Miliardi di appalti saltati e, soprattutto, tonnellate di petrolio.
L'Italia è il primo Paese dell'Ue per interessi economici nella Libia occupata dall'Isis. In tre anni di guerra fratricida, l'ambasciata e il colosso statale dell'Eni hanno resistito nelle terre dell'ex colonie, forti di protezione anche tra le milizie più islamiste.
Dagli idrocarburi, la Banca centrale libica continuava a incassare proventi che facevano il 70% del Pil (Prodotto interno lordo) nazionale, redistribuendoli in stipendi.
PIL UGUALE PETROLIO. Prima della rivoluzione del 2011, gli 1,6 milioni di barili al giorno fruttavano il 96% di entrate governative.
Il ministero libico del Petrolio era un monolite, come il quartier generale del Cane a sei zampe di Mellitah, complesso in joint venture con la compagnia statale libica (Noc) a un centinaio di chilometri a Ovest di Tripoli.
Ancora dopo il picco della caduta di Muammar Gheddafi, nel 2012 la produzione da idrocarburi tornò rapidamente quasi ai livelli pre-crisi, con circa 1,4 milioni di barili al giorno; oleodotti e banche ripresero a funzionare.
CON L'ISIS LA MUSICA CAMBIA. Le bombe della guerra tra fazioni iniziarono a colpire, a catena, le sedi diplomatiche straniera ma non quelle italiane.
Nessuna milizia attentava agli oleodotti del Noc, men che meno ai primi produttori e importatori stranieri (fino al 2010 dalla Libia partiva circa il 25% dell'import petrolifero italiano): conservare l'olio nero e le buone relazioni era nell'interesse di ogni clan e di ogni tribù.
Con l'Isis, però, la musica è radicalmente cambiata.
Con il Califfato nessuno è più al sicuro L'autobomba del 27 gennaio all'hotel Corinthia di Tripoli (10 morti, la metà stranieri) ha segnato una cesura.
Nessuno era più sicuro. Nella capitale, gli islamisti al governo non riuscivano più a proteggere l'albergo più lussuoso e affollato di personalità, incluso il loro premier.
Di parente in parente, le tribù sunnite hanno preso ad allinearsi al cartello dello Stato islamico e dal bastione di Derna, l'Isis è avanzato fino a Sirte, verso Misurata e Tripoli, evidentemente infiltrate.
A Bengasi, seconda città del Paese, i jihadisti di Ansar al Sharia - alleati con gli islamisti di Tripoli e Misurata - hanno giurato fedeltà al califfo al Baghdadi. E, parallelamente, sono scattati i primi attentati in grande stile agli oleodotti e ai campi petroliferi.
BOMBE NEI GIACIMENTI. Finora non nei giacimenti dell'Eni. Ma il segnale, anche per gli italiani, è inequivocabile. L'Isis vuole essere padrone delle prime riserve petrolifere (circa 48 miliardi di barili) d'Africa e decime al mondo.
Dopo l'attacco, il 4 febbraio, al giacimento di Mabrook della francese Total con Noc (13 morti, tra i quali cinque stranieri), una bomba ha fatto saltare l'oleodotto che collega il primo giacimento del Paese - el Sarir, in Cirenaica, della sussidiaria libica che ha in mano due terzi della produzione nazionale - al terminale portuale di Hariga.
Il sabotaggio, non rivendicato, è stato rapidamente riparato. Ma l'ultimo messaggio di propaganda dell'Isis contro gli «Stati crociati» è stato un fotomontaggio dell'impianto Eni di Mellitah, accanto al Colosseo, entrambi sventolanti bandiere nere.
ENI, FUGA OFFSHORE. La compagnia petrolifera libica ha annunciato il blocco di tutte le estrazioni, in caso di altri attentati. E come l'ambasciata italiana, il Cane a sei zampe ha portato tutti gli espatriati via dalla terraferma: i connazionali lavorano solo negli impianti offshore.
«L'estrazione prosegue, senza flessioni, ai livelli di fine 2014: tra i 240 mila e, nelle ultime settimane, i 300 mila barili al giorno», confermano a Lettera43.it dall'Eni, «ma come ha dichiarato l'amministratore delegato Claudio Decalzi, la priorità è la sicurezza del nostro personale».
Secondo Renzi «l'Italia è in grado di intervenire» per difendere gli impianti
Bloccato el Sarir, la produzione libica è precipitata a 200 mila barili al giorno, un ottavo dei livelli del 2010, soto alla media dei 500 mila barili di fine 2014.
Per difendere impianti petroliferi, aziende ferme e investimenti, prima che l'Isis controlli tutto il Paese, il premier Matteo Renzi ha detto che «l'Italia è in grado di intervenire».
Negli Anni 50, in Libia fu l'Eni a strutturare la Compagnia nazionale Noc. Mezzo secolo dopo, a livello di impianti, il Cane a sei zampe coltiva estrazioni di petrolio e gas in sei grandi aree in concessione dell'ex colonia.
Oltre a Mellitah, sulla terraferma operano - ma con personale non più italiano - i pozzi nel deserto della Tripolitania al confine con Tunisia e Algeria, di Wafa ed Elephant , in aggiunta agli impianti offshore di Bahr Essalam e Bouri. È invece chiuso dal 2013 il giacimento Eni di Abu Attifel, nella Cirenaica controllata dai jihadisti.
CONTRATTI FINO AL 2042. «Contratti in essere», precisano da San Donato, «che hanno durata fino al 2042 per il petrolio e a olio e fino al 2047 per gas». Tutti i siti sono al momento protetti e non danneggiati. Ma dal 2010, secondo i dati dell’Istituto per il commercio con l’estero (Ice), l'interscambio commerciale tra Italia e Libia è franato dai 15 ai 10 miliardi di euro. E ora l'Isis rischia di mandare in fumo almeno un altro miliardo.
LE AZIENDE SONO FERME. Petrolio escluso, le aziende italiane in Libia sono ferme. Le centinaia di piccole e medie imprese pronte a investire nel post Gheddafi hanno fatto dietrofront e sono saltati i 5 miliardi di appalti del trattato del 2008, di «amicizia eterna» tra il rais e Silvio Berlusconi.
Dall'autostrada dalla Tunisia all'Egitto per Salini-Impregilo, alla cooperazione aerospaziale con Finmeccanica tutto è bloccato: pure la maxi commessa dell’Aviazione civile italiana (Enav) firmata nel 2012 con i ribelli, per formare 140 controllori del traffico aereo negli scali libici poi assaltati.
CACCIA AL GREENSTREAM. Guai non solo italiani però. Se l'Isis prende il gasdotto Greenstream, da Mellitah a Gela saltano le principali forniture per il Vecchio Continente. Il serpentone sottomarino per il quale, nel 2004, l'Eni ha speso 7 miliardi di euro è un'infrastruttura legale al contrario delle reti di pipeline ai confini settentrionali di Siria e Iraq.
Contrabbandare petrolio nel Mediterraneo è molto più difficile che in Medio Oriente. Ma da anni il Greenstream è conteso, all'ultimo sangue, tra le milizie rivali di Zintan e Misurata.
«L'Isis in Libia rappresenta un rischio reale», ha ammonito, da Bruxelles, l'Alto rappresentante per la Politica estera Ue Federica Mogherini.