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Blissenobiarella ha scritto:

Penso che se vogliamo affrontare seriamente questa discussione, la prima cosa da fare sia sgombrare il capo dal pregiudizio razzista di targa leghista.
Le genti del sud oggi come oggi, sono indissolubilmente legate a quelle del nord da più di un secolo di immigrazioni continue. Quasi metà della popolazione del nord è di origini meridionali o è imparentata con i meridionali. SIAMO LA STESSA GENTE piaccia o meno a tutti quelli che per ignoranza o che per convenienza ignorano perfino i nostri ultimi decenni di storia.
La situazione presente al sud, è la stessa situazione che si verifica ovunque si manifesti il crollo dello Stato. Cosa che ben presto potrà sperimentare anche il nord. La criminalità esiste al sud come al nord, solo che al sud li chiamano criminali, al nord, soprattutto se hanno risieduto ad Arcore, li chiamano eroi [xx(].


Si ma non è possibile etichettare sempre come 'razzista' fatti storici scomodi.
Criticare il sud è un terreno minato come criticare lo stato d'Israele e beccarsi dell'antisemita è un questione di un secondo.

Certo che siamo la stessa gente, ma la criminalità al nord è un regalo tutto meridionale. E' pur vero che oggi anche alcuni imprenditori del nord, vuoi per obtorto collo , vuoi per convenienza , fanno affari con la criminalità meridionale infiltrata.
Ma questo è normale, visto che l'essere umano è uguale a tutte le latitudini ed è facile corrompersi quando vengono meno certe regole di convivenza civile.

Se è vero che non tutti i meridionali sono 'mafiosi' (in senso lato, quindi mafiosi, camorristi, e anche piccola criminalità e vita di espedienti) e pur vero che tutti i mafiosi sono meridionali, di origine meridionale, e per i nuovi mafiosi colletti bianchi settentrionali, proprio perchè siamo tutti uguali, dobbiamo sempre ringraziare la mafia meridionale che come una cancrena ha corrotto anche le parti sane del paese.

Semmai è utile capire perchè ben prima dell'unità d'Italia nel meridione la criminalità fosse così diffusa.

Ma davvero vogliamo nasconderci dietro a un dito?
Davvero vogliamo far finta di credere che se l'unità d'Italia avesse coinvolto solo le attuali regioni del centro-nord, le cose non sarebbero andate diversamente sul versante sociale?

Io penso che saremmo stati molto più simili per modi, educazione, rispetto delle leggi e senso civico alle confinanti Austria e Svizzera.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 10:46 
e allora se stavate meglio senza piemontesi tornatevene al sud tutti quelli che siete qua, se chiudono termini e pomigliano cè un motivo, li non lavorate, sono le 2 aziende con il maggior numero di assenteisti, mutua e minor produzione d'italia. smettetela di fare le vittime.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 11:04 
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Si ma se continuiamo a fare propaganda neo-borbonica, tanto vale che posti articoli de "La Padania" o di diversi movimenti indipendentisti settentrionali.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 11:45 
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rmnd ha scritto:

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Blissenobiarella ha scritto:

Penso che se vogliamo affrontare seriamente questa discussione, la prima cosa da fare sia sgombrare il capo dal pregiudizio razzista di targa leghista.
Le genti del sud oggi come oggi, sono indissolubilmente legate a quelle del nord da più di un secolo di immigrazioni continue. Quasi metà della popolazione del nord è di origini meridionali o è imparentata con i meridionali. SIAMO LA STESSA GENTE piaccia o meno a tutti quelli che per ignoranza o che per convenienza ignorano perfino i nostri ultimi decenni di storia.
La situazione presente al sud, è la stessa situazione che si verifica ovunque si manifesti il crollo dello Stato. Cosa che ben presto potrà sperimentare anche il nord. La criminalità esiste al sud come al nord, solo che al sud li chiamano criminali, al nord, soprattutto se hanno risieduto ad Arcore, li chiamano eroi [xx(].


Si ma non è possibile etichettare sempre come 'razzista' fatti storici scomodi.
Criticare il sud è un terreno minato come criticare lo stato d'Israele e beccarsi dell'antisemita è un questione di un secondo.

Certo che siamo la stessa gente, ma la criminalità al nord è un regalo tutto meridionale. E' pur vero che oggi anche alcuni imprenditori del nord, vuoi per obtorto collo , vuoi per convenienza , fanno affari con la criminalità meridionale infiltrata.
Ma questo è normale, visto che l'essere umano è uguale a tutte le latitudini ed è facile corrompersi quando vengono meno certe regole di convivenza civile.

Se è vero che non tutti i meridionali sono 'mafiosi' (in senso lato, quindi mafiosi, camorristi, e anche piccola criminalità e vita di espedienti) e pur vero che tutti i mafiosi sono meridionali, di origine meridionale, e per i nuovi mafiosi colletti bianchi settentrionali, proprio perchè siamo tutti uguali, dobbiamo sempre ringraziare la mafia meridionale che come una cancrena ha corrotto anche le parti sane del paese.

Semmai è utile capire perchè ben prima dell'unità d'Italia nel meridione la criminalità fosse così diffusa.

Ma davvero vogliamo nasconderci dietro a un dito?
Davvero vogliamo far finta di credere che se l'unità d'Italia avesse coinvolto solo le attuali regioni del centro-nord, le cose non sarebbero andate diversamente sul versante sociale?

Io penso che saremmo stati molto più simili per modi, educazione, rispetto delle leggi e senso civico alle confinanti Austria e Svizzera.



Il problema del meridione non è la criminalità, ma il bassissimo tasso d'occupazione. Se una persona non è messa in grado di sostentarsi attraverso le vie lecite, gioco forza deve darsi all'illecito. Non credo
ci sia bisogno di essere grandi statisti per comprendere questa ovvietà.
LA cosa su cui varrebbe la pena interrogarsi se si facesse politica non populismo, è come si è giunti a questa crisi occupazionale ed è esattamente quello che proveremo a fare.

Tu dici che la criminalità prima dell'unità al sud fosse più diffusa che al nord, ok...forniscimi dei dati storici e li analizziamo.

La Mafia meridionale ha corrotto esattamente cosa? Un sistema sano e corretto che si è occupato del bene del Paese riunito e invece non ha fatto i propri interessi? Oppure ha trovato connivenza laddove il denaro sporco si poteva facilmente lavare?
Analizzeremo anche questo.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 11:47 
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rmnd ha scritto:

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Si ma se continuiamo a fare propaganda neo-borbonica, tanto vale che posti articoli de "La Padania" o di diversi movimenti indipendentisti settentrionali.




Quando non si riesce a smentire, si prova a sminuire...qui non siamo in mezzo ad un partito politico rmnd, qui c'è gente che ha una cultura discreta...



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 12:03 
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keiji ha scritto:

e allora se stavate meglio senza piemontesi tornatevene al sud tutti quelli che siete qua, se chiudono termini e pomigliano cè un motivo, li non lavorate, sono le 2 aziende con il maggior numero di assenteisti, mutua e minor produzione d'italia. smettetela di fare le vittime.


Keiji...forse non ti sei accorto che stanno chiudendo fabbriche in tutta Italia , che la Fiat per ora resiste grazie all'assistenzialismo statale, che stanno smantellando la SEAT pagine gialle a Torino, che la indesit ha chiuso due fabbriche, che la Innse è stata smontata con l'intervento della polizia in mezzo al blocco dei vicentini. Chiude la Omsa, La Perla, Lucchini di Piombino, Eaton, Antonio Merloni...E tutto questo succede al Nord.
Solo che le chiusure delle fabbriche al sud, viene politicizzata, strumentalizzata interpretata a secondo delle convenienze da quanti invece di pensare all'ITALIA stanno continuando a pensare alle loro Tasche. Sveglia! Non credere a tutto quello che vi raccontano, internet non serve solo per aggirare il coverup sulle notizie ufologiche. Non fatevi usare.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 12:27 
Italia del 1844 vista con gli occhi di un turista...Un certo Charles Dickens...
http://nonsoloproust.splinder.com/post/21563792

La prima città italiana in cui arriva la Carovana è Genova, che colpisce Dickens per "l'inesplicabile sudiciume" "lo sporco scoraggiante", i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze (eppure Genova è considerata la città più pulita d'Italia!).

Affitta poi una casa ad Abaro in cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza.
In viaggio per Bologna passa per la "scura, decadente, vecchia Piacenza", piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.

A Roma Dickens arriva nel pieno del Carnevale, che descrive minuziosamente così come descrive minuziosamente la visita dei Musei Vaticani, il Colosseo ("una rovina, Dio sia ringraziato!") la messa del Papa in San Pietro e... la decapitazione di un malvivente operata dalle autorità vaticane alla quale va ad assistere e dove nota un pubblico composto da "Romani dall'aspetto truce, del più basso ceto, in mantello blu, mantello ruggine o stracci senza mantello, andavano e venivano o parlavano tra loro. Donne e bambini starnazzavano ai margini della scarsa folla. Un largo spiazzo pieno di pozzanghere era stato lasciato completamente vuoto, come un punto di calvizie sulla testa di un uomo. Un mercante di sigari, con un recipiente di coccio pieno di cenere di carbonella in mano, andava su e giù gridando le sue mercanzie.
Un pasticciere ambulante divideva la sua attenzione tra il patibolo e i suoi avventori. Dei ragazzi tentavano di arrampicarsi sui muri e ricadevano giù. Preti e monaci si facevano largo con i gomiti tra la folla e si alzavano sulla punta dei piedi, per dare un'occhiata alla lama; poi se ne andavano."

Napoli delude profondamente Dickens, che in una lettera all'amico e biografo Foster scrive: "La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere [...] Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l'ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri" .

La Napoli descritta da Dickens è tutta miseria, sporcizia, mendicità; pullula di storpi, cani randagi, la maggior parte delle porte e delle finestre dei palazzi sono fradice e cadenti, le vie miserabili e attraversate da luridi rigagnoli...
Una Napoli di mendicanti e borsaioli, in cui il popolino si droga e si rovina giocando al Lotto.


Prima di tornare in Inghilterra Dickens visita anche Firenze e dopo aver reso un rapido tributo alla bellezza di palazzi e di alcune prospettive, non trova di meglio da fare che raccontarci, di Firenze, l'omicidio di una ragazzina uccisa da un ottantenne.


Se Dickens non risparmia nessuna città italiana da lui visitata (per quanto riguarda Genova, i suoi vicoli sono ancora maleodoranti, ma oggi Genova non è solo centro storico), qui e altrove l'immagine che fornisce di Napoli è quella più impietosa e stride con la grandiosità della Napoli del Regno delle 2 Sicilie descritta dai nuovi borbonici e meridional-revisionisti in genere.



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MessaggioInviato: 06/07/2010, 12:53 
LE IMPRESSIONI ITALICHE: IL CENTRO ED IL SUD
Rientrato a Genova, se ne distaccò nuovamente alla fine del gennaio 1845, recando seco la consorte, con l’intenzione di percorrere la Penisola dalla Toscana in giù.
In realtà, l’itinerario previsto non fu portato a compimento e da Napoli tornarono indietro per soggiornare ancora a Roma e, dopo, risalire a Genova attraverso una rotta diversa dall’andata.

Attraversando la Toscana egli si espresse in termini di apprezzamento: nel territorio che va dalla costa ligure a Siena, visto fra l’andata ed il ritorno, ebbe modo di trovare molte cose che gli aggradarono nel paesaggio urbano e non, dalla campagna, agli oliveti, alle città stesse, per le quali trovò uno o più meriti ciascuna.

Da bravo inglese, sfruttava la ferrovia ogni qualvolta gli si presentasse l’occasione ed anche nel Granducato usufruì della linea Livorno-Pisa, da poco inaugurata31, di cui ebbe a scrivere che era ottima e già meravigliava l’Italia per puntualità, ordine, gestione e progresso.
Non poté dire altrettanto bene dell’Agro romano, che gli apparve desolato quale, in effetti, era.

Gustose e sagaci le pagine dedicate al soggiorno romano, spezzato nella realtà in due da quello napoletano, ma riunite su carta in una lunga sequenza molto tipica del suo stile, dove la Capitale, più che attraverso i suoi tesori d’arte, è raccontata per mezzo dei tipi umani che la popolano, spesso stigmatizzati senza alcun risparmio, turisti connazionali inclusi, con descrizioni in un crescendo narrativo da romanzo “a sensazione”, con apice nella fosca cronaca di una decapitazione avvenuta vicino alla chiesa di San Giovanni Decollato.

Si ha, infine, la sorpresa: Napoli, in generale, non incontrò il plauso del Nostro, il cui giudizio non andò ad allinearsi con i resoconti dei viaggiatori a lui precedenti o coevi, più o meno sedotti dalla bellezza, dal clima, dal nitore del cielo, dalla gente, basti ricordare l’entusiasmo di Goethe, di Dumas padre (“Il corricolo”, 1835), o di Fenimore Cooper (“Gleanings in Europe: Italy”, 1838), tanto per citare dei letterati.

In una lettera alla Contessa di Blessington, Dickens sintetizzò l’impressione sulla Città in termini corrosivi: “Napoli mi ha ampiamente deluso.

È pur vero che il tempo è stato brutto per gran parte della mia permanenza là, ma se non vi fosse stato il fango, vi sarebbe stata la polvere. E se anche avessi avuto il Sole, avrei comunque avuto anche i Lazzaroni, che sono così cenciosi, così luridi, abietti, degradati, immersi e imbevuti nella più totale impossibilità di riscatto, che renderebbero scomodo anche il Paradiso, semmai dovessero arrivarci.

Non mi aspettavo di vedere una bella Città, ma qualcosa di più piacevole della lunga monotona sfilza di squallide case che si stendono da Chiaia al Quartiere di Porta Capuana, si; e mentre ero piuttosto preparato all’idea di una popolazione miserabile, mi aspettavo comunque di vedere qualche straccio pulito ogni tanto, qualche gamba che ballasse, qualche viso sorridente, abbronzato dal sole. La realtà, invece, è che, se penso a Napoli in sé per sé, non mi resta un solo ricordo piacevole. La regione intorno, non c’è bisogno che lo dica, mi ha incantato.

Chi potrebbe dimenticare Ercolano e Pompei?

Impermeabile al fascino del colore locale, si soffermò molto sulle scene di miseria e sui tratti a volte allucinati del vivere del popolo minuto partenopeo (le estrazioni del lotto, le incombenze dei membri dell’istituzione del Regio Ospedale) e nei lazzaroni e nel loro ammassarsi per le vie della città, ovunque ed in ogni ora del giorno, nei gonzi e negli imbroglioni che pullulavano ad ogni canto di strada egli non lesse altro che uno scadimento squallido e spregevole che gli pareva ammorbasse tutte le abitudini sociali (a suo vedere, anche la maggior parte degli edifici, come il già citato San Carlino, aderivano in spirito all’universale degradazione).

Scrisse all’indirizzo dell’amico John Forster: “La condizione della gente comune qui, è abietta e sconvolgente.
Temo che l’idea del pittoresco sia associata ad una tale miseria e degradazione che occorrerà inventare un nuovo tipo di pittoresco, più adatto ad un mondo che progredisce.
Se si eccettua Fondi, non vi è nulla al mondo di più sordido di Napoli.



http://www.unifi.it/ri-vista/quaderni/2007/quaderno_11/pdf/10_caciolli_dickens.pdf

Se l'impressioni estetiche del paesaggio partenopeo furono influenzate dal clima atmosferico a dir poco infelice, meno facile è trovare qualche giustificazione sull'aspetto socialmente degradato che Dickens riporta nel suo 'diario' in contrapposizione alla grande Napoli preunitaria.

Si viveva davvero così bene nel regno delle due sicilie, persino meglio che nel gran ducato di Toscana come i neoborbonici vogliono darci ad intendere?


Ultima modifica di rmnd il 06/07/2010, 13:15, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 06/07/2010, 13:16 
Dickens? Che scrisse le Avventure di Oliver Twist: "il romanzo analizza i mali della società inglese ottocentesca: la povertà, il lavoro minorile, la criminalità urbana, e la intrinseca ipocrisia della cultura vittoriana." (cito da wikipedia?
E "Tempi difficili"? ( cito sempre da wikipedia) "uno dei tanti romanzi di critica sociale pubblicati nello stesso periodo, come Nord e Sud di Elizabeth Gaskell, ed è finalizzato ad evidenziare le pressioni socio-economiche che molte persone stavano subendo. Il romanzo non è ambientato a Londra come voleva Dickens, ma a Coketown (letteralmente "Città del carbone"), un'immaginaria città industriale. Il romanzo è stato criticato in bene e in male da molti critici tra cui F.R. Leavis, George Bernard Shaw, e Thomas Macaulay, soprattutto per l'atteggiamento critico di Dickens nei confronti dei sindacati e per il suo pessimismo riguardo al divario tra proprietari di industrie capitalistiche e i sottopagati operai durante l'epoca vittoriana in Gran Bretagna."


Cerchiamo di capire bene a chi o a cosa va la critica dickensiana e ricordiamoci che il giudizio di questo bravissimo e sensibile scrittore, va valutato in rapporto a quella che da considerarsi "la sua poetica" e l'ideologia di cui si fa portavoche. Ricordiamo anche che le impressioni italiche di Dickens vanno contro tendenza rispetto a quelle che erano le impressioni generiche dei turisti stranieri, turisti che soggiornarono a Napoli o anche più giù, e vi si recarono solo in visita mentre soggiornavano altrove (Dickens, durante il suo soggiorno italiano, risiedette a Genova).

Le parole di commiato di Dickens all'Italia
"Separiamoci dall'Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d'incuria, d'oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l'unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri [...] L'Italia ci aiuta ad imprimerci in mente la lezione che la ruota del Tempo gira per uno scopo, e che il mondo è, nei suoi caratteri essenziali, migliore, più gentile, più tollerante e più pieno di speranza a mano a mano che gira"



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RIBADISCO


CONTROSTORIA DELL'UNITA' D'ITALIA


http://libreriarizzoli.corriere.it/libr ... 8817018463




Una presentazione del libro :

http://www.adsic.it/2007/10/31/controst ... a-ditalia/

Fatti e misfatti del Risorgimento

di Gigi Di Fiore

Esiste una memoria omologata che, per creare da zero un’identità nazionale, ha coperto o rimosso scomode verità su come venne unita l’Italia tra il 1848 e il 1870? Attraverso documenti inediti e consultando numerosi archivi anche privati, Gigi Di Fiore, studioso del Risorgimento e del brigantaggio post-unitario, racconta, con agile stile giornalistico, gli anni fatidici in cui fu costruita l’Italia, svelandone i falsi miti e le mistificazioni. Ne emerge un quadro diverso da quello che si è insegnato e si insegna ancora frettolosamente a scuola, dove l’ansia di creare radici condivise e di “far diventare italiani” intere generazioni di piemontesi, lombardi, veneti, napoletani, toscani, siciliani ha rimosso non solo numeri e crudeltà della prima guerra civile nazionale, quella del brigantaggio, ma anche le corruzioni, le bugie, le rappresentazioni eroiche dove i buoni erano sempre gli unitari da una parte e i cattivi antiunitari dall’altra. Non a caso, molti problemi di cui si dibatte oggi in Italia sono diretta eredità degli anni in cui fu realizzata la Nazione da appena il 2 per cento dei 21 milioni di abitanti della penisola: nel libro, ricco di retroscena inediti su quel periodo, si scopre, pagina dopo pagina, che molti dei temi politici, culturali ed economici di attualità erano già dibattuti agli albori dell’unità. Qualche esempio, tra i tanti contenuti nel testo:



1) Mafia e camorra – Nella mitizzata avanzata di Garibaldi ebbe un ruolo importante la criminalità organizzata già presente nel Sud d’Italia. I picciotti siciliani e i camorristi napoletani prepararono il terreno e aiutarono le camicie rosse, sperando e spesso ottenendo benefici dal nuovo governo. “Naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto per il sottile alle fedi di perquisizione di coloro cui si ricorreva; per me qui sta l’origine della maffia”, dichiarò il duca siciliano Gabriele Colonna di Cesarò. E l’ex ministro borbonico Liborio Romano, poi deputato italiano, raccontò: “Pensai prevenire le tristi opere dei camorristi, offrendo ai più influenti di loro capi un mezzo per riabilitarsi”.


2) Corruzione – Furono ben 16 gli ufficiali borbonici che avrebbero dovuto fermare i garibaldini, relegati a Ischia e processati per codardia e negligenza. Su molti di loro, i sospetti di tradimento e corruzione: ufficiali della marina e dell’esercito, dalle storie diverse, in una guerra in cui l’armata piemontese non si fece scrupolo di bombardare città piene di civili, come a Capua e Gaeta, dove a centinaia rimasero sepolti sotto le macerie delle loro case, come risulta dagli archivi comunali. Solo a Gaeta, i danni stimati furono di due milioni di lire del 1861; 109 le case inagibili su 2400 in gran parte danneggiate.


3) Disavanzo di bilancio – All’unità d’Italia già il nuovo Stato pagava lo scotto delle guerre risorgimentali con un enorme deficit di bilancio: 500 milioni nel 1861, che si sperava di colmare attraverso le casse degli Stati conquistati e riuniti al Piemonte. In quel momento, il debito pubblico piemontese era di 64 milioni di lire contro i 26 delle Due Sicilie. Nel 1862, il bilancio di previsione stimava un disavanzo di più di 308 milioni di lire. Furono necessarie nuove tasse, sconosciute al Sud, come quelle sulle successioni e donazioni, o sui bolli. O vendere dei beni pubblici, come lo stabilimento metallurgico di San Pier d’Arena. Come si vede, le ricette delle attuali Finanziarie non contengono nulla d’originale, così come i problemi dei disavanzi non sono una scoperta recente.


4) Divario tra Nord e Sud – Lavori di ampliamento ferroviario partiti al Sud solo nel 1865, stillicidi di licenziamenti e chiusure di attività: alla Zecca napoletana, al Lotto, all’Arsenale, ai Cantieri navali di Castellammare. Più tasse e meno commesse per le aziende meridionali che nell’ex regno borbonico erano tutelate dalle restrizioni doganali. Furono 800 gli operai che persero il lavoro a Pietrarsa, 1000 tra l’arsenale di Napoli e Torre del Greco. Nuova disoccupazione, anche per l’introduzione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile che era inesistente nel regno borbonico. I capitali raccolti al Sud venivano investiti al Nord attraverso l’apertura di filiali della Banca nazionale. Al Banco di Napoli, penalizzato dall’imposizione del corso forzoso, si impedì invece l’apertura di filiali al centro-nord: le riserve auree della banca meridionale passarono da 78 milioni nel 1863 a 41 nel 1866.


5) La guerra civile – Ben 80 anni prima della Resistenza, l’Italia unita visse la sua prima guerra civile nel Mezzogiorno: la guerra armata contadina del brigantaggio, che insanguinò il Sud per dieci anni dal 1860 al 1870. Nel solo periodo compreso tra il 1861 e il 1863, i documenti ufficiali parlano di 2413 morti in combattimento, 2768 arrestati, 923 costituitisi tra i briganti. I militari, mandati a reprimere la rivolta e a fare i gendarmi, raggiunsero negli anni il numero di 120 mila nel Sud. Nel primo anno, morirono in combattimento in 412, con 269 feriti. Fu il tempo degli eccidi; dei paesi distrutti (6 solo nel 1861), come Pontelandolfo; delle leggi speciali con potere repressivo, ma anche amministrativo concentrato nelle mani degli ufficiali quasi tutti di origine piemontese. Molti si sentivano estranei al Sud e avevano addirittura bisogno di interpreti per tradurre le conversazioni con i prigionieri, come risulta dai documenti dell’Ufficio storico dell’esercito. Si era in guerra, guerra civile, ma non si poteva dirlo: che figura si sarebbe fatto con l’Europa? Eppure, alla fine, ai militari in azione nel Sud furono assegnate 7391 ricompense.


6) Cattolici e laici – L’integrazione tra cultura laica dello Stato e cultura cattolica non fu semplice. Negli anni del Risorgimento si arrivò per legge a sopprimere 2099 enti religiosi, escludendone 7871 frati, monache e sacerdoti. Portarono all’allora Stato piemontese rendite per tre milioni e 651 mila lire. Molti arcivescovi furono imprigionati, perché ritenuti antitaliani. A Torino, come a Cagliari, Napoli o Avellino. A unità avvenuta, Pio IX chiese ai cattolici di non partecipare alle competizioni elettorali. L’Italia unita era già divisa: cattolici contro laici; meridionali trattati con leggi speciali e repressione militare rispetto al resto della Nazione; repubblicani mazziniani e democratici contro destra cavouriana. Fratture che si rifletteranno sulla cultura, la tradizione, la politica e il sentire comune degli italiani fino ai giorni nostri.
7) Controllo della stampa – Nulla fu risparmiato al cinismo per unire l’Italia: corruzioni di funzionari, uso spregiudicato dei carabinieri per aizzare la folla e simulare proteste di piazza spontanee in Emilia, come in Toscana, fasulle e pilotate consultazioni elettorali (i plebisciti) per dare formale legittimità giuridica ad annessioni ottenute con la forza: a Firenze, poi Bologna, Napoli, Venezia, Roma. Nel Veneto, la cessione tra Austria, Francia e Italia fu sancita in una camera d’albergo prima del plebiscito. E, naturalmente, Cavour intuì anche la forza della propaganda e dei giornali. Finanziò l’agenzia di stampa nazionale, la Stefani, e molti giornali, imponendo spesso loro cosa scrivere. Nulla di nuovo sotto il sole, una storia vecchia per l’Italia. In una lettera poco conosciuta, Cavour scrisse a Guglielmo Stefani, che stava per fondare l’omonima agenzia di stampa che verrà chiusa solo alla caduta del fascismo: “La ringrazio dell’offerta dei suoi utili servizi, dei quali sappia che io tengo conto e memoria”.



INTERVISTA ALL' AUTORE










Cita:
cit di rmnd

Si ma non è possibile etichettare sempre come 'razzista' fatti storici scomodi.
Criticare il sud è un terreno minato come criticare lo stato d'Israele e beccarsi dell'antisemita è un questione di un secondo.



Proprio un mese fa , parlavo al tel con TTE e gli dicevo ," Affrontare in un forum la questione Israel/Palestina è un vero casino , vedi :i Sionisti hanno fatto in Palestina ( in scala minore ) quello che i Piemontesi hanno fatto nel Sud Italia nel' 800 "


zio ot [V]


Ultima modifica di barionu il 06/07/2010, 13:55, modificato 1 volta in totale.


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Operosi Napoletani
La sfida
Johann Wolfgang Goethe (1787)
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Il mio buon amico Volkmann mi costringe di quando in quando a dissentire dalle sue opinioni. Egli afferma tra l'altro che a Napoli vi siano dai trenta ai quaranta mila oziosi. E quanti lo hanno ripetuto dopo di lui! Ma avendo io una certa conoscenza del Sud, ho subito sospettato che tale giudizio dipendesse dalla mentalità propria del Nord, dove si considerano oziosi tutti coloro che non s'affannano a lavorare tutto il santo giorno. Perciò ho osservato attentamente questo popolo napoletano, e ho potuto constatare che vi è molta gente mal vestita, ma nemmeno uno che sia disoccupato.

L’inchiesta
Avevo chiesto spiegazioni ad alcuni amici del luogo su cosa facessero questi innumerevoli “vagabondi”, ma non ho ricevuto risposte soddisfacenti. Allora mi sono messo io stesso alla ricerca, mentre visitavo la città. Cominciai, in quell'enorme caos che è Napoli, a fare conoscenza con diversi tipi, inquadrandoli e classificandoli secondo il loro aspetto, il modo di vestire, di comportarsi, di operare.
Ho trovato quest'operazione più facile qui che altrove, essendo i napoletani uomini aperti, che rivelano anche esteriormente la loro estrazione sociale.
Birrocciai
Iniziai la mia inchiesta di buon mattino: la gente che vedevo qua e là ferma o intenta a riposare, erano persone il cui mestiere, in quell'ora, esigeva appunto una sosta. Erano infatti: facchini, che hanno i loro posti fissi in determinate piazze; biroccioi, con i carretti a cavallo, intenti a governare le loro bestie; marinai, sul molo, con la pipa in bocca; pescatori, sdraiati al sole perché spira vento contrario. Ho visto tanti andare e venire, ma tutti portavano qualche segno della loro attività. Di accattoni non ne ho visto uno solo, che non fosse un vecchio, o un inabile, o uno storpio. Quanto più mi guardavo attorno, e quanto più attentamente osservavo, tanto meno riuscivo a trovare dei veri vagabondi.

Le prove
Darò qualche particolare, per rendere il mio resoconto più evidente e credibile. I ragazzi più piccoli sono occupati in vario modo. Alcuni vanno da Santa Lucia a vendere il pesce in città; altri raccolgono legna nei pressi dell'arsenale, dove c'è abbondanza di trucioli, o anche in riva al mare, che deposita pezzetti di legno. Ho visto bambini di pochi anni camminare a quattro gambe, che aiutavano i più grandi. Vanno poi in centro con la legna raccolta e piantano le loro bancarella. Vendono agli operai ed ai piccolo-borghesi, che usano quel materiale per riscaldarsi o per la cucina.
Altri ragazzi portano a vendere in giro l'acqua sulfurea, di cui si fa gran consumo specialmente in primavera. Altri s'industriano alla meglio nella compra-vendita di frutta, miele filato, dolciumi, non fosse che per guadagnarsi la loro porzione gratuitamente.
Graziosissimo è vedere uno di quei monelli, la cui attrezzatura consiste in una tavoletta e in un coltello, portare in giro un melone o una zucca arrostita, con intorno un nugolo di altri piccoli. Lui appoggia la tavola in terra e si mette a tagliare a pezzetti il frutto. I piccoli avventori controllano misurando con le dita se per il loro soldo hanno avuto il giusto, mentre il minuscolo commerciante tratta quella clientela di buongustai con la stessa precauzione, per non dover rimetterci neanche una briciola. Ho la convinzione che, rimanendo qui più a lungo, si potrebbero raccogliere parecchi esempi di simile industriosità infantile.

L'Arco di Sant'Eligio tratto da una cartolina d'epoca (Immagine di Enzo Falcone, Associazione Storico Borgo Sant'Eligio)
Un numero rilevante di uomini e di ragazzi, quasi tutti straccioni, si occupano di trasportare con gli asini i rifiuti fuori della città. La campagna che circonda Napoli è tutta un immenso orto: è un piacere osservare l'incredibile quantità di verdura che viene portata in città tutti i giorni, e come l’industriosità umana riporti poi alla campagna i rifiuti della cucina, per concimare la vegetazione. I torsoli e le foglie dei cavolfiori, dei broccoli, dei carciofi, dei cavoli, dell'insalata, dell'aglio, costituiscono una parte notevole della spazzatura della città; e ognuno cerca di raccoglierne quanto più può. Riempiono, con un'abilità particolare, i grandi canestri issati sul dorso d’un asino. Non c'è un orto, che non abbia il suo asino. Servi, ragazzi, i padroni stessi vanno e vengono dalla città durante la giornata. Con quale premura questa gente raccoglie anche lo stereo dei cavalli e dei muli! Quando di notte i ricchi se ne tornano a casa in carrozza, non pensano che già dall'alba altri uomini s'industrieranno a seguire le tracce dei loro cavalli.
Talvolta due di questi individui fanno società, comprano un asino, prendono in fitto un pezzo di terra e, lavorando alacremente, sviluppano la loro attività, grazie a questo clima felice, in cui la vegetazione non si arresta mai.

Il Teatro di San Carlo
Il piccolo commercio
È impossibile descrivere tutte le varietà del piccolo commercio che si possono osservare a Napoli. Ma non posso non accennare ai venditori ambulanti, che provengono dagli strati più umili della popolazione. Alcuni girano con barilotti di acqua gelata, limoni e bicchieri, per preparare limonate, bevanda alla quale anche il più straccione non sa rinunziare; altri girano con vassoi di liquori diversi e bicchierini; altri ancora portano dei vassoi di paste, dolciumi, agrumi ed altre frutta: si direbbe che tutti vogliano partecipare e rendere ancor più grandiosa la festa del piacere, che a Napoli si celebra tutti i giorni.
Vi è poi una moltitudine di altri rivenditori che offrono in vendita le loro povere mercanzie sopra una semplice tavoletta o dentro il coperchio d'una scatola, o disponendole sulla nuda terra nella pubblica piazza. Non si tratta di oggetti di un’unica categoria merceologica, ma d'una rigatteria vera e propria. Pezzetti di ferro, cuoio, panno, tela, ecc., che vengono comperati dalle persone più disparate. Molta gente della classe più bassa è inoltre occupata presso i mercanti e gli artieri in qualità di commessi e fattorini.
Non si fanno quattro passi, questo è vero, senza imbattersi in gente malvestita, se non lacera; ma questa non è una ragione per gridare al vagabondo, al perdigiorno. Sarei tentato di enunciare il paradosso che a Napoli la maggior parte delle industrie sono forse ancora in mano delle classi più umili.

Napoli e Germania
Non si può certo paragonare quest'industria con quella della Germania, costretta ad affannarsi non solo giorno per giorno ed ora per ora, nelle giornate buone per le giornate cattive, e nell'estate per l'inverno. Se l'uomo del nord è obbligato dalla natura a provvedere ai fatti suoi; se le nostre donne sono obbligate a salare e ad affumicare le carni per mantenerle per tutto l'anno; se gli uomini devono fare le provviste di legna, di grano e di foraggio per le bestie e così via, è chiaro che le più ore ed i giorni più belli, dedicati al lavoro, sono sottratti al piacere. Da noi, per mesi e mesi si rinunzia gioco forza all'aria libera e si cerca nell'interno della casa un riparo contro il mal tempo, la pioggia, la neve e il gelo; le stagioni si succedono alle stagioni e chiunque non voglia finir male, deve diventare un recluso. Non si tratta di libera scelta, di decidere di fare questi sacrifici; è la natura che ci costringe a tribolare, a provvedere. Questi influssi ambientali, rimasti invariati per migliaia d'anni, hanno anche dato un'impronta decisiva al nostro carattere, per tanti aspetti rispettabile. Ecco perché giudichiamo troppo severamente le popolazioni del sud, alle quali il cielo sorride tanto benigno. Un uomo povero, che a noi sembra un miserabile, può in questi paesi non solo soddisfare i suoi bisogni più urgenti e più necessari, ma anche godersi beatamente la vita; un così detto lazzarone napoletano potrebbe infischiarsene del posto di vicerè in Norvegia o rifiutare la nomina di governatore in Siberia.
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Cita:
Blissenobiarella ha scritto:

Tu dici che la criminalità prima dell'unità al sud fosse più diffusa che al nord, ok...forniscimi dei dati storici e li analizziamo.




Barionu vedo che in parte mi ha preceduto con Fiore.
Fiore non è certo tenero con i 'dominatori nordisti' ma risponde in parte alla tua domanda almeno per quello che riguarda la camorra.

"...Se dovesse spiegare a un giovane europeo le origini della camorra da dove comincerebbe?

«Partirei dall’origine spagnola. Nella novella Rinconete y cortadillo, Cervantes descriveva un’associazione di malfattori di Siviglia che aveva regole simili a quelle della Camorra dell’Ottocento. L’urbanizzazione di Napoli e la miseria del suo centro storico fece sì che fin dal Cinquecento qui si concentrassero dei delinquenti che prosperavano con furti e ruberie. Dall’Ottocento in poi si fa iniziare la “Camorra storica” che prese coscienza della sua potenza e che era capace di “fare uscire l’oro dai pidocchi”, vale a dire di trarre profitto illecito dalle attività che venivano commissionate alla povera gente: piccoli artigiani, lavandaie… Negli anni Quaranta dell’Ottocento c’era già un’organizzazine strutturata, con regole di accesso e una struttura piramidale e centralizzata».

Ma le cose cambiano quando nel 1861 il Regno delle Due Sicilie scompare e nasce il Regno d’Italia ad opera del Piemonte dei Savoia…

«Sì, il periodo d’oro della Camorra è negli anni Sessanta dell’Ottocento con “l’abbraccio” della nuova Italia unita alla Camorra. Successe che il Ministro dell’Interno dello Stato sabaudo, Liborio Romano, incaricò il famoso Salvatore De Crescenzo, capo della Camorra, di mantenere l’ordine pubblico in città in cambio di un’amnistia generale e di un’assunzione dei suoi uomini nella polizia. Liborio giustificò così questa scelta nelle sue memorie: “In tempi eccezionali ci vogliono misure eccezionali”. Da lì poi una serie di degenerazioni che si sono tramandate nel tempo, nonostante la “repressione” iniziata nel 1863. Ma con scarsi risultati».


poi segue la storia della chiusura delle fabbriche meridionali incapaci di reggere alla concorrenza del nord e straniera e a causa della scelta di privilegiare le industrie settentrionali.

e continua sulla camorra...

"...Il “fallimento” dell’Unità serve a spiegare il fenomeno camorristico?

«Per spiegare sì, non per giustificare. Altrimenti si sviluppa l’alibi dell’immobilismo»....

«Sì, forse, sì. In Italia, quello che poteva essere un fenomeno solo criminale è stato fatto diventare un fenomeno sociale che oggi gode di ampie simpatie in alcuni strati della popolazione. Per alcuni sociologi napoletani la Camorra è un ammortizzatore sociale...."



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Rmnd, fammi la cortesia di leggere con attenzione:

"Dopo il 1861 non si ha quel che cantano gli storici prezzolati dalla massoneria, cioè uno scambio tra merci moderne del Nord e prodotti agricoli (scalcinati) del Sud (scalcinato), ma lo scambio tra valori reali
e cartamonetata inconvertibile
, cosa che nell'interscambio tra due formazioni sociali, ancora chiuse in sé stesse, è lo stesso che dire furto (quella stessa cosa che vediamo con i nostri occhi a proposito
del dollaro inconvertibile). Con capitali di carta, spesso biglietti dalla serie duplicata –in sostanza emessi con frode dalla stessa legge fraudolenta che aveva imposto con subdoli artifici, senza che fosse necessario, il corso forzoso dei biglietti di Bombrini– i padroni della Banca genovese di Sconto invasero il Sud, in ciò protetti dai prefetti, dai questori, dai carabinieri e dagli onorevoli
meridionali, e lo schiacciarono.


Più specificamente in che modo?

Da un lato si usava la Banca Nazionale per raccogliere danaro da prestare allo Stato sabaudo, che non badava a spese, e dall'altro si finanziavano antiche e nuove industrie genovesi e torinesi.
Ufficialmente queste operazioni erano effettuate dal Credito Mobiliare di Torino e Firenze, dal Banco di Sconto e Sete di Torino, dalla Cassa Generale di Genova e dalla Cassa di Sconto di Torino, che erano a loro volta finanziate sottobanco dalla Nazionale. Dopo l'unificazione nazionale,
anche il Banco di Napoli, quello di Sicilia e la Banca Toscana presero ad emettere biglietti secondo il rapporto di valore di tre unità fiduciarie, in circolazione, per una unità metallica di riserva,
sistema già vigente per la Nazionale. Ma nel 1866, la Banca Nazionale ottenne dal governo di
essere esonerata dall'obbligo di convertire i suoi biglietti in valuta metallica. Per la Banca toscana e
i Banchi meridionali rimase in piedi l'obbligo di convertire a vista i propri biglietti, tanto in metallo,
quanto in biglietti sfregiati della Nazionale. Attraverso tale doppio passo, la Nazionale riuscì a
risucchiare ingenti quantità d'oro e d'argento circolanti al Sud e a ricostituire le sue riserve
metalliche.

Infatti, appena per un qualsiasi versamento –ad esempio l'acquisto di una cartella del debito pubblico– un biglietto o una fede di credito del Banco di Napoli e di Sicilia finiva nelle mani
della Nazionale, il direttore dell'agenzia spediva un suo impiegato allo sportello del Banco emittente
per farsi dare dell'argento. Fu una vera spoliazione coperta dallo Stato. Tutto il risparmio meridionale che ovviamente veniva effettuato in moneta, quello dei ricchi e quello dei poveri, fu drenato al Nord, dove veniva moltiplicato per cinque, dieci, venti volte, attraverso l'emissione di
moneta cartacea. Una cosa che il governo vietò si facesse al Sud. Questo fu il carnevale bancario.
Bombrini usava lo Stato e i privati, pur di portare avanti il progetto cavourrista. Lo scandalo portò a
un'inchiesta parlamentare, che si concluse senza un'aperta condanna del malfattore, come è inveterato costume padano. Risultò tuttavia che il corso forzoso –cioè l'inconvertibilità della moneta
bombriniana– era un'escogitazione interessata
.

Interessata a che?

Non lo si disse, ma lo si capì. E siccome quelle carte si possono leggere anche oggi, lo si capisce ancora: a salvare le quattro banche d'affari sovvenzionate dalla Nazionale ed in sostanza le industrie
che stavano dietro, accollando il prezzo della loro esistenza parassitaria ai meridionali, gli unici che
in quel passaggio della storia nazionale possedevano argento monetato. Un intrallazzo che costò
agli italiani, e specialmente ai risparmiatori meridionali, una cifra di centinaia e centinaia di milioni
del tempo, forse di miliardi. Il corso forzoso salvò il capitalismo decotto, portato in auge da Cavour
e protetto dalla Banca Nazionale. Contemporaneamente decretò la fine del capitalismo meridionale,
privato delle risorse storicamente accumulate che gli servivano per lavorare.

Nei quattordici anni carnascialeschi che trascorsero prima di arrivare all'emissione sotto il controllo
dello Stato, Bombrini ne fece più di Arsenio Lupin. Tanto per darne un'idea, dal 1859 al 1874 passò da meno di 20 milioni di carta fiduciaria a circa 2 miliardi. Tutti soldi incassati dall'illustre padre degli intrallazzi patrii, più ovviamente gli interessi che pagavano i debitori. Più –e qui siamo al codice penale, un codice penale mai spolverato nei suoi confronti– la speculazione sul debito
pubblico.

Come funzionava il meccanismo?

In breve, questo signore, nonché i suoi compari liguri, toscani e piemontesi prestavano allo Stato italiano l'importo delle emissioni di buoni del tesoro, ottenendo, su cento lire, uno sconto che
andava dalle venti alle trenta lire. Collocavano le cartelle facendoci qualche guadagno. Giacché il corso calava inesorabilmente, ricompravano –con carta emessa dalla loro banca– le cartelle a un
prezzo che scese fino a 21 lire. Siccome non avevano messo fuori che carta stampata da loro stessi, potevano tranquillamente aspettare la scadenza del titolo e incassare le 100 lire promesse. Era solo
carta, ma carta che per legge si gonfiava di vera capacità d'acquisto. Molto spesso si pigliavano anche la briga di viaggiare fino a Parigi, dove i biglietti della Nazionale non li volevano e la povera
Italietta era costretta a pagare in oro le sue cartelle del debito pubblico, per lucrare –senza aver rischiato un centesimo– anche l'aggio dell'oro sulla loro lira.
Un patriota, più patriota di questo esultante amico del Conte (dalle braghe onte) è difficile non dico trovare, ma solo immaginare. Peraltro il galantuomo non poteva mangiare da solo e, quindi, oltre a
smazzettare danari fra i ministri, i deputati, i re, i principi e le principesse reali, doveva dar da
vivere anche agli illustri patrioti che gestivano le quattro banche di credito industriale già citate,
nonché i grandi precursori dell'industria padana che incassavano danari meridionali. I trucchi e le
ladronerie di questi signori, nel quadro dell'agire capitalistico, rappresentano la norma, e sono
additati solo quando non vanno a buon fine. Celebre a tal riguardo la censura di Maffeo Pantaleoni
al Credito Mobiliare e al boss Balduino.
Per concludere: è falso che il capitalismo padano fosse industriale sin dalle origini. Con una parola
asettica si potrebbe dire che era finanziario. Ma non sarebbe la verità. La verità è questa: il rapporto
tra Nord e Sud, sin dal primo momento, dette luogo a un saccheggio, a un caso quasi incredibile di
accumulazione selvaggia di tipo coloniale, che si è protratto fino al 1970 e oltre."

http://www.eleaml.org/e_book/intervista.pdf



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Blissenobiarella ha scritto:
....

Napoli e Germania
Non si può certo paragonare quest'industria con quella della Germania, costretta ad affannarsi non solo giorno per giorno ed ora per ora, nelle giornate buone per le giornate cattive, e nell'estate per l'inverno. Se l'uomo del nord è obbligato dalla natura a provvedere ai fatti suoi; se le nostre donne sono obbligate a salare e ad affumicare le carni per mantenerle per tutto l'anno; se gli uomini devono fare le provviste di legna, di grano e di foraggio per le bestie e così via, è chiaro che le più ore ed i giorni più belli, dedicati al lavoro, sono sottratti al piacere. Da noi, per mesi e mesi si rinunzia gioco forza all'aria libera e si cerca nell'interno della casa un riparo contro il mal tempo, la pioggia, la neve e il gelo; le stagioni si succedono alle stagioni e chiunque non voglia finir male, deve diventare un recluso. Non si tratta di libera scelta, di decidere di fare questi sacrifici; è la natura che ci costringe a tribolare, a provvedere. Questi influssi ambientali, rimasti invariati per migliaia d'anni, hanno anche dato un'impronta decisiva al nostro carattere, per tanti aspetti rispettabile. Ecco perché giudichiamo troppo severamente le popolazioni del sud, alle quali il cielo sorride tanto benigno. Un uomo povero, che a noi sembra un miserabile, può in questi paesi non solo soddisfare i suoi bisogni più urgenti e più necessari, ma anche godersi beatamente la vita; un così detto lazzarone napoletano potrebbe infischiarsene del posto di vicerè in Norvegia o rifiutare la nomina di governatore in Siberia.
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Il già citato romanticismo di Goethe in contrasto con la realtà Dickensiana non può essere utilizzato come alibi al non-fare , all'immobilismo, di cui Fiore accenna.
Il clima e il territorio da soli benchè fattori importanti non bastano a giustificare il carattere di un popolo.
Se usassimo questo metro allora non potremmo spiegarci la civiltà ellenica e neanche quella romana prima della loro caduta.



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Rmnd Goethe risiedette a Napoli e Dickens vi si recò solo in visita. Basta questo a mettere nel giusto rapporto le due "impressioni". Inoltre Goethe si soffermò ad offrire un analisi che porta in luce un FATTO incontrovertibile: la vita al sud si svolge FUORI, all'aperto, tutto la miseria e l'operosità, i momenti di riposo e quelli di svago, il lavoro e lo scherzo avviene sotto il sole generoso del meridione. Chi viene dalle piovose e fredde regioni del nord non può che essere travolto e sconcertato da questo caotico vitalismo che permea ogni aspetto delle persone che vivevano e vivono al sud.
Fu Dickens( che risiedette a Genova) che indugiò su "ritratto impressionistico" del paese ( tutta l'Italia) che di adattava a quello che era il suo umore del momento, senza offrire, e senza avere alcuna pretesa di farlo, alcun tipo di analisi storica o sociale.



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