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Grigio
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 Oggetto del messaggio: misterioso "ronzio" che tormenta un villaggio ingl
MessaggioInviato: 15/06/2011, 21:06 
Il misterioso "ronzio" che tormenta un villaggio inglese

Il «ronzio» è tornato. Il misterioso rumore, registrato da decenni in varie parti del globo, si è rifatto sentire, questa volta nel minuscolo villaggio di Woodland, contea di Durham in Inghilterra, come fa notare la anche la seriosa BBC. I 300 abitanti affermano che da due mesi, ogni notte, un suono simile a quello di un motore diesel li tiene svegli. A volte, tremano addirittura i mobili. Ma non sono i primi a denunciarne l'esistenza. La lunga storia dei rumori misteriosi è piena di episodi inspiegabili, con una sola certezza non si tratta di acufene, un disturbo della capacità uditiva e consiste nella percezione di rumori, suoni fastidiosi, talvolta sottili fischi o ronzii. Ma allora esiste una spiegazione?

All'inizio è comparso a Bristol, sempre in Inghilterra, negli anni Settanta, e non ha mai smesso, tanto che un residente, esasperato, si è ucciso nel 1996. L'episodio più famoso resta quello di Taos, nel New Mexico: cominciato nel 1991, dura ancora. Un'indagine del 1994 ha dimostrato che il ronzio era udibile solo dall'11% della popolazione. A Largs, in Scozia, è cominciato negli anni '90, e ha raggiunto elevati livelli di intensità, tanto da provocare a volte epistassi e nausea. Le cause degli episodi di ronzio rimangono tutt'oggi ignote, nonostante numerose ricerche scientifiche. Non c'entra come detto prima l'acufene, il disturbo che fa percepire strani rumori nelle orecchie: tutti, visitati anche da medici, concordano che è esterno, proviene da fuori e non da dentro la testa. Non è un rumore causato da fabbriche, generatori o macchinari. Il mondo scientifico non si è ancora pronunciato sulle cause del fenomeno, e il ronzio resta solo un mistero. Tanto da essere anche menzionato in un episodio di X-File.

http://www.ufoonline.it/2011/06/15/il-m ... o-inglese/


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Marziano
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MessaggioInviato: 16/06/2011, 09:43 
Mi ricorda una vecchia cosa...
http://albaword.altervista.org/ (andate su Il respiro di Jiya e cliccate su Capitolo I)

Perdonate la parziale autocitazione, ma ci sta!

Riporto il brano:




Il respiro della terra si fermò inaspettatamente poco dopo il tramonto, mentre i vecchi intrecciatori si incamminavano verso casa e le due lune di Jiya iniziavano a brillare in perfetta alternanza. Il cupo ronzio che aveva accompagnato la vita dei villaggi smarriti per almeno un secolo lasciò spazio improvvisamente a un silenzio raggelante, un vuoto che suscitò in ogni anima un senso di morte e uno sgomento che sino a quel giorno era stato solo raccontato dai più longevi e forse mai sperimentato neppure da loro.
La lieve vibrazione che accompagnava quel brusio sommesso, che aveva seguito dalla nascita ciascuno degli abitanti, anch’essa scompar-sa. Un tepore rassicurante spento in un attimo, come la fiamma di una candela eterna soffocata da una mano impietosa. La maggior parte di loro divenne consapevole di quel respiro solo nell’attimo in cui cessò.
Sira fissò il suo servo terrorizzata, mentre dall’esterno qualcuno lanciò un grido strozzato e alcune voci si unirono a recitare una preghiera in una delle lingue più antiche. Il Lamiano di Uka, apparentemente. Il cielo aveva lo stesso colore di sempre, le nuvole erano congelate nella solita V che si incuneava tra le due colline bruciate. Ma il silenzio cambiava ogni cosa. Sira sentiva il cuore martellare contro lo sterno come a volerlo abbattere, mentre l’esile servitore le restituiva uno sguardo smarrito.
Senza emettere alcun suono, la piccola Daalada comparve sull’uscio della camera da letto. Restò impietrita a fissare la sorella maggiore sotto l’arco di tufo giallo, in attesa di una spiegazione che non sarebbe arrivata. Quel silenzio faceva male alle orecchie e riportava alla memoria le prediche dei sacerdoti, le superstizioni, le storie terrificanti sulla fine del mondo che raccontavano i ragazzini. Fu il servo analfabeta, paradossalmente, a rompere il silenzio con un suggerimento saggio a suo modo.
“Devi chiedilo a Modi.”
Daalada non lo degnò neppure di uno sguardo, come di consueto, ma gli fu grata di avere coperto quell’orribile silenzio con la sua voce tremante per un secondo.
“A Modi,” riprese. “Lui sempre sa cosa.” Fece oscillare istericamente il braccio bianco e ossuto indicando il breve corridoio e la porticina di marmo che conduceva agli alloggi del negromante, come se le sorelle non sapessero dove se ne stava rintanato giorno e notte da quasi mezzo secolo. E, come se quel gesto avesse spezzato l’incanto, una sorta di cinguettio stridulo riecheggiò fortissimo tra le pareti del palazzo e ogni via dei villaggi dispersi, a giudicare dalle urla di panico che si sollevarono di nuovo per strada. E un attimo dopo il pianeta ricominciò a respirare.
Il sussurro della terra e il suo lieve tremore ripresero a percorrere ogni particella di materia e ogni corpo sulla superficie di Jiya. Il servo sembrava di nuovo incredulo. Inchinò il volto fissando il vuoto nella posa di chi cer-ca di ascoltare con attenzione, e inspirò profondamente, finalmente rincuorato. Sorrise in modo quasi caricaturale, aspettandosi una simile reazione dalle sue padroncine. Daalada prese a saltare dalla gioia.
“Meno male! Lo sapevo che non era niente!” gridò, inciampando mentre piroettava come una trottola. “Lo sapevo, lo sapevo.”
Il viso di Sira invece non si rasserenò più di tanto. Sembrava piuttosto infastidita dalla loro reazione infantile. Solo la sua fronte accigliata si rilassò, ma non perse il suo sguardo grave.
“Smettila,” disse cupissima. “Va’ da Modi. Come ha detto il servo.”
Daalada annuì a quel comando. Amava quando le si assegnava un compito importante. Sapeva che dopo gli alterchi degli ultimi tempi i rapporti fra Modi e Sira si erano molto raffreddati e non le dispiaceva fare da intermediaria.
Si sentivano meglio, era innegabile. La vibrazione si trasmetteva anche all’aria che respiravano, restituendole il sapore di sempre. Ma qualcosa oramai si era incrinato. Ciò che era accaduto non doveva accadere, non si pensava neppure potesse accadere. E Sira, molto matura per i suoi 17 anni, immaginava implicazioni a cui la sorellina e un servo illetterato non avrebbero mai pensato.
Quel matto incartapecorito che si era ribattezzato Modi, ovvero ModiyakusT’ah, per rimarcare il suo legame col venerando ModiyakusT’ah di Tolah era probabilmente l’unico a poter spiegare quanto era successo. Per quanto sprezzante e borioso, poteva vantare una saggezza costruita in decenni di vita e di guerre al di fuori dei villaggi dispersi, e anche Sira sapeva che era un privilegio poter condividere la dimora con una personalità di questa levatura. Anche se entrambe avrebbero preferito vivere con i genitori, sapevano che non si può lottare il destino, sapevano che accanirsi a rincorrere il passato era del tutto inconcludente, e avevano imparato ad accontentarsi.
Daalada si avviò verso le stanza di Modi cercando di mantenere un passo e un decoro che non si confacevano alla sua giovane età. Le fiaccole accese inutilmente sulle pareti del corridoio facevano brillare tutti gli orpelli di ottone che adornavano la ragazzina, facendola assomigliare a una piccola principessa. Si lasciò alle spalle la porta di marmo intarsiata. E il suono dei suoi passi sfumò fondendosi col consueto brusio del villaggio e il ritrovato respiro della terra.
Il servo e Sira restarono in attesa del suo ritorno. I messaggi di Modi erano sempre criptici e notoriamente autocelebrativi anche quando non serviva, ma ciononostante erano preziosi. Sira non aveva assistito ad un’occasione in cui il percorso verso gli alloggi di Modi si fosse rivelato infruttuoso. Non una volta nei suoi 17 anni di vita.
Daalada ricomparve dopo nemmeno un minuto. Sira considerò che doveva esser stato un consulto assai breve, ma cambiò subito idea quando Daalada fu abbastanza vicina e la sua espressione turbata le ricordò l’orrore sperimentato qualche minuto prima.
“N-non è…” balbettò facendosi rossa in viso, e nessuno l’avrebbe rimproverata per questo. Dire una cosa del genere sarebbe stato difficile per chiunque. Nessuno mai prima d’allora aveva pronunciato simili parole. “N-non c’è. Modi ha abbandonato la stanza.”

Sira sentì il terreno aprirsi sotto i piedi.
"Questo può voler dire solo una cosa," pensò,"guai, grossi maledetti guai".
Il loro terrore, le grida, le preghiere non erano stati sognati, qualcosa li aveva sfiorati, toccati; qualcosa di alieno con un retrogusto che sapeva di umano e Sira lo aveva sentito, gustato, adesso ne era sicura..
Quella sensazione era troppo chiara troppo netta, in lei almeno, e sapeva che ignorarla non sarebbe servito. E sapeva un'altra cosa: non c'era tempo da perdere, bisognava trovare Modi e al più presto.

La prima luna era ormai perpendicolare alla piana, il suo bagliore di un rosa profondo. L'altra era parzialmente eclissata dalla cima di una delle colline bruciate. A dispetto dell'inquietudine che si cercava invano di celare, l'incanto era quello consueto nel cuore della stagione calda, gli insetti ronzavano intorno agli stagni, gli astri vincevano la resistenza delle poche nuvole semiopache, i greggi dormivano. L'unico suono insolito era quello delle preghiere che si alzavano in lievi cori da molte abitazioni, sussurrate in Lamiano di Uka e sempre più spesso inneggianti ai nomi dimenticati. I bambini faticavano a riconoscere le storie riassunte in alcune di queste suppliche e si stupivano nel sentire tanti adulti intenti a recitare versi e ripetere nomi secolari che già dal primo anno di scuola infantile gli erano stati indicati come profani ed esecrabili.
Evidentemente erano questioni che un bambino non doveva capire, era questa la spiegazione ogni volta.
Ma per la prima volta dopo secoli, fu proprio un bambino a custodire la verità ignota agli altri.
Daalada dormì fra sogni irrequieti popolati da figure e volti che non appartenevano ai villaggi dispersi, privilegio e responsabilità che sino a quella notte erano prerogativa dei sacerdoti e di pochi venerandi.
Accartocciato fra le sue mani, fredde e sudate, un panno di canapa celeste sul quale il vecchio ModiyakusT’ah di Tolah aveva appuntato l'unica informazione che meritava di sopravvivergli.

Il servo di Sira correva in quel fioco bagliore ormai quasi spento mentre gli ordini della sua padrona gridavano nella sua testa: "trova Modi, devi trovarlo per amore degli dei, devi trovarlo!".
Nonostante il fiato spezzato e un dolore lancinante al fianco che non lo lasciava, batteva il villaggio, adesso deserto, palmo a palmo, ma del negromante neanche l'ombra. Notte, era scesa alla fine, notte dappertutto e lui d'un tratto al centro del buio. Da solo, con la testa e i polmoni in fiamme, malediceva la sua padrona per averlo gettato in mezzo al nulla e malediceva se stesso per aver fallito nel compito importante che gli era stato affidato.
Iniziò a piangere come il bambino che era rimasto nonostante fosse da tempo un uomo fatto e finito; non tutti sono destinati a una vita normale, a volte la natura decide altrimenti.
Ma nella sua testa di bambino, di cucciolo spaventato a morte, un pensiero affiorò all'improvviso mentre volgeva il viso alle stelle, uniche cose rimaste a dirgli che il buio ha dei nemici anche se troppo distanti.
"Su collina" intuì, "lassù su collina".
Solo allora si rese conto di quanto si fosse allontanato dal villaggio e del perchè non riusciva più a distinguerne i contorni , né le poche fiaccole accese per le sue strade di notte.
Era proprio arrivato ai piedi delle colline, quelle stesse che scrivevano una V scura sullo sfondo del cielo ogni sera. Ormai l'oscurità era assoluta , salire fin lassù era qualcosa che andava al di là del suo coraggio.
Si sentiva piccolo, troppo piccolo e stupido per non aver portato con se neppure un torcia. "Vicino sera luce portare, ma tu no portata, padrona stavolta arrabbierà molto, gente ha ragione tu inutile servo!" si accusava.
Lui lo sapeva, la formica non può sfidare la montagna, l'unica cosa da fare era tornare indietro sconfitto per l'ennesima volta nella sua anomala vita.
Così voltò le spalle alle colline dando il primo passo sulla via del ritorno, quando una strana sensazione lo arrestò. Sentiva come una voce, ma non era nell'aria, stava nella sua testa. Sapeva però che la voce non era la sua, quella voce era più profonda e diceva cose che lui non capiva fino in fondo, come quando ascoltava i discorsi della gente. Ma una cosa gli era chiara: vieni , diceva la voce nella sua testa, vieni non aver paura.

Gaora trasportava i brandelli dei cadaveri del suo popolo con mani piatte e grandi come zattere, continuava a ruotare il busto e con esso le enormi braccia come un mulino mutilato, raccogliendo la carne morta da una spiaggia per depositarla in mare aldilà della scogliera. Le donne assistevano dalla loro distante platea urlando e piangendo, malgrado fosse impossibile ormai distinguere in quell’ammasso sanguinolento le fattezze dei mariti o dei figli.
Gaora, il gigante senza volto le cui membra gibbose celate da un velo di pelle rosa striata di grigio cambiavano forma a intervalli irregolari, apparendo a volte come un mastodontico uomo deforme, altre volte come un bizzarro gioco di vegetazione e muscoli, un ammasso fitomorfo e pulsante che non aveva assolutamente nulla di umano, Gaora detto il giovane perché generato dall’altro innominabile ma che nulla aveva di fiorente e giovanile nell’aspetto e nell’odore, che ricordava la nascita e la morte, Gaora il frigido, impassibile a qualsivoglia emozione e a qualunque disperazione, continuava il suo lavoro senza fermarsi ormai da due cicli di luna grande.
Era un sogno, Daalada ne aveva cognizione, ma questo cambiava ben poco la sua percezione. Assisteva a qualcosa di proibito, a qualcosa che non si raccontava, poco importava se si trattava di leggende o di storia travisata. Di sera e di notte le preghiere sussurrate clandestinamente dalla gente di Jiya non erano cessate, e il canto “Gaora haj Gaoma Ukai Gaora…” si era fissato nella sua memoria, o forse si era soltanto risvegliato arricchendo di dettagli enigmatici un sogno altrimenti normale. Non era la prima volta che sentiva queste parole, senza capirle. I suoi compagni di gioco citavano spesso Gaora e il padre Gaoma per il solo gusto di pronunciare dei nomi vietati, e qualcuno aveva persino imparato a memoria a mo di filastrocca un brano intero del Libro Omesso di Uka, pur capendone solo qualche parola. E quei versi adesso erano cantati fra i singhiozzi dalle donne della spiaggia, mentre piccoli crani e arti irriconoscibili scivolavano in acqua con quel macabro suono…
Improvvisamente tornò il silenzio. L’acqua del mare immobile, le braccia di Gaora pietrificate in una posa surreale, il pianto delle donne interrotto dallo stupore.
Era l’orrido silenzio che Jiya aveva conosciuto qualche ora prima, quello che rubava anche il respiro e la vibrazione di vita indispensabile al popolo intero, quello che pietrificava l’anima come un veleno di Stiyma. Quello che faceva più paura del sangue e della morte.
Anche Gaora apparve stupito, per qualche istante, prima che il suo ventre grumoso, la sua massa compatta cui non era stata concessa una bocca per respirare e per parlare, producesse un cupo grugnito di orrore che assomigliava ad un urlo di disperazione.
Daalada si destò dal suo sogno tremando. Il sole non si era ancora alzato, mancava ancora qualche ora. Ma i canti di preghiera si erano sopiti. Sentiva ancora qualche sussurro distante, ma chissà, poteva anche essere il vento tra le canne.
Abbandonò il suo letto e si avvicinò al corridoio che portava alla stanza di Modi, le fiaccole sui due lati insolitamente spente, come un lutto prematuro. La dimora di Dua, ancora vuota, accresceva quel senso di solitudine e vulnerabilità. Da servo modesto quale era, non aveva fatto alcuna resistenza alle richieste di Sira, ed era partito alla ricerca del vecchio armato solo del suo innocuo pugnale oereatano. Temeva per il suo destino, ora più che mai.
Sua sorella si sarebbe svegliata di lì a poco. Daalada nascose il pezzo di canapa di Modi tra gli altri fazzoletti che adornavano la sua cintura e sorrise forzatamente. Doveva mantenere quella parvenza di tranquillità davanti a Sira e a chiunque altro. Doveva tenerli al sicuro, lontani dalla verità.

Dua iniziò a correre su per quella fottuta collina.
Aveva paura cavolo se aveva paura, ma non poteva fermarsi, solo gli dei sanno se avrebbe voluto, ma non poteva. Quella voce non era solo una voce, era un ordine al quale non poteva sottrarsi, come il ferro non può dire no alla calamita. Fare come quel marinaio con le sirene non sarebbe servito (vecchia leggenda accaduta in un mondo alieno e lontano), a che serve turarti le orecchie se la voce viene da dentro?
E allora tanto valeva mettersi a correre come un dannato, come un animale braccato; la differenza era che sapeva che sarebbe finito nella rete tesa dai cacciatori.
Lo sapeva eccome, nonostante quel suo cervello poco funzionante, e per questo si chiedeva perchè se uno deve essere demente non può esserlo fino in fondo.
A metà, sempre cose a metà, la sua testa a metà, la gente che lo amava a metà, i calci nel culo… no quelli non erano a metà! solo la sua padrona a volte gliene risparmiava qualcuno. cavolo, ma perché a me, pensava, perchè è toccato proprio a me? perchè il lavoro sporco lo fanno fare sempre al più scorretto, si rispondeva, e indovina un po’ chi è?
Buio maledizione, oscurità totale senza una cavolo di torcia del cavolo, se torno a casa vivo giuro che me ne ficco una su per il culo porca troia! Non ci fai mai caso perché una luce c’è sempre in giro per il villaggio, ma se la luna grande è nuova e non riesci a guardarti nemmeno l’uccello!
Continua a correre, scorretto! ma dove cavolo corro così, che non vedo un cavolo e va a finire che mi rompo quel cavolo di testa di cavolo che mi ritrovo? ma si forse è meglio così che fare da cena a qualche animale del cavolo (nel nero assoluto un alito di vento ti pare il respiro di una belva feroce e qualunque rumore ti mette addosso la cacarella).
Ad un tratto un’illuminazione dentro quella mente obnubilata: cavolo quando ho paura divento più volgare del solito,la paura rende volgari! beh! non sono poi così rincoglionito! Così scoppiò in una fragorosa risata, sopraffatto dalla sua stessa riconosciuta idiozia; la consapevolezza dei propri limiti a volte fa di noi umani creature un po’ più libere.
Ma quella consapevolezza fu la stessa che gli fece capire in un attimo che per qualche oscura ragione aveva smesso di essere un demente. Riesco a pensare come una persona normale, realizzò all’improvviso.
Quella voce che aveva nella testa non era solo una guida, ma lo sorreggeva, era come una stampella per il suo povero piccolo cervello. No ancora di più, ne potenziava le capacità fino ad allora così limitate, tanto da renderlo intellettualmente normale.
Dua si chiese chi o cosa fosse così potente da riuscire ad alterare la realtà in quel modo.
Era il vecchio sacerdote a possedere un simile potere o tutto questo era opera di quella mano impietosa che per un attimo aveva spalancato vuoto e silenzio?
Ma chi se ne fotte, pensò Dua, adesso nessuno potrà più prendermi in giro, da ora in avanti non sarò più lo schiavo di nessuno; nei suoi occhi si accese una luce, una luce di rabbia, di potere, di libertà.

Sira dormiva irrequieta coperta da un velo di corde di canapa, sull’enorme letto di marmo che era appartenuto ai suoi genitori e che invero era un’opera d’arte donata alla famiglia dal vertice del conclave di Jiya insieme ad altri lasciti dal sapore vagamente esotico.
Fra le sue braccia un libro antico, come sempre.
Mentre Daalada aspettava l’alba, affacciata alla grande finestra scavata in quella curiosa mistura zebrata di tufo e pietra lavica, i campanili delle Torri Alte si spensero per riaccendersi un attimo dopo, segnale di richiamo per i cacciatori di tutta Jiya. I bracconieri legalizzati, da una parte, dovevano smettere di battere i sentieri montani con le loro macchine di morte prima della riapertura delle porte del villaggio e prima che ricominciasse il puntualissimo viavai di mercanti tra la collina e la valle. E il segnale aveva significato anche per cercatori e uccellatori, richiamati al torrione di guardia per l’ultima conta della nottata, nella speranza che fra le decine di volatili catturati potesse far sfoggio di se un rapace lunare dalle ali verdi. Ma un evento così fausto non si ripeteva da decenni, e le rarissime tre note del corno di Maka di cui si favoleggiava tanto spesso non avevano mai festeggiato un simile ritrovamento da quando Daalada e Sira erano in vita.
Ma un altro suono quasi altrettanto inconsueto infranse il silenzio di quell’alba stentata. Per due volte il timpano in bronzo che svettava sulla torre campanaria più distante venne percosso dalla sentinella di turno.
Accadeva solo quando i bracconieri uccidevano un mangiatalpe. Ma erano creature quasi estinte, ormai relegate da anni in una gola aldilà dell’isola di sale, dato che rappresentavano una grande minaccia per gli esseri umani. Un brusio si sollevò dalle case, decine di persone risvegliatesi incredule mentre quel suono riverberava nel silenzio. Daalada pensò che, in preda agli incubi e all’affaticamento mentale di quelle ultime ore, la sentinella fosse caduta in errore. Ma dopo alcuni secondi il segnale si replicò. Una sequenza di due colpi in rapida successione su quella sorta di gong cavernoso. E poi ancora. E poi ancora. Quattro uccisioni. Dopo una giornata tanto enigmatica e una notte che per tanti era trascorsa sull’orlo dell’isterismo, una sveglia così angosciante fece perdere il senno anche ai saggi.

Qualcuno aveva deciso di bruciare gli arbusti della salita più transitata. Questo aveva reso più semplici le ricerche notturne sia da parte delle guardie armate che da parte dei cacciatori. Gli alberi a fusto lungo non potevano essere abbattuti, ma d’altra parte erano la dimora dei rapaci e chi governava non era tanto scellerato da ordinare il disboscamento.
Poca roba nelle reti, questa notte. Il bottino era di pochi capi di selvaggina che avrebbero arricchito le tavole delle vicine feste, ma pochi uccelli. Qualche rapace notturno che si era ferito e non era in grado di volare, ma niente di prezioso.
L’uomo magrissimo seminudo individuato dalla coppia di guardie del turno verde si era dileguato tra le rocce ben prima che la luce del sole colorasse l’orizzonte. Era magrissimo ma agile e questa cosa cozzava con quanto aveva notato uno dei due.
- E’ oereatano, hai visto?
- Io ho visto solo un tipo grigio che scappava.
- E’ oereatano. Si capisce dallo straccio attorno ai fianchi. Gli brillavano tutti i bordi. E il manico di quella specie di coltello.
- Non mi dire che hai visto il coltello mentre scappava a quella velocità! Chi vuoi prendere in giro? E poi gli oereatani sono goffi.
- No ma stringeva una cosa di quel verde strano che hanno sempre gli oereatani.
- Se sei sicuro ammazzalo. Sono quasi tutti illegali gli oereatani.
- Sì, infatti. Carica la macchina. Magari prendiamo tutta la famiglia. Oggi ci arricchiamo.
Fortuna che trascinare la macchina armata su quegli strani cingoli non fosse una cosa facile e rapida. Lì non c’erano arbusti e sotto la luce delle stelle Dua era troppo visibile. Ebbe il tempo di nascondersi in una trincea naturale e lasciar passare la ronda. Poi, siano ringraziati gli dei, il primo mangiatalpe attirò l’attenzione dei bracconieri.

Anche per Sira svegliarsi con quel frastuono significò abbandonare un incubo ingarbugliato per cominciarne un altro. Le cose non migliorarono di certo dopo aver lasciato il letto ed aver cominciato ad orientarsi, quando trovò la sorellina sull’uscio orientale impegnata a conversare con Aimaka, l’anziana moglie del disciplinatore in carico. Attorno a loro il rosa acceso di un’alba precoce e luminosa.
Daalada aveva appena finito di riportarle gli ultimi accadimenti della serata trascorsa, la scomparsa di ModiyakusT’ah, la corsa disperata del servo oereatano verso le pendici delle colline nel bel mezzo del coprifuoco, e la notte di apprensione che ne era seguita. La vecchia Aimaka dal suo canto le aveva raccontato col suo fare essenziale, come consueto, di come il consiglio si era riunito già nel cuore della notte per discutere dei curiosi fatti appena successi dopo aver convocato i sacerdoti più vicini alla consulta. La buona nuova era infatti che nessuno di loro aveva seguito il folle destino di Modi. Quella cattiva era che nessuno aveva saputo interpretare gli insoliti eventi, primo fra tutti il respiro interrotto di Jiya. La notizia della scomparsa di Modi avrebbe aggiunto qualche elemento alla sciarada, presagì la vecchia, ma il consiglio si sarebbe di certo infuriato per questa notizia di fondamentale importanza taciuta così a lungo.
Sira fissò la sorella con sospetto, e non tentò di nasconderlo. Il sorriso di Daalada aveva ben poco senso in quelle circostanze. Ostentava una tranquillità inverosimile e ciondolava vaporosamente mentre ascoltava il racconto di Aimaka.
Non appena Sira le ebbe raggiunte, il discorso della vecchia sembrò rivolto esclusivamente a lei, come era giusto che fosse. Il consiglio aveva decretato che era indispensabile informare sempre di ogni cosa le ultime eredi del signore di Jiya già dal giorno della sua scomparsa, sebbene all’epoca avessero rispettivamente 3 e 10 anni. Il buon senso indicava certamente Sira come destinataria più opportuna di comunicazioni di tale rilevanza.
“In questa occasione,” gracchiò seccamente Aimaka, “entrambe vi siete comportate da irresponsabili, è inutile sottolinearlo.”
Le sorelle si scambiarono uno sguardo rapido, condividendo una colpa evidente. Avrebbero dovuto avvertire il consiglio, un amico fidato, o la stessa Aimaka. Qualsiasi scelta sarebbe avrebbe avuto più senso che mettere a repentaglio la vita di Dua e ritardare il ritrovamento di uno dei sacerdoti più importanti di Jiya. Annuirono silenziose, Sira visibilmente irritata nel tentativo di apparecchiare la sua chioma nella tradizionale treccia a tre code, Daalada con quel ghigno mal simulato.
“Nel consiglio sappiamo quanto vi sia indispensabile ModiyakusT’ah,” continuò la donna, lievemente addolcita. “Lo è per voi più che per noi, e so che mai avreste voluto darci la triste novità, ma questo non giustifica azioni avventate come la vostra.”
Con un gesto aggraziato del braccio indicò alle sue spalle. Contadini, militari e mercanti stavano convogliandosi lungo la discesa di Lunabastro e gruppi più copiosi affluivano dalle altre vie, mentre nella Piazza Grande gli anziani del consiglio avevano già innalzato gli stemmi e improvvisato un palco di legno per l’assemblea imminente.
“Affrettatevi. In quanto titolate e proprietarie del blasone del falco la vostra presenza è sempre indispensabile.”
Le sorelle annuirono di nuovo, perfettamente sincronizzate.
“Dovremo scrutinare le opinioni del popolo. Come sapete il vostro voto vale venti dei nostri,” concluse la vecchia, inchinandosi con un’espressione a metà fra rassegnazione e biasimo.
Il respiro della terra era basso e confortante anche se ormai quasi del tutto coperto da quel tramestio mattutino nato anzitempo. Un carro imponente, trascinato dalle guardie su quattro enormi ruote, produceva un cigolio fastidioso malgrado fosse distante ancora un miglio. Il capo plotone lo dirigeva con estrema attenzione affinché arrivasse in piazza senza travolgere niente e nessuno. Su di esso, seminascosta in un groviglio di rampicanti e fieno, una forma che per qualche interminabile secondo Daalada scambiò per il corpo di Gaora, il gigante senza volto del suo sogno. Trasalì e sudò finché non riconobbe, ammassate sul carro come polli morti, le creature che come ogni altro bambino aveva ammirato solo nelle illustrazioni dei libri. Le mastodontiche carcasse senza vita dei quattro mangiatalpe delle gole lontane.

Il marito di Aimaka torreggiava imperturbabile accanto alle guide del consiglio. Muiama il disciplinatore scelto, ex-sacerdote di Jiya ed erudito nonché conoscitore delle lingue antiche. Era andato in sposo ad Aimaka per suo arbitrio, contravvenendo alle leggi. Aveva abbandonato il sacerdozio per questa ragione ma restava a capo del consiglio.
La gente affollata al loro cospetto si aspettava delle risposte. Sira e Daalada avrebbero preferito restare schiacciate tra gli astanti piuttosto che essere guardate in quel modo dalla folla sprezzante.
Il disciplinatore sorvolò sulla questione del respiro interrotto. La gente non approvò e si alzò un brusio di dissenso. Tuttavia la sua orazione per 5 minuti ristagnò in argomenti di normale amministrazione: il raccolto, le battute di caccia, l’organizzazione delle feste. Quando il dissenso sfiorò la rivolta, respirò profondamente e affrontò la questione a modo suo.
- Avete sentito che ModiyakusT’ah ha abbandonato la sua dimora senza avvisare gli altri sacerdoti. Abbiamo avviato le ricerche ma non vi mentiremo, i segni a cui stiamo assistendo non sono benigni.
Il popolo si sentì paradossalmente sollevato. I sacerdoti erano al corrente del problema, se ne stavano quantomeno occupando.
- Le divinazioni sono macchinose, richiedono tutte le nostre risorse. Per i prossimi giorni i sacerdoti non potranno essere interrotti. Daranno udienza solo a coloro che avranno informazioni fondamentali o che in sogno riceveranno rivelazioni. Ogni altra ingerenza da parte del popolo verrà rifiutata. Non tornerò sull’argomento.
Daalada si schiacciò contro l’enorme stola rossa che era stata alzata alle loro spalle come coreografia. Sorriso o no, Sira percepiva la sua preoccupazione.
- In merito al …
Perse tempo per trovare una definizione.
- … servitore della casa di lava…
Uno dei capi gli suggerì il nome “Dua” che Muiama ripetè. Poi continuò:
- Se non è stato ucciso per errore dai cacciatori, sarà già un cadavere ad opera dei bracconieri legalizzati del corpo di guardia. Come sapete il coprifuoco inizia al primo suono di corno e la terra alle pendici delle colline è proibita. Nessuno dei nostri uomini sarà punito se ferisce o uccide un semplice oereatano in terra proibita soprattutto durante il coprifuoco.
Guardò le due sorelle per un attimo. Il suo sguardo era sereno, ma l’immensità del rimprovero bastò a terrorizzarle.
Gubaku, un sacerdote persino più alto e smilzo di Muiama, utilizzò il suo lunghissimo bastone per disturbare le carcasse dei mangiatalpe, ciascuna grande almeno quanto quattro uomini. Quella massa pesantissima non reagì ma il rumore di carne umida fece sussultare di nuovo la piccola Daalada. Sullo sterno di ogni bestia spiccava una sequenza di 8 dardi perfettamente allineati, sputati dalle macchine di morte della guardia che erano l’orgoglio di quel piccolo esercito.
- E se… per volontà degli dei non è incappato nelle nostre ronde… queste mostruosità non ne avranno pietà. Ne sono state avvistate più di trenta, al di qua delle isole di sale.

Dua riprese a correre, non vedeva l’ora di raggiungere la fonte di quel potere che lo inebriava rendendolo ciò che non era. Ormai iniziava a rischiarare quando udì come dei suoni strozzati seguiti da colpi. Qualcosa si muoveva in quella maledetta foresta.
E adesso che cavolo succede? Si chiese allungando il collo a destra e a manca. Porca passeggiatrice i cacciatori, pensò, i fottutissimi cacciatori della guardia, non devo farmi beccare o sono guai, ci mancavano solo loro porca passeggiatrice!
Dovrò nascondermi per un po’, finché la caccia non sarà finita, ma dove lo trovo un buco in cui ripararmi?
Restò immobile guardandosi intorno non sapendo da che parte andare, mentre il sudore colava gelato sulla sua maschera di terrore; datti una mossa testa di cavolo, si rimproverò, o puoi dire addio alla tua nuova vita.
Gli occhi roteavano impazziti nelle orbite alla ricerca di un nascondiglio qualunque, quando il suo sguardo si posò su un gruppo di rocce seminascoste dagli alberi fitti.
Tra quelle rocce individuò una fenditura stretta, ma con un po’ di fortuna…, pensò, e si gettò in quella direzione.
Sì, si disse, dovrei farcela a passare, devi farcela cavolone, aggiunse la voce della necessità, a costo di scorticarti vivo, ma devi!
Dua iniziò a spingere se stesso in quella specie di enorme vagina pietrosa, prima una gamba, poi un braccio; l’apertura era davvero stretta, al limite delle sue possibilità, ma la disperazione fa miracoli a volte.
Continuò a spingere, a forzare tagliandosi braccia, gambe e torace così profondamente che subito iniziò a sanguinare copiosamente.
Ma non si fermò, nonostante il dolore lancinante, continuò a penetrare nella roccia dura, mentre fiumi di lacrime gli rigavano il viso.
Alla fine cadde per terra con un tonfo sordo, senza nemmeno più la forza di gridare, aprì gli occhi: era nero pesto attorno, poi gli occhi si abituarono all’oscurità e si rese conto di essere dall’altra parte: era passato, ce l’aveva fatta. Alzò lo sguardo, si trovava in una grotta, quasi del tutto immersa nell’oscurità, ma al sicuro, almeno così credeva…

Ciò che la gente chiamava gole lontane era in verità un groviglio di cunicoli scavati dall’acqua e da antiche effusioni di lava nella pietra calcarea. I tunnel si affacciavano sul fianco occidentale della prima collina come tante piccole lacerazioni che, per la gente comune, erano soltanto sorgenti di acque tossiche ormai prosciugate. Dall’altra parte, oltre chilometri di biforcazioni simmetriche, strettoie e budelli che in presenza di luce sarebbero apparsi lucidi come giada, una decina di bocche gigantesche si affacciavano sul precipizio, spalancate sull’altissima parete di roccia, bianca come un ghiacciaio tagliato di netto, come narrava la legenda, dalla lama cresciuta sul cranio di Uka. Ma nessuno si era mai avventurato dentro le gole, che restavano solo un paesaggio magnifico da ammirare attraccando al porto di Jiya o dalle isole di sale, quando erano ancora abitabili, prima di essere declassate a ghetto per i criminali e ricovero per belve. Le gole lontane erano lontane per chiunque. Nessuno trasgrediva il divieto. D’altra parte nessun uomo assennato si sarebbe spinto in quell’oscurità così densa e umida. Si diceva che pochi forsennati avessero tentato l’impresa, e che a metà del cammino le torce si fossero spente, che l’aria all’interno di quelle cave strettissime avesse soffocato prima il fuoco e poi anche quei temerari, tutti morti tentando di ripercorrere a ritroso quel labirinto nero. Ed era altresì impossibile scalare sull’estremità opposta la parete bianca che cadeva perpendicolare sul mare. Le gole restavano lontane.
Mentre i cingoli delle macchine di morte trascinate dai bracconieri rallentavano per la salita ripidissima, Dua iniziava ad addentrarsi in un percorso che già dopo venti metri era completamente oscuro e imprevedibile, ma per qualche strana ragione non inciampò una sola volta sui lastroni di calcio e sulle buche di quel terreno irregolare, né si imbatté in rami ciechi o tunnel interrotti dalle frane. Ad ogni biforcazione si lanciava a destra o a sinistra senza alcuna esitazione, anche quando la strada scelta era particolarmente scoscesa o lo costringeva a calarsi in verticale in un anfratto ancora più buio. Sapeva dove andare, perché seguiva delle istruzioni ben chiare nella sua testa. E ad agevolare, nonché ad incalzare la sua corsa, si aggiunse ciò che probabilmente aveva attratto quei pochi cercatori che non erano più riemersi dalle cave: la vibrazione del respiro di Jiya, che si faceva più forte man mano che si addentrava nella terra.
Si appoggiò per un attimo ad una colonna perfettamente levigata, della quale non poteva percepire le mirabili sfumature di un quarzo striato d’alabastro. La sua guancia, a contatto con la superficie liscia ma non fredda, vibrava insieme a tutto il resto. Intorno a lui il suono cupo delle viscere di Jiya, profondo e intenso a dispetto dell’aria pesante e quasi irrespirabile per l’odore di zolfo e calce. Mai nessuno, che lui sapesse, si era avvicinato così tanto al respiro della terra.

Quelle colonne lisce, quel pavimento levigato sorpresero Dua che non si sarebbe mai aspettato che qualcuno fosse giunto fin laggiù, cosa testimoniata dalle opere che poteva toccare con mano.
Mentrte rifletteva su questo, un bagliore fioco apparve sulla sua testa illuminandolo sul fatto di essere effettivamente al centro di una vasta sala ricavata nella roccia.
Quel bagliore proveniva da una piccola fiamma verde in cima a una colonna magnificamente arabescata.
Con ancora maggior sorpresa si accorse che quella fiamma andava via via assumendo una forma, una forma ben precisa: un vecchio, con barba e capelli lisci e fluenti, vestito di una lunga tunica verde smeraldo.
Anche gli occhi brillavano dello stesso colore nell'oscurità.
Quel vecchio seduto lassù in cima non era l’anziano saggio del villaggio che si aspettava di trovare, non differiva da lui solo per l’aspetto, ma soprattuto per la strana aura che lo circondava, un'aura più potente di quella del'anziano Modiyakus’T’ah e soprattutto di una natura profondamente diversa.
Ti aspettavo Dua, disse il vegliardo, mostrando una chiostra di denti bianchi a perfetti.
E io aspettavo te, rispose il servo, da quando venni al mondo, me ne rendo conto solo adesso, vedendoti.
Una strana affinità fino ad allora ignorata da quell'umano si faceva adesso evidente nei confronti di quella strana luminescente creatura e di ciò che rappresentava.
Sono io opera tua? Volle sapere il servo rinato a nuova vita.
Lo sei, ripose il vecchio, come io lo sono della tua.

“Se per volontà degli dei non è incappato nelle nostre ronde…” aveva recitato Muiama durante l’assemblea, “…queste mostruosità non ne avranno pietà.”
L’espressione di rimprovero del vecchio, lo sguardo inquisitivo di Sira, la paura… Non era lecito in fondo che una bambina avesse paura? Il consiglio avrebbe inviato la guardia alla ricerca di ModiyakusT’ah, e gli altri Sacerdoti avrebbero gratificato il popolo con una spiegazione. Questo poteva bastare?
Daalada rimasticava le parole sconfortanti di Muiama, ripensava al suo sogno e al suono disgustoso dei cadaveri depositati in mare da Gaora e a quello dei mangiatalpe umidicci uccisi dalla guardia, e rileggeva il messaggio di Modi, cercando di trarre qualche conclusione. Non riusciva a riunire quelle tessere in un mosaico che significasse qualcosa, purtroppo. Sua sorella maggiore avrebbe potuto aiutarla, lo sapeva, ma la prima indicazione di Modi non lasciava dubbi.
“Che nessuno sappia, oltre a colui che raccoglie questo fazzoletto. Dopo il mio sacrificio, altri sarebbero un turpe scempio.”
Aveva riletto questa prima parte una mezza dozzina di volte, da quando era scomparso il vecchio. Lo fece ancora una volta, nella semioscurità del giardino coperto, nascosta come chi ha compiuto un crimine, prima di arrendersi di fronte alla sua ermetica freddezza e proseguire.
“Non temere per la sorte di chi verrà a cercarmi, o per la mia sorte.” Si soffermò come sempre su queste parole, scritte in cremisi con una calligrafia severa ma armoniosa che rasentava l’arte. Il sorriso di chi scopre un privilegio proibito tornò sul viso, mentre rileggeva i versi più incredibili.
“A breve, a te che leggi, sarà chiaro il perché qui nessuno muoia mai.”

Dieci mangiatalpe si erano sollevati dal dirupo. Con un ordine che non si addiceva alla loro natura bestiale si radunarono sul sentiero che permetteva ai mercanti di scavalcare la collina, quasi volessero far da barriera ed evitare che qualcun altro raggiungesse le fenditure. Si muovevano lentamente, con l’eccezione dei due capi branco, riconoscibili dalla pelle annerita e più secca. Gli altri erano più fiacchi, l’enorme bocca piatta che attraversava la faccia trapezoidale ferma nel solito ghigno ebete, ma il movimento scomposto delle zampe e degli arti superiori, simili a tentacoli ricoperti di peluria e resi lucidi dal grasso, aveva qualcosa di sinistro.
Due uomini della guardia si accorsero dell’insolita manovra proprio dal suono viscido prodotto dalle strane creature. Nessuno di loro ne aveva mai viste tante. Per la maggior parte della popolazione il mangiatalpe era semplicemente un modo semplice per spaventare i bambini, tenerli lontani dai pericoli della collina. Per i bracconieri avevano smesso di essere una leggenda dopo l’invasione del decennio di Oraj, e il protrarsi delle incursioni per altri 2 terribili anni. La cosa più inquietante era la mancanza di una spiegazione del loro improvviso comparire, ma fortunatamente erano creature stupide, disorganizzate.
Ma questa idea venne completamente frantumata da quanto videro le due guardie nascoste in un fossato. I capi branco muovevano il volto e le strane braccia secondo una convenzione gestuale che tutti gli altri mangiatalpe parevano comprendere. E, con movenze incredibilmente armoniche, si passarono di mano a mano, per così dire, delle rocce dall’aspetto molto regolare selezionate per peso, forma e colore, praticamente dei mattoni grezzi in pietra lavica, che depositarono con singolare disciplina davanti alle crepe che davano respiro alle gallerie buie e alle gole lontane.

“Ti chiederai perché ti è concesso di sapere,” recitava la voce dell’anziano innanzi al volto stupito ma consapevole del servo oereatano. Il suono delle gocce che cadevano dalle stalattiti era il solo a rompere quel silenzio secolare oltre alla voce suadente del vecchio. O forse era davvero l’unico suono in quel vastissimo spazio in cui si muovevano ombre e luci, perché il volto dell’uomo, la sua presenza, l’intero viaggio di Dua, assomigliavano sempre più ad un’allucinazione.
“Ti chiederai perché ti è concesso di sapere,” recitava frattanto il messaggio di Modi, ormai spiegazzato fra le mani frementi della piccola Daalada. Il senso di responsabilità non scemava, ma cominciava a capire, a sentirsi rassicurata dalla risolutezza delle parole di Modi. Per un attimo smise di preoccuparsi della sorte del suo mondo, del vetusto sacerdote fuggito dalla casa di tufo, del suo servo affettuoso, della sua stessa sorte. Tutto sembrava scorrere secondo un qualche disegno, adesso.
“Ebbene,” la luce verdastra si addensò in modo innaturale sul volto dell’anziano creando l’illusione di un sorriso, “è solo per un nostro errore”. Dua lo fissò cercando di analizzarlo senza apparire insolente.
“Ebbene,” aveva scritto Modi in caratteri esemplari, “è solo per necessità.” Non era facile per la bambina seguire il senso del discorso, ma questa volta non voleva arrendersi. “Ad uno di voi, uno per volta, è dato di imparare la verità affinché la Cura non si spenga. Nostro anelito e nostro assillo è sempre stato salvaguardarvi. L’incolumità dei nostri benamati figlioli, della nostra indispensabile stirpe, è da 300 anni la nostra sola ragione di vita, se di vita si tratta, e da un decennio il solo nostro pensiero.” Adesso la grafia si era fatta più incerta. Forse perché il vecchio, sentendo svanire il respiro di Jiya, non aveva altra scelta che affrettarsi e correre verso la sua misteriosa meta, o più semplicemente perché era scosso da ciò che scriveva.
Non ebbe alcun dubbio invece Dua, che ascoltava le stesse identiche parole pronunciate da un altro uomo, con un’umanissima solennità quasi rotta dal pianto. Oltre al suo rinnovato ingegno, aveva ritrovato nel suo ventre sensazioni e sentimenti che non ricordava di poter covare. Fece vacillare una mano, tesa in aria verso il viso del vecchio, come segno di affezione e pietà, quasi volesse accarezzarne il profilo senza avvicinarsi.
Né lui né Daalada potevano sentire l’intreccio delle loro esistenze, in quegli attimi, separati da alcune miglia di steppa, di vita e di anime, anche se ad un livello altissimo ne avevano percezione. Il messaggio si divise, nuovamente, perché le ultime parole scritte da Modi erano un preciso comando destinato ad una persona soltanto.
“Tu attenderai mezzo ciclo di luna grande, ti recherai al piccolo tempio del consiglio, attraverserai la botola dietro l’altare dei maiali, emergerai a metà del sentiero alto e raggiungerai una bocca di pietra oltre una barriera di mangiatalpe che non ti faranno del male, perché qui nessuno muore mai.”
Daalada non mise in discussione il comando, la sua fierezza mutata oramai in superbia. Era stata scelta e non avrebbe tradito il suo ruolo né la fiducia che ModiyakusT’ah aveva riposto in lei.
Daalada scrutò il cielo, fece rapidamente i calcoli sugli archi delle lune che le erano stati insegnati dal padre al compimento dei quattro anni, e decise che era il momento perfetto per incamminarsi. Come se ce ne fosse il bisogno, arrivò un segnale terribile a corroborare la sua scelta.
Per la seconda volta i villaggi dispersi di Jiya risuonarono di un urlante silenzio.
Il respiro cessò nuovamente, la terra tornò ad essere muta con il suo contagio di paure e premonizioni che congelarono quasi ogni anima dei villaggi dispersi.
E in quel preciso istante un’altra verità a lungo taciuta gratificò le orecchie del servo oereatano.
“Ti abbiamo sottratto la conoscenza, affinché tu potessi salvarti,” proferì il vecchio, alzando una mano come per dire “non temere”. L’interruzione del respiro di Jiya era stata preceduta di un attimo da un suono fortissimo e repentino, quello di un meccanismo metallico, che Dua immaginò attribuibile ad un ingranaggio di dimensioni spaventose. Era un suono agghiacciante quanto il silenzio che ne seguì e solo chi si era addentrato così tanto nelle viscere della terra poteva percepirlo. Lì per lì non realizzò se fosse un privilegio o una condanna.

- Ricorderai sempre di più - presagì l’anziano, ma nella mente di Dua non c’era altro che confusione. Aspettative e paure, ma anche stanchezza, disordine.
- Dove siamo? - si premurò di chiedere Dua. - E cosa era quel suono? Perchè il respiro si è fermato? - lo incalzò.
-Ricorderai dove siamo, chi siamo, come funziona questo mondo, perché esiste ancora, perché tu con noi ne sei artefice.
Ruotando il busto con un movimento un po’ innaturale svelò il dipinto rupestre alle sue spalle. Con una punta finissima era stata incisa una sorta di grottesca cornice, ma con quella scarsità di luce i pigmenti stesi sulla roccia verdastra si distinguevano appena. Le immagini erano semplici, stilizzate. Mostravano un cerchio perfetto. Al suo centro era disegnato un meccanismo, una ruota dentata. Quattro punti della circonferenza erano dipinti in una gradazione dorata che in prossimità della fiaccola di luce verde brillava in modo inverosimile. Un quadrato luminoso con un ingranaggio al centro.
- Vigila, Protegge, Muove, Spaventa, Nutre. - Il vecchio scandì queste parole indicando in sequenza i cinque punti del disegno con il suo indice nodoso. Si era soffermato sul meccanismo centrale pronunciando “Muove”, fissando Dua come se si aspettasse una sua reazione.
Il servo si sforzò, di capire. Per lui aveva poco senso ricordare. La sua vita era priva di significato come quella di ogni schiavo, e gli unici ricordi consistenti prima della sua cessione alle eredi dei signori di Jiya riguardavano la madre e l’istruzione con i compagni di Dera. Il coltello dato in regalo dal profeta D’gha al compimento dell’età liminare. Poi niente, il lavoro, l’umiliante sequenza di compravendite, la casa di tufo.
- Davvero l’amore per questa vita resiste alla rimozione? - chiese l’anziano, sorridendo.
- Non capisco, rispose Dua.
- Sei uno di noi. Tu non sei mai stato un servo. Tu più di ogni altro hai voluto che questo piccolo mondo fosse salvato, ricordi? Hai preferito il nostro sacrificio per tutte quelle povere anime, prima di… fare la tua scelta. E non credevamo che la vita che scegliesti potesse essere così testarda.
Il servo lo interruppe:
- Basta.
Osò fare un passo verso il vecchio. Il primo da quando era entrato in quella stanza da sogno.
- Chi sei?
- DeurudT’ah…
Fu un mormorio sommesso e bonario.
- E’ il tuo nome? - chiese Dua, frastornato.
- No, è il tuo nome.


Ultima modifica di Bastion il 16/06/2011, 09:57, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 16/06/2011, 10:11 
Visto che Sheenky mi ha "appiccitato" il capitolo I, aggiungo anche il capitolo II (è ancora "in fieri") che fa capire qualcosa:

Capitolo II

Raggiunse la botola oltre l’altare dei maiali attraverso una strada alternativa. Con gli altri bambini giocava spesso in quella zona senza curarsi dei divieti e degli spauracchi inventati dagli adulti, e col tempo aveva scoperto più d’una scorciatoia. Era riuscita così ad eludere i guardiani del tempio del consiglio ma anche le decine di contadini che scorrazzavano ai piedi della collina in preda al terrore. Il silenzio dei villaggi era inquietante, e il fatto che si stesse protraendo ormai da minuti era ormai interpretato dalla popolazione come l’imminente fine del mondo. E il vocio nervoso che ne derivava era insopportabile.
Daalada volle scansare anche il rischio di essere bloccata da Aimaka, che aveva il dovere di aggiornare le eredi di Jiya su qualsivoglia buona o cattiva nuova, e attraversò di gran corsa gli archi naturali formati dalle foglie morte e il calacare fino a raggiungere la salita più ripida, evitando così anche i bracconieri.
Superò la salita con incredibile agilità, la stessa che le permetteva di vincere ogni sfida anche con i ragazzini più grandi, la stessa che le era valsa il trofeo nell’ultima gara giovanile, alla quale in realtà non avrebbe dovuto partecipare in quanto rappresentante di una casta nobile quasi estinta. Dopo un ultimo slancio, a dispetto del terreno tutt’altro che compatto, raggiunse la cima del primo altopiano. Con un ultimo salto oltrepassò uno squarcio profondissimo nel terreno fangoso e si ritrovò a pochi metri dal suo incubo recente, un’enorme sagoma mucillaginosa che continuava a ruotare le braccia e il tronco, raccogliendo pietre dalle mani di un suo simile e depositandole alla sua sinistra. La creatura produceva un miscuglio di suoni disgustosi, gorgogliando e respirando cupamente, senza interrompere il suo ciclo neppure quando la bambina lasciò sfuggire un singhiozzo di terrore.
Istintivamente sussurrò le frasi nell’antico Lamiano di Uka come se fosse un rito di protezione. “Gaora haj Gaoma Ukai Gaora…”
Ma non era il grumoso figlio di Gaoma, quello che si muoveva davanti a lei.
Erano i mangiatalpe di cui parlava il biglietto di Modi, ma diversamente dall’ultimo e unico incontro durante l’assemblea, erano eretti su quelle strane zampe ricoperte di lerciume, erano vivi.
Ed erano tantissimi.
Oltre questa untuosa barriera di arti deformi, la bocca di pietra descritta nel messaggio. Altro non era che una grotta, una cavità dall’aspetto caliginoso per nulla invogliante, ormai quasi del tutto ostruita dai sassi depositati con cadenza ipnotica dai mostri delle isole di sale.
Aveva creduto fino in fondo alle parole di ModiyakusT’ah, come sempre. E non aveva intenzione di fallire la sua missione proprio ora che era vicina al suo compimento. Inspirò gonfiandosi come un rospo, per dirla come avrebbe fatto il vecchio. Si fermò una sola volta, durante quel breve percorso, temendo che l’ennesima roccia trasportata dall’ultimo mangiatalpe potesse colpirla. Ma non era alta abbastanza, e il movimento di quegli arti irregolari non la minacciava.
Arrivò davanti alla grotta con passi attenti ma rapidissimi.
Sentiva delle urla provenienti dal villaggio, mentre i timori si tramutavano ormai definitivamente in panico. Avrebbe voluto il potere degli dei, per mettere fine a questa angoscia. Avrebbe voluto il conforto di parole sagge, la voce dimenticata del padre, l’abbraccio di un genitore, una risposta nitida per se e per il suo popolo. E probabilmente non era lontana dalle risposte.
La bocca di pietra era a distanza di braccio, del tutto chiusa, ormai. Solo un esserino gracile come lei avrebbe potuto inserirsi in quella fessura buia senza restarne lacerato a morte. E lei riuscì a piegarsi come uno scoiattolo del bosco di granito, intrufolandosi in quella sinistra scanalatura con pochi agili movimenti del busto e delle braccia.
“Non ti faranno del male, perché qui nessuno muore mai,” aveva scritto Modi. Così fu, almeno per quella volta. Anche le orribili creature facevano parte di un disegno. E a suffragare questa sensazione, l’ultimo mangiatalpe attese che Daalada avesse attraversato quel varco striminzito prima di riporre le ultime pietre e chiudere del tutto la bocca di pietra. La stavano aspettando, dunque.
Il buio pesto la avvolse. Si lasciò alle spalle la luce e i suoni del mondo e iniziò la lunga ma rapidissima discesa verso il silenzioso cuore di Jiya.

- Vigila. Protegge. Muove. Cominci a ricordare, DeurudT'ah?
- No – rispose il servo, innervosito.
- Vigila. Protegge. Muove. Spaventa. Nutre…
- cavolo, basta con queste stranezze. Io sono un giovane servo, sono un oereatano, non ho altro nome se non quello impostomi il giorno in cui sono stato acquistato. Non ho blasoni e cariche e origini che mi rendano degno della desinenza nobiliare, ho solo sulle braccia i segni dell’oro e delle pietre di Styma e le falangi scheggiate dai minerali che ho scavato per anni. Non ubriacarmi con queste cantilene, vecchio.
- E’ buffo che tu chiami me vecchio.
La risposta di Dua fu l’ennesimo grugnito interrogativo.
- E’ buffo. La prima volta che ti incontrai eri sul tuo letto di morte, prosciugato e raggrinzito come una mummia, incapace di parlare, ridotto a supplicarci di salvare il tuo mondo e la tua famiglia. Eri malridotto ma eri pur sempre tu, il fiero Signore di Jiya, nobile costruttore delle Torri Alte e detentore per diritto del blasone del falco, monaco di Dera, traduttore del libro omesso di Uka, e sposo di KoiedisT'ah, la sola erede accertata alle Pietre di Tolah e sacerdotessa delle Coniche d’ambra.
Lo stupore sul volto di Dua rasentava lo sdegno. Se avesse incontrato un matto farneticante simile a questo per le strade dei villaggi non si sarebbe neppure fermato ad ascoltarlo. Ma la situazione era anomala, e in mezzo a tanta assurdità qualcosa sembrava avere un senso.
- La tua Signora morì dopo aver partorito la vostra terza figlia, prima che Validia divenisse un’isola, mentre il male iniziava a diffondersi. Fu una delle prime vittime del morbo proveniente dal continente. Seguì la morte della bambina, e della maggior parte degli infanti di Jiya.
- Io avrei avuto una figlia?
- Come ti ho detto, il tuo arrivo qui non era previsto. Non mi vergogno a dire che è stato un errore. Ma per fortuna colui che Vigila ha adempiuto come sempre al suo compito, avvertendomi in tempo affinché io potessi essere presente e spiegarti. Che sia, allora. – Fece una breve pausa. Per la prima volta sembrò che gli servisse del tempo per trovare le parole adatte. - La tua sposa ti ha donato tre figlie, di cui due ancora in vita. Coloro che ti chiamano schiavo da quelli che ti sembrano 7 anni, ma sono un’eternità.
- Le padroncine…
- Tu sei il padre delle due bambine, il marito di KoiedisT'ah, il padrone nella casa in cui servi, il Signore di questo posto, DeurudT'ah. Sei quanto più distante da un schiavo si possa descrivere.
- Ma io ho solo… - guardò le sue braccia, magre e grigie come quelle di un qualunque oereatano. Dovette stringere i pugni per non urlare in un impeto di rabbia e disorientamento
- Tu hai solo salvato il tuo mondo agonizzante chiamandoci in tuo aiuto, dopo un regno di due secoli ti sei sacrificato per loro. Come avresti potuto arrivare fin qui senza perderti o morire? La conoscenza ti è stata rubata per evitarti la follia, ma conoscevi la strada fino a questo luogo, DeurudT'ah, sapevi ogni cosa, dentro di te. Come potresti, altrimenti, leggere questo?
Il vecchio indicò la lunga sequenza di segni incisi alla base del grande disegno del quadrato inscritto nel cerchio. Fino ad un attimo prima era un guazzabuglio incomprensibile di linee e curve stilizzate. Adesso, un oereatano analfabeta che a stento sapeva pronunciare i nomi delle sue padrone, riusciva a leggere l’antica lingua di Uka.
Alcuni versi in rima alternata narravano una storia, in un linguaggio alto e intraducibile, che però nella mente di Dua si componeva con assoluta naturalezza in una serie immagini limpide ed estremamente dolorose.
Il Signore di Jiya che recava i suoi doni al tempio e il popolo di Jiya decimato da una orribile malattia.
Il Signore di Jiya ai piedi del letto di morte della sua sposa e di seguito il suo percorso nel pianto e le sue mani che distruggono il tempio di Gaoma e le statue di Uka.
Il Signore di Jiya che seppellisce la moglie e la figlia, accompagnato dalle altre due bambine vestite a lutto.
Il Signore di Jiya sulla piana di uranio, che supplica le stelle, come indicato sul libro omesso, distruggendo il suo corpo nel contatto con la terra tossica.
Ormai Dua lo schiavo, DeurudT'ah il Signore di Jiya, leggeva con difficoltà solo perché i suoi occhi erano inondati di lacrime. Con un linguaggio distaccato e prosaico, quella triste epopea si chiudeva con la narrazione della Discesa. La discesa di un dio mosso da pietà o semplicemente costretto dal volere del cosmo (concetti che in Lamiano antico si esprimevano con la stessa parola). La luce dell’ingegno, l’intelletto di Uka concesso al mondo, che in risposta alle preghiere del Signore di Jiya amputò la terra di Validia, come un’appendice strappata da un intestino irreparabilmente malato e destinato alla cancrena, circondandola con un mare gelido e velenoso, affinché nessuno desiderasse o persino immaginasse di attraversarlo.
- Abbiamo fatto un buon lavoro, non credi? Nessuno ricorda cosa ci fosse prima. Abbiamo lavato le loro menti dall’orrore, abbiamo cancellato la morte, fermato le malattie e l’invecchiamento. Abbiamo sospeso il loro tempo, li abbiamo tenuti in vita.
- Abbiamo? – singhiozzò Dua.
- Io sono opera tua, tu mi hai chiamato, il tuo desiderio di vita mi ha generato, mi ha portato qui. – Adesso parlava in Lamiano, e nella lingua antica questi verbi erano perfetti sinonimi. - Vuoi forse rinnegare un tuo merito? Fosti tu ad implorarmi, più volte, ricordi? E il tuo sacrificio mi portò qui.
- No, non ricordo. O forse sì. Ma io sono vecchio, mi sono ammalato, sono morto da tanto tempo. – Fece una pausa che il suo strano interlocutore purtroppo non riempì. – Se il mio è stato un sacrificio… Sono morto, vero? Cos’è questo corpo allora?
- Il tuo mondo era destinato a morire. Temevi di perdere anche le tue figlie, la tua gente. La tua vita non aveva importanza, per questo sei sempre stato un grande uomo, il miglior sovrano che potesse avere il tuo popolo. Hai implorato salvezza, ma come hai imparato traducendo il libro omesso di Uka, aldilà del confine abbiamo molta conoscenza, ma scarse possibilità di ingerenza nel vostro mondo. Ho consumato tutta la mia luce per isolare la tua terra e preservarla. Mi è stato concesso di comandare il mare e la terra e strapparla dal cancro. Ma per i secoli a seguire, non c’era altro che potessi fare, da solo. Avevo bisogno di voi per tenere in vita i residui del vostro mondo.
Indicò nuovamente il disegno sulla parte di roccia.
- Cinque di voi. Per vigilare, proteggere, muovere, spaventare, nutrire.
- E’ persino più delirante del Salmo di Lad nei testi di Uka. – mormorò. Improvvisamente ricordò tantissime delle cose imparate nella sua vita da Signore e letterato, anche se la sensazione che lo pervadeva era ormai di pura follia - Cinque miseri uomini sacrificati ad una vita nelle tenebre al fianco di un autentico dio in un simile opera? Come possono…
- Miseri uomini? Autentico dio? Forse dovresti rivalutare ogni cosa a dare a ciascuno il peso che merita, DeurudT'ah.
- Io ho voluto la salvezza del mio popolo ma ero ormai inquinato e moribondo, giusto? – Alcune cose cominciavano a mettersi in ordine, per quanto fossero inconcepibili. – Non ero abbastanza… in salute… in forze… per entrare a far parte dei cinque che avrebbero retto il mondo dalle viscere della terra… Sono morto. Come spieghi questo mio corpo, allora, se dici di non essere un dio?
- Hai supplicato di restare qui, eroe di Jiya. Hai supplicato di poter restare vicino alle tue figlie. Il tuo amore era infinito ed eterno, a differenza del tuo corpo.
- E mi hai donato questo corpo di oereatano, e i ricordi di questa vita, per una finzione che dura da due decenni?
- Tu mi hai chiamato, DeurudT'ah, mi hai generato. Io sono opera tua, come tu sei opera mia.

Daalada scivolò su una superficie dura e viscosa. Ebbe l’impressione di andare in frantumi atterrando su ciò che al buio le sembrò ghiaccio riscaldato. A un tratto sotto i suoi piedi venne a mancare qualsiasi appoggio, e qualsiasi appiglio alle sue mani. Precipitò in verticale lanciando un urlo stridulo.
Ebbe appena il tempo di pensare che a quella velocità non sarebbe sopravvissuta ad un altro impatto, quando il suo corpicino sfondò una sorta di membrana tiepida. Il suono fu quello di un tessuto morbido che si strappa. Poi continuò a precipitare, e la caduta fu appena smorzata da un’altra membrana più consistente. E poi un’altra e un’altra ancora.
Poi in caduta libera fino ad attraversare uno specchio d’acqua a temperatura corporea. Fu un tuffo per nulla brusco. L’acqua calda l’avvolse in un abbraccio gradevole nel quale si sciolse coordinandosi spontaneamente in un nuoto elegantissimo. Riemerse e prese fiato, trovandosi al centro di un enorme pozzo appena illuminato da una luce verde di cui non vedeva la sorgente.
La parete del pozzo era certamente nera, anche se quel bagliore la faceva risplendere come se fosse costellata di pietre preziose.
Tenendosi a galla con movimenti aggraziati, alzò gli occhi cercando di capire da quale altezza fosse precipitata. Una strana piattaforma grigia per un attimo le sembrò sospesa a mezz’aria. Qualcosa o qualcuno si muoveva lentamente lassù, ansimando.
La piattaforma non era sospesa. Daalada si spostò verso la parete del pozzo per guardare meglio. Sottili tubi lucenti, ficcati nella roccia come lunghissimi chiodi, la sostenevano. E su di essa una struttura fatto dello stesso fulgido metallo. Era pulito, lucido, così diverso dal metallo delle spade e delle lance sorrette dalle guardie al villaggio.
E a muoversi lassù era un uomo decrepito, adesso che aveva asciugato meglio gli occhi riusciva a distinguerlo bene. Grugniva e ansimava sforzandosi di spostare una specie di gigantesca leva, mentre con un piede teneva fermo un altro strano ingranaggio. Chissà da quanto tempo era occupato in quest’inutile lavoro. Dopo ogni suo sforzo, un rumore breve e intensissimo colpiva le orecchie di Daalada quasi stordendola.
Non poteva riconoscere quei suoni e quello strano materiale rilucente. Ben pochi a Jiya ne avevano sentito parlare. Nessuno, probabilmente, aveva mai visto una macchina.
Attraverso un ingresso privilegiato, la piccola Daalada aveva raggiunto il centro di tutto. Il cuore di quel piccolo mondo incantato, il punto centrale del disegno ancora misterioso che sovrastava il testo in Lamiano antico in un anfratto non distante da lì.
La schiena nuda dell’uomo si inarcò e il suo sforzo immane finalmente produsse qualcosa. La leva si spostò con un suono violentissimo.
L’acqua si mosse sotto di lei e improvvisamente stare a galla le risultò difficilissimo. Sotto di lei qualcosa di gigantesco iniziò a turbinare generando una corrente fortissima che l’avrebbe annegata in pochi istanti, se non si fosse aggrappata ai gradini che qualcuno aveva scavato nella roccia. Corse su per quella scala malagevole come un roditore terrorizzato.
Il motore che teneva in vita il mondo si era riacceso, e con lui la vibrazione e il suono abissale che tutti da sempre immaginavano associato al respiro della terra.
Daalada aveva visto tutto, eccitata e sconvolta al contempo. Era il nucleo del mondo, il baricentro del quadrato.
Colui che Muove.

[CONTINUA...]



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MessaggioInviato: 16/06/2011, 12:57 
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Messaggio di nemesis-gt


Il misterioso "ronzio" che tormenta un villaggio inglese

Il «ronzio» è tornato. Il misterioso rumore, registrato da decenni in varie parti del globo, si è rifatto sentire, questa volta nel minuscolo villaggio di Woodland, contea di Durham in Inghilterra, come fa notare la anche la seriosa BBC. I 300 abitanti affermano che da due mesi, ogni notte, un suono simile a quello di un motore diesel li tiene svegli. A volte, tremano addirittura i mobili. Ma non sono i primi a denunciarne l'esistenza. La lunga storia dei rumori misteriosi è piena di episodi inspiegabili, con una sola certezza non si tratta di acufene, un disturbo della capacità uditiva e consiste nella percezione di rumori, suoni fastidiosi, talvolta sottili fischi o ronzii. Ma allora esiste una spiegazione?

All'inizio è comparso a Bristol, sempre in Inghilterra, negli anni Settanta, e non ha mai smesso, tanto che un residente, esasperato, si è ucciso nel 1996. L'episodio più famoso resta quello di Taos, nel New Mexico: cominciato nel 1991, dura ancora. Un'indagine del 1994 ha dimostrato che il ronzio era udibile solo dall'11% della popolazione. A Largs, in Scozia, è cominciato negli anni '90, e ha raggiunto elevati livelli di intensità, tanto da provocare a volte epistassi e nausea. Le cause degli episodi di ronzio rimangono tutt'oggi ignote, nonostante numerose ricerche scientifiche. Non c'entra come detto prima l'acufene, il disturbo che fa percepire strani rumori nelle orecchie: tutti, visitati anche da medici, concordano che è esterno, proviene da fuori e non da dentro la testa. Non è un rumore causato da fabbriche, generatori o macchinari. Il mondo scientifico non si è ancora pronunciato sulle cause del fenomeno, e il ronzio resta solo un mistero. Tanto da essere anche menzionato in un episodio di X-File.

http://www.ufoonline.it/2011/06/15/il-m ... o-inglese/


E' abbastanza inquietante il fatto che pur esistendo diversi tipi di rilevatori acustici (di cui alcuni altamente sofisticati), non si riesca neppure a dare una direzione al ... "rumore".

Sempre se di rumore si tratta.
Ma a quanto pare dovrebbe essere una cosa reale, estrerna, non dettata da patologie personali (anche di massa).

Se rumore è, deve esserci una fonte.
Possibile che le strumentazioni non rilevino neppure la direzione di provenienza?
La cosa è assai inquietante. [V]


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MessaggioInviato: 16/06/2011, 14:55 
Per il fatto che non tutti lo percepiscono posso ipotizzare che si tratti di una frequenza al limite dell'udibile e quindi normalmente non tutti riescono a percepire l'intero spettro della frequenza udibile dall'uomo.



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MessaggioInviato: 16/06/2011, 23:20 
Se è suono di frequenza molto bassa,è impossibile decifrarne la provenienza.L'aria nelle strade vibra all'unisono e le oscillazioni fluttuano da una parte all'altra,come tuoni che arrivano in città pur essendosi originati a 20 km di distanza.
Per captare l'origine della vibrazione,servirebbe una tromba esponenziale larga parecchie decine di metri,e orientabile a 360°:credo che l'attuale difficoltà di rilevamento sia imputabile principalmente alla lunghezza d'onda,che è di parecchi decametri.Tutto si complica poi se, oltre all'aria....vibra anche il terreno.



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MessaggioInviato: 17/06/2011, 16:27 
Cita:
un suono simile a quello di un motore diesel li tiene svegli

[:0] [:0]
Cari amici, ho letto bene solo oggi! [V]
Alcuni anni fa nel condominio dove abitavo prima di sposarmi, c'era lo stesso rumore, io lo percepivo come di un camion , con il motore acceso , fermo in folle. Non si è mai riusciti a trovare la causa,anche se il vicino la attribuiva alla caldaia del mio appartamento (che affitto)
Ma avendo spento tutto, il rumore sussisteva, e dal suo appartamento
sembrava "esterno" come dice l'articolo.
Al momento pare che non si manifesti più con quei toni.
Vedrò tuttavia di informarmi.
ciao
mauro



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MessaggioInviato: 17/06/2011, 21:44 
Cita:
mauro ha scritto:

Cita:
un suono simile a quello di un motore diesel li tiene svegli

[:0] [:0]
Cari amici, ho letto bene solo oggi! [V]
Alcuni anni fa nel condominio dove abitavo prima di sposarmi, c'era lo stesso rumore, io lo percepivo come di un camion , con il motore acceso , fermo in folle. Non si è mai riusciti a trovare la causa,anche se il vicino la attribuiva alla caldaia del mio appartamento (che affitto)
Ma avendo spento tutto, il rumore sussisteva, e dal suo appartamento
sembrava "esterno" come dice l'articolo.
Al momento pare che non si manifesti più con quei toni.
Vedrò tuttavia di informarmi.
ciao
mauro



Per mia personale esperienza direi che assomiglia al rumore di un generatore, ma che funziona all'aperto, non in uno stanzino.
Cinque anni fà solo con l'orecchio destro ho iniziato a percepire questo ronzio forte che proveniva da una precisa direzione; dopo alcune ore, abituata al silenzio dei miei luoghi, un pò infastidita da questo rumore ho pensato "ma chi è che usa un generatore x tante ore " e poi ho continuato a fare le mie cose e non ci ho dato peso.
Il giorno dopo, di mattino presto esco e sento sempre lo stesso ronzio, mi indispettisco un pò e decido di andare a vedere chi è che usa un generatore in mezzo al bosco. Ho camminato per almeno due ore girando attorno al rumore ma non trovando la provenienza, in quel bosco non ci sono ne abitazioni ne ruderi eppure io il rumore l'ho percepito chiaramente e gli ho girato attorno senza riuscire a vedere niente di fisico che lo produceva.
Se entravo in casa non sentivo più niente ma appena uscivo lo percepivo nettamente e c'era sia di giorno che di notte, praticamente sempre.
Purtroppo abito in un paese dove siamo 20 persone in tutto ed altre tre un pò più giovani alle quali ho chiesto se sentivano il rumore provenire dal bosco, mi hanno detto che non sentivano niente :((
Il fatto è andato avanti per più di 70 giorni (ho segnato sul calendario), poi un mattino non si è più sentito.
Non sono andata da un otorino xchè il ronzio era esterno a me, non lo sentivo se entravo in casa e se gli andavo incontro mi accorgevo quando lo superavo perchè cambiava la direzione.
Ho sempre pensato dopo un pò di giorni che fosse anche questo rumore da mettere nei ricordi come le altre cose non usuali che mi capitano. [:I]



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MessaggioInviato: 21/06/2011, 01:39 
L'uomo può sentire dai 16Hz ai 20mila Hz.

Solitamente dai 20 hz ai 20khz.

Presumo che la vibrazione sia tra i 16 e i 20 hz.



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