(Ciò che si è sempre saputo) ....
Così la sinistra ha creato l’ignoranza.
La dichiarazione rilasciata dalla celebratissima attrice italiana Virna Lisi, ai microfoni de Il Fatto: «…ma com’è questo fatto che se uno è comunista lavora e se non lo è non lavora più?» è come una nota in sospeso che non può che risolversi su un’ulteriore domanda: “Come mai negli ultimi sessant’anni di storia la sinistra ha avuto il monopolio della cultura italiana?” Sebbene una risposta esauriente a questa domanda sarebbe più degna di un trattato, in questo articolo cercheremo quanto meno di individuare uno dei punti fondamentali della questione.
Le forze politiche che hanno operato in Italia a partire dalla fine della guerra, su tutte la Democrazia Cristiana, hanno avuto una volontà condivisa a far sì che gli italiani non elaborassero il Fascismo, ovvero non operassero un’efficace distinzione tra: “dittatura storica” e “complesso valoriale della destra”. Una volontà, diversa nel corso dei decenni, di mantenere un nemico formale, inesistente, che tenesse in piedi l’assioma: “rifiutare la dittatura, quindi il Fascismo, quindi la Destra e quindi i suoi valori.” Se questa strumentalizzazione ha un’origine principalmente politica, le sue conseguenze si sono fatte sentire su tutti gli ambiti, specie su quello culturale. Pochissimi artisti, nel corso degli ultimi sessant’anni di storia italiana, sono stati lieti di definire o di sentirsi definire una propria opera, ad esempio, conservatrice anche qualora lo fosse stata; questo perché, come detto, un marchio di “conservatore” era assimilabile a quello di Fascista e quindi di dittatore e di persona tanto violenta quanto lontana dalla cultura. Ciò ha negato alla destra la possibilità di disporre liberamente del panorama artistico italiano e quindi di vestire i propri valori con quei panni che la cultura italiana ha fornito.
Questa ultima frase si può riassumere in due parole: “vuoto culturale”. Il vuoto culturale non è l’assenza di artisti connotati politicamente (consideriamo che se l’artista è tale, le opere non saranno mai connotate) ma è l’impossibilità di un’area politica di poter vantare i propri valori identitari nell’opera culturale di un paese. Con questo ricatto, la sinistra ha avuto campo libero di impadronirsi indebitamente di qualcosa che è più prezioso di un’apparizione televisiva o di una campagna promozionale: quel qualcosa si chiama: “immaginario collettivo della cultura” in tutte le sue forme.
E’ necessario lasciare da parte tutte le sudditanze, per riprendersi quanto dell’opera culturale degli ultimi sessant’anni è stato sottratto alla casa identitaria della destra (premetto che per far questo bisogna leggerla). Da un lato è necessario supportare tutti quei lavori, come “Il segreto d’Italia” di Antonello Belluco e “Li chiamavano briganti” di Pasquale Squitieri, boicottati e ritirati immediatamente dalle sale cinematografiche, ma dall’altro è necessario evitare il cronicizzarsi del modo di proporre la controstoria; infatti, pur ritenendo fondamentale l’operato di chi, con estrema dedizione, ripropone le vicende che i giovani non potranno mai leggere nei testi scolastici, trovo opportuno considerare che questi uomini, con la loro immensa dedizione, sono mortali, mentre se ci fosse un’opera che sia davvero un’opera d’arte, beh… quella sarebbe immortale.
Sono favorevole a veder utilizzato l’ambito culturale come banco di prova per valutare quanto le microdestre, proliferate in questi ultimi anni, siano disunite per una ragione davvero ideologica o abbiano messo casa propria soltanto per motivi di sopravvivenza personale; in altri termini, non essendo concepibile una qualsiasi entità di destra che sia negazionista nei confronti, ad esempio, delle Foibe, lascia delle perplessità il fatto per cui, nemmeno sotto il tetto della cultura, riescano ad essere unite. In conclusione, i punti di partenza su cui aprire un nuovo dibattito culturale sono presenti e reali… non gli resta che scannarsi su chi prenota la sala.
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