta. In Via Gradoli i servizi
segreti italiani disponevano però anche di un ufficio; la cosa venne riferita alle Br da un'ex
militante di Potere Operaio, ma nonostante questo, i brigatisti decisero di mantenere ugualmente
il loro covo in quella strada, in barba a qualsiasi legge della logica e della sicurezza (tanto più
che nella stessa via Gradoli c'era anche un covo frequentato da estremisti di destra) . Anche
questo fatto risulta essere piuttosto strano.

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C'è però un'altra pista da seguire: c'era qualcuno che all'interno delle Brigate rosse riteneva
talmente sbagliata l'operazione in progetto da tentare di farla fallire avvertendo in anticipo le
forze istituzionali? Un'ipotesi da fare è che all'interno delle Brigate rosse vi fosse un partito della
trattativa che mirava alla salvezza della vita di Moro e che questo gruppo, oltre a discutere per
tentare di far maggioranza sulla propria opinione, abbia messo addirittura lo Stato sulle tracce,
per esempio, del covo di via Gradoli. Infatti, scoprire quel covo avrebbe significato arrivare
subito a Moretti. Ed a via Gradoli fu mandata per ben tre volte la Polizia ed addirittura fu fatta
arrivare a Prodi ed a Clò l'indicazione "Gradoli", che poi fu mistificata con la famosa seduta
spiritica di cui tutti sappiamo. E' vero che vi era questo partito della trattativa all'interno delle
Brigate rosse il quale, ritenendo politicamente disastrosa l'uccisione di Moro, tentò in tutti i modi
di far scoprire il covo di via Gradoli, alla fine addirittura col telefono della doccia in cima ad un
manico di scopa messo contro il muro per far allagare l'appartamento di modo che, visto che non
se ne poteva più di uno Stato che non riusciva a scoprire il covo, fossero almeno i pompieri ad
arrivarvi, trovando sul muro steso il drappo delle Brigate rosse e sul tavolo tutte le armi affinché
fosse chiarissima l'indicazione che si trattava proprio di un covo dei terroristi?
E' bene ricordare che, per motivi di sicurezza, era abitudine dei brigatisti non avere più di due
chiavi di ogni covo, dunque siccome Via Gradoli era in quel periodo frequentata solo da Moretti
e da Barbara Balzerani, è logico supporre che solamente loro avessero le chiavi. Questa
spiegazione è supportata - ovviamente - dalla Faranda, cioè da colei che (assieme a Morucci)
potrebbe essere l'artefice di un tale piano, essendo il duo notoriamente contro un epilogo tragico
del rapimento Moro. Dagli atti del processo Metropoli traspare che Morucci e Faranda erano
pedine in mano a Piperno, leader dell'autonomia, e guarda caso è proprio dalle file
dell'autonomia che provenivano tutti i "messaggi" a favore degli inquirenti (da quello di Radio
città futura a quello emerso nella seduta spiritica di Prodi).
Dunque Morucci e la Faranda, nel periodo di circa due mesi in cui lo avevano abitato, avevano
fatto delle copie della chiave che apriva il covo di Via Gradoli? Furono loro ad architettare il
tutto? E' una possibilità, è in quanto tale la riporto, però oggettivamente non mi sento di dargli
troppo peso, anche e soprattutto in considerazione della "coincidenza" temporale con il
ritrovamento del falso comunicato n° 7.
L'8 maggio 1978, alla vigilia dell'uccisione di Aldo Moro: Il Corriere della Sera pubblicò in
prima pagina un articolo, firmato da Sandro Acciari e Andrea Purgatori, che parlava di elenchi
trovati nel covo Br di via Gradoli, scoperto il 18 aprile. Gli elenchi di cui si parlava sarebbero
stati due: uno contenente nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l'altro
di esponenti della DC a livello regionale, provinciale e comunale. L'articolo rendeva noti anche
alcuni dei nomi contenuti nel primo elenco: Loris Corbi, Beniamino Finocchiaro, Michele
Principe, Publio Fiori. Del secondo elenco era citato solo Girolamo Mechelli (ferito in un
attentato il 26 aprile 1978), la cui presenza nelle liste venne però smentita dalla DIGOS, che così
confermò implicitamente l'esistenza degli elenchi.
Il giorno dopo, il 9 maggio, mentre tutti i giornali si occupavano della vicenda, Il Corriere della
sera pubblicò un altro articolo sullo stesso argomento e vennero fatti anche i nomi di Gustavo
Selva e dell'on. Giacomo Sedati (DC).
Il 10 maggio i giornali furono completamente occupati dalla notizia dell'avvenuta uccisione di
Moro, verificatasi il 9, e quindi la serie di rivelazioni si interruppe.
Naturalmente questi elenchi, trovati in un covo Br, vennero ritenuti una "schedatura" di
potenziali vittime di attentati, un'ipotesi rafforzata dal fatto che Fiori era già stato ferito in un
agguato, il 2 novembre 1977. Nel 1978 però erano ancora sconosciuti gli elenchi dei presunti
iscritti alla P2 [ poi trovati dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi nel 1981] e nessuno
poteva far caso ad un qualsiasi legame esistente tra quei nomi. Solo adesso possiamo notare
infatti che, a parte Sedati, i nomi delle altre cinque persone (su sei), Corbi, Principe, Finocchiaro,
Fiori e Selva comparivano anche nelle liste della P2, composta, in effetti, soprattutto da politici,
militari, industriali e funzionari di enti pubblici, come l'elenco trovato in via Gradoli. E' una

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coincidenza un po’ strana, soprattutto se si pensa che la stessa mattina del 18 aprile, giorno
della scoperta del covo di via Gradoli, "qualcuno" architettò il falso comunicato del lago della
Duchessa.
Un ruolo per la “banda della Magliana”?
Il falso comunicato, preparato da Toni Chichiarelli (falsario legato alla banda della Magliana) e
tutto ciò che logicamente ne sarebbe seguito, sembra dunque essere stato organizzato proprio per
distrarre l'attenzione generale dal materiale ritrovato in via Gradoli. Se però questo materiale si
trovava in via Gradoli insieme ad un elenco di iscritti e funzionari locali della DC, è probabile
che provenisse da quelle famose borse di Moro che sembrano non esser mai state ritrovate (i
brigatisti - o meglio Gallinari che ne fu incaricato - hanno detto di aver bruciato tutte le carte di
Moro) e che poteva contenere informazioni su apparati dei servizi segreti paralleli e altre
organizzazioni di sicurezza allora sconosciute (Gladio, P2, ecc...).
Obbligatorio adesso fare un excursus sulla figura del falsario Toni Chichiarelli, colui che scrisse
il falso comunicato n°7, ed a questo proposito nulla mi è sembrato meglio delle parole con cui il
defunto On. Cipriani argomentò le sue scoperte di fronte alla Commissione Parlamentare:
"Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che
ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la
destra eversiva, con i servizi segreti. Toni Chichiarelli era in contatto con un informatore, un
agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia anche con la malavita romana, con
i servizi segreti e la banda della Magliana. Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro,
dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive
il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come
dimostrano due episodi. Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore
del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del
comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud. Toni Chichiarelli fece
trovare un borsello su un taxi, all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che
facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro. Fece trovare infatti nove
proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da
undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzoletti di carta
marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece
trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece
trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava
l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi
l'originale in un secondo episodio. Vi è un secondo aspetto. Dopo la rapina della Securmark, ad
opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa
trovare - lo scrive il giudice Monastero - una busta contenente un altro messaggio con gli
originali di quattro schede riguardanti l'on. Ingrao ed altri personaggi. Questa volta, come
dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate
e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse. Il
giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata
durante il sequestro". Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un
fotomontaggio. Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto
originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in
questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il
giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco " . Anche volendo
ignorare buona parte delle coincidenze riscontrate e tutte le deduzioni fattibili, resta intatta una
domanda: come mai ad un certo punto del rapimento Moro si iniziano a trovare tracce che
portano direttamente alla Banda della Magliana ? Il bello è che la pista legata a questa feroce
banda romana non si esaurisce, ma riguarda anche la morte di Aldo Moro. Ai miei occhi, infatti,

[color=red]15[/color]

è sempre stata poco credibile la versione raccontata dalle Br secondo la quale Moretti, che
aveva discusso con il presidente DC per 55 lunghi giorni, con una freddezza fuori dal normale
comunica al prigioniero che verrà liberato, poi gli spara a sangue freddo con due armi differenti
perché la prima si inceppa, poi sale sulla Renault rossa e porta il cadavere dello statista fino a
Via Caetani, poi non contento va a scrivere il comunicato conclusivo del rapimento. No, riesce
veramente difficile credere a questa novella di un Moretti "superuomo". La verità forse è
altrove, anche per altri motivi”.
Vediamo dunque cosa dicono gli appunti di Luigi Cipriani sul come venne ucciso il presidente
della Democrazia cristiana:
"Degli 11 colpi i primi due [sono stati sparati] col silenziatore, gli altri quando era già morto.
Perché questo rituale? Dopo i primi due colpi Moro ha agonizzato per 15 minuti. Solo i primi
due colpi hanno lasciato tracce sulla Renault, Moro è stato ucciso in macchina e portato
altrove?".
A conferma dei dubbi evidenziati dai quesiti che si poneva Cipriani, Francesco Biscione ha
scritto:
"...laddove la comune versione dei brigatisti lasciava trasparire una falla che nasconde
verosimilmente una menzogna è nella narrazione delle modalità con cui l'ostaggio sarebbe stato
ucciso".
Non è il solo che, a posteriori, si affianca a Luigi Cipriani. Nella sentenza del cosiddetto Moroquinquies
gli stessi magistrati giudicanti non possono esimersi dall'evidenziare il loro scetticismo
sulla versione fornita dai brigatisti rossi, sottolineando, ad esempio, l'impossibilità da parte dei
carcerieri di "ritenere in anticipo che l'on. Moro, chiuso in una cesta da dove poteva avere una
discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato né imbavagliato,
avrebbe continuato a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al
box, pur percependo voci come quella della Braghetti. Non si comprende - scrivono ancora i
magistrati - come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio quando avrebbero
potuto facilmente evitarlo ad esempio uccidendo l'On. Moro nella sua stessa prigione e
trasportandolo poi da morto; ed incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione
di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune
degli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono
rumori apprezzabili che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a
passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti”.
Alle condivisibili considerazioni dei giudici del quinto processo Moro, dobbiamo aggiungere il
rilievo che i colpi sparati con il silenziatore furono soltanto due. E gli altri 9, esplosi senza il
silenziatore, non li ha avvertiti nessuno? Ne erano così certi i brigatisti rossi Mario Moretti e
Germano Maccari? E, infine, perché lasciare Aldo Moro agonizzante per altri 15 lunghissimi
minuti, come conferma la perizia medico-legale, senza che un rantolo, un gemito, un grido
disperato sia veramente uscito dalla bocca di un uomo morente e ferito?
In conclusione,
"anche su questo punto, la versione delle Brigate rosse non sta in piedi, o almeno zoppica
fortemente [...] un uomo che, senza essere narcotizzato, senza essere legato ed imbavagliato, si
fa infilare in una cesta, deporre nel portabagagli di un'auto, ricevere nel corpo due pallottole
che lo lasciano in vita per altri 15 minuti; e in tutto questo tempo non tenta la disperata reazione
di chi non ha più nulla da perdere, effettivamente non è credibile".

[color=red]16[/color]

La passività di Aldo Moro, se mai ci fu, può trovare una logica spiegazione in due fattori: il
luogo dove si trovava, solitario, dove il suo urlo disperato si sarebbe perso nel silenzio; il numero
dei suoi uccisori, tale da scoraggiarne a priori ogni tentativo di fuga o reazione violenta.
"Un testimone - scriveva Cipriani - vide una Renault rossa presso la spiaggia di Fregene col
posteriore aperto. La perizia sulla sabbia dei pantaloni di Moro confermò che il litorale
corrisponde a quello. Sabbia trovata in molte parti dei vestiti, calze, scarpe e sul corpo
compreso bitume e sulle ruote della Renault. Sul battistrada - concludeva Cipriani - fu trovato
un frammento microscopico di alga analogo ad altro rinvenuto sul corpo".
E gli accertamenti ulteriori confermano pienamente questa realtà:
"Le risultanze tecniche - ricorda Biscione - riguardano innanzitutto la sabbia e i frammenti di
flora mediterranea trovati nelle scarpe, negli abiti e sul corpo di Moro, come pure sulle gomme
e sui parafanghi dell'auto di Moretti rinvenuta in via Caetani. Le tracce sugli abiti e sulle scarpe
lascerebbero pensare ad una permanenza o ad un passaggio presso il litorale romano (la perizia
giudica quel tipo di sabbia proveniente da una zona compresa tra Focene e Palidoro)".
Mario Moretti e compagni, quindi, affermano il falso?
Come asseriva perentorio Luigi Cipriani nei suoi appunti:
"Savasta e Morucci mentono [o forse non sono a conoscenza della verità. NDR] dicendo che la
sabbia era un depistaggio...".
Concorda con l'ex parlamentare di Democrazia Proletaria anche Francesco Biscione, il quale
scrive:
"...lascia fortemente perplessi la machiavellica spiegazione di Morucci (confermata da Moretti e
ribadita anche dalla Braghetti nel corso del processo Moro-quater) secondo la quale


Ultima modifica di greenwarrior il 13/02/2010, 17:25, modificato 1 volta in totale.


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NUOVI LIBRI SUL CASO MORO



VIA FANI 9.02

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VUOTO A PERDERE


http://www.vuotoaperdere.org/Libro/Libro.htm


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Io vorrei sapere soltanto una cosa: come faceva Prodi a sapere di Via Gradoli? O veramente pensate che l'abbia saputo tramite la sua "seduta spiritica"? Io so, anzi, ho sempre letto, che Prodi aveva una nomisma a Mosca e che ... Mitrokyn ... (Ve lo lascio immaginare).
Ciao Greenwarrior, "esco subito"...



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GRADOLI

O

GRADO LI ( GRADO 51 )


gli spiriti sono dei burloni ....



Assolutamente da leggere

http://digilander.libero.it/quondam2000/gladiomoro.html



zio ot [;)]


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Grazie Green, post notevole!



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MessaggioInviato: 20/03/2010, 13:56 
Cita:
superpippo ha scritto:

Grazie Green, post notevole!


[:I] Spero che abbia un seguito.

Ritengo che il caso Moro sia la chiave di volta per capire una volta per tutte come ci abbiano ingannati in 70 anni di storia italiana.



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Grazie a Imposimato la procura di Roma riapre indagini su omicidio Aldo Moro

mercoledì 19 giugno 2013

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Il giudice Ferdinando Imposimato lo aveva detto in un'intervista adAffaritaliani.it: "Nel sequestro Moro il Kgb ha avuto un ruolo primario". Ora la procura di Roma riapre l'inchiesta, 35 anni dopo la morte del leader politico Dc. "Ancora troppi misteri irrisolti", dicono i pm. Si tornerà a scavare su piste finora ignorate: i silenzi di Cossiga, Andreotti e di tutta la politica italiana, il ruolo dei servizi americani e sovietici.

Piste non seguite, segnalazioni anonime e depistaggi. C'è stato tutto questo in 35 anni di inchieste sul sequestro Moro. Ora però la procura di Roma ha deciso che vuole vederci chiaro. I pm ripartono dalle centinaia di segnalazioni arrivate negli ultimi anni e dalle rivelazioni del giudice Ferdinando Imposimato nel suo libro "I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia".

Sono in molti coloro che credono che dietro le Brigate Rosse ci fosse qualcosa di più, molto di più. Servizi americani, tedeschi e sovietici. Verità mai chiatite e sempre rimaste nell'ombra. Di sicuro la vicenda ha ancora molti punti oscuri che ora gli inquirenti proveranno a mettere in luce. Certo, 35 anni dopo quel 16 marzo del 1978 il rischio è che non si riesca a scoprire granchè. "Un lavoro da storici più che da magistrati", dice qualcuno. Tra i brigatisti condannati all'ergastolo per il sequestro anche Prospero Gallinari, recentemente scomparso.

NUOVA INCHIESTA PROCURA DOPO ESPOSTO EX GIUDICE IMPOSIMATO - E' legata a un esposto presentato un paio di settimane fa dall'avvocato Ferdinando Imposimato, ex giudice istruttore, l'ennesima inchiesta della procura di Roma sui misteri mai chiariti del caso Moro. Il procedimento, assegnato al pm Luca Palamara, e' in 'atti relativi', cioe' senza ipotesi di reato e senza indagati, e ha lo scopo di verificare se quanto riportato nell'ultimo libro scritto da Imposimato, legale della figlia di Aldo Moro, contenga elementi utili per fare luce sulla morte del presidente della Dc, ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di sequestro. Nel suo libro Imposimato fa riferimento ad alcune testimonianze inedite di uomini appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti dell'epoca secondo i quali la morte di Moro poteva essere evitata. L'ex magistrato e' convinto che il covo di via Montalcini, dove l'esponente della Democrazia Cristiana era tenuto prigioniero, fosse noto ai rappresentanti delle forze di polizia sin dal primo momento e che nessuno dall'alto volle disporre un intervento. Un tema analogo fu oggetto di un'archiviazione del gip due anni fa quando, dopo un esposto presentato sempre da Imposimato, la procura non trovo' alcun riscontro utile all'ipotesi dell'esistenza di un piano militare organizzato nei dettagli per liberare Moro ma poi abbandonato all'ultimo minuto.

ECCO CHE COSA DICEVA IMPOSIMATO NELL'INTERVISTA AD AFFARI DEL 31 MAGGIO

"E' sicuro che l'Unione Sovietica ha partecipato materialmente all'eliminazione fisica di Moro attraverso il colonnello Sokolov, che sapeva del sequestro e ha pedinato Moro fino al giorno prima. Dall'altra parte c'era quest'altra entità che qualcuno ha identificato nel Gruppo Bilderberg. Non sono solo io a dirlo. Già un importantissimo documento del 1967 del giudice Emilio Alessandrini (ucciso nel 1979 dopo aver indagato sulla strage di Piazza Fontana, ndr) nel quale si diceva che Bilderberg era tra i responsabili della strategia della tensione".

Fonte: http://www.affaritaliani.it/cronache/aldo-moro-35-anni-riaperta-l-inchiesta170613.html

Da Moro a Falcone, da Bilderberg ad Andreotti, dal Kgb alla Cia. Le verità di Imposimato sulle stragi

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Ferdinando Imposimato

di Lorenzo Lamperti

Dal rapimento di Moro agli omicidi diDalla Chiesa e Pecorelli, fino alle stragi di Capaci e via D'Amelio.Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione, svela i retroscena sui misteri piùscomodi d'Italia in un'intervista a tutto campo ad Affaritaliani.it: "Il Kgb è intervenuto materialmente nel sequestro Moro. Cossiga e Andreottisapevano dov'era tenuto prigioniero, ma impedirono al generale Dalla Chiesa di intervenire. Falcone e Borsellino? Lì c'è la mano di Gladio e della Cia". Sulla strategia della tensione: "E' stata alimentata politicamente dal Gruppo Bilderberg. La trattativa Stato mafia? Il regista fu Scalfaro. E le intercettazioni di Napolitano e Mancino non dovevano essere distrutte". L'M5S aveva fatto anche il suo nome per il Quirinale: "Il ruolo di Grillo nella politica italiana è positivo". Le tesi di Imposimato faranno discutere. Ecco tutte le sue verità.

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Da Moro a Borsellino, i misteri più scomodi d'Italia"http://www.affaritaliani.it/cronache/aldo-moro-falcone-borsellino-imposimato-stragi310513_mm_297581_mmc_1.html"

Ferdinando Imposimato, lei pone questa domanda nel sua libro: "Perché Aldo Moro doveva morire?" E' riuscito a darsi una risposta?

Non c'è una sola risposta. Doveva morire perché da una parte c'erano dei politici che volevano la sua morte perché volevano prenderne il posto. Ricordiamoci che Moro era il candidato più autorevole alla presidenza della Repubblica. Dall'altro c'erano interessi internazionali. L'Unione Sovietica, per esempio, non voleva che l'esperienza italiana potesse riproporsi nei paesi del Patto di Varsavia. Dall'altra parte, Moro non era ben visto perché si pensava che non portasse avanti una politica di difesa del blocco occidentale. E questo si spiega anche con la presenza dei servizi inglesi e tedeschi. Non c'è un'unica pista ma un concorso di cause e di moventi perfettamente compatibili tra loro anche se possono sembrare contrapposti.

Tra le varie piste che lei dice coesistere ce n'era una predominante?

Quello che è sicuro è che l'Unione Sovietica ha partecipato materialmente alla sua eliminazione fisica attraverso il colonnello Sokolov, che sapeva del sequestro e ha pedinato Moro fino al giorno prima. Dall'altra parte c'era quest'altra entità che qualcuno ha identificato nel Gruppo Bilderberg. Non sono solo io a dirlo. Già un importantissimo documento del 1967 del giudice Emilio Alessandrini (ucciso nel 1979 dopo aver indagato sulla strage di Piazza Fontana, ndr) nel quale si diceva che Bilderberg era tra i responsabili della strategia della tensione.

Quale legame c'è tra questi attori e la Cia?

La Cia era il braccio armato di questa politica che voleva in tutti i modi eliminare un personaggio che metteva a repentaglio la sicurezza del blocco occidentale e poteva causare l'infiltrazione dei comunisti nel governo italiano. Oltretutto la Cia controllava i servizi segreti italiani, come ha pubblicamente ammesso Maletti (ex generale del Sisde, ndr). La Cia li finanziava con un budget da 500 milioni di dollari all'anno.

La Cia finanziava anche Gladio?

Certo, finanziava anche Gladio. Addirittura la Cia ha comprato la base di Gladio in Sardegna (la base di Capo Marrargiu, ndr).

In tutto questo il ruolo della politica italiana qual è stato?

E' stato un ruolo di subalternità assoluta a questa egemonia estera. In Italia sono stati eseguiti gli ordini che arrivavano dall'estero. La cosa traspare in maniera chiara dalle lettere di Moro. Moro ha scritto più volte: "Nella mia sorte c'è una mano straniera, di oltreoceano". E aveva ragione. Moro sapeva perfettamente dell'esistenza di Gladio.

Lei nel suo libro scrive che qualcuno sapeva in anticipo del sequestro di Moro...

Sì, Cossiga e Andreotti sapevano. C'è un documento del 2 marzo 1978 del quale io venni a conoscenza solo 25 anni dopo e che pubblico sul mio libro che lo prova. Anche Dalla Chiesa venne a conoscenza del luogo di prigionia di Moro e fin dai primi di aprile voleva intervenire per liberarlo. Quando fu bruciata la base di via Gradoli lo si fece proprio per impedire l'intervento di Dalla Chiesa. Al generale è stato l'ordine di abbandonare il campo, poi lui ne ha parlato con il giornalista Mino Pecorelli e lui ne ha scritto. Entrambi sapevano ed entrambi sono stati ammazzati.

Lei sostiene che lo Stato sapeva dove veniva tenuto prigioniero Moro.

Sì, è così. Quando hanno occupato l'appartamento soprastante la prigione di Moro era in vista del blitz che voleva fare Dalla Chiesa. Ma lo Stato non voleva farlo e così il 7 maggio fu dato l'ordine di sgomberare il campo.

Secondo lei c'è un filo che unisce tutte le stragi avvenute in Italia nel secondo dopoguerra?

Sì, non c'è dubbio. Ed è un filo che ancora oggi non si è spezzato.

Il Gruppo Bilderberg che ruolo ha avuto in tutto questo?

Ha gestito politicamente la strategia della tensione. Lo si evince dal documento di Alessandrini che io reputo fondamentale.

Nel libro-intervista di Paolo Madron il noto "faccendiere" Bisignani rivela che Andreotti sosteneva che la responsabilità degli omicidi di Falcone e Borsellino fosse del Kgb. Lei è d'accordo?

No, questa è una balla. Nel sequestro di Moro c'è stato sicuramente l'intervento del Kgb ma Falcone e Borsellino rientrano nell'orbita di intervento della Cia. L'esplosivo di Capaci e azionato dall'ordinovista Rampulla proveniva da uno dei depositi Nasco, controllati dalla Cia. La storia di Andreotti è, come sempre, l'opposto della verità.

In tutte queste stragi da parte della politica italiana c'è stata "solo" una copertura o un vero e proprio input?

Entrambe le cose.

Di solito quando si parla di Gladio o di altre associazioni più o meno segrete le si chiama "forze deviate dello Stato". E' una definizione corretta?

No, la definizione è sbagliata. Le forze deviate dello Stato sono forze al servizio dei politici. Mafia e terrorismo hanno agito non solo per le loro finalità ma anche per quelle dei politici.

Il suo nome è molto apprezzato dai militanti del Movimento 5 Stelle tanto che si era anche fatto il suo nome per il Quirinale. Le fa piacere? Qual è il suo rapporto con Grillo?

Personalmente non l'ho mai visto ma ritengo che il Movimento 5 Stelle abbia un ruolo positivo, pur con tutti i suoi limiti e i suoi problemi. In questo momento è l'unica opposizione presente in Italia e un'opposizione in democrazia deve sempre esserci. Già Aristotele diceva che l'essenza della democrazia sta nell'alternanza. Il problema è che dentro il Movimento vedo dei problemi, delle diaspore. E questo non va bene. Io sono convinto che sia meglio avere torto stando dentro che avere ragione stando fuori. Anche perché Pd e Pdl hanno spesso dimostrato di essere "complici".

Che idea si è fatto del processo sulla trattativa Stato-mafia?

E' una cosa vergognosa.

In che senso?

Vergognosa da parte dei politici, intendo. Ci dovrebbe essere la voglia di stabilire la verità e che ruolo hanno avuto vari personaggi, come per esempio Scalfaro. Bisognerebbe approfondire perché stando a quello che hanno detto Martelli e Scotti è stato Scalfaro il regista della trattativa. La verità deve essere rifondata andando a scoprire non solo gli esecutori materiali ma anche i mandanti di quello che è accaduto.

E' stato giusto cancellare le intercettazioni tra Napolitano e Mancino?

La Corte Costituzionale avrebbe dovuto dichiarare incostituzionale la legge che prevede la distruzione di quelle intercettazioni. Non si possono distruggere delle intercettazioni senza che queste vengano portate alla conoscenza delle parti che sono pm, avvocati e parte civile.

Fonte: http://www.affaritaliani.it/cronache/aldo-moro-falcone-borsellino-imposimato-stragi010613.html

[align=right]Source: nocensura.com: Grazie a Imposi...indagini su omicidio Aldo Moro [/align]


Ultima modifica di Wolframio il 20/06/2013, 21:57, modificato 1 volta in totale.


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Ferdinando Imposimato doveva diventare Presidente della Repubblica... [}:)]



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MessaggioInviato: 21/06/2013, 11:32 
Cita:
Atlanticus81 ha scritto:

Ferdinando Imposimato doveva diventare Presidente della Repubblica... [}:)]

La cosa DAVVERO MA DAVVERO SCONCERTANTE... è che nessun giornale e nessuna televisione si sia mai degnata di dare voce ad Imposimato. Voglio dire... sul tema Moro, l'attenzione dell'opinione pubblica sarebbe alta per un organo di informazione... giusto? E invece niente. Ha denunciato i fatti dell'11/9, ha parlato delle pericolosità di questi gruppi occulti (e ne ha parlato da Giudice... e non da opinionista) ma..... niente di niente.

Meglio occuparsi della FUFFA e delle baggianate..... [}:)]



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Cita:
Thethirdeye ha scritto:

Cita:
Atlanticus81 ha scritto:

Ferdinando Imposimato doveva diventare Presidente della Repubblica... [}:)]

La cosa DAVVERO MA DAVVERO SCONCERTANTE... è che nessun giornale e nessuna televisione si sia mai degnata di dare voce ad Imposimato.


Cosa ti sconcerta? Che gli scribacchini servi del potere vadano contro alla mano che li nutre?

A me sconcerta di più che la gente penda ancora dalle labbra degli impomatati 'opinionisti' televisivi.



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MessaggioInviato: 21/06/2013, 11:51 
A proposito di Imposimato e del "silenzio dei media"..... [}:)] [:(!] [}:)]




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Ma si aspettate se apre qualche fascicolo contro la stessa persona che è ingiustamente attaccata da oltre 20anni, vedrete che avrà pure lui gli spazi dovuti, i primi ad invitarlo saranno i santoro/mentana ecc. E via via seguiranno a ruota la maggioranza dei mass media...e i pecoroni a seguirli!!!
Riguardo Moro, non c’è bisogno di spendere altre risorse, non aveva altre cose da fare..?
tante cose sono inesatte o inventate, altre sono assolutamente vere, ma risapute da qualche giorno prima il ritrovamento del corpo.



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