Falliti Bersani e la litania delle "dimissioni". Dopo la figuraccia di ieri deve darle lui!
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18,44 KBSbaglia la scelta dell'Aventino, si fa fregare dai radicali e straparla di patrimoniale. Più che un leader, è pronto per la pensione
Quando ieri mattina Pier Luigi Bersani è sceso nel cortile di Montecitorio i suoi erano appesi al monitor che lentamente faceva scorrere la chiama dei deputati. C’era ancora la sensazione che Silvio Berlusconi non riuscisse a raggiungere la fatidica quota 315 e che quindi il governo potesse cadere per la mancanza di numero legale grazie alla grande idea di Dario Franceschini di disertare l’appello al voto. Solo un’ora prima c’era grande allegria fra quelle fila. Non che fossero pronte bottiglie di champagne da stappare, perché un pizzico di scaramanzia ci vuole pure. Giovanna Melandri però era raggiante e dispensava a tutti sorrisoni. Valter Veltroni infilava una battuta dietro l’altra davanti a Enrico Mentana e Aldo Cazzullo, prima di intristirsi in un interminabile colloquio con Curzio Maltese. Velina rossa si aggirava pronto a fare scommesse e decantando un regolamento della Camera che esisteva solo nella sua fantasia: “se alla prima chiama non sono 315, il governo cade. Ci siamo”.
Bersani al solito era più prudente e sempre serio. Gli si è avvicinato Giuseppe Fioroni sibilandogli: «Disilluditi. Sono 317». Mentre il voto continuava, il segretario del Pd chiedeva lumi a una vecchia volpe del Palazzo come Ugo Sposetti. Anche lui scettico. È stato in quel momento che la voce di Gianfranco Fini ha chiamato “Beltrandi...”. E Marco Beltrandi, capofila della pattuglia radicale, ha votato. “Nooo”, si è alzato un urlo dal gruppetto di deputati pd seduti davanti al monitor in cortile presidiato dall’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano. Rosa Villecco Calipari è sbottata: «Eccoli, lo sapevo! I soliti radicali!!!». Franceschini, l’inventore della grande idea che in quel momento stava diventando una terribile frittata, si è dileguato da una porta secondaria. Bersani è schizzato via come un missile entrando in Transatlantico per capire con il sigaro ancora acceso.
Un deputato del gruppeto Pd ha alzato le braccia al cielo, imprecando sboccato: «Ecco, la nostra solita idea del c... E alla fine quello lì ce l’ha messa in c...». A quel punto Bersani è tornato olimpico come se la doccia fredda non riguardasse lui, ma chi nel partito da qualche settimana gli sta preparando la festa. Rosy Bindi aveva appena dato degli «stronzi» ai radicali. Lui invece minimizzava come fanno i leader in ritirata: «Ma, no. Mi sono informato, non sono stati decisivi. Credo che fossero in missione tre. Quando il primo radicale ha votato, il numero legale era già stato raggiunto, non è colpa loro...». Brutta batosta, eh? «Mah... Perché quella sarebbe una grande vittoria? Una fiducia ottenuta così, perdendo pezzi? Ragazzi... qui non stiamo mica a... Sta andando a pezzi il paese». Un po’ Bersani, un po’ la sua controfigura inventata da Crozza, da cui ormai il leader Pd sembra ipnotizzato come in una singolare sindrome di Stoccolma. Però ormai è sempre più chiaro un suo sdoppiamento della personalità. Da mesi il Bersani di guerra che appare nelle piazze e che in pubblico si dà un tono per stare alla pari con i Vendola e i Di Pietro è assai distante da quello che incontri faccia a faccia come è capitato ieri. In privato fa il preoccupato, dice che è stato a Palermo e che lì fra comune, società partecipate e università la situazione è drammatica: «Rischiano il posto in 10 mila... Dieci mila, capito? E mica parliamo di noccioline...». Disegna quadri da tregenda, che portano perfino a duemila anni fa: «Qui come nel resto del mondo la guerra vera è fra debitori e prenditori. Allora come accadeva nell’antica Roma verrà uno e farà la sua campagna elettorale dicendo: vi condono tutti i debiti! E sarà un plebiscito...». Non sembra certo un autoritratto, anzi. Bersani ormai parla da predestinato alla sconfitta. Scandisce lento le parole, sembra perfino triste anche quando sorride ironico. Ne tira fuori un’altra da harakiri: «Tremonti non fa un’analisi errata di quello che è l’Italia. Vero che abbiamo un grande debito pubblico e una grande ricchezza privata. Ma lui non tira le conseguenze che bisognerebbe. E allora? Bisogna andare a prendere quella grande ricchezza privata e portarla dall’altra, a ridurre il debito pubblico». La patrimonialona, che è l’unica strada immaginata dal leader del Pd. Gli ricordo un’alternativa che inventò Giuseppe Guarino nel 1992: la grande holding di Stato per riunire tutto, beni mobili e immobili per privatizzare, prima facendo uno scambio fra quel capitale patrimonializzato e titoli del debito pubblico: sarebbe socialmente più accettabile. Guarda un po’ stranito: «Eh, già, tutto è nato in quel 1992». Niente da fare, sembra il profeta di una frana. Bisogna capirlo: il 14 dicembre è stato il giorno della frana di Fini. Il 14 ottobre dell’anno dopo sarà ricordato come il giorno della frana di Bersani. Allora tutti chiesero le dimissioni di Fini. Oggi bisognerebbe chiederle al leader triste del Pd.
Ma sarebbe uno sgolarsi inutile. Tanto le dimissioni gliele chiederanno i suoi. Anzi, lo hanno già dimissionato un po’ giorno dopo giorno. Azzoppato da Penati. Sbocconcellato dai morsi referendari di Parisi. Sfiancato dagli ex democristiani di Fioroni. Sgambettato da Veltroni e Franceschini, che non possono più vedersi eppure uniti riescono ancora a colpire insieme. Invochiamo anche noi le sue dimissioni, come lui da mesi fa con Berlusconi? Ma sì. Anche se il leader azzurro inevitabilmente al tramonto dopo il suo ventennio sembra poggiare su blocchi di granito rispetto a quel politico con sigaro che sembra l’imitazione di Crozza...
di Franco Bechis
http://www.libero-news.it/news/845574/F ... e-lui.html