Cina: dopo la bolla immobiliare ora potrebbe scoppiare la Borsa

(Il Ghirlandaio) Roma, 3 lug. - “Una crisi – diceva il grande economista Rudi Dornbusch – impiega molto più tempo ad arrivare di quanto tu pensi, ma poi accade molto più in fretta di quanto avresti pensato.” Per capire che si tratta di parole sagge, basta osservare quel che accade in questi giorni alla Borsa di Shanghai. Da mesi si susseguivano gli ammonimenti sul fatto che un mercato salito del 110% in un anno, in un’economia in rallentamento, con i profitti societari in calo, fosse in uno stato di “bolla” conclamata. Le valutazioni, arrivate a superare un multiplo di 70 volte gli utili, avevano perso qualsiasi aggancio con i fondamentali, finendo in balia delle euforiche emozioni di investitori trasformatisi in scommettitori da casinò.
Poco contava per i 90 milioni di piccoli risparmiatori – molti di loro con scarsa istruzione e nessuna esperienza finanziaria - buttatisi a capofitto nel più lungo ed esaltante “mercato del toro” che la Borsa cinese abbia mai conosciuto. Sui “microblog” in cui vengono scambiati consigli e vantati trionfi, abbondavano i racconti di chi, in pochi giorni, era riuscito a guadagnare tanto da acquistare un’agognata Audi. Questo fino a metà giugno. Da allora il mercato ha invertito bruscamente rotta, entrando a rotta di collo in una fase “orso”, ossia ribassista, dopo aver accumulato in poche sedute perdite superiori al 20%.
La capitalizzazione andata in fumo, in appena due settimane, supera il miliardo di euro – il che equivale all’intero valore del Dax, l’indice delle 30 blue chip tedesche. La volatilità, nel frattempo, è salita alle stelle. Si susseguono sedute in cui la variazione media dei prezzi supera il 5%, per lo più al ribasso. E si toccano estremi come quello di lunedì scorso, quando un mercato disorientato e fragile ha oscillato in poche ore tra un + 3% e un – 7%.
Mercato fuori controllo, autorità nel panico
Per un paese come la Cina, dove tutto risponde alla volontà del governo, e dove la Banca centrale è nota agli investitori col titolo protettivo di “mamma centrale”, l’impressione sconvolgente di questi giorni è che il mercato sia fuori controllo. Il crollo, a metà giugno, è stato innescato dal tentativo delle autorità di riportare un po’ d’ordine nell’esplosiva espansione del credito, finalizzato all’acquisto di azioni, da parte di operatori “ombra” non regolamentati: una giungla di siti online P2P, fondi strutturati, “umbrella trust” e altri esotici canali attraverso cui – secondo stime riportate da Bloomberg – sarebbero stati erogati finanziamenti per quasi duemila miliardi di yuan, ossia 300 miliardi di euro, con tassi che superano il 20% annuo ma quasi nessun vincolo.
La risposta del mercato, a mano a mano che la valanga di movimenti ribassisti andava ingrossandosi senza dar cenno di arrestarsi, ha evidentemente prima sorpreso e poi impaurito le autorità, che a partire dallo scorso fine settimana sono passate al contrattacco. La Banca centrale ha ridotto i tassi d’interesse, portandoli al minimo storico del 4,85%. E un ampio pacchetto di misure a sostegno dei corsi di Borsa è stato annunciato: i fondi pensione potranno investire fino al 30% dei loro asset in azioni, le commissioni applicate dai broker saranno ridotte di un terzo e le offerte iniziali di acquisto (Ipo) potrebbero essere congelate. Infine i limiti imposti ai broker per i finanziamenti con margine, ossia per l’acquisto di azioni a credito, saranno allentati.
È quest’ultima misura, in particolare, che – a giudizio di molti analisti – dà l’idea del panico diffusosi tra le autorità. Se il mercato è così instabile, la ragione prima sta proprio nell’esplosione degli acquisti a credito, moltiplicatisi di nove volte negli ultimi due anni. Come ha notato sul Financial Times Gavyn Davies, ex partner di Goldman Sachs ed hedge funder, il margin trading, ovvero il trading con leva finanziaria, è pari all’8% della capitalizzazione del mercato cinese – un rapporto abnorme, che non ha precedenti. Operare con leva consente di moltiplicare i guadagni quando gli indici salgono, ma moltiplica le perdite quando scendono. È dunque una modalità di investimento particolarmente rischiosa, che dovrebbe essere lasciata solo a professionisti esperti e dalle tasche profonde, ma che in Cina è stata entusiasticamente fatta propria da armate di piccoli risparmiatori inconsapevoli del pericolo. Che le autorità incoraggino ora un’ulteriore espansione del credito e una maggiore assunzione di rischi in un mercato già traboccante di eccessi pare dunque una “follia” – secondo il termine assai esplicito usato da Anat Admati, docente di finanza all’Università di Stanford.
L’ennesima bolla per sostenere una crescita drogata
D’altra parte, il governo cinese ha i suoi buoni motivi per voler scongiurare un crollo di Borsa. Il principale è che gonfiare una bolla è stato, sin dall’inizio, un obiettivo voluto. A dimostrarlo sono i ripetuti articoli apparsi, ad esempio, sul Quotidiano del Popolo, organo del Partito comunista cinese, in cui “autorevoli insider”, ovvero fonti ufficiali del partito, spiegavano nei mesi scorsi ai cinesi come a garantire la crescita economica dovessero essere i risparmi della popolazione, trasferiti attraverso il mercato azionario in investimenti “efficaci”. In altre parole, la strategia del governo è stata quella di usare i rialzi di Borsa sia per creare un “effetto ricchezza” che sostenesse i consumi in una fase di rallentamento della congiuntura, sia per finanziare un settore corporate oberato di debiti.
Per capire davvero quanto uno “sboom” di Borsa rischi di avere impatti gravi non solo sulle tasche di una marea di improvvidi investitori, ma sull’intera economia cinese, e a cascata sull’economia globale, serve fare un passo indietro, e dare uno sguardo al contesto. La Cina ha sperimentato, dallo scoppio della grande crisi finanziaria del 2008, due altre bolle: una immobiliare – che ha cominciato a sgonfiarsi nel 2012 dopo aver toccato picchi clamorosi – e una del credito, tuttora in corso. Come nota Davies, il credito totale sta crescendo quasi del 16% l’anno, e cioè a un tasso più che doppio rispetto al Pil nominale. E dati della società di consulenza McKinsey mostrano come l’indebitamento, soprattutto a carico di banche e imprese, abbia toccato livelli ormai da brivido: il debito totale, che stava nel 2000 al 121% del Pil, è salito al 158% nel 2007, per impennarsi fino al 282% nel 2014. In un’economia che continua a rallentare, è evidente come la leva creditizia si stia rivelando sempre meno efficace, mentre si accumulano sovraccapacità produttiva, investimenti infrastrutturali di dubbia redditività, crediti di dubbia esigibilità.
Quella di Borsa è dunque la terza bolla cui le autorità fanno ricorso per cercare di sostenere la crescita economica su tassi non inferiori al 7%, in presenza di una congiuntura internazionale a dir poco fiacca, e mentre cercano di far transitare la Cina da economia in via di sviluppo tutta centrata sull’export a economia a medio sviluppo più centrata sui consumi. Un crollo azionario, cumulato a quello immobiliare, in un’economia gravata da un carico di debiti sempre più oneroso, rischia di avere ricadute pesanti. E non è detto che possa essere evitato.