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Ecco qua i costi del federalismo.

Federalismo, stangata possibile con la nuova addizionale Irpef
Le Regioni potranno alzarla di 226 euro a testa. Le simulazioni da qui al 2015 in uno studio della Uil. Aumenti fino a 900 euro pro capite
di ROBERTO PETRINI


ROMA - Il federalismo fiscale rischia di risolversi in un aumento delle tasse regionali. Secondo un dettagliato studio della Uil, che ha analizzato i risvolti del recente maxidecreto varato dal governo, alle Regioni viene data la possibilità di aumentare le addizionali Irpef a regime, cioè nel 2015, in media di 226 per ciascun contribuente. Ovvero un rialzo dell'82,8%. L'ultimo decreto sul federalismo dà allo stesso tempo margini di aumento o di diminuzione, ma è ovvio che con la fame di fondi e i tagli imposti dal governo, sarà la prima opzione quella più probabile.

La vera sorpresa del nuovo meccanismo che si va profilando è che si creerà un fisco regionale a due fasce. Da una parte ci saranno i lavoratori dipendenti e pensionati che guadagnano fino a 28 mila euro lordi all'anno: questa categoria sarà parzialmente protetta dai possibili aumenti e le Regioni dovranno contenerli entro lo 0,5 per cento. Tutti gli altri, invece - sia lavoratori dipendenti sia autonomi - potranno subire - se le Regioni lo riterranno - aumenti fino al 2,1 per cento (che insieme allo 0,9 per cento base, fa il 3 per cento) nell'anno 2015.

Secondo la simulazione della Uil infatti il rincaro per la fascia che sta, ad esempio, tra i 15 mila e i 28 mila euro lordi potrà essere di soli 41 euro per i lavoratori dipendenti, di 39 per i pensionati ma addirittura di 267 per gli autonomi che, sebbene a redditi bassi, non vengono tutelati dalla clausola di salvaguardia che riguarda solo i lavori dipendenti e i pensionati. Quando si va oltre i 28 mila euro le Regioni potranno usare la mano pesante, senza distinzione di sorta tra lavoratori dipendenti e autonomi. Infatti potranno elevare le addizionali molto di più, e non solo in conseguenza degli extra deficit sanitari per i quali sarà mantenuta una procedura a se stante. Per questi contribuenti del ceto medio il rincaro possibile sarà di 862 euro anni: una somma che si ricava facendo la differenza tra l'attuale aliquota media dell'addizionale Irpef pari all'1,2 per cento e quella possibile del 3 per cento, una volta giunto al traguardo il federalismo fiscale regionale nell'anno 2015.

Su quale platea andranno ad incidere gli aumenti che il decreto sul federalismo pone nella gamma delle opzioni delle Regioni? La platea è amplissima, spiega Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil,. Nel nostro paese i contribuenti soggetti al versamento dell'addizionale Irpef sono oltre 30,9 milioni . Ma c'è un nucleo del 22,4 per cento che dichiara redditi sopra i 28 mila euro. C'è anche da considerare che visto l'andamento dell'evasione fiscale in Italia di questa "classe medio alta" il 95,3 per cento è rappresentato dai lavoratori dipendenti e solo il 7,9 per cento è costituito da lavoratori autonomi.

Dubbi e rilievi giungono anche dal Pd. Secondo l'europarlamentare Gianni Pittella, il federalismo del governo e della Lega getta la maschera. In alcune regioni come Lazio, Molise, Campania e Calabria le addizionali Irpef potrebbero salire enormemente. "In pratica - aggiunge Pittella - è una tassa sulla miseria perché si rifiuta di considerare, oltre ai costi standard, anche le prestazioni standard, che nel Mezzogiorno sono drammaticamente sotto la media nazionale ed europea".

(14 ottobre 2010)

http://www.repubblica.it/economia/2010/ ... e-8031895/


Ultima modifica di eSQueL il 14/10/2010, 08:58, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 14/10/2010, 10:15 
Cita:
eSQueL ha scritto:

Ecco qua i costi del federalismo.

Federalismo, stangata possibile con la nuova addizionale Irpef
Le Regioni potranno alzarla di 226 euro a testa. Le simulazioni da qui al 2015 in uno studio della Uil. Aumenti fino a 900 euro pro capite
di ROBERTO PETRINI


ROMA - Il federalismo fiscale rischia di risolversi in un aumento delle tasse regionali. Secondo un dettagliato studio della Uil, che ha analizzato i risvolti del recente maxidecreto varato dal governo, alle Regioni viene data la possibilità di aumentare le addizionali Irpef a regime, cioè nel 2015, in media di 226 per ciascun contribuente. Ovvero un rialzo dell'82,8%. L'ultimo decreto sul federalismo dà allo stesso tempo margini di aumento o di diminuzione, ma è ovvio che con la fame di fondi e i tagli imposti dal governo, sarà la prima opzione quella più probabile.

La vera sorpresa del nuovo meccanismo che si va profilando è che si creerà un fisco regionale a due fasce. Da una parte ci saranno i lavoratori dipendenti e pensionati che guadagnano fino a 28 mila euro lordi all'anno: questa categoria sarà parzialmente protetta dai possibili aumenti e le Regioni dovranno contenerli entro lo 0,5 per cento. Tutti gli altri, invece - sia lavoratori dipendenti sia autonomi - potranno subire - se le Regioni lo riterranno - aumenti fino al 2,1 per cento (che insieme allo 0,9 per cento base, fa il 3 per cento) nell'anno 2015.

Secondo la simulazione della Uil infatti il rincaro per la fascia che sta, ad esempio, tra i 15 mila e i 28 mila euro lordi potrà essere di soli 41 euro per i lavoratori dipendenti, di 39 per i pensionati ma addirittura di 267 per gli autonomi che, sebbene a redditi bassi, non vengono tutelati dalla clausola di salvaguardia che riguarda solo i lavori dipendenti e i pensionati. Quando si va oltre i 28 mila euro le Regioni potranno usare la mano pesante, senza distinzione di sorta tra lavoratori dipendenti e autonomi. Infatti potranno elevare le addizionali molto di più, e non solo in conseguenza degli extra deficit sanitari per i quali sarà mantenuta una procedura a se stante. Per questi contribuenti del ceto medio il rincaro possibile sarà di 862 euro anni: una somma che si ricava facendo la differenza tra l'attuale aliquota media dell'addizionale Irpef pari all'1,2 per cento e quella possibile del 3 per cento, una volta giunto al traguardo il federalismo fiscale regionale nell'anno 2015.

Su quale platea andranno ad incidere gli aumenti che il decreto sul federalismo pone nella gamma delle opzioni delle Regioni? La platea è amplissima, spiega Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil,. Nel nostro paese i contribuenti soggetti al versamento dell'addizionale Irpef sono oltre 30,9 milioni . Ma c'è un nucleo del 22,4 per cento che dichiara redditi sopra i 28 mila euro. C'è anche da considerare che visto l'andamento dell'evasione fiscale in Italia di questa "classe medio alta" il 95,3 per cento è rappresentato dai lavoratori dipendenti e solo il 7,9 per cento è costituito da lavoratori autonomi.

Dubbi e rilievi giungono anche dal Pd. Secondo l'europarlamentare Gianni Pittella, il federalismo del governo e della Lega getta la maschera. In alcune regioni come Lazio, Molise, Campania e Calabria le addizionali Irpef potrebbero salire enormemente. "In pratica - aggiunge Pittella - è una tassa sulla miseria perché si rifiuta di considerare, oltre ai costi standard, anche le prestazioni standard, che nel Mezzogiorno sono drammaticamente sotto la media nazionale ed europea".

(14 ottobre 2010)

http://www.repubblica.it/economia/2010/ ... e-8031895/



Ammesso che i risultati delle simulazioni siano attendibili, allora che si fa?
Continuiamo a spalmare i debiti delle regioni meno virtuose a discapito di quelle più virtuose.
All'inizio ci sarà sicuramente un contraccolpo. Federalismo vuol dire responsabilità. Vorrà dire che le regioni meno virtuose dovranno mettersi in pari con le altre, pena l'incazzatura dei 'regionali'.

Si applica una sorta di federalismo fiscale in Europa, con le procedure d'infrazione per gli stati meno virtuosi, e non possiamo farlo a livello regionale qui da noi nell'Italia formata da una 20na di staterelli?
Semmai il federalismo fiscale dovrebbe secondo me contemplare anche il macroregionalismo. Troppe regioni , troppi comuni e troppe inutili province.



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MessaggioInviato: 14/10/2010, 16:34 
Potevano farlo nel 1903 questo federalismo, quando il ministro del tesoro stabilì che i 2/3 del capitale italiano era provenuto dal Regno delle due Sicilie (dalle banche soprattutto eh.. [:D]).. circa 440 milioni del tempo, utilizzati per lo più per pagare i debiti di guerra di Carlo Alberto.


Ultima modifica di Lawliet il 14/10/2010, 16:37, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 17/10/2010, 14:06 
Cita:
rmnd ha scritto:
Ammesso che i risultati delle simulazioni siano attendibili, allora che si fa?
Continuiamo a spalmare i debiti delle regioni meno virtuose a discapito di quelle più virtuose.
All'inizio ci sarà sicuramente un contraccolpo. Federalismo vuol dire responsabilità. Vorrà dire che le regioni meno virtuose dovranno mettersi in pari con le altre, pena l'incazzatura dei 'regionali'.

Si applica una sorta di federalismo fiscale in Europa, con le procedure d'infrazione per gli stati meno virtuosi, e non possiamo farlo a livello regionale qui da noi nell'Italia formata da una 20na di staterelli?
Semmai il federalismo fiscale dovrebbe secondo me contemplare anche il macroregionalismo. Troppe regioni , troppi comuni e troppe inutili province.



Lol ... vedo solo ora [:o)]

Mi stai dicendo che la Lega è, nell'ordine, favorevole ad un aumento delle tasse e favorevole all'abolizione delle province?

No, perché sono abbastanza sicuro d'aver capito il contrario [}:)]


Ultima modifica di eSQueL il 17/10/2010, 14:07, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 17/10/2010, 18:51 
A parte qualche stereotipo nord/sud, e il non-sense della contrapposizione tra spirito imprenditoriale meridionale(?) e la ricerca del posto fisso a vita nel Veneto (e le migliaia d'imprese del nord-est, compresa la sua, si è scordato forse di menzionarle?) è per il resto un'intervista godibile.

E il terrone si ricomprò la Montegrappa perché ama i polentoni
di Stefano Lorenzetto

Gianfranco Aquila: "In Veneto si sgobba, c’è poco da fare: non esiste posto migliore al mondo dove vivere Ci sono sempre state due Italie. E sempre ci saranno, con buona pace di Garibaldi..."


Cita:


http://www.ilgiornale.it/interni/e_terrone_si_ricompro_la_montegrappa_perche_ama_polentoni/17-10-2010/articolo-id=480597-page=0-comments=1

[color=maroon]Si considera più veneto o più campano?

«Mi sento per metà veneto e per metà campano. Non rinnego di certo le mie origini. Però qui vivo bene e là no. Sono un dissociato, ecco. Quando sento una canzone in napoletano, ancora piango, c’è poco da fare».

Questo le fa onore. Mi commuovo anch’io quando ascolto Anema e core.

«Ma io piango anche perché a Napoli due sono buoni e otto sono balordi. Mentre in Veneto otto sono buoni e due sono balordi».

I suoi amici napoletani non la guardano storto per il fatto d’aver investito più al Nord che al Sud?
«Ho sputato sangue e speso soldi a palate per radicarmi in Campania. Ci ho aperto non una, bensì due fabbriche. Ma alla fine ho dovuto desistere. Manca la professionalità, mi dispiace. Non c’è paragone fra un lavoratore di qui e uno di laggiù, prova ne sia che a Bassano mi sono portato solo uno dei miei conterranei, un operaio espertissimo nel taglio dei tubi d’argento e nella cottura».

Quindi non è uno stereotipo il fatto che i campani lavorino meno dei veneti.
«No, è proprio vero. I veneti lavorano di più, non c’è alcun dubbio su questo. D’altronde lei consideri solo come viene chiamato il lavoro nella mia regione».

Come viene chiamato?
«’A fatica. Già la parola t’induce a non lavorare. Però se in Campania una decina di persone imparano a far bene una cosa, stia sicuro che dopo un po’ si mettono in proprio, hanno questo orgoglio, questo gusto per la sfida. Tant’è che al Sud vi sono due aziende, fondate da gente che ha imparato da me e che se n’è andata per farmi concorrenza. In Veneto non ho mai visto nulla del genere. Preferiscono il posto fisso a vita, senza rischi».

Mi dica un pregio e un difetto dei veneti.
«Laboriosi. Un po’ sbevazzatori».

Un pregio e un difetto dei meridionali.
«Generosi. Un po’ sfaticati. Va detto che forse c’entra anche il clima».

Su quali basi si potrebbe creare l’armonia fra Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia?
«Quale unità? Le due Italie sono sempre esistite e sempre esisteranno. Con buona pace di Beppino Garibaldi».

[/color]


Ultima modifica di rmnd il 17/10/2010, 18:53, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 18/10/2010, 12:15 
Consiglio la visione del film documentario dal titolo "1960"....
di Gabriele Salvatores. Spiega molto bene cosa successe
in Italia negli anni del boom economico.... e di quanto fosse
importante per i "nordisti" l'apporto del lavoro proveniente dal Sud.



Al minuto 12:15 c'è una frase chiave di un imprenditore milanese.
Una frase utilissima a questa discussione......



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MessaggioInviato: 18/10/2010, 20:45 
Certo che è stato importante l' apporto dei lavoratori meridionali negli anni del boom economico, ma guardiamo alla situazione attuale.
Il sud ha potenzialità enormi e faticosamente cerca di ritagliarsi spazi economici importanti (mafia permettendo). La mafia ha tutto interesse che il federalismo non venga attuato, perchè non permeterebbe loro un controllo totale sull' imprenditoria.
Questo federalismo, frutto di compromessi, non è quello auspicato dalla Lega ma è meglio di niente. La speranza è che con il passare del tempo lo si possa migliorare.
Non sono gli abitanti del sud a non volere il federalismo, ma tutta quella classe politica che si ritroverebbe a dover rendere conto alla gente delle loro azioni.



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MessaggioInviato: 09/11/2010, 21:20 
Cita:
[color=blue]Le elezioni divideranno l'Italia in due

E’ comprensibile che il mondo politico sia eccitato. Fini sta consumando il suo strappo, e Berlusconi - dopo quasi vent’anni - potrebbe anche essere costretto a uscire di scena. Vedremo.

Sulla carta la fine del regno di Berlusconi presenta almeno un aspetto positivo: quello di togliere dalla scena la principale fonte di divisione degli italiani.

E’ lecito sperare che, venuto meno il pomo della discordia, si possa tornare a ragionare di politica in modi non dico un po’ meno incivili (su questo è inutile farsi illusioni), ma almeno un po’ meno partigiani. E tuttavia basta osservare con un minimo di distacco il modo in cui il regno di Berlusconi sta tramontando per spegnere non pochi ottimismi sul dopo. Già, perché la qualità del «dopo» dipenderà molto dalle modalità della deposizione del monarca.

C’è una prima possibilità, e cioè che sia Futuro e libertà, il partito di Fini, a far cadere il governo. In questo caso si aprirebbe una drammatica resa dei conti all’interno del centrodestra, perché il gesto di Fini - per le modalità con cui si sta consumando - non potrebbe non essere vissuto dai fedeli di Berlusconi come un tradimento, come Bruto che pugnala Cesare.

E questo per l’ottima ragione che quasi tutto ciò che oggi Fini rimprovera a Berlusconi (a partire dalla «vergogna» della legge elettorale), fino a ieri era condiviso da Fini stesso. Ma un centrodestra spaccato fra seguaci di Fini e nostalgici del Cavaliere, fra antiberlusconiani e anti-antiberlusconiani sarebbe una sciagura per il nostro sistema politico.

C’è una seconda possibilità, ed è che a chiudere l’era di Berlusconi sia il temutissimo (da lui) governo tecnico, un Comitato di Liberazione Nazionale con dentro tutti i nemici del premier, da Di Pietro a Fini. Se Napolitano ne consentisse la nascita non farebbe che applicare procedure previste dalla Costituzione, ma è difficile non vedere che in un simile esecutivo, in cui chi ha perso elezioni governa contro chi le ha vinte, metà degli italiani scorgerebbe un tradimento del mandato popolare, mentre l’altra metà non potrebbe che vedervi l’ennesima conferma dell’incapacità dell’opposizione di battere Berlusconi politicamente, senza bisogno di magistrati, veline e ribaltoni parlamentari.

C’è infine un’ultima possibilità, e cioè che la caduta di Berlusconi, chiunque ne sia l’artefice, ci porti dritti a nuove elezioni, giusto in concomitanza con i festeggiamenti per l'Unità d’Italia. Ma anche questo scenario non è rassicurante. Non solo per la prevedibile reazione negativa dei mercati, con conseguente aumento del costo del nostro debito pubblico, ma per lo scenario politico che si aprirebbe davanti a noi. Che cosa potremmo aspettarci, infatti, da una competizione elettorale condotta dagli attori attualmente in campo?

La previsione più realistica mi pare quella di una polarizzazione del conflitto politico sull’asse Nord-Sud, con il Pdl e la Lega sostanzialmente schierati con il Nord, i partiti del terzo Polo decisi a fermare il già impervio cammino del federalismo, e la sinistra in mezzo, a bagnomaria fra la fedeltà al progetto federale e la necessità di allearsi con i suoi nemici. In buona sostanza un match Bossi-Berlusconi-Tremonti contro Fini-Casini-Bersani.

Se così dovessero andare le cose, l’Italia ne uscirebbe più debole e divisa che mai, e questo a prescindere da quale dei due schieramenti dovesse prevalere nel confronto elettorale. Quel che due schieramenti del genere avrebbero in comune, infatti, è precisamente la mancanza di una visione unitaria dell’interesse nazionale. Lo schieramento del Nord non vede i legittimi interessi del Sud, che sono innanzitutto di veder aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture. Lo schieramento del Sud non vede i legittimi interessi del Nord (primo fra tutti il federalismo), e interpreta come interessi del Mezzogiorno quelli che, in realtà, sono soltanto gli interessi di chi lo ha mal governato finora: i cittadini del Sud non hanno bisogno di meno federalismo ma, semmai, di una classe dirigente che ponga termine alla dilapidazione delle risorse pubbliche, e si metta finalmente in grado di erogare servizi all’altezza di un Paese moderno.

Ciò di cui oggi si avverte la mancanza è proprio questo: un partito, o un’alleanza, che non giochi sulla divisione Nord-Sud, ma sappia affrontare gli squilibri territoriali in tutta la loro complessità tecnica e istituzionale, al di fuori delle vuote formule con cui, in questi giorni, politici di ogni provenienza e colore stanno conducendo il loro misero gioco.

Luca Ricolfi


http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8059&ID_sezione=&sezione=#
[/color]



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MessaggioInviato: 11/11/2010, 08:59 
Le Ferrovie smobilitano dalla Sicilia su Internet treni già cancellati

Sarà un'odissea il viaggio verso il Nord: in pullman fino a Messina, poi in traghetto, magari di sera, fino a Villa San Giovanni. Infine in attesa alla stazione, fino all'alba, sperando di trovare ancora un posto su un treno diretto al Nord. Ed è impossibile prenotare. Allarme per il rientro natalizio

di SARA SCARAFIA

Ufficialmente il piano non è ancora effettivo, ma Trenitalia ha di fatto già soppresso i treni a lunga percorrenza che dalla Sicilia raggiungono il Nord. Perché l'unica certezza, al momento, è che a partire dal 12 dicembre non si può prenotare un treno che colleghi il Sud con il resto d'Italia. Se fino all'11 dicembre le prenotazioni dei collegamenti sono regolari, dal 12, vigilia dell'attivazione del nuovo orario annunciato da Trenitalia, è black-out. Un incubo soprattutto in vista delle vacanze di Natale. Come faranno i pendolari che a Natale vogliono tornare a casa? Prenotare al momento è impossibile.

Ha fatto la prova anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e leader di Forza del sud Gianfranco Micciché: "Ho cercato di prenotare un treno da Milano a Siracusa per il 5 gennaio 2011 e mi è stato detto che il treno è stato soppresso. E che i treni dal Nord Italia si fermano a Villa San Giovanni. Ho chiesto lumi a Trenitalia e mi è stato riferito che, poiché sono state tagliate le risorse per le ferrovie, essendo Trenitalia una Spa, si tagliano le tratte improduttive. Che sia questa il primo effetto del federalismo?".

Sul caso è intervenuto anche il governatore Raffaele Lombardo che ha scritto al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli: "Questi provvedimenti, ove confermati, mortificherebbero ulteriormente la Sicilia e i siciliani". La rivoluzione di Trenitalia, se con l'entrata in vigore dell'orario invernale verrà confermata la scure sui treni a lunga percorrenza siciliani, trasformerà in una odissea i viaggi verso il Nord: in pullman fino a Messina, attraversando mezza Sicilia. Poi in traghetto, magari di sera, fino a Villa san Giovanni. Infine in attesa alla stazione, fino all'alba, sperando di trovare ancora un posto su un treno diretto al Nord.

Da Trenitalia non arriva nessuna conferma ma nemmeno una smentita, a due giorni dalla denuncia della Fit Cisl che ha lanciato l'allarme. Secondo le indiscrezioni sul piano, che scatterà il 13 dicembre con l'entrata in vigore dell'orario invernale, i posti passeggeri precipiteranno da quattromila a meno di tremila. Da Siracusa, Catania e Agrigento non partiranno più i treni diretti a Milano, Torino e Venezia. E saranno tagliati anche i collegamenti con Roma Termini. Ma cosa dovrà fare allora un passeggero? Chi da Agrigento deve raggiungere per esempio Milano oggi conta su cinque convogli: se la rivoluzione diventerà effettiva, non ce ne sarà più nessuno. Un agrigentino, dunque, dovrà raggiungere Messina in pullman (si dice infatti che verranno istituiti dei bus per le tratte più importanti) oppure con i propri mezzi percorrendo 288 chilometri di strada.

Arrivato a Messina dovrà imbarcarsi per Villa San Giovanni: parte un traghetto ogni 40 minuti. L'ultimo alle 22 e 40. Poi, una volta superato lo Stretto, dovrà cercare un treno sperando di trovare posto. Da Catania verso Messina i chilometri da percorrere sono 96, 154 da Siracusa: oggi da Catania e Siracusa partono cinque treni al giorno per Milano.

Il taglio dei convogli si tradurrà in un taglio di posti: e in un conseguente sovraffollamento delle tratte rimaste in vigore. Ci sarà dunque il rischio che dopo oltre mezza giornata di viaggio, un agrigentino sia costretto ad attendere ore prima di trovare un posto? O che trovi posto ma sia costretto a fare in piedi oltre dodici ore di viaggio?
<!-- fine TESTO -->
<!-- OAS_RICH('Middle'); // -->

(10 novembre 2010)

http://palermo.repubblica.it/cronaca/20 ... i-8941192/)



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E meno male dico io...tanto al sud i soldi sono sprecati visti i risultati di questi ultimi 150 anni.
[}:)]

Cita:
Milano-Genova, Passo dei Giovi, Brennero
Il Cipe mette soldi soltanto per il Nord


di Edoardo Petti
21 miliardi. Il 90% dello stanziamento finisce al Settentrione. Esulta la Lega. D’Antoni: «Sud cancellato».

Un massiccio investimento in opere pubbliche e infrastrutture, equivalente a 21 miliardi di euro. È questo il contenuto delle delibere approvate ieri dal Comitato interministeriale per la programmazione economica. Ma il documento presenta un taglio nettamente nordista, che emerge in modo evidente se si considera l’entità e la proporzione delle risorse stanziate. Destinatarie privilegiate di circa il 90 per cento delle somme previste sono infatti le aree settentrionali, mentre appare irrisoria la percentuale relativa al Mezzogiorno.

Il governo smentisce così ancora una volta l’impegno di puntare sulla creazione delle grandi reti infrastrutturali per promuovere il riscatto economico e civile del Sud. E appare sempre più egemonizzato dalla politica del Carroccio, vero arbitro delle scelte economiche della maggioranza.

I dati del Cipe non lasciano dubbi. Le opere che potranno essere avviate riguardano il Passo dei Giovi, un tratto appenninico della Liguria che attraversa l’Alta velocità Milano-Genova; la linea da Brescia a Treviglio sulla Tav Milano-Verona; la modernizzazione del Valico del Brennero e l’accesso al traforo nel tratto Fortezza-Verona. Altri interventi di rilievo interesseranno la ferrovia Torino-Lione e la settima tranche del Mose di Venezia. Quanto all’Italia centrale, spicca la realizzazione dell’autostrada Roma-Latina e il consolidamento della viabilità sull’autostrada Tirrenica. Il costo complessivo di questi progetti ammonta a ben 19,5 miliardi di euro, quasi la totalità dei 21 miliardi stanziati. E 16,2 miliardi saranno destinati al Nord, come rileva con soddisfazione il viceministro per le infrastrutture, il leghista Roberto Castelli.

Il resto sarà destinato alle regioni meridionali, soprattutto alla rete ferroviaria pugliese.
Sul fronte politico, il titolare delle infrastrutture Altero Matteoli esprime la propria soddisfazione per la realizzazione di «alcune opere strategiche come il Brennero e la Torino-Lione, che interessano l’Italia e l’Unione europea: una dimostrazione che il paese ha mantenuto i suoi impegni». Gli fanno eco i ministri veneti Maurizio Sacconi, Renato Brunetta e Giancarlo Galan, fortemente interessati dal pacchetto di investimenti previsto dal Cipe. Se il responsabile del Welfare parla di «opere nevralgiche attraverso cui saranno utilizzate risorse comunitarie altrimenti destinate ad essere perdute», l’ex candidato sindaco di Venezia saluta con entusiasmo «la prosecuzione di una struttura vitale» per la città lagunare.

Lapidario invece il giudizio del Partito democratico, che con il responsabile delle politiche del territorio Sergio D’Antoni denuncia la «cancellazione del Mezzogiorno dal programma di opere pubbliche». Osservando che «i 21 miliardi annunciati dal governo somigliano tanto ai carri armati di Mussolini», l’ex segretario della Cisl denuncia «il vero e proprio sfregio che nessun piano sul Sud riuscirà a nascondere». E la ragione di una simile politica è per D’Antoni tutta «nell’asse di ferro fra il Carroccio e Giulio Tremonti, che spezza l’Italia e danneggia l’intero paese a cominciare dal Nord, come denunciato dall’Ocse, che parla di ripresa incerta e diseguale».

Parole, quelle del rappresentante del Pd, che trovano una conferma, almeno sul piano tecnico se non su quello politico. Nella prossima seduta il Cipe esaminerà infatti un piano organico di opere per il Mezzogiorno, utilizzando a questo scopo le risorse dei Fas, quelle relative alle aree più disagiate.




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MessaggioInviato: 22/11/2010, 18:42 
In ricordo del Professore Gianfranco Miglio...

Cita:
[color=blue]Miglio, anti-italiano senza eredi
di Roberto Festorazzi

http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/300726/

Roberto Saviano ha attaccato da TeleFazio il professor Gianfranco Miglio, che, essendo morto da dieci anni, non può più difendersi. Saviano ha riesumato un’intervista di Miglio del 1999, impiccandolo a un’affermazione lapidaria a proposito della costituzionalizzazione delle mafie. Si trattava di una delle provocazioni intellettuali alle quali il giacobino nordista, che ha tenuto a battesimo la Seconda Repubblica, ci aveva abituato. Come l’esaltazione del linciaggio come forma di giustizia politica «nel senso più alto della parola», ai tempi in cui Gabriele Cagliari, il socialista Moroni e altri si suicidavano travolti dall’onda di Tangentopoli e Miglio esortava a non provare pietà.

Il paradosso della mafia-Stato andrebbe meglio contestualizzato, anzitutto per aiutare a comprendere il personaggio. Che cosa disse, in quella famosa intervista? Il Professore prese le mosse da una rivendicazione orgogliosa della “diversità” padana.
«Noi abbiamo nelle vene sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I meridionali invece vivono per l’otium, il dolce far nulla, i sollazzi, un totale disprezzo per la fatica. Questa è la storia dei due popoli. Una differenza antropologica, inutile star lì». Miglio riconobbe che il Sud fosse stato danneggiato dal processo di unificazione nazionale. Poi l’affondo: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».


Si può, anzi si deve dissentire da una provocazione così luciferina. Ma essa prese le mosse dallo studioso e dallo storico delle dottrine politiche, più che dall’uomo politico. Miglio, poi, quando pronunciò quella dichiarazione, aveva già rotto da un pezzo con Bossi, quindi l’affermazione non può essere usata oggi come arma contundente contro la Lega. Ma, al di là della sostanza, ci preme cogliere la radice della provocazione. Le mafie non si sconfiggono con i balli in piazza. Le mafie, oltre che essere imprenditrici, sono istituzioni politiche parallele: offrono protezione a tutti gli italiani che non vogliono diventare cittadini e inchinarsi alla legalità repubblicana, ma si accontentano di restare sudditi. È questa “statualità” delle camorre che va spezzata, altrimenti dobbiamo dare ragione a Miglio. Il quale già molto prima, nel 1992, all’epoca delle stragi, aveva seminato scandalo dichiarando che in fondo Cosa Nostra era un affare dei siciliani. Del resto, l’isola raffigurata da Forattini come la testa di un coccodrillo rappresentava, per il Prufesùr, un modello ideale di repubblica indipendente centro-mediterranea, per sua natura estranea alla Penisola che egli immaginava “elvetizzata”, cioè divisa in Cantoni.

Il problema riguardante Miglio, però, è un altro. Come mai, a parte la “sparata” di Saviano, attorno a questo figlio di Radetzky è calato un assordante silenzio? Per quale ragione nessuna cultura politica, nemmeno quella leghista di cui pure fu profeta, vuole associare al proprio Pantheon questo visionario antiitaliano rimasto senza eredi?
Oggi, un giovane di vent’anni forse non sa neppure chi era Gianfranco Miglio. E a penetrarne i segreti non ci hanno certo aiutato i “chierici” della cultura, vecchi e nuovi, che non l’hanno mai amato e non aiuteranno certo a riscoprirne la personalità eclettica e pirotecnica. Intestarsi Miglio non conviene a nessuno, tanto il personaggio – il cui pensiero e la cui profondità restano in gran parte inesplorati – è complesso e non riconducibile a una univoca matrice culturale e politica. Nell’era post-ideologica, il Professor Sottile va stretto a tutti, nel senso che la sua produzione dottrinale è per definizione ridondante in un Paese asfittico e allergico alle contaminazioni come il nostro.
Nemico giurato delle etichette, Miglio non potrebbe stare oggi in nessuna “casa” politica: non certo nella famiglia socialista, o democratica che sia, perché l’uomo ha combattuto tutta la vita le posizioni di sinistra, tenendosi stretta la definizione di “reazionario” che gli veniva rovesciata addosso a ogni piè sospinto.


Diffidente di Berlusconi, tanto da aver inutilmente tentato di dissuaderlo dallo scendere in campo, Miglio non starebbe comodo nel centrodestra convenzionale, né si farebbe “parcheggiare” nella variamente composta galassia di partitini e sigle di centro, Fini compreso, anche se fin dal 1994 vaticinò per l’attuale leader di Futuro e libertà un avvenire al Quirinale. Infine, la “sua” Lega, che oggi non lo ricorda, non lo pensa, non lo ama, così come nessun altro nutre affetto per questo padre putativo della Seconda Repubblica. E, del resto, come si può conciliare il patrimonio ideale di Miglio – in un anticipo di un secolo sulla storia – con gli intrighi, i maneggi e il piccolo cabotaggio dell’era delle escort?

Purtroppo, duole ammetterlo, è l’anoressia mentale del presente ad aver sfrattato Miglio dal nostro panorama culturale. Il politologo del Gruppo di Milano, già negli anni Settanta-Ottanta, aveva previsto il tramonto dello Stato moderno, l’estensione dell’area del contratto-scambio, cioè del mercato, a spese della sfera dell’obbligazione politica. Miglio prevedeva addirittura il lento tramonto della democrazia elettivo-parlamentare, a vantaggio della promozione di nuove (ma, in realtà, antiche) forme di “delega”, legate alla organizzazione della rappresentanza per ceti, per strati sociali, con il progressivo abbandono della formula “una testa, un voto”.

Miglio era un federalista e neocorporativista che giudicava con favore il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo nell’ambito di una radicale ridefinizione degli istituti della cittadinanza contemporanea. Perciò, fanno molto male tutti coloro che ne hanno dimenticato la grande lezione, per difetto di cultura. Ci sia consentito di ricordare Miglio, ma a modo nostro. Il principe dei politologi italiani, il secondo Machiavelli, non fu soltanto un uomo di dottrina, ma anche un insigne enogastronomo, di gusti sofisticati nella scelta della varietà del suo abbigliamento, tanto che si può forse parlare di un Miglio’s style, che vale la pena di raccontare.

Cominciamo dagli abiti. Si narra che, il sontuoso guardaroba del Professore, nella casa comasca di Salita dei Cappuccini (biblioteca di trentamila volumi, in stile “gotico”, con tanto di pulpito e confessionale adibito ad appendiabiti), fosse fornito di non meno d’un centinaio di camicie d’ogni foggia. Le preferite erano quelle a righine, che Miglio portava con il papillon alle sessioni d’esame in Università Cattolica.
Durante il quotidiano rito della vestizione, assistito dalla moglie Myriam, il Professore indossava giacche impeccabili che lo hanno consacrato nell’Olimpo dei gentiluomini mitteleuropei. Ricca la varietà di cappotti invernali, con pelliccia o senza, in pellame, e dei beretti, molto curiosi, con pon pon, alla scozzese, e così via.


Noi studenti, nelle giornate corte e nebbiose, a Milano lo vedevamo salire e scendere dal convoglio delle Ferrovie Nord, a Piazza Cadorna, oppure lo incrociavamo lungo il suo abituale tragitto da e verso la Cattolica, che sembrava Amundsen, l’esploratore dei ghiacci. Sul cranio calvo calava una coltre di pelo tipo colbacco. Leggenda vuole che il Professore calzasse, nei rigidi climi invernali, mutandoni di lana, un genere di capo praticamente estinto. E, con i pochi fidati che aveva intorno, se ne lamentava: «Ormai non si trovano più. Li ha in dotazione soltanto l’esercito».

Il treno era un must, nella vita di Miglio. Saliva alla stazione di Como Borghi e viaggiava, sempre e rigorosamente in prima classe, nelle vecchie carrozze della Nord, residuati svizzeri dell’anteguerra, con i sedili foderati di velluto rosso. Imprecava anche lui, come noi comuni mortali, per i ritardi e per il maltempo.
Anche a Roma, nell’ultimo decennio della sua vita, quando fu senatore della Lega e poi del Polo, si recava sempre in treno letto. L’aula di Palazzo Madama lo imbaldanziva: «Sembra un club inglese», diceva con una punta di civetteria, lui allergico da sempre al clima romano. Appena passata la linea gotica avvertiva il disagio. E si sentiva a casa soltanto quando, dal finestrino del suo scompartimento, poteva finalmente intravedere la cupola del Duomo di Como.

Le sue radici, cattoliche con una punta di luteranesimo, erano infatti ben piantate nell’alto Lario, a Domaso, dove da sempre la famiglia coltiva la vigna e produce il mitico Domasino, un vinello a bassa gradazione. La nonna materna era teutonica e lo fu anche la sua trisavola paterna, che contava le galline in tedesco: ein, zwei, drei. La sua patria era a Settentrione, il suo zenit puntato costantemente a Nord.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Miglio si dedicò a una delle sue più ciclopiche imprese, la realizzazione della Treccani padana, l’enciclopedia Larius in sei volumi, opera interamente dedicata al territorio e alla cultura del lago di Como, indivisibile patrimonio di memoria e di identità. La sua forza di volontà fu granitica e il parto prodigioso. Uno dei supplementi riguardava le varietà di pesci lacustri e il loro modo di cucinarli. Le ricette erano riprese da un testo cinquecentesco di un grande ittiologo italiano, Ippolito Salviano. Un autentico distillato di scienza allo stato puro, che culminava con la regina delle preparazioni culinarie: la carpionatura.

Prima di morire, il 10 agosto 2001, a 83 anni, il Professore volle lasciare un’ultima lezione di stile, recandosi personalmente nel Vercellese, accompagnato dal figlio Leo, a scegliere il marmo per la sua tomba. Alla morte di Carl Schmitt, da lui definito «il grande vegliardo della politologia europea», Miglio, il 17 aprile 1985, aveva scritto, sul Sole 24 Ore, un articolo che fu poi intitolato “Sulla bara di Carl Schmitt”. Celebrandone la scienza, aveva sentenziato: «Come tutti i predecessori, egli ha visto legata la sua grandezza alla contemporaneità con una fase drammatica dell’evoluzione delle istituzioni e del sistema politico». Lo stesso si potrebbe dire per Gianfranco Miglio.[/color]



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MessaggioInviato: 24/11/2010, 00:26 
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[color=blue]Forza Rai!

http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=30505

In questi ultimi giorni, mentre la temperatura della politica si va alzando, anche la Rai tende a mostrare di che tempra sia fatta. I baldi e ispirati rappresentanti dell'opposizione, alla quale è affidata la stragrande maggioranza delle trasmissioni di carattere politico - e non solo quelle classificate ufficialmente come "politiche", ma anche le "chiacchierate innocenti", come quella di Saviano e di Fazio – si sono attivati e denunciano scandali e sconcezze governative a destra e a manca: se poi sia oro colato si vedrà fra qualche anno…

Ma stiamo al punto. Visto che da qualche mese si è scoperto che il Sud è fieramente opposto al Nord anche sul piano politico – e con l'avventura finiana la rottura si sarebbe fatta vieppiù profonda – stiamo assistendo ad una frenetica azione politica condotta dalla radiotelevisione di Stato, che ha di fatto come obiettivo una sorta di "riscatto del Sud", che si realizzerebbe attraverso la distruzione delle nostre forze produttive con la irresponsabile messa sotto accusa di Finmeccanica; tramite il sostegno acritico e assoluto al regime di chiagni e fotti che ha consentito fino ad ora al Sud di vivere al di sopra delle proprie possibilità; con la critica velenosa, o il silenzio (se non si può proprio criticare) sui meriti e sulle differenze – mica tutte negative – propri del Nord. Dai nostri giornalisti "democratici" dobbiamo sentire senza contraddittorio alcuno blandizie di ogni tipo per il meridionale oppresso e vittima dell'egoismo altrui, e frasi di incondizionato sostegno per quella congerie di sciocchezze e di mezze verità che vorrebbero dipingere il nostro Meridione della metà dl XIX secolo come una sorta di paradiso perduto per colpa del "colonialismo settentrionale".

Le tirate retoriche e risapute del giovane commediante Saviano, che ripete ogni sera la sua lamentazione partenopea, le sue accuse a tutto e a tutti, fuorché agli stessi meridionali, per la situazione nella quale vivono, l'immagine di un Paese mafia e mandolini in cui molti di noi non si riconoscono affatto, hanno in molti settentrionali l'effetto di accrescere il desiderio di farla finita, di staccarsi una volta per tutte, di portare alle ultime conseguenze un processo che, magari anche con una Rai diversa – e con un diverso atteggiamento da parte di chi la pilota –, avrebbe potuto forse essere contenuto pilotando in tempi brevi e con contenuti certi una vera riforma federalista. Perché in questi casi, quando si tratta non di indurre ad un voto piuttosto che ad un altro, ma di infondere un determinato stato d'animo collettivo e certe aspettative, la Rai è davvero potente. Tanto più che, come emittente pubblica, si dovrebbe collocare al di sopra di ogni sospetto di parzialità.

Così la Rai – magari senza volerlo e senza rendersene conto, per la sua siderale distanza dalla realtà e soprattutto dal Nord – rischia di fare quello che nessun leghista avrebbe mai sperato: indurre il grosso dei settentrionali a considerare in qualche modo inevitabile il divorzio. Bel lavoro.
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MessaggioInviato: 24/11/2010, 12:03 
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[color=blue]16 marzo 2011
Il Risorgimento non porta voti

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http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/302063/

Sfoglio il calendario del 2011 e mi imbatto in due date. La prima è il 16 marzo quando iniziano le celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. La seconda è il 27 marzo quando gli italiani molto probabilmente saranno in fila nei seggi per eleggere il nuovo Parlamento. Nel giro di due settimane l’Italia farà una specie di autoanalisi collettiva.

Il 16 e il 17 le celebrazioni romane inizieranno solenni con salve di cannone a salutare il ricordo di Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e il re Savoia, mentre in venti città capoluogo ci sarà un contemporaneo alzabandiera. È prevista una cerimonia al Pantheon e una seduta comune del Parlamento con un discorso del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. La grande festa culminerà con un concerto in piazza del Popolo e Riccardo Muti di sera al Teatro dell’Opera di Roma dirigerà il “Nabucco”.


Ci saranno delegazioni straniere. Probabilmente non faranno vedere la Lega Nord e i suoi ministri, compreso quello dell’Interno, Roberto Maroni. Poche settimane fa Roberto Calderoli, intervistato da Lucia Annunziata, su Rai 3, è stato secco: «Noi non ci saremo».


Il 27 marzo, invece, gli italiani saranno chiamati a votare a favore o contro un governo imperniato sull’asse Berlusconi-Bossi, il più nordista dopo quelli post-unitari, che ha al centro del suo programma il federalismo, e saremo alla fine di una campagna elettorale dominata dallo scontro Nord-Sud, dall’insorgenza dei partiti meridionali, dalle polemiche sui rifiuti padani che finiscono in Campania e sulla criminalità meridionale che invade i territori leghisti. Questa coincidenza è assolutamente imprevista ma, a pensarci bene, riflette una delle principali contraddizioni della nostra nazione, cioè celebrare l’anniversario dell’Unità in un clima di rottura assolutamente inedito.

L’Italia che festeggia la sua data di nascita, ovvero della sua nascita come Stato, sta scoprendo la maggior fioritura di prodotti culturali revisionistici. Il film di Mario Martone, “Noi credevamo”, racconta senza retorica e con puntigliosità le contraddizioni del Risorgimento riempiendo le sale. Molti esperti pensano che sia uno dei film più belli che siano stati fatti nell’ultimo periodo. Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, ha mandato in libreria una straordinaria saga risorgimentale, “I traditori”, in cui conquistano la prima scena spie, delinquenti e prostitute accanto ai miti del nostro Risorgimento ritratti senza l’alone che li circonda nei libri di scuola.

Storici titolati come Emilio Gentile si misurano con il crollo dell’idea di Nazione. Un nuovo italiano come Paul Ginsborg fatica a trovare le ragioni di salvezza del frutto dell’avventura garibaldina. Francesco Barbagallo, raccontando le gesta dei camorristi napoletani, apre il capitolo sul Mezzogiorno con la frase lapidaria: «L’estate del 1860 vide scomparire in un rapido gorgo il più grande Stato della penisola italiana». Giordano Bruno Guerri ha raccontato l’epopea dei briganti immersi nella solidarietà contadina nella sua controstoria del Risorgimento dedicata al «sangue del Sud», tema su cui si sono cimentati con libri di successo Arrigo Petacco e Gigi Di Fiore.

Si potrebbe continuare. Le librerie sono piene. A fare da controcanto l’idea di Paolo Mieli di dedicare una collana della Rizzoli agli scrittori risorgimentali più noti, l’intera collana curata, per il Mulino, da Ernesto Galli Della Loggia dedicata alla nostra identità, l’affascinante viaggio culturale nell’Italia prima dell’Italia, di Francesco Bruni, sempre edito dal Mulino, fino al battagliero ultimo lavoro di Aldo Cazzullo che cerca di contrastare le pubblicazioni revisioniste.

In questo clima culturale, che il lettore del Riformista già conosce perché altre volte ho richiamato la sua attenzione, si inserirà la parte più calda e finale della imminente campagna elettorale. È una situazione assolutamente unica. In molti paesi le vicende storiche sono state frutto di accurate ricerche, di rappresentazioni artistiche e quindi anche di letture che contraddicevano la verità ufficiale o che, in ogni caso, lasciavano la parola ai vinti.

Cinema e letteratura americana in questo caso sono esemplari nella capacità di dare conto di un pluralismo di interpretazioni, di narrazioni e di emozioni. Forse solo in Italia capita, però, che la celebrazione unitaria avvenga mentre una parte dell’intellettualità sembra più interessata a raccontare i difetti originari del processo unitario e una parte della politica si sta rivolgendo verso suggestioni che mettono in campo una lettura del federalismo che assomiglia molto a una separazione consensuale. Due settimane dopo l’avvio delle celebrazioni per il centocinquantesimo la Lega cercherà di strappare il massimo risultato politico ed elettorale della sua storia e lo farà mettendo in campo tutta la sua armatura ideologica per convincere e trattenere il voto nordista. In quegli stessi giorni, in forme politiche che non sappiamo prevedere, nelle piazze e nelle tv del Sud i “cacciatori di voti” di tutti i partiti si scopriranno fieramente meridionalisti e chiameranno alla rivolta del Sud offeso.

Questa strana coincidenza di date suggerirebbe contromisure. Non penso a artifizi organizzativi. Anche se si collocassero le elezioni qualche settimana più in là, a cavallo di maggio, resterebbe il problema della staffetta fra un voto che misurerà la coesione degli italiani e le celebrazioni di un evento storico di primaria grandezza che finora non suscita passione popolare. Un ruolo svolgerà il Capo dello Stato, meridionalista e patriota, che ha ben saputo tenere desto lo spirito nazionale dopo la bella lezione unitaria che dette il suo predecessore Carlo Azelio Ciampi quando impose la bandiera al centro del dibattito nazionale.


Ma non si potrà lasciare solo Giorgio Napolitano. L’affollarsi di un leghismo diffuso, esplicito e strisciante, è un problema dell’intero arco delle forze politiche e trova le sue ragioni in un’Italia mai spaccata come lo è in questo tornante della storia, mai così unificata nel costume e nei modi di vita mai così contrapposta nello spirito pubblico. Il rischio di una contrapposizione fra la retorica inevitabile delle celebrazioni e il disincanto della “gente” è assai forte. In qualche modo il sovrapporsi del centocinquantesimo con il voto politico può diventare la cartina di tornasole della italianità degli italiani.

Bisogna che ciascuno decida in quale parte del filone celebrativo si vuole collocare. Siamo una Nazione in grado di ricordare la sua data fondativa senza tacere i limiti e le ingiustizie del Risorgimento, ma siamo anche una nazione che può trovarsi a un passo dalla propria disgregazione.

L’evento miracoloso di un secolo e mezzo fa che camminò sulle spalle dei garibaldini, sulle ambizioni del re, sulla genialità di Cavour, sulla predicazione di Mazzini, spesso incompresa da quei contadini e da quella plebe che i neo-borbonici celebrano nel ricordo delle stragi piemontesi a Pontelandolfo e a Casalduni, nel Sanniobeneventano, che segnò l’inizio della dipendenza del Sud denunciata dai meridionalisti storici e che per molti padani di oggi, ministri della Repubblica compresi, rappresenta il prezzo esoso pagato dal Nord, ebbene quell’evento avrebbe bisogno di una classe dirigente in grado di parlare ai cittadini di oggi per cercare le ragioni di una volontà che, scrive Emilio Gentile, «eviti all’Italia unita di finire smembrata e la faccia diventare finalmente la patria comune di italiani e di italiane dotati di caratteri alti e forti, o più semplicemente, di dignità».
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MessaggioInviato: 24/11/2010, 12:17 
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[color=blue]Quei Comuni che non ne possono più

http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=30509

Appare come straordinaria la notizia di ben 545 del Nord Italia che si stanno organizzando per cercare l’annessione a vicine provincie o regioni a statuto speciale, o se preferiamo per la secessione dalle attuali appartenenze territoriali.

Purtroppo la questione non costituisce assolutamente una sorpresa. Essa rappresenta anzi l’ovvio risultato di una politica sempre più confusa e disomogenea del nostro paese. Il noto giornalista Paolo del Debbio grida dalle pagine del giornale “Federalismo subito”, ma anche questa seppur ovvia soluzione non credo sia quella più adeguata; o per essere più precisi, non lo è certo il federalismo al quale si inneggia nel belpaese in questi anni.

La soluzione, a parer mio, sarebbe quella di azzerare tutti, ma proprio tutti i privilegi provinciali e regionali e applicare un Federalismo serio e concreto che contempli per la prima volta l’applicazione della Sovranità territoriale, proprio come avviene da sempre in Svizzera. La sovranità regionale o cantonale che dir si voglia appartiene alla sfera della “responsabilità politica e amministrativa” degli eletti sul territorio, affinché la gestione della regione di competenza sia in grado di funzionare al meglio, attirando verso di sé investimenti e creando i presupposti per una vita prospera e serena dei propri concittadini. Ancor più importante e basilare è il regime di “concorrenza” – ad esempio sociale, amministrativa e di sicurezza – tra le stesse regioni. La regione con minor imposizione fiscale attirerà maggiori investimenti stranieri e alimenterà maggiormente la propria rete commerciale mentre un’altra potrà puntare maggiormente sulla sicurezza aumentando le tasse per investirle nella sicurezza.

E altro ancora potrei ipotizzare. Questo avviene regolarmente nella vicina Confederazione Elvetica senza alcun problema, nè polemiche su inesistenti “attentati all’unità nazionale” e quant’altro. Infatti, in Svizzera, dappertutto troviamo una bandiera con la croce bianca, sia se ci troviamo nel Canton Ticino che nel Vallese. Non si chiama solo Federalismo ma Libertà.


Serve una Riforma Federale vera, concreta e radicale altrimenti resteremo l’Italia di sempre, quella che ad ogni appuntamento elettorale promette di cambiare tutto per poi lasciare tutto come prima e puntare sempre e solamente sulla riconferma elettorale attraverso comodi compromessi e facili accordi politici.

Ben venga dunque l’ASSOCOMICONF – Associazione dei Comuni di confine con le Regioni e le Provincie autonome e dei Comuni frontalieri con la Svizzera – che risolleva la questione fornendo assistenza ai paesi e città che attraverso il legittimo e giustificato ricorso al referendum chiederanno ai propri cittadini se sono d’accordo di aderire ad un'altra provincia che li tassi meno e permetta loro una vita molto meno costosa sotto moltissimi aspetti, come la sottoscrizione di mutui, l'iscrizione a scuole e asili, e alla possibilità di avere anche uno stipendio maggiorato. Mi chiedo chi saranno quelli che diranno di no a questa proposta. [/color]



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