Le perle di Emilio Salsi, prestare molta attenzione alla lettura:
“Fu sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro (dal 46 al 48 d.C.) che in Giudea avvenne una grave carestia, durante la quale la regina Elena comprò grano dall’Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra”. (questo lo dice la chiesa) Un lettore, dèdito alla lettura progressiva del testo, giunto a questo punto, si rende conto di trovarsi di fronte ad una ripetizione, molto ridotta, di un grave evento riferito, dettagliatamente, poco prima dallo storico … e non può fare a meno di chiedersi il perché. Ciò che colpisce è il risalto fatto alla datazione, vero scopo dell’introduzione spuria di questo passo: sotto l’amministrazione del Procuratore Tiberio Giulio Alessandro (46-48 d.C.), quindi sotto il principato di Claudio. In effetti cosa aveva “detto sopra” lo storico ebreo della regina Elena?: " La sua venuta fu di grande utilità per il popolo di Gerusalemme, perché in quel tempo la città era rattristata dalla carestia e molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di cui abbisognava. La regina Elena inviò i suoi attendenti, ad Alessandria, per acquistare ingenti quantità di grano, ed altri a Cipro per carichi di fichi secchi. Quando Izate, suo figlio, seppe della carestia, anch’egli mandò ai capi di Gerusalemme una grande somma di denaro. La distribuzione di queste somme ai bisognosi, liberò molti dai disagi della carestia. Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città." (Ant. XX, 51/53).
Rileviamo subito un primo dato che rende incongrue le due notizie: quella appena letta, molto più circonstanziata, parla di "capi di Gerusalemme" , mentre la precedente, laconica, ci informa che vi era un solo "capo", ovviamente romano: il Procuratore Tiberio Alessandro. Consapevoli che dal 6 al 48 d.C. i Governatori della Giudea che si avvicendarono in quella Provincia erano singoli legati imperiali romani ad eccezione dell'interregno del Re ebreo Erode Agrippa I (dal 41 al 44 d.C.), proseguiamo nell'indagine per chiarire meglio. Elena e suo figlio Izate furono rispettivamente Regina e Re, ebrei, dell’Adiabene, una regione a sud dell’Armenia e ad est dell’alto corso del fiume Eufrate, confine concordato fra l’Impero Romano e la Parthia. Subito prima di questo episodio leggiamo che, appena nominato Re: #Nb.“Quando Izate giunse ad Adiabene per prendersi il Regno e vide i suoi fratelli, giudicando cosa empia ucciderli, tenendo presente gli affronti ricevuti, ne mandò alcuni a Roma da Claudio Cesare, con i loro figli come ostaggi; e con la stessa scusa altri (fratelli) li mandò da Artabano re dei Parti” (Ant. XX 36-37).??## L’accostamento cronologico dei due “Grandi” nella vicenda è un errore storico gravissimo che Giuseppe Flavio non ha potuto commettere: lui sapeva benissimo che Artabano sarebbe morto nel 38 d.C. perché lo riferisce più avanti dopo aver descritto la carestia e la guerra contro Tiberio; così come sapeva che Claudio fu proclamato Imperatore nel 41 d.C. (ne riporta la cronaca). Peraltro i suoi scritti, nel I sec., furono sottoposti alla verifica degli storici romani prima di essere approvati e depositati negli Archivi Imperiali ... e questa è storia di Roma. Essendo Artabano vivo, l’unico Imperatore avente causa con lui fu Tiberio e non altri. Che si trattasse dell’imperatore Tiberio lo conferma inequivocabilmente ancora la storia, infatti: in (Ant. XX, 92) Giuseppe scrive: “Izate morì, avendo l’età di cinquantadue anni e ventiquattro di regno”. Sapendo da Tacito (Ann. XII, 13-14) che nel 49 d.C. Izate era sempre vivo, ne ricaviamo che ###fu nominato Re prima del 30 d.C. ma, avendo letto che, appena insediato nel Regno, mandò i suoi fratelli come ostaggi all’Imperatore di Roma, questi non poteva essere che Tiberio.### Procedendo nella lettura di Antichità, dopo l'invio dei parenti di Izate come ostaggi, consapevoli di essere sotto Tiberio, seguiamo la Regina Elena a Gerusalemme ed il suo provvidenziale aiuto al popolo affamato (lo abbiamo appena riportato: Ant. XX 51-53). Successivamente, dal par. 54 al par. 68, Giuseppe Flavio descrive la crisi politica di Artabano III, re dei Parti, che, confermata dalla storia di Tacito, sappiamo avvenuta nella seconda metà del 35 e fu causata dal condottiero romano Lucio Vitellio. (Ann. VI 31/38). Da quanto sopra esposto risulta evidente, senza alcuna ombra di dubbio, che la carestia, descritta nei par. da 51 a 53, afflisse la Giudea prima della crisi di Artabano avvenuta alla fine del 35 d.C.; crisi descritta nei par. da 54 a 68. Infatti, a questa carestia posero rimedio (con quali benefici concreti è impossibile stabilirlo)## prima la famiglia reale ebrea con aiuti diretti, poi il Legato imperiale Lucio Vitellio, con la detassazione dei prodotti alimentari, che ne abbassò i costi (e la tensione sociale), comunicata durante la Pasqua del 36 d.C. (Ant. XVIII 90), a seguito delle vicende sopra descritte.## E’ importante sottolineare che la sequenza cronologica degli avvenimenti, così come la leggiamo in “Antichità Giudaiche”, è semplicemente assurda poiché prima viene citato l’imperatore Claudio (eletto nel 41), cui Izate invia i parenti come ostaggi, poi la carestia che, secondo san Luca e il par. 101 del Lib. XX in “Antichità” (su riportato), viene datata dopo il 46, ed infine (il contrasto nella sequenza) la crisi del 35 d.C. di Artabano, antecedente la sua morte, avvenuta il 38 d.C.. Questa progressione “sballata” di date torna perfettamente a posto semplicemente correggendo “l’errore” dell’Imperatore: Tiberio anziché Claudio. La crisi di Artabano - avvenuta alla fine del 35, causata dalla corruzione dei Satrapi, parenti e amici del vecchio Re, da parte di Vitellio con capitali e su mandato avuto da Tiberio (che voleva riprendere l’Armenia conquistata da Artabano nel 34 d.C.) - fu risolta grazie all’intervento di Izate, nel 36 d.C., che convinse i Grandi Satrapi a riconoscerlo nuovamente come loro “Re dei Re”. Alla fine del 36 inizi del 37 d.C., Artabano e Vitellio si incontrarono sull’Eufrate e “Giunti al termine degli accordi, il tetrarca Erode (Antipa) diede una festa sotto una tenda da lui innalzata in mezzo al ponte con grande spesa”. (Ant. XVIII 101-102). Tiberio fece appena in tempo a ricevere la notizia ed esultarne che il 16 Marzo del 37 d.C. passò a miglior vita. Ma anche… “Poco tempo dopo Artabano morì e lasciò il regno a suo figlio Vardane” (Ant. XX, 69). Correva l’anno 38 d.C. Sempre di Salsi; Il Tempio
In “Antichità Giudaiche” (Luigi Moraldi, UTET 1998), il curatore, a piè di pag. 980 (Libro XV), nota n° 96, riporta vari autori di studi sul Tempio di Gerusalemme basati, tra l’altro, su scavi archeologici. Va aggiunto che, secondo i ricercatori odierni israeliani dell’Israel Antiquities Authority, di resti del Tempio erodiano non è rimasto quasi nulla tranne qualche pietra ed epigrafe. Alla pag. 984, nota n°104, riferita alla “velocità del lavoro del Tempio”, iniziato nel 23/22 a.C. e inaugurato da Erode il 18 a.C., lo stesso Moraldi afferma che “in realtà l’intera opera fu completata fra il 62 e il 64 d.C.”, quindi sotto il Procuratore Albino al tempo di Nerone. Questa è la tesi prevalente fra la maggioranza degli archeologi da oltre mezzo secolo e condivisa da molti esegeti credenti i quali, però, evitano di approfondire per non evidenziare le gravi contraddizioni con le “testimonianze evangeliche”. Come fa lo stesso Moraldi quando, nella stessa nota n°104, si limita a citare il Vangelo di Giovanni che parla del Tempio (Gv. 2,20) ma “dimentica” di riferire i miracoli fatti dagli Apostoli sotto il “Portico di Salomone” del Tempio in Gerusalemme.
Dalla documentazione storica non risulta che, dopo l’inaugurazione del Tempio, i lavori vennero sospesi e non furono realizzati i porticati sotto lo stesso Erode il Grande; al contrario non si può concordare con le conclusioni riferite dal Moraldi perché, come sempre precisato, le informazioni pervenuteci dalla storia siamo tenuti a rispettarle. Poco dopo la morte di Erode il Grande (Libro XVII par. 254/264), per la Pentecoste del 4 d.C. scoppiò una violenta rivolta in Gerusalemme contro il Procuratore romano Sabino (divamperà poi in una guerra allargata anche alla Galilea), cui aderirono Giudei, Galilei e Idumei. Nel corso dei combattimenti:
“i ribelli montarono sui portici che circondano il cortile eterno del Tempio (par. 259) … allora i Romani, trovandosi in una situazione disperata, diedero fuoco ai portici, …e il tetto, saturo di pece e cera si arrese alle fiamme e quell’opera grandiosa e magnifica fu completamente distrutta” (par. 262).
Le colonne in monolito del porticato erano “legate” da una struttura di legno su cui poggiava il soffitto secondo quanto descritto dallo storico ebreo: “I soffitti del portico furono fatti di legno massiccio…” (Ant. XV, 416). Il crollo delle altissime colonne fu conseguente al precipitare della pesante soffittatura in maniera irregolare travolgendo le stesse con un effetto a cascata, le une addosso alle altre. Da notare che il portico di Salomone era a picco su di una profonda valle (valle del Cedron) in cui finirono molte, disintegrandosi irrimediabilmente. Lo storico ebreo illustra dettagliatamente il Tempio anche in “La Guerra Giudaica”, la sua prima opera completata negli anni settanta sotto Vespasiano, nel Libro V dal par. 184 al 226. La disamina descrive le tre cinta murarie di Gerusalemme nei par. 136/183. Dal par. 142 al 145 leggiamo: “Il più antico dei tre muri, partendo dalla Torre Ippico raggiungeva il portico orientale del Tempio”.
In “Guerra”, le esposizioni del “muro antico” e del Tempio sono “statiche”, non essendo collegate ad azione di guerra contingente che coinvolge tutti i porticati, diversamente da quanto riferito sopra nell’episodio della rivolta in Gerusalemme, dopo la morte di Erode il Grande, quando vennero distrutti completamente. Giuseppe Flavio scelse di descrivere quelle opere imponenti nel Libro V di “Guerra” (Tempio e cinta murarie) prima che venissero demolite definitivamente da Tito. Il condottiero romano lasciò in piedi solo alcune torri fortificate per scopi militari. Le descrizioni del Tempio e delle mura con le imponenti torri, così dettagliate, Giuseppe ha potuto farla solo guardando i progetti esecutivi. E’ impossibile, per chiunque, riferire misurazioni così precise, tali da permettere la ricostruzione esatta di modelli in scala ridotta.
Infatti, quando lo storico ebreo scrisse, negli anni novanta sotto Domiziano, “Antichità Giudaiche”, la sua opera più particolareggiata, dedicò un intero capitolo al “Portico di Salomone” riferendo che Re Erode Agrippa II - alla fine del 63, inizi 64 d.C., poco prima dell’arrivo del nuovo Procuratore Gessio Floro, inviato da Nerone in sostituzione di Albino - decretò che non venisse eretto per il costo eccessivo (Ant. XX 215). Questa datazione ci obbliga ad evidenziare un fatto importante: Giuseppe Flavio non era in Gerusalemme quando il Re decise di non ricostruire il portico. Come riferisce nella sua “Autobiografia” (3, 13/16), alla fine del 63 fu inviato a Roma, dal Sinedrio, per chiedere a Nerone la scarcerazione di alcuni sacerdoti ebrei arrestati dal precedente Procuratore Antonio Felice … e vi rimase sino a circa metà 65 d.C. (ibid 4, 17). Quando giunse in patria, nel 66 d.C., la tensione rivoluzionaria era già in atto: gli eventi stavano precipitando, e Giuseppe, come tutti, era preoccupato più del futuro che del passato.
Verso la fine della procura di Albino (Ant. XX 219/223), in merito al portico di Salomone Re Agrippa II dichiarò: “E’ sempre facile demolire una struttura” … Questa frase non si riferiva ad una demolizione da effettuarsi, ma già avvenuta nel passato: la distruzione dei portici, causata dal fuoco dei Romani per difendersi dagli insorti. E aggiunse il Re: “… è difficile erigerne (non “sostituirne”) un’altra e ancor più questo portico”. Il portico di Salomone non avrebbe avuto alcun motivo per essere più difficile degli altri due già eretti se non per il maggior numero di colonne che andarono distrutte precipitando nella valle del Cedron. Semmai il portico più impegnativo avrebbe dovuto essere quello Reale, a sud, ma già ricostruito. Al di là di qualsiasi considerazione, ciò che rende inconfutabile la prova dell’inesistenza del portico di Salomone durante il periodo “apostolico” è l’affermazione lapidaria dello storico:
“…(i Gerosolimitani) spinsero così il Re ad innalzare il portico orientale”, che si conclude con il decreto reale (lapidario anch’esso) di Agrippa II:“…respinse (il Re) perciò la loro richiesta”.
Buona parte degli storici credenti riconosce “l’errore” dell’evangelista Luca (che riferisce i miracoli degli Apostoli al Portico di Salomone), altri, viceversa, cerca di porvi rimedio con tergiversazioni ingenue e superflue … Beh, vanno compresi! Non è così facile ammettere di essere stati “dolciotti” e aver subito un lavaggio del cervello basato sull’illusione della vita eterna. Soprattutto coloro che, dopo essersi sottoposti, si sono dedicati ad una propaganda capillare intesa a fare nuovi proseliti facendo il lavaggio del cervello ad altri: lo chiamano, ipocritamente, “apostolato”…
“Il popolo fuor di sé per lo stupore (di un miracolo) accorse presso gli Apostoli al portico detto di Salomone. Vedendo ciò Pietro disse al popolo: Uomini d’Israele, il Dio di Abramo e Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete rinnegato e consegnato a Pilato, mentre egli (Pilato) aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni.” (At. 3, 11/15) Emilio è molto preciso e dettagliato nel suo scrivere, che non lascia nessun dubbio sulle sue ricerche fatte. Se noi non liberiamo la nostra mente dalle ?sacre? scritture, ma gli atti dicono, Gv. dice, Paolo ha scritto. Qui finisce la ricerca e facciamo bene ad andare a pregare in chiesa. Con stima Cecco
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