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IL GREEN PASS : IL GRANDE FRATELLO .
Sì, il Grande Fratello esiste già.
E divide i cinesi in buoni e cattivi[PECHINO. Liu Hu, giornalista d’inchiesta, aveva denunciato casi di corruzione tra gli alti responsabili del regime. Arrestato per «diffusione di voci infondate» nel 2013 e denunciato poi nel 2016 per un’altra vicenda, è stato condannato per «diffamazione». Ma la vera svolta avviene nella primavera del 2013, quando il 43enne reporter si accinge a prenotare un volo su Internet, e vede apparire il messaggio «acquisto non autorizzato». «Non riuscivo a capire», ricorda. Il suo nome, collegato al numero della sua carta d’identità, è stato iscritto a sua insaputa in una lista nera. Non può neppure prendere un treno ad alta velocità, né chiedere un prestito bancario o acquistare un appartamento. Liu non ha la minima idea di quanto durerà la sua messa all’indice.
Da alcuni anni si stanno sperimentando in tutta la Cina dispositivi di questo tipo, che prefigurano un vasto «sistema di reputazione sociale». Una sua prima versione, che dovrebbe essere lanciata a partire dal 2020, è finalizzata a creare una sorta di registro per suddividere i cittadini in buoni e cattivi, in base a dati informatici raccolti nei campi più diversi. Il progetto è stato presentato a Pechino come un mezzo per rafforzare il rispetto delle regole e la stabilità sociale. Ma i suoi detrattori lo vedono come l’avvento di una distopia orwelliana, un Grande Fratello che consentirà a un regime autoritario di controllare fin nei minimi dettagli la vita privata dei cinesi.
Dopo un primo progetto lanciato alla fine degli anni 1990, il perimetro di questo dispositivo si è costantemente allargato. L’obiettivo iniziale era quello di verificare la solvibilità di chi chiedeva un prestito, ma è stato poi esteso a tutti gli aspetti della società. I suoi contorni sono tuttora in via di definizione, ma a detta degli esperti e viste le sperimentazioni in corso, le informazioni dovrebbero essere raccolte non solo dai tribunali e dalla polizia, ma anche dagli uffici fiscali, dai siti di commercio elettronico e dalle reti sociali. Un documento governativo spiega che l’obiettivo è «assicurare che le persone affidabili siano ricompensate in tutti i campi, mentre chi tradisce la fiducia andrà incontro a difficoltà in ogni fase della propria esistenza» ad esempio per l’iscrizione all’università o la ricerca di un lavoro.
Come afferma con compiacimento il ricercatore Lin Junyue dell’Associazione cinese per lo sviluppo del mercato, considerato uno dei «padri» del progetto, «il sistema previsto è uno strumento efficace non solo per governare la società, ma anche per ricostruire i valori morali». A suo parere «le punizioni sono necessarie» per contrastare i problemi sociali che scuotono la Cina. Una volta completato il progetto, «saranno registrati tutti gli individui», così come le imprese e gli organismi pubblici. Ma alcuni ricercatori ritengono che tecnicamente un’impresa del genere comporterà serie difficoltà, e non solo per essere tradotta in realtà in un Paese di 1,4 miliardi di abitanti, ma anche per la sua accettazione politica. È dunque possibile che il meccanismo venga avviato a partire da una serie di liste nere.
Siamo solo agli inizi. È vero che già da decenni il Partito comunista cinese (Pcc) si intromette nella vita quotidiana dei cittadini, ma come spiega Samantha Hoffman, ricercatrice al Mercator Institute for China Studies, «oggi le nuove tecnologie gli forniscono mezzi più efficaci». Il suo principio è infatti l’azione preventiva, volta a «evitare che sorga qualsiasi problema suscettibile di minacciare il regime». Per lo storico indipendente Zhang Lifan si tratta di «una prospettiva agghiacciante»: uno «Stato di polizia», con pressioni sempre più gravi su chiunque possa creare fastidi al governo. Maya Wang di Human Rights Watch (Hrw) osserva che la creazione di gigantesche banche dati costituisce una violazione del diritto alla vita privata.
Secondo le previsioni degli esperti, le autorità cinesi, che hanno già installato più di 170 milioni di fotocamere di sorveglianza sul territorio, vorranno logicamente inserire nel progetto anche il riconoscimento facciale, creando uno scenario sempre più vicino a quello del romanzo 1984 di George Orwell. Lo affermano i media di Stato: sarà più facile bloccare qualunque individuo con l’aiuto di questa tecnologia, molto apprezzata dal regime. Sembra che in due anni il sistema di fotocamere Skynet, già installato in 16 comuni e province cinesi, abbia consentito di identificare più di 2000 ricercati. Recentemente nella città di Nanchang un fuggitivo sarebbe stato riconosciuto — con sua grandissima sorpresa — durante un concerto pop, in mezzo a una folla di 60mila persone. Nel febbraio scorso i media cinesi hanno trasmesso da Zhengzhou le immagini di alcuni poliziotti che passavano al setaccio la folla con l’aiuto di occhiali speciali, dotati di riconoscimento facciale.
Prevenire i reatiMa è nella regione di Xinjiang, ai confini dell’Asia centrale, turbata negli ultimi anni da violenze, che questa logica oltranzista ha raggiunto il parossismo. Qui, a quanto riferisce Hrw, le autorità usano un algoritmo per pronosticare futuri crimini e rinchiudere preventivamente i sospettati in centri extragiudiziari di rieducazione politica. Il mondo immaginato da Philip K. Dick e da Steven Spielberg in Minority Report, dove la polizia intercetta i criminali prima ancora che entrino in azione, starebbe dunque per diventare realtà. Nel timore di eventuali collegamenti tra «separatisti» e jihadisti, il governo attingerebbe in una vasta mole di dati: immagini girate da fotocamere di sorveglianza, movimenti bancari, dossier giuridici o informazioni raccolte da computer e smartphone. Sempre secondo Hrw, le autorità preposte avrebbero peraltro già incominciato a registrare il Dna della popolazione locale, che comprende un’importante minoranza di uiguri, un’etnia di religione musulmana.
Non è un caso che quest’idea cyber-poliziesca sia sorta proprio in Cina. Si tratta in effetti di un perfezionamento digitale del dang’an, l’archivio cartaceo detenuto dall’amministrazione, contenente le più diverse informazioni sui cittadini fin dai loro primi anni di vita (giudizi degli insegnanti, valutazioni dei datori di lavoro, eccetera). Sotto il regime di Mao Tse Tung era consultato per l’assegnazione dei posti di lavoro, e persino per autorizzare i matrimoni. Ma con lo sviluppo della mobilità interna questo sistema ha rivelato i suoi limiti, e la maggior parte delle società private non lo utilizza più.
Quanto ai “vigili volontari”, in buona parte pensionati, sono riconoscibili in genere dai loro bracciali rossi, anche se talvolta preferiscono passare inosservati. Stanno seduti sulle panchine o pattugliano le strade, osservando ogni episodio anche minimo, ogni gesto dei passanti. Queste squadre di sorveglianza, apparse verso la metà degli anni Duemila e formate da comuni cittadini che controllano a tappeto le vie di Pechino e di altre città cinesi, sono sempre più diffuse e numerose. Dall’avvento al potere di Xi Jinping, alla fine del 2012, il regime ha rafforzato il suo controllo sulla società, rilanciando la tradizione di usare «le masse» come agenti informatori. Parallelamente il governo ha ricoperto il territorio di fotocamere di sorveglianza, in parte dotate di sistemi di riconoscimento facciale. Benvenuti nel mondo del Grande Fratello!
I civili “spioni”Alla fine del 2004 la Cina ha incominciato a dispiegare a Pechino squadre di volontari incaricati di pattugliare le strade del distretto di Dongcheng. Il sistema è stato poi esteso ad altri quartieri della capitale e al resto del Paese, con una netta accelerazione in questi ultimi anni. Lo avrebbe adottato l’80% circa delle città cinesi, contro il 60% dello scorso anno e il 45% del 2015.
La capitale, divisa in più di 33mila zone, conterebbe oltre 850mila volontari incaricati della sicurezza, alcuni dei quali, a quanto si apprende dagli organi di stampa statali, percepirebbero una retribuzione mensile di 300-500 yuan (64 euro circa). Le squadre sono formate da pensionati o fattorini, piccoli artigiani o commercianti, assistiti da quadri del Partito comunista cinese (Pcc), agenti di polizia o dipendenti del comitato di quartiere. Ogni squadra è incaricata di un perimetro in cui vivono centinaia di famiglie, col compito di individuare i potenziali fautori di disordini e di allertare la polizia. «È necessario sorvegliare tutto ciò che rappresenta un rischio per la sicurezza. In questo momento ad esempio sono in corso molti lavori nel quartiere, e ciò richiede una maggior vigilanza contro i furti», spiega un pensionato che controlla regolarmente un’area del quartiere di Huayan Beili, accanto allo Stadio Olimpico, il celebre «nido d’uccello». In questa zona, un abitante su 7 si presta come volontario per questo tipo di responsabilità.
A Pechino, gli occhi e le orecchie del regime si mostrano particolarmente diffidenti nei riguardi dei lavoratori migranti provenienti dalle zone rurali, degli stranieri e di tutti i nuovi venuti. Inoltre seguono le piste dei traffici di droga, della prostituzione e delle attività religiose illegali. Inoltre questi ambasciatori del partito hanno un ruolo di mediatori sociali, che consiste nel dirimere le liti tra vicini, segnalare problemi del servizio pubblico (perdite d’acqua, immondizia non raccolta...), rischio di incendi o lamentele dei residenti.
Gli obiettivi del governo«Poiché la liberalizzazione economica ha reso inefficaci i dispositivi precedenti, il Pcc si propone di ricreare un sistema che gli consenta di controllare gli individui nei luoghi in cui risiedono», riassume il politologo cinese Chen Daoyin. Il regime teme i disordini sociali. Perciò cerca di sorvegliare eventuali dissidenti e di soffocare sul nascere ogni moto di contestazione. Sul versante positivo, questo sistema è in grado di dare risposte rapide ad alcuni problemi, generalmente minori; ma secondo alcuni osservatori, a fronte di motivi di scontento più profondi, le autorità tendono a fare pressione per ridurre al silenzio chiunque tenti di protestare. I volontari hanno allora il compito di dissuadere i contestatori dal proposito di denunciare presunte ingiustizie al governo centrale.
Queste reti, ispirate alle teorie di Mao Tse Tung sulla «mobilitazione delle masse», sono preziose per il regime in quanto «possono essere reclutate per azioni spettacolari in caso di eventi sensibili — come i Congressi del partito — ma anche a fronte di crisi sul piano sanitario, politico o sociale», spiega Judith Audin, ricercatrice al Centro Francese di Studi sulla Cina contemporanea (Cefc). Sono utilizzate con particolare intensità in alcune regioni — lo Xinjiang o il Tibet — ove il potere si preoccupa delle minacce «separatiste» o terroriste.
Il peso della tradizioneLa Cina ha una lunga tradizione di sorveglianza affidata alla sua stessa popolazione. Inaugurato sotto la dinastia Song (960-1279) e generalizzato dai Qing nel XVIII secolo, il sistema del baojia instaura il principio del reciproco controllo tra famiglie, destinato a garantire l’applicazione della legge e la fedeltà politica. Più recentemente, ai tempi di Mao, gli operai e impiegati cinesi erano inquadrati nei danwei, unità di lavoro statali che gestivano la loro vita quotidiana e quella delle loro famiglie. Nello stesso periodo sono sorti i comitati di quartiere, generalmente formati da donne attempate e devote al partito che sapevano tutto sul conto dei residenti. Dal 1979 questi comitati sono stati incaricati di vigilare sull’osservanza della politica del figlio unico, denunciando le donne alla seconda gravidanza. Ma ormai questi comitati sono stati in parte esautorati dalla costruzione dei grattacieli e dall’arrivo dei lavoratori immigrati. Negli anni 2000 «si trasformano in organismi affidati a professionisti stipendiati, che non sempre risiedono nel quartiere», spiega Audin. Al tempo stesso però, per riprendere le fila di una conoscenza dettagliata degli abitanti, si reclutano volontari solidamente radicati nella vita locale.
Come si arriva a coinvolgere l’intera popolazioneAi tempi del digitale è ancora più facile trasformare ogni singolo cittadino in guardiano dell’ordine. Dallo scorso anno a Pechino una applicazione per smartphone incoraggia a segnalare qualunque sospetto di comportamento illegale attraverso l’invio di foto e di video. Un sito Internet lanciato nell’aprile scorso incita a denunciare le spie, nonché qualunque azione «sovversiva» o mirante al «rovesciamento del sistema socialista».
Inoltre, le autorità stanno inoltre portando avanti un progetto destinato alle aree rurali, denominato Xueliang («occhio perforante») che collega le fotocamere di sorveglianza alle tv e ai cellulari degli abitanti dei villaggi. Questi ultimi sono così trasformati in vigili senza dover neppure uscire di casa. Secondo gli organi di stampa dello Stato, alla fine del 2017 nei villaggi dello Sichuan più di 14mila persone partecipavano a quest’iniziativa, che coinvolge anche diverse altre regioni.
https://www.repubblica.it/esteri/2018/0 ... 301063722/