Trump stretto tra “amici” e nemici
Mano a mano che si avvicina il giorno del suo insediamento, Trump si trova contro un fuoco di sbarramento sempre più intenso. Non solo Meryl Streep, ma tanto star system hollywodiano si è dato all’esercizio della critica preventiva contro il tycoon, mentre il suo predecessore alla Casa Bianca, dopo aver dato rassicurazioni per un passaggio di consegne soft (avveniva all’indomani della sconfitta della signora Clinton), non perde occasione per rimarcare distanze e prendere decisioni tese a creare difficoltà al suo successore.
Non solo: anche l’intelligence americana ha dato non pochi grattacapi a Trump con la pubblicazione di un’inchiesta che darebbe conto di un’elezione falsata, la sua, a causa di un’asserita influenza russa sulla stessa. Last but not least, a complicare le notti del neopresidente la pubblicazione di un dossier in stile pecoreccio, proveniente da un agente dei servizi segreti inglesi, secondo il quale i russi avrebbero elementi scottanti sul Donald nazionale, tali da renderlo ricattabile. Un dossier invero senza capo né coda, ma “utile” a sporcare l’immagine presidenziale del tycoon.
Un fuoco di fila del quale non si vede la fine e che sembra avere il suo focus su un punto nevralgico quanto cruciale del programma elettorale del nuovo presidente, ovvero il proposito di attutire le tensioni Est-Ovest attraverso un rinnovato dialogo con la Russia di Putin. Devono averne avuto contezza gli uomini che Trump ha scelto per la sua amministrazione, dal momento che negli ultimi giorni hanno moltiplicato le dichiarazioni anti-russe: dal nuovo direttore della Cia, al ministro della Difesa, al Segretario di Stato, tutti si sono affrettati a dichiarare che la Russia resta un acerrimo nemico degli States.
Probabile che il riposizionamento degli uomini del presidente sia stato concordato, tanto che anche Trump ha un po’ smorzato il suo afflato filo-russo: un modo per tentare di calmare gli animi fin troppo esagitati dei suoi avversari, preda di una vera e propria ossessione anti-russa. Altrettanto probabile che tale riposizionamento sia solo tattico, un atto dovuto che però non dovrebbe impedire, almeno ad oggi, passi atti a riannodare il dialogo con Mosca, come da proposito iniziale. Solo in maniera meno conclamata, più sottotraccia, come si addice a simili iniziative politiche.
Resta che Trump e i suoi hanno dovuto constatare quale forza ostativa incontra l’ipotesi di un compromesso con i russi. Non solo nei loro avversari politici, ma anche nel loro stesso ambito politico. È stato infatti il senatore McCain, e non un democratico, a passare all’Fbi il dossier anti-Trump confezionato dall’intelligence inglese. McCain è uomo di connessione tra i neocon e l’apparato militar-industriale Usa: un variegato ambito politico-economico che, insieme alla grande Finanza, aveva puntato tutte le sue fiches sulla vittoria della Clinton, la quale garantiva loro quel contrasto a tutto campo nei confronti di Mosca che gli avrebbe assicurato nuove opportunità.
Orfani della Clinton, tale ambiti stanno cercando in tutti i modi di condizionare la nuova amministrazione, nel tentativo di far naufragare l’ipotesi di appeasement Est-Ovest. Possono contare su solidi rapporti negli apparati militari e della sicurezza, oltre che sull’apporto di variegati ambiti loro contigui: sono in grado, quindi, far male a Trump e ai suoi.
Diverso il caso di Obama, avversario dichiarato e visibile. Già nel discorso di fine mandato, all’inizio della campagna presidenziale, aveva dichiarato il suo proposito di restare in politica anche alla fine della presidenza (aveva infatti annunciato con certa enfasi di aver affittato casa a Washington).
Un proposito che era legato al quasi sicuro successo della Clinton, ma che, evidentemente, vuol mantenere nonostante la vittoria di Trump. Da qui l’attivismo di questi ultimi giorni e l’accentuazione della sua disposizione anti-russa, cosa che non appartiene alle sue corde né è in linea con quanto fatto durante la sua presidenza, durante la quale i rapporti con Mosca sono stati altalenanti e fondati su un mix di forza e diplomazia.
Finita l’era della Clinton, con Sanders ormai vecchio, Obama, grazie anche alla sua crescente popolarità, si sta proponendo come punto di riferimento del partito democratico. Può essere il futuro king maker del partito. Potrebbe essere cioè lui, tra quattro anni, a decidere lo sfidante di Trump. Cosa ancora più facile se tale sfidante dovesse essere l’attuale first lady Michelle. Da qui anche la necessità di porsi come oppositore acerrimo del nuovo presidente, togliendo armi e argomenti all’opposizione interna del partito repubblicano (così facendo, non volendo, fa un favore a Trump, che potrebbe accusare i suoi avversari di partito di connivenza col nemico).
Come si vede, la navigazione di Trump sarà perigliosa, stretta tra un’opposizione aperta e una più occulta e, per questo, più insidiosa. Gli sarà d’aiuto ricordare la massima: dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.
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